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LA DETENZIONE
Nel capitolo precedente ho tracciato delle linee generali attraverso le quali avvicinarsi al mondo della detenzione, partendo dalle giustificazioni teoriche di questa pratica, ne ho discusso la genesi e lo sviluppo ed infine fornendo degli spunti sui quali riflettere ho cercato di delineare un quadro di riferimento generale nel quale inserire le testimonianze individuali che ho raccolto.
In questo capitolo analizzo le interviste aperte (o "narrative") che ho effettuato ad ex detenuti ed ex detenute; partendo dal loro punto di vista interno alle dinamiche istituzionali cercherò di delineare uno sfondo coerente che rappresenti il mondo della pena per come è percepito da chi ne ha vissuto esperienza.
Le testimonianze sono state raccolte nell'estate del 2006, in seguito al provvedimento di indulto emanato dal Ministero di Grazia e Giustizia. Tramite lo sportello informativo del Centro dei Sevizi Sociali per adulti di Genova, ente che svolge un ruolo di sostegno informativo per persone con problemi di giustizia o con alle spalle esperienze detentive, ho contattato circa 70 persone fra le quali 10 uomini e 10 donne hanno accettato di raccontare la loro esperienza. Ho quindi raccolto "fette di storie di vita" di persone che hanno vissuto l'esperienza tragica della reclusione, ho cercato di cogliere nelle loro affermazioni e nei loro racconti gli aspetti più significativi di una quotidianità vissuta in uno spazio ben delimitato, un'istituzione totale per definizione, sottoposta a criteri gerarchici e principi di autorità pressoché assoluti e onnipresenti.
Tutto il materiale raccolto è archiviato nell'appendice che conclude il lavoro, per permetterne una lettura integrale, in cui si troveranno riportati gli accounts delle esperienze descritte nelle interviste. Le interviste sono state effettuate in luoghi occasionali disposti di volta in volta in base alle esigenze degli/le intervistati/le. Sono state trascritte sul momento ed in seguito alla stesura ufficiale sono state effettuate eventuali correzioni congiuntamente agli intervistati/te; la durata media di un' intervista è stata di un'ora e mezza.
L'intervista è stata formulata con un duplice scopo e strutturata in due parti distinte e complementari. Innanzitutto, lo scopo di queste interviste è stato ascoltare la prospettiva di esperienze di vita altrimenti difficilmente documentabili, seguendo i criteri dell'indagine sociologica ho cercato di indagare le rappresentazioni dell'esperienza detentiva che ogni detenuto aveva sviluppato, come avesse vissuto il periodo di reclusione e come avesse reagito alla condanna morale e sociale sottesa alla detenzione; a prescindere dalla provenienza, dall'occupazione, dal sesso e dall'età degli/le intervistati/e ho riscontrato un atteggiamento omogeneo nel definire e rappresentare le motivazioni che hanno condotto alla detenzione, gli atteggiamenti che ne hanno accompagnato l'esecuzione e le conseguenze che questa esperienza ha provocato nella vita di ogni persona, "potrebbe essere sostenuto, ovviamente, che ci sono certi pericoli nel parlare della percezione della cattività dei detenuti, infatti è propensa a portare l'implicazione che tutti i prigionieri percepiscano la loro cattività nella stessa precisa maniera. Dovrebbe essere sostenuto che nella realtà ci sono così tante prigioni come ci sono prigionieri- che ogni uomo porta nell'istituzione di custodia i suoi propri bisogni ed il suo sfondo sociale e che ogni uomo apprende dalla prigione la sua personale interpretazione della vita fra le mura.[.]Comunque quando esaminiamo la maniera con la quale i detenuti della prigione di stato del New Jersey percepiscono l'ambiente sociale creato dagli agenti di custodia, il fatto dominante è il duro nocciolo di consenso espresso dai membri della popolazione detenuta, in riguardo alla natura della loro detenzione. I detenuti sono d'accordo che la vita in un carcere di massima sicurezza sia estremamente deprivante e frustrante". (vedi Sykes, 1958, p. 63, traduzione mia).
Il secondo scopo che mi ha spinto ad effettuare una ricerca in questo campo è un interrogativo che provo di fronte ad una società che, pur auspicando la tutela dei diritti umani, rischia di trovare nel carcere una frontiera di esclusione eccessiva nel momento in cui dovesse incappare in misure non previste di degradazione. Mi interessava dunque conoscere anche punti di vista che di solito non hanno voce nello spazio pubblico, non foss'altro per comprenderne le posizioni e punti di vista "di parte": una parte che almeno io non conoscevo.
Mi sono chiesto, cioè, se esista davvero il rischio che continuino a sussistere talune prassi penitenziarie che seguendo logiche degradanti della persona privata della libertà personale possano compromettere la nostra autorappresentazione di civiltà.
Come dicevo, l'intervista è suddivisa in due parti, nella prima parte dell'intervista, è stato richiesto agli intervistati di fornire la storia dettagliata della loro esperienza di detenzione, un resoconto il più possibile dettagliato che descrivesse il tipo di detenzione vissuto: in quale istituto sono stati reclusi, le condizioni nelle quali la detenzione ha avuto luogo e la durata di ogni reclusione; per quanto è stato possibile sono state inoltre annotate le particolarità strutturali di ogni istituto, i ritmi giornalieri imposti dalla Direzione, le attività di trattamento riservate ai detenuti presenti, le attività formative e le attività lavorative. Dopo la descrizione delle condizioni di detenzione è stata sviluppata una seconda parte, centrale, con lo scopo di sondare il senso che ogni intervistato/a aveva attribuito al periodo trascorso in carcere.
Ho quindi analizzato le risposte raccolte descrivendole e cercando interpretare le impressioni degli/le intervistati/e sulla loro esperienza di detenzione.
La detenzione è un'esperienza che stravolge gli aspetti sociali dati per scontati durante la vita in libertà, durante questo periodo di "sepoltura forzata" gli individui che lo vivono in prima persona possono trovarsi di fronte ad uno sgretolamento delle certezze legate ai gruppi di riferimento dai quali sono stati isolati, certezze sulle quali si fondava la loro vita quotidiana precedente al carcere, vedono vacillare le regole consuete di interazione quotidiana con gli altri e si trovano a dover accettare loro malgrado una serie di procedure esplicitamente e/o implicitamente degradanti.
Prima di procedere con tale analisi delle interviste vorrei brevemente descrivere i meccanismi sociali che regolano il funzionamento dell'istituzione penitenziaria.
L'istituzione penitenziaria attivando una serie di disposizioni coercitive ai fini di un efficace custodia dei detenuti e dovendo perseguire un clima il più possibile adatto al recupero del detenuto recluso crea un contesto sociale misto basato sulla presenza di tre sottogruppi ben identificabili: da una parte il sottogruppo dei detenuti, da una parte il sottogruppo degli agenti di custodia e degli agenti dell'amministrazione burocratica e da un parte il sottogruppo degli addetti all'area trattamentale, gli educatori, i mediatori culturali, gli psicologi, gli psichiatri, i medici ed il corpo para medico. Questi sottogruppi sono interrelati tra loro attraverso rapporti di potere, ogni sottogruppo ha ragione di essere all'interno dell'istituto e deve adempiere un certo compito istituzionale, i detenuti devono prestarsi volontariamente alla custodia, devono accettarla (pena l'attivazione di provvedimenti disciplinari che inscrivendosi nei rapporti di trattamento negano la possibilità che il detenuto ottenga i benefici previsti dalla Legge 26 Luglio 1975 N. 354), gli agenti di custodia devono adempiere le funzioni di sicurezza interna dell'istituto, gli agenti dell'amministrazione devono svolgere le pratiche burocratiche necessarie al funzionamento dell'istituto alla classificazione della popolazione detenuta ed ai rapporti con la comunità esterna, infine gli addetti all'area trattamentale devono occuparsi delle attività formative/ricreative ed alla tutela psico-sanitaria della popolazione detenuta. Le relazioni all'interno del carcere sono codificate dalla legislazione penitenziaria, ogni sottogruppo segue uno specifico codice comportamentale e a seconda del carattere individuale di ogni persona è dipendente in differente misura da un senso di lealtà e solidarietà verso il proprio sottogruppo di riferimento.
A seconda che la linea istituzionale conferisca importanza ai fini risocializzanti della pena, o ai fini custodialistici, le attività degli agenti di custodia e quelle degli addetti all'area del trattamento acquistano una maggiore o minore visibilità e l'economia interna di potere pende a favore dei primi o dei secondi.
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