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Il lavoro come vuole la nostra Costituzione (art. 4 'La Repubblica riconosce a tutti i cittadini il diritto al lavoro e promuove le condizioni per rendere effettivo questo diritto') che fa della nostra una Repubblica fondata sul lavoro (art.1 cost.), ma anche una lunga tradizione millenaria religiosa e non, è posto al centro della vita dell'individuo come manifestazione principe del suo inserimento e partecipazione alla comunità cui appartiene. Dal momento in cui si è scelta la detenzione in carcere come modalità di espiazione della punizione penale, si è adattata questa realtà ben poco modellabile ad attività lavorative, dato il carattere immediatamente custodiale, ad un bisogno sentito da parte della società: quello di non sprecare una forza lavoro inestimabile e totalmente disponibile. Il ragionamento attraverso il quale si è giunti a questa modalità esecutiva della pena è logico e prevedibile: le prigioni sono costose, si è sempre saputo, l'ozio forzato provoca danni gravissimi sulla psiche delle persone, problema di cui nessuno ha mai avuto bisogno dato l'alto tasso di recidivismo già creato dal carcere, i detenuti non possono opporsi agli ordini dei loro superiori. Risultato: i lavori forzati. Fin da quando è stata creata l'istituzione carceraria come pena principale per la delinquenza non meritevole della pena di morte, la soluzione di una normale e libera disposizione della forza lavoro della popolazione detenuta è sempre stata condizione normale e giustificata dagli ordinamenti di ogni parte del mondo[1].
Senza necessità di volgere lo sguardo molto lontano dai nostri giorni, una realtà di questo tipo l'Italia l'ha vissuta fino alla riforma penitenziaria del 1975 in virtù di una legislazione che proveniva dagli anni '30. Con il R.D. 18 giugno 1931 n°787, meglio noto come regolamento Rocco, già all'art.1 si sanciva: 'In ogni stabilimento carcerario le pene si scontano con l'obbligo del lavoro'.
Il lavoro così ha da sempre assunto nell'ordinamento penitenziario un ruolo essenziale, la modalità primaria di esecuzione della pena detentiva: 'lo sfruttamento del lavoro del detenuto, dunque, non è ammesso, bensì è imposto dalla legge'[2]. Lo Stato in questa manodopera così trova un valido rinforzo e legalizzato, è autorizzato a servirsene per perseguire gli interessi dei cittadini con forte risparmio rispetto ai dipendenti incensurati . Non solo lo Stato può servirsi della forza-lavoro dei detenuti, ma persino i privati possono adoperare questa preziosa risorsa per i propri affari. Lo sfruttamento è così un dato indiscutibile della nostra storia. I detenuti si sono sempre trovati nella ingrata posizione di essere costretti a lavorare per il vantaggio altrui, senza una retribuzione, o perlomeno, senza un corrispettivo degno di tale nome. La condizione di queste persone era non dissimile, come qualcuno ha evidenziato , a quella dello schiavo ai tempi dei romani, dove ogni abuso veniva giustificato dall'essere queste persone considerate come 'res nullius'. Le loro prestazioni lavorative, sul presupposto che facevano parte integrante della pena, non erano realmente retribuite come poteva apparire da una lettura superficiale del codice penale, all'art.145, e del Regolamento Rocco, all'art.125. L'art.145 c.p. intitolato 'Remunerazione ai condannati per il lavoro prestato' sancisce al primo comma il diritto alla remunerazione ai condannati per il lavoro prestato, per ridimensionare totalmente tale diritto al suo secondo comma dove sono stabilite tutta una serie di detrazioni: 1) le somme dovute a titolo di risarcimento del danno, ex. art.185 c.p.; 2) le spese che lo Stato sostiene per il mantenimento del condannato; 3) le somme dovute a titolo di rimborso delle spese del procedimento . Prima della riforma penitenziaria, come se non bastasse, l'art.125 del R.D. 787/31 dopo aver stabilito l'entità della 'mercede' (una sorta di mancia stabilita dal Ministero) per categorie di lavoranti, avuto riguardo al tipo di lavoro, alla capacità e al rendimento del detenuto, andava a ridurre la somma percepita in remunerazione dal detenuto ex. art.145 c.p. sancendo che 'la differenza fra la mercede e la remunerazione è devoluta allo Stato'. Da cui nasce spontanea la considerazione che 'lo spirito informatore della legge (R.D.787/31) è (era) evidente: servirsi di una manodopera retribuibile a piacimento' .
Con l'entrata in campo della Costituzione e la finalità rieducativa della pena (art.27, comma3) la situazione è cambiata solo formalmente, giustificando il ricorso al lavoro come uno degli elementi fondamentali per raggiungere la risocializzazione del condannato. In realtà le condizioni del detenuto non cambiarono nei fatti, dato che ancora negli anni settanta si lamentava come la situazione fosse rimasta invariata dagli anni trenta in poi. Gli ultimi anni sessanta e i primi anni settanta furono però essenziali per la riconsiderazione della posizione del condannato all'interno del meccanismo lavorativo carcerario, insieme a tutti gli altri temi che portarono poi alla riforma qualche anno dopo. Le polemiche si fanno accese e le denunce di sfruttamento sempre più frequenti[7]. Si critica innanzitutto l'ipocrita pretesa di funzione risocializzante in lavorazioni che non eran forse neppure degni di esser chiamati tali: 'Che razza di lavoro è quello di vuotare i buglioli? O di portare la fornitura (coperte e lenzuola) ai nuovi arrivati?' . Si evidenzia in sostanza come non si possa parlare di un'utilità per il recluso-lavoratore neppure sotto il profilo di un'acquisizione di una qualsivoglia qualifica professionale, oltre, come abbiamo notato, alla già assente retribuzione ora in aspro contrasto con l'art.36 cost.(retribuzione proporzionata e sufficiente). Negando la caratteristica di una funzione rieducativa nel lavoro carcerario, si cominciano a far crollare le stesse fondamenta della sua stessa legittimità. 'Infatti non vediamo come si possa sostenere la rieducatività di lavori alienanti e dequalificanti, assolutamente privi di motivazioni, interessi e gratificazioni' . Ed era vero, non era assolutamente sostenibile: il divario tra lavoro come palese onere gravante sul detenuto oltre la privazione della libertà era evidente.
Finalmente con la Riforma penitenziaria del 1975, la L. 26 luglio 1975 n°354, la prospettiva muta radicalmente. Tutta l'attenzione del legislatore viene canalizzata sul trattamento e sulla rieducazione in adempimento ormai improrogabile del dettato costituzionale. L'art 15 della legge inserisce oltre agli altri elementi, anche il lavoro come elemento principale del trattamento penitenziario. Finalmente sono coordinate le norme sull'ordinamento penitenziario con l'esplicita presa di posizione della Costituzione ed in particolare con l'art. 1, 4, 36 il tutto in combinato disposto con l'art.27, 3°comma sulla funzione rieducativa della pena. Viene così valorizzata la posizione del detenuto lavoratore sancendo come prima conquista importante la non afflittività delle prestazioni nonché la loro necessaria riconsiderazione sotto il profilo retributivo (art.20 ord. pen., comma 2: 'Il lavoro penitenziario non ha carattere afflittivo ed è remunerato')[10].Sotto quest'ultimo profilo si è avuta una delle novità maggiori della riforma in materia di lavoro. Infatti si è parificata, o perlomeno si è tentato di avvicinarla, la retribuzione del detenuto a quella del lavoratore libero, con una grossa inversione di tendenza rispetto al passato. Con l'art.22 ord.pen. si fissa il limite entro il quale i datori di lavoro, pubblici e privati, devono rimanere, per non essere accusati di sfruttamento di manodopera di persone in posizione decisamente non forte contrattualmente, ai due terzi delle tariffe sindacali. Questo innalzamento delle mercedi, se da un lato ha evitato la continuazione di un comportamento da parte dei datori di lavoro quantomeno moralmente dubbio, ha dall'altro provocato un blocco delle assunzioni. I privati, infatti, rifiutano in modo determinato ogni impiego di lavoro proveniente dall'ambiente delle galere, proprio perché il solo motivo che poteva spingere ad una scelta di tal genere era come si può immaginare, l'appetibile concorrenzialità delle prestazioni sul piano economico. Con la riforma questo non può più avvenire; non solo: sono stati aggiunti altri oneri e garanzie a favore del detenuto, che lo rendono sempre meno oggetto di scelta: la tutela assicurativa e previdenziale, la garanzia del riposo festivo, la durata delle prestazioni lavorative che non può superare i limiti stabiliti dalle leggi vigenti (art.20,comma 16 ord. pen.) , la corresponsione degli assegni familiari (art.23 ord.pen.). Questo ha portato ad uno snaturamento di quello che doveva essere l'obiettivo iniziale della legge, cioè di consentire sì che il detenuto lavorasse, ma garantendo la sua posizione contro usi ad abusi eccessivi da parte sia di privati che della P.A.. In questo modo si è ottenuto l'effetto opposto: la P.A. si è vista impreparata, di fronte alla situazione derivante dalla generale defezione dei privati, a correre in soccorso creando un'organizzazione capace di trovare lavoro ai 'nuovi' detenuti. La condizione di questi paradossalmente è rimasta immutata, dato che gli unici lavori cui è possibile adibire i detenuti senza eccessive complicazioni sono quelli all'interno dell'istituto di pena, notoriamente di bassa qualificazione, limitata complessità e produttività, nonché decisamente di modesta soddisfazione personale. A questo panorama sconfortante si aggiunge il fallimento dal punto di vista di un effetto socializzante, scopo che voleva ambiziosamente raggiungere la riforma. Certa parte della dottrina costruisce questo quadro come il risultato inevitabile di un sistema organizzato capitalisticamente che impedisce ad una manodopera di tal genere di poter emergere senza un sacrificio sostanziale . Comunque la si pensi la realtà è ancora peggiore se si considera che il livello di istruzione e preparazione professionale non è certo competitivo, manca l'essenziale, per un buon rendimento, stimolo all'attività lavorativa, dato che non esiste una libera scelta di questa, se non in casi marginali e quindi trascurabili. Così 'l'unico punto di incontro tra domanda e offerta sono le clamorose situazioni di sfruttamento più volte denunciate, realizzate attraverso una inaccettabile compressione delle retribuzioni' . Rimane dunque una situazione di ben poca scelta: il lavoro dei detenuti, disciplinato dagli art. 20 ord. pen. e seguenti, rimane per molti aspetti lettera morta. Esempio evidente della mancata attuazione di parti anche essenziali della riforma sono messe in luce agevolmente osservando l'art. 21 ord. pen., che detta la nuova disciplina del 'Lavoro all'esterno'. Questa norma ridisegna il lavoro dei detenuti fuori dalle mura carcerarie dalla nuova prospettiva su cui viene fondato tutto il sistema della legge e cioè dal punto di vista del trattamento: Al primo comma viene disposto che 'i detenuti e gli internati possono essere assegnati al lavoro all'esterno in condizioni idonee a garantire l'attuazione positiva degli scopi previsti dall'articolo 15', cioè l'attuazione positiva del trattamento, divenuto, come abbiamo avuto modo di vedere, elemento essenziale e fondante della stessa pena, in attuazione dei principi costituzionali. Restrizioni sono stabilite per i condannati alla pena della reclusione per uno dei delitti indicati all'art. 4 bis ord. pen. dove tale assegnazione può essere disposta solo dopo l'espiazione di almeno un terzo della pena e comunque non di non oltre cinque anni. Per i condannati all'ergastolo l'assegnazione può essere disposta dopo l'espiazione di almeno dieci anni di reclusione . il lavoro può essere svolto senza necessità di scorta sol che si tratti di occupazione presso la P.A. o che sia quindi un impiego pubblico, salvo i casi di sicurezza che la rendano opportuna. Nel caso invece di impiego presso un'impresa privata, le prestazioni devono essere controllate direttamente dal personale della polizia penitenziaria o del servizio sociale . Quest'ultima disposizione ha creato uno degli ostacoli maggiori all'utilizzo della forza-lavoro carceraria da parte dei datori privati, da sempre poco inclini a sottostare agli sguardi indiscreti della giustizia o chi per lei. Tutta questa disciplina viene ovviamente sottoposta al vaglio dell'autorità giudiziaria ed in particolare all'autorizzazione del magistrato di sorveglianza competente. Questa lodevole previsione circa il lavoro extramurario, così come innovato dalla l.10 ottobre 1986 n°663, è stata da alcuni collocata entro un ambito peculiare del nostro sistema penitenziario, informato alla maggior differenziazione possibile, anche detto della 'modalità esecutiva attenuata' .
Guardando dunque al passato 1975, quando si realizzò la riforma penitenziaria, che anche dal profilo del lavoro ha comportato grandi innovazioni rispetto alla disciplina previgente, ottime possono essere le considerazioni dal profilo chiamiamolo 'programmatico' e di principio, ma pessime sono quelle riguardanti i risultati effettivi. Come d'altronde per tutto o quasi il testo della riforma del 1975 è stato necessario l'ulteriore intervento normativo giunto nel 1986 con la c.d. Legge Gozzini per una sua effettiva applicazione, anche per ciò che riguarda il lavoro si è cercato uno sviluppo fruttuoso con tale successiva novella. Purtroppo, a differenza delle misure alternative sulle quali la l.663/86 ha avuto un impulso decisivo, la materia del lavoro ed in particolare il lavoro all'esterno non è mai riuscito a trovare un valido sbocco.
Le ragioni di questa situazione possono essere facilmente rinvenute nella crisi economica in cui versa il nostro Stato da tempo e che non consente salti qualitativi tali da rendere partecipi gli imprenditori al problema della disoccupazione carceraria, quando oltretutto la scelta viene sviata automaticamente dall'avvenuta parificazione della posizione dl lavoratore libero a quello detenuto.
Facendo un bilancio sul problema-lavoro e sulla condizione del detenuto dal '75 in poi si possono senz'altro trarre delle conclusioni. Sotto il profilo della garanzia della persona del detenuto i risultati sono senz'altro positivi, dato il ribaltamento della situazione precedente che legittimava una condizione, senza eufemismi, di sfruttamento. Si è posta l'attenzione alle esigenze del detenuto tentando una equiparazione della sua posizione a quella dei lavoratori liberi fissando anche l'obiettivo di una maturazione professionale in vista del loro reinserimento nella società (art.20 ord. pen., comma 4). L'unico obbligo di prestazione lavorativa incombe solo sui condannati e sui sottoposti alle misure di sicurezza della colonia agricola e della casa di lavoro (art.20 ord. pen., comma 3). Sensibilità particolare il legislatore l'ha mostrata, ponendo un limite negativo, nei confronti di coloro che si trovino sottoposti alle misure di sicurezza della casa di cura e di custodia e dell'ospedale psichiatrico, che non saranno adibiti a nessuna occupazione lavorativa tranne che nel caso in cui questa si renda utile per finalità terapeutiche (art.20 ord. pen, comma 4). Non solo: il legislatore ha prestato attenzione anche alla eventuale e peculiare attitudine del detenuto, il quale se possiede doti artigianali, culturali o artistiche può essere esonerato dal lavoro ordinario ed esercitare, per proprio conto, tali attività (art.20 ord. pen., comma 14).
Buoni i principi, ma il problema è rimasto irrisolto[17]. La tendenza legislativa imboccata è stata coerente con la nuova logica del momento esecutivo, sempre più ispirata ad una sua possibile differenziazione in favore dei detenuti migliori, tuttavia sottoposta al vaglio discrezionale dell'autorità giudiziaria e dunque affidata ad un corretto adempimento di tali compiti. Questa una delle ultime considerazioni che si possono aggiungere a quelle già evidenziate, che nel loro complesso rendono la disciplina in oggetto buona nei fini, ma incapace a livello pratico e che fanno da sfondo ad un generale scontento nei confronti delle innovazioni raggiunte dato che oggi siamo portati ad aspettarci 'molto di più di quanto in concreto non offra la triste realtà carceraria' .
Per un'analisi dettagliata sul tema vedi M.Focault, Sorvegliare e punire, op. cit.
'Le pubbliche amministrazioni hanno tali e tanti bisogni che possono ben assicurare con le loro richieste il lavoro negli stabilimenti carcerari, e sarebbe strano che si insistesse nell'attuale sistema di rinunciare a servirsi di una manodopera che lo Stato può regolare come crede, nell'interesse della generalità dei cittadini', Relazione Rocco, pag.39.
A.Ricci-G.Salierno, op. cit., pag.169.
In questo senso anche E.Fassone, La pena detentiva in Italia dall'800 alla riforma penitenziaria, Il Mulino, Bologna, 1980, pag. 169-175.
Articolo così modificato dalla legge 10 ottobre 1986 n°663 e successivamente dal d.l. 14 giugno n°187 conv. in l. 12 agosto 1993 n° 296.
In questo senso D.Melossi-M.Pavarini, Carcere e fabbrica. Alle origini del sistema penitenziario, Bologna, Il Mulino, 1979, 2.
Il regime differenziato previsto dall'art.21 per i detenuti condannati per reati gravi, fu introdotto dal d.l. 13-5-90,n° 152, conv. in l.12-7-91, n°203, per affrontare con atteggiamento più rigido i gravissimi fenomeni di criminalità organizzata caratteristici del periodo.
Comma 3°, art. 21 ord. pen., così aggiunto dall'art.2 d.l. 14-6-93, n° 187, convertito in l. 12-8-93, n°296.
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