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Chi lavora nell'emigrazione è sempre un operatore interculturale.
Sono diverse le strategie che gli Stati nazionali hanno elaborato, nel corso della loro storia, per affrontare le problematiche legate all'afflusso di migranti nel loro territorio. La vicinanza fisica di tante singolarità che appartengono a culture, religioni, lingue diverse porta con sé inevitabili conseguenze: la loro compresenza, com'è dimostrato anche dalle esperienze dei paesi a più antica tradizione immigratoria, determina l'insorgere di notevoli problematiche, sia a livello dei primari bisogni degli immigrati, sia a livello dei rapporti tra questi e gli autoctoni. Nel primo ordine di problemi rientrano questioni di primaria importanza per il benessere delle persone, delle famiglie e dei gruppi. Esse vanno dalla disponibilità di un alloggio, alla questione della cittadinanza, alla possibilità di usufruire di spazi in cui manifestare e far vivere le proprie radici culturali, ancoraggi vitali per l'immigrato e le sue condizioni di precarietà. Particolare urgenza assume in quest'ordine di problemi l'apprendimento della lingua del paese ospitante, condizione indispensabile per soddisfare le necessità quotidiane e per poter comunicare con gli autoctoni. E' questa una questione problematica, oltre che per le difficoltà pratiche che possono sorgere (trovare servizi formativi accessibili e adeguati, riuscire a compenetrare lavoro e apprendimento, ecc.), soprattutto per la ristrutturazione cognitivo-culturale che comporta, implicando tale apprendimento un nuovo modo di codificare le esperienze e i vissuti personali, una ricentratura che <<rimanda dall'esterno continue domande sulla propria identità>> . Per quanto concerne il secondo ordine di problemi, sono evidenti le difficoltà di convivenza e di relazione reciproca tra autoctoni e immigrati e all'interno di questi, in conseguenza delle differenze linguistiche, culturali e religiose che si registrano in un contesto diventato antropologicamente multiculturale. L'incontro con la diversità è ormai continuo, quotidiano, e tale condizione, di per sé complessa, difficile e a rischio di conflittualità, può comunque creare disorientamento, spaesamento, sia per chi accoglie che per chi viene accolto. In realtà, le differenze interculturali esistono anche all'interno di una stessa cultura di riferimento, quindi anche all'interno della cultura italiana, sia perché ogni individuo ricostruisce sempre una sua specifica identità culturale, sia perché ognuno appartiene a diverse sottoculture e, in ogni caso, esprime una sua irriducibile diversità. Tuttavia tali peculiarità rientrano di norma in sistemi di riferimento conosciuti e prevedibili, a differenza di quelle connesse o attribuite allo "straniero". Queste ultime, di conseguenza, implicano una più difficile reciprocanza delle strutture culturali e identitarie, una possibile loro destabilizzazione, cui individui e gruppi possono reagire tramite modalità difensive o di riassestamento rigido, schematico e di estrema riduzione della complessità del reale. Reciproche attribuzioni stereotipiche e pregiudiziali diventano così le possibili costanti dei rapporti interpersonali e interculturali, ciò che non solo ostacola o addirittura impedisce la convivenza, ma ciò che anche accresce e distorce la percezione e le modalità di risoluzione dei problemi materiali e quotidiani. Per entrambi gli ordini di questioni appena richiamati si rendono quindi indispensabili adeguate e sistematiche strategie d'intervento. L'Italia, a questo proposito, paga lo scotto di avere una recente tradizione immigratoria rispetto ad altri paesi, di veder inoltre concentrato nel breve giro di pochi anni ciò che altrove si è sviluppato in tempi più lunghi. Tuttavia, il dover affrontare oggi quello che altri paesi europei ed extraeuropei, come Francia, Gran Bretagna, Germania, Stati Uniti (solo per citarne alcuni), hanno da tempo affrontato a seguito di varie ondate migratorie, può fornire al nostro paese un quadro di esperienze e di strategie alternative già sperimentate. Si possono qui richiamare tre grossi modelli messi in campo in materia di immigrazione, di regolazione dei flussi, di inserimento degli immigrati. Un primo modello, da più parti considerato peculiare dell'esperienza francese, è quello dell'assimilazione. La logica di questo presuppone di "rendere simili" di fronte allo Stato tutti coloro che vi fanno capo. In nome di un apparente principio di parità, tale modello implica di fatto la rinuncia, da parte delle popolazioni immigrate, alle loro specificità culturali, linguistiche, religiose, sotto la pressione di un'assimilazione unilaterale ai modelli di comportamento e di vita della società di accoglienza. Come sostiene Giovanna Zincone , l'esperienza francese ha mascherato, dietro la presunta neutralità dello Stato e della sfera pubblica, una scarsa tolleranza per le minoranze, impedendo, ad esempio, di portare il velo a scuola (appunto, in uno spazio pubblico neutrale) alle giovani musulmane , o esortando a confinare ogni specificità d'origine nell'ambito del privato. Tali spinte assimilative, mentre nello specifico possono far sorgere una diffusa "identità contro" nelle giovani generazioni nord-africane, sottendono anche in generale un'ottica dell'integrazione la cui misura diventa la condivisione da parte degli immigrati dei valori e dei modi di vita dei nazionali. E' questo il prezzo pagato al diritto di cittadinanza che lo stato francese riconosce anche agli stranieri, sulla base di un diritto di uguaglianza considerato primario rispetto a quello che concerne il riconoscimento della differenza. Altro modello di approccio al fenomeno dell'immigrazione è quello che è prevalso a lungo in Germania e che considerava l'immigrato come "Gastarbeiter", secondo una logica prettamente funzionalista. L'immigrato è prima di tutto un fattore strumentale alla produzione, meglio se disposto a mettere da parte le proprie specificità. Tale prospettiva, al fondo segregativa, ha determinato che in Germania, fino alle riforme degli anni '90, fosse preminente lo "jus sanguinis" quale criterio per accedere alla cittadinanza, proprio a causa dell'interpretazione etnica data alla stessa e del ruolo strumentale assegnato agli immigrati. L'ultimo grosso modello riscontrabile nelle politiche di inserimento degli immigrati è quello che Balboni indica come
proprio della società nord-americana. E' il cosiddetto modello del melting pot, del crogiolo Esso si limita ad accostare le singolarità etnico-culturali presenti nel quadro sociale, nella prospettiva di una loro omologazione, di una fusione reciproca, che di fatto però ratifica i diversi rapporti di forza dei relativi gruppi sociali e, quindi, le conseguenti gerarchizzazioni e discriminazioni. In ambito italiano le politiche di integrazione sono state definite solo in tempi recenti attraverso l'attuale normativa. Il documento programmatico triennale, diffuso attraverso il D.P.R. del 5 Agosto 1998, oltre a disporre i criteri per le politiche delle quote, si occupava nella sua terza parte di definire ed arricchire il concetto di integrazione così come emerge dalle disposizioni delle norme presenti nella legge 4098. Il decreto rappresenta così la base di riferimento delle politiche di integrazione, base che può essere reindirizzata o integrata a seconda che le circostanze lo richiedano. Il modello di accoglienza predisposto dal documento si richiama all'esperienza accumulata negli altri paesi europei che ci hanno proceduto nell'amministrazione del fenomeno. Dalla lettura del testo, si ha l'impressione che il documento cerchi un equilibrio tra i due modelli storici europei, il francese e il tedesco, in modo da evitare le posizione più estreme di entrambi. Il tentativo è quello di riassumere in un unico indirizzo, la volontà di assimilazione, proprio delle politiche francese, e il mantenimento di condizioni giuridiche differenziate, caratteristica del modello tedesco. La definizione di una strategia di integrazione per gli immigrati comporta la risposta ad un fondamentale quesito: se sia preferibile limitarsi ad estendere agli immigrati le misure di regolamentazione della vita collettiva in vigore per gli italiani o se invece non occorra elaborare misure specifiche solo per gli stranieri. L'esperienza condotta in molti paesi europei suggerisce di costruire un equilibrio tra la tensione all'universalismo dei diritti e il riconoscimento delle differenze, individuando percorsi di inclusione dei cittadini stranieri sulla base dell'affermazione di diritti e di doveri di tutte le parti in causa e nel rispetto delle specificità culturali. L'equidistanza tra i due antecedenti storici è confermata inoltre dal tentativo di conciliare la progressiva concessione della cittadinanza con la perpetuazione delle identità culturali, senza tuttavia scadere in forme di emarginazione o segregazione. La c.d. legge Turco-Napolitano, nelle intenzioni dei suoi promotori, oltre che contribuire ad arginare le pressioni migratorie attraverso il meccanismo dei flussi e l'affinamento delle strategie di allontanamento, avrebbe dovuto favorire l'integrazione intesa come <<processo di non discriminazione e di inclusione delle differenze, quindi di contaminazione e di sperimentazione di nuove forme di rapporti e comportamenti, nel costante tentativo di tenere insieme principi universali e particolarismi>> . Per favorire un graduale processo di integrazione il legislatore del 1998 ha ritenuto utile modulare il riconoscimento dei diritti soggettivi agli immigrati correlandolo strettamente con il rispetto delle regole del nostro ordinamento. Infatti, il testo originario (e tuttora vigente) del D.Lgs. 286/1998, per un verso sancisce l'universalismo dei diritti fondamentali "previsti dalle norme di diritto interno, dalle convenzioni internazionali in vigore e dai principi di diritto internazionale generalmente riconosciuti" (così l'art. 2 comma 1), e per l'altro garantisce il godimento di alcuni diritti sociali soltanto allo "straniero regolarmente soggiornante nel territorio dello Stato" (art. 2 comma 2); da un lato riconosce e valorizza le diversità culturali, dall'altro ammonisce: "purché non confliggenti con l'ordinamento giuridico" (art. 3 comma 3). A distanza di un anno dall'entrata in vigore della legge 40/1998, la Commissione per le politiche di integrazione, istituita ai sensi dell'art. 46 del D.Lgs. 286/1998, suggeriva addirittura di arricchire i diritti civili e politici degli immigrati regolari in modo da <<allargare la forbice tra i diritti concessi ai regolari e quelli concessi agli irregolari (.) per ridurre il bacino dell'irregolarità e ampliare la fascia di immigrazione legale>> . La c.d. legge Bossi-Fini ha - sia pure con molte ambiguità - recepito tale suggerimento; e le recenti iniziative dell'attuale Vicepresidente del Consiglio dei Ministri, onorevole Gianfranco Fini, in favore del voto locale e della revisione dei criteri per l'accesso alla cittadinanza, sembrano muoversi nella stessa direzione . Che gli immigrati facciano ancora fatica ad inserirsi nel tessuto sociale lo dimostra il numero di italiani che ritengono ancora che l'immigrazione sia un problema: il 62,9% contro il 36,2% che, al contrario, la giudica una risorsa
Nel frattempo, ha trovato qualche significativa applicazione uno degli strumenti individuati dal D.Lgs. 286/1998 per "agevolare i rapporti tra le singole amministrazioni e gli stranieri appartenenti ai diversi gruppi etnici, nazionali, linguistici e religiosi": mi riferisco alla "realizzazione di convenzioni con associazioni regolarmente iscritte nel registro di cui al comma 2 per l'impiego all'interno delle proprie strutture di stranieri, titolari di carta di soggiorno o di permesso di soggiorno di durata non inferiore a due anni, in qualità di mediatori interculturali" (art. 42 comma 1 lett. d). In effetti il riconoscimento legislativo della figura del "mediatore culturale" avviene dopo lo sviluppo di una ricca ed articolata esperienza, negli anni '90, di formazione e di impiego di questi nuovi operatori culturali , soprattutto nelle regioni del centro nord, promossa da Regioni, Province, e Comuni, e dall'associazionismo del volontariato con diverse specializzazioni, protagonisti in molti casi gli stessi cittadini stranieri . Alain Goussot parla in proposito di una prima fase nell'evoluzione della storia "nostrana" della mediazione culturale. In tale fase i mediatori vengono impiegati soprattutto nelle strutture di prima accoglienza e negli uffici stranieri, in particolare negli sportelli preposti al lavoro di front office con l'utenza immigrata. Queste prime esperienze nascono quindi all'interno di un'ottica di emergenza, come risposta ad un bisogno posto in essere dagli operatori socio-sanitari più sensibili dei servizi sia pubblici che privati. Tali operatori percepiscono a poco a poco i limiti che i servizi in cui operano manifestano nei confronti dell'utenza straniera, costringendola al rispetto di norme e consuetudini rigide, etnocentriche, monoculturali. Si apre quindi una seconda fase, che all'interpretariato affianca una funzione di supporto per l'inserimento sociale della persona immigrata e che all'emergenza sostituisce una "accoglienza comprensiva", che prevede l'ascolto e la soddisfazione della domanda socio-culturale di cui gli immigrati sono portatori. Nel 1993, in occasione del primo seminario sulla mediazione culturale in Italia, organizzato dal COSPE a Bologna e intitolato "Immigrati/Risorse", si confrontarono le istituzioni promotrici di questi primi progetti: l'Associazione "NAGA" di Milano; il "Consultorio delle donne immigrate" e la Cooperativa "Progetto Integrazione" di Bologna; il "Centro di formazione di mediatori linguistico-culturali" di Firenze e Pisa; l'Associazione "Produrre e Riprodurre" e il Centro interculturale per le donne "Alma Mater" di Torino; il "Centro di formazione di Operatori addetti all'accoglienza" di Reggio Emilia; la Regione Toscana e la Regione Emilia-Romagna. Attualmente, secondo Goussot, siamo nella terza fase, in cui emerge il bisogno, da parte del mondo dei servizi, della scuola e di tutte le istituzioni, di una figura professionale che lavori in un'ottica di sistema, affiancando ed integrando altre figure professionali (operatori sociali e sanitari, assistenti sociali, educatori, impiegati dei front office, insegnanti, formatori) nell'accoglienza degli immigrati e nel consentire loro l'accesso alle opportunità del territorio in condizioni di parità con gli autoctoni. In un documento elaborato nell'aprile del 2000 dall'Organismo nazionale di coordinamento per le politiche di integrazione sociale degli stranieri, istituito, presso il Consiglio nazionale dell'economia e del lavoro, ex art. 42 comma 3 del T.U. 286/1998, le finalità dei processi di mediazione culturale sono state così sintetizzate:
rimuovere gli ostacoli culturali, che impediscono e intralciano la comunicazione tra i servizi/istituzioni italiani e utenza straniera;
promuovere un più esteso e razionale utilizzo dei servizi e delle istituzioni italiane da parte dell'utenza straniera;
migliorare la qualità e l'adeguamento delle prestazioni offerte dai servizi italiani all'utenza straniera;
favorire l'integrazione sociale della popolazione immigrata nella comunità locale, a livello regionale e nazionale, nei servizi sociali, nelle istituzioni scolastiche e culturali, nel settore della sanità e del mondo del lavoro;
promuovere azione di sostegno culturale alla mediazione sociale nelle situazioni di conflitto tra le comunità immigrate e le istituzioni italiane;
individuare opportunità e percorsi positivi di prevenzione e superamento dei conflitti.
Quanto ai "requisiti" richiesti per svolgere la funzione di mediatore culturale, il documento richiamato ne ha individuati alcuni fondamentali:
origine preferibilmente straniera con esperienza personale di immigrazione;
buona conoscenza della cultura e della lingua parlata e scritta italiana;
buona conoscenza della cultura e della realtà socioeconomica del paese di origine;
sufficiente conoscenza della realtà italiana e del territorio in cui opera;
possesso di un titolo di studio medio-alto;
congrua permanenza in Italia;
motivazione e disposizione al lavoro relazionale e sociale, capacità personali di empatia e riservatezza.
L'azione che un mediatore è chiamato a svolgere non si esaurisce nella funzione di interpretariato. <<Il bravo mediatore è quello che mano a mano rende superflua la propria presenza perché i due contraenti riescano a comunicare efficacemente tra loro>> E' un tecnico della comunicazione, <<una persona preparata professionalmente ad essere un facilitatore della comunicazione in diversi contesti; scuola, relazioni sociali, sanità, mondo del lavoro ecc. Deve essere un immigrato che abbia rielaborato il proprio percorso migratorio e in grado di trasformare le sue competenze esperienziali in competenze professionali>> . Per ciò che concerne il piano più concreto delle esigenze di mediazione culturale, secondo Johnson e Nigris la funzione in discorso rivela la sua migliore efficacia quando persone che appartengono a culture diverse sono coinvolte in processi di comunicazione reciproca, quando tali relazioni avvengono in contesti socio-istituzionali caratterizzati da una disparità di potere fra i due interlocutori e, ancora, quando la relazione si instaura tra rappresentanti della cultura dominante e esponenti di culture minoritarie, in un rapporto nel quale i secondi si trovano fattualmente in una condizione di inferiorità, sottoposti a possibili immagini stereotipiche da parte della cultura dominante. La mediazione culturale costituisce quindi - in prima battuta - un tentativo di attenuare e rimuovere le asimmetrie rispetto ai ruoli, al potere e alla capacità contrattuale, trasformando tali interazioni in "negoziazioni simmetriche" . Un problema di difficile soluzione resta quello di riuscire ad affrontare efficacemente il c.d. policentrismo dell'immigrazione italiana. Le molteplici culture di appartenenza implicano sensibilità, valori e significati non coincidenti, e richiedono differenti approcci di mediazione. Ad esempio, come è stato notato in una recente ricerca sul campo patrocinata dalla Commissione per le politiche di integrazione degli immigrati, <<l'orientamento verso la chiusura dentro la propria comunità, che è proprio in particolare dei cinesi, quella «riservatezza» che porta a comunicare ben poco con gli autoctoni, ad essere «autosufficienti», poco invadenti, fino a divenire quasi invisibili, potrebbe rappresentare una delle ragioni che alla fine porta ad una accettazione passiva di chi, pur essendo presente, non disturba gran che gli equilibri e i modi di vivere della città>> . Una convivenza poco conflittuale, evidentemente, non corrisponde necessariamente ad un buon livello di integrazione tra le diverse comunità. Altra problematica evidenziata dalle prime esperienze di mediazione all'interno dei servizi è quella che si riferisce alla distinzione del ruolo del mediatore da quelli propri delle altre figure professionali presenti in ciascun servizio. Il mandato "istituzionale" che esercita il mediatore culturale si inscrive infatti, di norma, in un contesto d'équipe. Egli lavora per lo più a fianco degli operatori dei servizi che devono rapportarsi con l'utenza straniera, integrando le competenze professionali di questi con lo specifico "sapere culturale" indispensabile ad interagire funzionalmente con l'immigrato. Le difficoltà di interazione sono tanto maggiori laddove i componenti dell'équipe appartengono ad enti od organizzazioni diversi, dovendo rispondere del loro operato a diverse centrali ed essendo investititi di mandati operativi non sempre compatibili. Si impone, in tali casi, un adeguato sviluppo di relazioni tra i diversi enti/soggetti coinvolti, in modo da realizzare una rete tra tutti i servizi che insistono sulla medesima utenza.
Se quelle delineate nel paragrafo precedente sono le caratteristiche, le funzioni e le competenze generali del mediatore culturale, occorre rilevare che esse trovano specifiche e articolate declinazioni nei diversi ambienti in cui opera tale figura: dai servizi sanitari alla scuola, dagli ambiti extrascolastici a quelli del disagio sociale. Tra questi ultimi Ceccatelli Gurrieri annovera le questure, i tribunali, i tribunali minorili, i servizi di rieducazione per minori, i servizi comunali di assistenza sociale, le associazioni di volontariato per la prima accoglienza, i centri e le cooperative per il lavoro educativo e assistenziale di strada ed anche le carceri . In questa eterogenea area di intervento, sottolinea lo studioso, il lavoro del mediatore è spesso circoscritto alla mera funzione di interpretariato, anche se fanno eccezione a tale tendenza aree quali i centri di rieducazione minorile e le carceri, dove vengono progettate iniziative più articolate. In tali contesti, il mediatore può divenire anche il tramite per connettere o riconnettere la persona in difficoltà, carcerata o di per sé isolata, con il mondo esterno, in particolare con le reti comunitarie informali e con i servizi territoriali. Stringendo il campo allo specifico penitenziario, istituzione "chiusa" e "totale" per definizione e per eccellenza, è utile partire dalla ricerca condotta nel 1985 da Giovanni Gennaro alla quale ho fatto riferimento nel capitolo introduttivo . Pur essendo fortemente datata, tale ricerca già segnalava una serie di gravi problematiche peculiari della popolazione non autoctona ristretta nelle carceri italiane, la cui consistenza numerica era certo meno significativa rispetto all'attuale. In particolare si poneva l'accento su alcune macroscopiche violazioni dei diritti minimi del detenuto straniero, sanciti dall'O.N.U. fin dal 1955, ribaditi dal Consiglio d'Europa nel 1973 e finalmente recepiti dall'ordinamento penitenziario italiano (l. 354/1975 e D.P.R. 431/1976). Risultavano del tutto privi di risposte efficaci:
il problema linguistico;
il problema dell'alimentazione;
il problema della difesa tecnica;
il problema dei rapporti con i rappresentanti diplomatici e consolari;
il problema dei rapporti con la famiglia residente nel paese d'origine;
il problema dell'esercizio del culto.
Nelle considerazioni conclusive, l'autore della ricerca auspicava l'ingresso in carcere di mediatori culturali per attenuare gli immensi disagi e le dure discriminazioni alle quali erano assoggettati gli stranieri detenuti nei nostri penitenziari, senza l'illusione che tali figure potessero risolvere tutti i problemi esposti, ma come presa d'atto della necessità di supportare il personale penitenziario in un compito altrimenti proibitivo. Nonostante gli sconfortanti risultati di tale ricerca, commissionata dall'allora Ministero di Grazia e Giustizia, soltanto a distanza di 15 anni quelle considerazioni hanno trovato un riscontro normativo a livello nazionale. Il nuovo regolamento penitenziario (D.P.R. 230/2000) ha infatti dedicato ai detenuti ed internati stranieri l'articolo 35:
"Nell'esecuzione delle misure privative della libertà nei confronti di cittadini stranieri, si deve tenere conto delle loro difficoltà linguistiche e delle differenze culturali. Devono essere favorite possibilità di contatto con le autorità consolari del loro Paese.
Deve essere, inoltre, favorito l'intervento di operatori di mediazione culturale, anche attraverso convenzioni con gli enti locali o con organizzazioni di volontariato".
Trattandosi di previsione regolamentare, il carattere della norma appare vieppiù generico, quindi poco vincolante per gli organi centrali e periferici dell'Amministrazione Penitenziaria. Il primo comma si limita a richiamare il problema linguistico, lasciando agli operatori l'onere di inventare qualche prassi d'intervento efficace senza costi per l'Amministrazione. Quanto alla mediazione culturale, il disposto indica la strada delle convenzioni con gli enti locali o con organizzazioni di volontariato, facendo tesoro delle esperienze maturate autonomamente da alcune Regioni e da alcuni Comuni già dalla seconda metà degli anni '90. Alla più articolata di esse è dedicato il prossimo capitolo.
Commissione per le politiche di integrazione degli immigrati, Primo rapporto sulla integrazione degli immigrati in Italia, a cura di G. Zincone, Bologna, Il Mulino, 2000.
Cfr. P.E. Balboni, Parole comuni culture diverse. Guida alla comunicazione interculturale, Venezia, Marsilio, 1999.
Questa la nozione di integrazione contenuta nel Documento Programmatico del Governo relativo al triennio 1999/2001 (redatto ai sensi dell'art. 3 del T.U. 286/98).
<<Si parla di diritti sociali con riferimento alla tutela di pretese del cittadino ad ottenere dallo Stato prestazioni che lo pongano in grado di fruire di servizi che richiedano la disponibilità di risorse economiche pubbliche (lavoro, assistenza, previdenza, studio, cultura, salute)>>. Così Giuseppe De Vergottini, Diritto Costituzionale Comparato, Padova, Cedam, 1993, pag. 167. Della logica binaria che sorreggerebbe la c.d. legge Turco-Napolitano ho già detto nel cap. 2 par. 2.
Commissione per le politiche di integrazione degli immigrati, Primo rapporto sulla integrazione degli immigrati in Italia, a cura di G. Zincone, Bologna, Il Mulino, 2000.
La prospettiva che pare farsi strada in ordine ai criteri per il riconoscimento della cittadinanza italiana sarebbe quella del progressivo abbandono del criterio esclusivo dello jus sanguinis in favore del criterio dello jus soli e dello jus domicili, in linea con quanto sta avvenendo in altri paesi europei. Per una critica radicale a queste impostazioni è utile ricordare le riflessioni di Ferrajoli (Cittadinanza e diritti fondamentali, in "Teoria politica", IX, 3, 1993), che individua una «antinomia regressiva» fra il carattere universale dei diritti fondamentali e il loro confinamento entro gli angusti spazi della cittadinanza statuale. L'antinomia risulta più acuta se messa in relazione con il diritto di residenza e con il diritto di circolazione, riservati oggi ai cittadini e, quindi, condizionati nel loro godimento dall'accidentale appartenenza allo Stato nazionale. L'effettività di questi due diritti, che in quanto diritti di libertà dovrebbero essere considerati diritti della persona e avere quindi un carattere universale, è compromessa, come il dramma dell'immigrazione mostra, dal persistere delle cittadinanze nazionali e, dunque, dall'esistenza degli Stati. La cittadinanza, in altre parole, impedisce l'uguale esercizio dei diritti di libertà e perciò, secondo Ferrajoli, più che superata, va «negata» e «soppressa» in quanto «rappresenta l'ultimo privilegio di status, l'ultimo fattore di esclusione e discriminazione anziché - come fu all'origine dello stato nazionale - di inclusione e parificazione, l'ultimo relitto premoderno delle differenziazioni personali, l'ultima contraddizione irrisolta con l'affermata universalità ed uguaglianza dei diritti fondamentali». Ne deriva che solo con l'istituzione di una "cittadinanza universale" si può superare la dicotomia fra diritti dell'uomo e diritti del cittadino, «riconoscendo a tutti gli uomini e le donne del mondo, in quanto semplicemente persone, i medesimi diritti fondamentali». Ferrajoli non si nasconde che questa proposta ha il sapore di «un'utopia giuridica», ma ricorda che «la storia del diritto è anche una storia di utopie (bene o male) realizzate» e che, comunque, esistono ormai i presupposti, costituiti dal «costituzionalismo mondiale già formalmente instaurato con le ricordate convenzioni universali», affinché le «forze democratiche» e «l'intera cultura giuridica e politica» raccolgano la sfida e comincino ad operare in questa direzione.
Si tratta del Registro delle associazioni e degli enti che svolgono attività a favore degli immigrati, disciplinato dagli artt. 52-54 del D.P.R. 394/1999.
La mediazione culturale è una novità per l'Italia, ma è praticata e istituzionalizzata da tempo in paesi quali la Francia ed il Belgio, da lungo tempo meta privilegiata di flussi migratori. Cfr. F. Pittau, Immigrazione e mediazione culturale in Francia e in Italia, in "Affari sociali internazionali", n. 1, 2001.
I primi corsi di formazione per mediatori culturali, risalgono al 1991 per la città di Torino (per l'inserimento dei mediatori nei servizi sociali, nell'ufficio stranieri, nel centro interculturale e nei servizi educativi), ed al periodo compreso tra il 1989 e il 1990 per la città di Milano. Cfr. A. Belpiede, La professione di mediatore culturale in ambito sociale, in "Prospettive sociali e sanitarie", n. 2, 1999.
Cfr. A. Goussot, Equivoci comunicativi nelle relazioni con gli immigrati, in "Animazione sociale", marzo 2002.
S. Di Bella, F. Cacciavillani, La mediazione interculturale: dall'attività ai processi, in "Animazione Sociale", 2002, n.3, pagg. 35-4
A. Goussot, Carcere, mediazione, immigrazione: problematiche emerse in seguito ai Seminari, in "Mediazione Carcere Immigrazione", Documentazione e materiali di riflessione dei seminari regionali svolti a Bologna tra il 2.12.97 e il 1.6.98, Bologna, Lo Scarabeo, 1998.
Cfr. P. Johnson, E. Nigris, Le figure della mediazione culturale in contesti educativi, in E. Nigris (a cura di), Educazione interculturale, Milano, Mondadori, 1996.
Cfr. G. Ceccatelli Gurrieri, Mediare culture. Nuove professioni tra comunicazione e
intervento, Roma, Carocci, 2003, pag. 11.
Maria Merelli e Maria Grazia Ruggerini, Le paure degli "Altri" - Sicurezza e insicurezza urbana nell'esperienza migratoria, 2001.
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