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Prima di affrontare le tematiche relative alla mancata attuazione della situazione attuale riguardo al problema carcerario è indispensabile, per una corretta impostazione dell'argomento, una disamina sistematica in ordine al dato legislativo ed in particolare interpretativo succedutosi negli ultimi decenni. Punto di partenza è obbligatoriamente il dettato costituzionale ed il momento storico in cui si inserisce.
Il clima in cui si svolgono i lavori preparatori alla Costituzione, come è noto, è caratterizzato dalla presenza in Assemblea Costituente di istanze politiche e di pensiero diverse e spesso contrastanti. Questa presenza eterogenea di pensieri fu dettata dall'esigenza, quanto mai sentita in quegli anni di cambiamenti, di far sì che la carta costituzionale non rappresentasse la vittoria di una frangia politica sull'altra, ma che dal contemperamento di esse potesse nascere un frutto il più possibile imparziale.
Anche l'Art 27 Cost. e per la parte di esso che qui ci interessa maggiormente, la funzione rieducativa della pena di cui al 3° comma, è stato oggetto di dispute, per lo più teorico-filosofiche, condotte dalle due scuole di pensiero prevalenti: la Scuola Classica e la Scuola Positiva.
La preoccupazione avvertita in sede di Assemblea Costituente era quella di cercare di evitare che una qualsiasi presa di posizione della Costituzione sulla funzione della pena determinasse la prevalenza di una della scuole sull'altra. Effettivamente secondo il pensiero dell'epoca l'istanza rieducativa poteva ben essere vista come una concessione alla Scuola Positiva. Questa scuola spostava e focalizzava l'attenzione dalla funzione retributiva, propria della Scuola Classica, alla diversa funzione di prevenzione sociale e, conseguentemente, alla rieducazione e risocializzazione del condannato, funzioni che ne rappresentano delle logiche specificazioni.
Comprensibili dunque, alla luce dei tempi, le lamentele e le obiezioni mosse all'Art. 21 (che diventerà in seguito l'art. 27) così come approvato il 15 aprile 1947 in sede di Assemblea Costituente che recitava: 'Le pene devono tendere alla rieducazione del condannato e non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità'.[1] L'accordare all'idea retributiva di chiara matrice positivistica non solo un posto nella Costituzione, ma anche una precedenza logica nel testo del discusso comma provocò la reazione della Scuola Classica che ne denunziò la preoccupante mancanza di neutralità. Il punto nodale della questione non fu tanto sull'idea della rieducazione del condannato come progetto da perseguire o meno; fu piuttosto sulla preoccupazione che in tale sede si volesse risolvere un problema 'che tormenta da secoli le menti dei pensatori e dei filosofi e che agita le legislazioni di tutto il mondo' creando così un inammissibile vincolo interpretativo ed evolutivo al legislatore delle generazioni future. L'On. Leone Giovanni fece notare come la formulazione della Commissione volesse stabilire inequivocabilmente che il fine primario della pena era ormai divenuto quello rieducativo.
Ed aveva ragione. Non solo non venivano menzionate altre funzioni della pena, eccetto il limite negativo costituito dal trattamento non contrario al senso di umanità, che appunto non è una funzione, ma una limitazione per il Legislatore e per gli operatori penitenziari, ma l'unico riferimento testuale era alla rieducazione, accompagnata da un imperativo ' DEVONO tendere'.
Al dibattito parteciparono numerosi illustri studiosi come Bellavista, Bettiol, Moro, Crispo, Badini Confalonieri tutti orientati ad ottenere un riferimento al fine rieducativo della pena più neutro rispetto alla proposta della Commissione.
Durante le sedute in Assemblea Costituente furono numerose le proposte di emendamento a quello che poi sarebbe divenuto l'Articolo 27 della Costituzione. Le posizioni politiche inizialmente confliggenti tese a non regalare nulla dal punto di vista teorico alla Scuola Positiva trovarono tuttavia un punto di incontro al termine dei lavori con l'incontro a livello teorico di un compromesso sul dato letterale da attribuire al dettato costituzionale.[3]
Il merito della riuscita mediazione tra le due scuole di pensiero deve senz'altro essere attribuito all'on. Tupini, Presidente della prima Sottocommissione, che riuscì efficacemente a convincere buona parte degli 'avversari' ad aderire alla nuova sensibilità politica emersa in materia di rieducazione sul presupposto che essa era ormai variamente accolta anche dalla Scuola Classica. Il punto nodale della questione era infatti rappresentato nel timore politico e culturale che un emendamento potesse segnare il superamento di una scuola sull'altra.
Il destino della rieducazione era ormai segnato, a prescindere dalle voci contrarie. Avrebbe avuto un posto nella Costituzione, più o meno privilegiato che fosse. D'altronde è bene ricordare che la formulazione della Commissione 'le sanzioni penali devono tendere alla rieducazione del condannato' era stata originariamente proposta dagli on. La Pira e Basso i quali appartenevano a due scuole di pensiero opposte.[6] L'incontro di due volontà diverse era definito, almeno in nuce. Si trattava solo di perfezionarlo nei particolari. E così avvenne in sede di coordinamento finale da parte del Comitato di redazione che finì per posporre l'istanza rieducativa al divieto di trattamenti inumani dando così all'attuale art.27, 3°comma un connotato leggermente più neutro.
Risulta quindi, da quanto sopra esposto, che l'idea rieducativa non fu un portato di scuola, bensì il frutto di una nuova sensibilità politica, dovuto alle note caratteristiche poliedriche che caratterizzarono la Costituzione in ogni suo aspetto, in un generale progetto di 'palingenesi'.
L'Assemblea, dunque, in sede di lavori preparatori rinunciò a dare una definizione di ciò che avrebbe dovuto essere, nella realtà pratica, la funzione rieducativa. Tale enigma avrebbe dovuto essere necessariamente sciolto dalle future interpretazioni politico-criminali. La Costituente, di per sé, non aveva volutamente esprimersi al riguardo lasciando tale facoltà ed onere al legislatore futuro.
Non è da meravigliarsi se poi, negli anni a seguire, la funzione rieducativa data dalla costituzione alla pena è risultata poco efficace nella sua applicazione pratica come d'altronde poco convinto ne era stato il suo stesso inserimento fra i dettami costituzionali ai tempi della sua genesi.
Camera dei deputati, Costituzione della Repubblica nei lavori preparatori dell'Assemblea Costituente, pag. 180 e ss.
On. Leone Giovanni in Costituzione della Repubblica nei lavori preparatori, seduta antimeridiana del 15 aprile 1947, pag. 903
Vanno qui brevemente ricordati gli emendamenti alla versione della Commissione tesi a ridimensionare il fine rieducativo (emendamento Leone Giovanni e Bettiol, cit. alla nota precedente, pag. 903:) 'Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità o che ostacolino il processo di rieducazione morale del condannato'; sostituirlo con un riferimento più generico e quindi onnicomprensivo (Emendamento dell' on. Maffi, cit. alla nota prec., pag. 908): 'L'ambiente carcerario deve essere organizzato conformemente al bisogno sociale del condannato. Nessun trattamento può essere contrario al senso di umanità'. L'emendamento riceverà una modifica di S.Pertini per cui le parole 'ambiente carcerario' saranno sostituite da 'il sistema carcerario'; o eliminarne ogni riferimento (Emendamento dell'on. Crispo, cit. alla nota prec., pag. 910): 'Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità' dove come è evidente, sono state soppresse le parole ' devono tendere alla rieducazione del condannato e', perché nella frase 'senso di umanità' era già ricompresa quella che Leone Giovanni chiama ' ansia di rieducazione'. Per comprendere i toni del dibattito è importante menzionare alcuni interventi che vennero in rilievo in tali occasioni da cui emerge il pluralismo ideologico della Commissione dei 75. L'allarme provocato dalla proposta della Commissione fu non tanto creato dalla sua esatta formulazione, almeno nella maggior parte dei casi, piuttosto da posizioni estreme e poco elaborate dalla sinistra social-comunista e come tali preoccupanti (cfr. Giovanni Fiandaca, 'Art. 27, 3° comma Cost.', in Commentario alla Costituzione, 1989 Bologna, pag. 273 e ss..). Basti pensare a quegli indirizzi utilitaristici delle c.d. teorie relative che vedevano il reo inserito in un'idea collettivistica di Stato per cui le pene ' devono avere come fine precipuo la rieducazione del condannato, allo scopo di farne un elemento utile alla società'( Intervento di Terracini-Nobili in Assemblea Costituente, seduta del 25 gennaio 1947, ma il loro emendamento non verrà ripresentato in Assemblea). Ancora posizioni estreme dichiaratamente positivistiche come l'emendamento dell'on. Persico il quale recitava: 'Le sanzioni penali hanno soltanto scopo curativo ed educativo, secondo i casi e le necessità, e devono essere a tempo indeterminato' trasformando un' indimostrata petizione di principio in definizione di pena (Emendamento dell'on. Persico in Costituzione della Repubblica nei lavori preparatori, pag. 903). D'altro canto l'esigenza della funzione rieducativa era sentita anche dagli appartenenti a scuole di stampo diverso a quella Positiva, come fece notare l'on. Ruini, Presidente della Commissione per la Costituzione, anche se più per addolcire la pillola agli studiosi della scuola Classica che per reale convinzione: 'l'esigenza della rieducazione non è soltanto privilegio e monopolio della scuola positiva: è principio del diritto canonico e del cristianesimo. Non vi è qui nessuna questione di ordine politico, ma solo una questione di scuola scientifica. Siamo tutti d'accordo che non si tratta con questo articolo di definire la finalità, più o meno filosofica, della pena, ma di stabilire che occorre sempre anche la rieducazione del condannato' (On. Ruini, Presidente della Commissione per la Costituzione nella seduta del 15 aprile 1947, in Costituzione della Repubblica nei lavori preparatori, pag. 908.). Nonostante gli interventi degli appartenenti alla Scuola Positiva tesi a fugare i dubbi circa la pericolosità di una troppo radicale presa di posizione riguardo alla funzione della pena, l'allarme non poté essere sedato facilmente
Ci si riferisce qui ad un suo convincente intervento teso a placare gli animi contrariati per la questione: 'se noi siamo convinti, come chi vi parla è convinto, che effettivamente la società non deve rinunciare ad ogni sforzo, ad ogni mezzo affinché colui che è caduto nelle maglie della giustizia, che deve essere giudicato, che deve essere anche condannato, dopo la condanna possa offrire delle possibilità di rieducazione, perché ci dobbiamo rinunciare? Non importa a me che questo possa rispondere ad un postulato scientifico di una determinata scuola'On. Tupini, Presidente della prima Sottocommissione, alla nota prec., pag.905
Lo fece presente, senza parafrasi, l'on. Moro: 'Il parlare di pene che devono tendere alla rieducazione del condannato, può essere considerato da parte dei futuri legislatori e da parte degli scienziati di un determinato orientamento, come fondamento di una pretesa ad orientare la legislazione penale italiana in modo conforme ai postulati della scuola positiva'. Ciò che la Scuola Classica voleva far notare era che 'la pena non ha esclusivamente uno scopo rieducativo, ma altresì uno scopo afflittivo, uno scopo repressivo, ecc.' (Badini Confalonieri) e che per loro il fine rieducativo, seppur 'nobilissimo', era tuttavia complementare tale da poter benissimo rimanere inespresso (Leone). Per tutti stessa seduta del 15 aprile 1947, in Costituzione della Repubblica nei lavori preparatori
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