Le sentenze "interpretative"
La netta ed elementare contrapposizione fra le sentenze di accoglimento
e le sentenze di rigetto è stata alterata e complicata dalla giurisprudenza
costituzionale. La corte ha fatto leva, in primo luogo, sul potere di
reinterpretare entrambi i termini dei suoi giudizi sulla legittimità delle
leggi. È stata ovviamente la corte a concretare la cosiddetta costituzione
vivente: le ricostruzioni offerte dalle sue sentenze sono valse infatti a
fissare il significato dei precetti e dei principi costituzionali addotti a
parametro. D'altro lato, però, la corte ha rivendicato l'interpretazione delle
norme sottoposte al suo giudizio, anche in termini distanti da quelli indicati
nelle ordinanze e nei ricorsi introduttivi; ed è a questo punto che la
distinzione fra le norme e le disposizioni legislative impugnate ha assunto un
rilievo quanto mai concreto. La corte non sempre si è limitata a fornire
puntuali risposte; bensì ha ricavato da quelle leggi norme diverse,
costituzionalmente legittime sotto il profilo in esame. Con questo fondamento
si è fin dagli inizi enucleato il tipo delle sentenze interpretative di
rigetto: cioè dalle pronunce basate sulla premessa che ciascuna disposizione
deve appunto venire interpretata. In un primo tempo, la corte ha cercato di
affermare le proprie ricostruzioni dovunque esse fossero atte a risolvere i
proposti problemi di legittimità costituzionale. Ne sono derivati notevoli e
gravi dissensi interpretativi. Mentre è soltanto dagli anni settanta che un
criterio di risoluzione è stato rinvenuto, su entrambi i versanti, nel
cosiddetto diritto vivente, cioè nelle interpretazioni giurisprudenziali
prevalenti e consolidate. Ciò sta a significare che, dinanzi al diritto
vivente, la stessa corte costituzionale vi adegua la propria interpretazione
delle norme legislative in esame. Quando il "diritto" medesimo risulta conforme
alla costituzione, accade pertanto che essa pronunci sentenze interpretative di
rigetto le quali ricalcano gli orientamenti della cassazione e contribuiscono a
rafforzarli. Ma viceversa, dove la giurisprudenza non si è consolidata, la
corte costituzionale riassume la propria libertà di giudizio anche in ordine
all'interpretazione delle norme impugnate. In altre parole, esistono oggi due
specie di sentenze del genere in questione: vale a dire le "decisioni meramente
correttive", che dichiarano infondate le proposte questioni di
costituzionalità; e le decisioni propriamente "adeguatici", che mirano bensì ad
imporre un'interpretazione diversa da quella sostenuta ad opera del giudice a
quo, ma sulla base di convinzioni della corte. Ad entrambi i tipi corrisponde
un complesso tendenzialmente omogeneo di dispositivi, nei quali la corte
dichiara non fondata la questione proposta in esame, "ai sensi di cui in
motivazione": così facendo intendere che la portata di quelle decisioni di
rigetto non può essere compiutamente colta, se non mettendo a confronto il ben
diverso significato rispettivamente attribuito alla norma impugnata dal giudice
a quo e dalla corte stessa. Fin dall'inizio, tuttavia, la corte si rendeva ben
conto che tali interpretazioni correttive ed adeguatici non erano
giuridicamente in grado di affermarsi per forza propria, poiché rimanevano pur
sempre contenute in decisioni di rigetto. Anche le predette sentenze
interpretative non obbligano, infatti, la totalità dei sottoposti, né delle
pubbliche autorità competenti in materia; ed allo stesso giudice a quo rimane
la possibilità di seguire una terza via, reinterpretando ulteriormente la
disposizione contestata. Gli altri giudici restano comunque liberi di
riadattare le interpretazioni implicitamente ritenute illegittime. È stato
appunto questo l'esito finale della vicenda. Quanto meno nel corso degli anni
sessanta, quelle decisioni sono state tradotte in altrettante sentenze
interpretative di accoglimento.