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Il contratto individuale di lavoro




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il contratto individuale di lavoro


Il contratto individuale di lavoro è il contratto mediante il quale il prestatore si obbliga a mettere a disposizione del datore di lavoro la sua attività di lavoro e questi si obbliga a corrispondere al prestatore una retribuzione. Trattasi di un contratto:

  • oneroso, essendo necessaria l'esistenza di una retribuzione che è la naturale controprestazione dell'attività lavorativa;
  • sinallagmatico, trattandosi di un contratto a prestazioni corrispettive;
  • cumulativo, nel senso che la legge e i contratti collettivi stabiliscono esattamente l'entità delle prestazioni e controprestazioni;
  • eterodeterminato, in quanto il contenuto del contratto di lavoro viene predeterminato nei tempi e nei modi dal datore di lavoro in vista dei fini che l'organizzazione aziendale si pone.

Partendo dall'assunto secondo il quale l'art. 2094 c.c. offre la definizione di prestatore di lavoro subordinato, ma non anche della modalità con cui questi viene formalmente assunto dal datore di lavoro, la dottrina aveva sollevato dubbi circa la fonte contrattuale o meno del rapporto di lavoro subordinato. Attualmente la dottrina e la giurisprudenza sono concordi nel sostenere la natura contrattuale del rapporto. La dottrina più accreditata (Ghera, De Luca Tamajo) ha posto in evidenza che la natura contrattuale del rapporto va riconosciuta sul decisivo rilievo che esso è pur sempre costituito dall'incontro di volontà tra il datore ed il prestatore di lavoro. Le limitazioni all'autonomia delle singole parti del rapporto di lavoro, derivanti dalla legge e dalla contrattazione collettiva non incidono sulla fonte da cui esso ha origine. Il contratto, dunque, è necessario perché abbia origine il rapporto di lavoro subordinato e trovi applicazione la relativa disciplina tipica.

Presupposti soggettivi del contratto di lavoro

I soggetti (detti anche parti contraenti) del contratto di lavoro devono presentare determinati requisiti, alcuni derivanti dalle norme di carattere generale, altri peculiari della disciplina del rapporto di lavoro.

La capacità giuridica e di agire del datore

Al datore si applicano le norme dettate per la generalità dei soggetti in tema di capacità giuridica (attitudine giuridicamente riconosciuta ad essere titolare di diritti ed obblighi - si acquista dalla nascita per le persone fisiche e dal riconoscimento della personalità giuridica per le persone giuridiche) e di agire (attitudine a compiere manifestazioni di volontà idonee a modificare la propria situazione giuridica). Una disciplina sotto alcuni aspetti particolare vige, però, se il datore è un imprenditore, posto che in tal caso incombono su di lui alcuni obblighi e limiti, determinati dall'esigenza di tutela del lavoratore subordinato alle dipendenze dell'impresa, soprattutto media o grande. La qualità di imprenditore del datore assume rilevanza anche sotto il profilo della c.d. spersonalizzazione dell'imprenditore agli effetti della formazione e conclusione del contratto nonché della successione nello stesso. Sotto il primo aspetto, in omaggio al principio della continuità dell'impresa, si applica al lavoro subordinato l'art. 1330, c.c., ai sensi del quale la proposta o l'accettazione provenienti da un imprenditore restano ferme anche in caso di morte o di sopravvenuta incapacità prima della conclusione del contratto. Sotto il secondo aspetto, l'art. 2112, c.c., dispone che 'in caso di trasferimento d'azienda, il rapporto di lavoro continua con l'acquirente ed il lavoratore conserva tutti i diritti che ne derivano': da tale norma si desume agevolmente il principio della normale irrilevanza della persona dell'imprenditore ai fini della successione anche mortis causa nel contratto di lavoro.

La capacità giuridica e di agire del lavoratore

Al lavoratore si applicano tutte le regole generalmente dettate per la capacità giuridica e di agire delle persone fisiche, in quanto, in ragione dell'implicazione delle energie del lavoratore nella prestazione, solo le persone fisiche sono capaci di prestare il proprio lavoro e di agire al riguardo ponendo in essere i relativi negozi. Una parte della dottrina afferma l'esistenza, in materia di lavoro, di una capacità giuridica speciale (De Luca Tamajo, Ghera), stante la vigenza di una disciplina particolare che - salve le disposizioni di legge che stabiliscono età minime inferiori o superiori - fissa l'età minima di ammissione al lavoro a quindici anni, salvo l'assolvimento dell'obbligo scolastico e dell'obbligo formativo. Il che, come si vede, costituisce una deroga al principio di cui all'art. 1, c.c., che sancisce che la capacità giuridica si acquista al momento della nascita. Con riguardo alla capacità di agire, va detto che l'art. 2, c.c., dopo aver ribadito, al co. I, che con il compimento della maggiore età (18 anni) si acquista la capacità di porre in essere tutti gli atti per i quali non sia stabilita un'età diversa, fa salve, con il co. II, le leggi speciali che stabiliscono un'età inferiore in materia di capacità a prestare il proprio lavoro, statuendo che 'in tal caso il minore è abilitato all'esercizio dei diritti e delle azioni che dipendono dal contratto di lavoro'. Dunque, vi è coincidenza tra la capacità giuridica, i.e. l'idoneità ad essere parte di un rapporto di lavoro, e la capacità al lavoro, ossia l'attitudine a prestare il proprio lavoro. In virtù di tale coincidenza tra capacità giuridica e capacità di agire in anticipazione rispetto alla regola generale, non vi è più spazio - secondo la dottrina maggioritaria - per l'intervento del genitore ovvero di qualunque altro rappresentante legale (nemmeno a titolo di semplice assistenza) nella stipulazione del contratto. Restano salvi, comunque, i casi in cui questo intervento sia espressamente previsto da norme speciali. A parte l'illiceità e, dunque, la nullità dei negozi contrari alle norme imperative di cui si è fin qui discorso, è prevista l'irrogazione di sanzioni penali per i datori che vi contravvengono e per i soggetti rivestiti di autorità o incaricati della vigilanza sui minori cui le violazioni si riferiscono.

Capacità psico fisica ed idoneità tecnica

Alcuni autori (Prosperati, Mazzoni) considerano come requisito autonomo la capacità psico fisica, cioè l'attitudine al lavoro dal punto di vista psico fisico. Tale requisito può essere interpretato sia come idoneità a svolgere una attività che intrinsecamente richieda determinati requisiti fisici sia come assenza di controindicazioni specifiche allo svolgimento di talune attività. L'idoneità tecnica attiene la capacità giuridica nei casi in cui sia richiesta la capacità professionale a svolgere una certa attività. Quando essa debba risultare da diplomi, patenti, iscrizioni ad albi o altre certificazioni della pubblica autorità, la sua mancanza è causa di nullità del contratto di lavoro. Ciò a tutela non solo dei contraenti ma pure dei terzi che dalla prestazione di lavoro possono ricevere un danno diretto.

Gli elementi essenziali del contratto di lavoro

Il contratto di lavoro non si discosta dalla normativa relativa al contratto in generale per quanto concerne i requisiti di cui all'art. 1325 c.c..

L'accordo delle parti

Il contratto di lavoro è un contratto consensuale, che si perfeziona con l'incontro delle volontà espresse dalle parti. Come è stato osservato (GHERA), nella formazione del contratto di lavoro, la disciplina generale del contratto dettata dal Codice Civile si applica con alcuni rilevanti caratteri di specialità, a causa dei numerosi limiti imposti dalla legge e dalla contrattazione collettiva, che restringono in misura notevole il margine dell'autonomia privata. L'efficacia di tali limiti è particolarmente penetrante e si attua per mezzo del meccanismo dell'inserzione automatica di clausole (art. 1339, c.c.), e della sostituzione di diritto delle clausole difformi del contratto individuale (art. 1419, c.c.). Tuttavia, essa, incidendo solo sul piano della libera determinazione del contenuto del contratto, non esclude l'origine contrattuale del rapporto di lavoro e, in secondo luogo, non inficia la natura del contratto di lavoro che è e resta, come si è detto, un contratto consensuale.

La causa

La causa - intendendo per tale la funzione socio economica immediata che l'ordinamento riconosce ad un determinato tipo di negozio - del contratto di lavoro deve essere individuata nello scambio tra lavoro e retribuzione, scambio vincolato alla reciprocità per cui l'obbligazione e la prestazione di una parte sono in funzione dell'obbligazione e della prestazione dell'altra (SANTORO PASSARELLI). Dalla causa vanno tenuti distinti i motivi, che sono i particolari interessi o bisogni che rappresentano lo scopo concreto che, tramite gli effetti del negozio, le parti intendono raggiungere. Essi sono, di regola, giuridicamente irrilevanti, a meno che le parti si siano determinate a concludere il contratto esclusivamente per un motivo illecito comune ad entrambe, nel qual caso il contratto è illecito (art. 1345, c.c.).

L'oggetto

Secondo la dottrina dominante, l'oggetto del contratto di lavoro è rappresentato sia dalla prestazione lavorativa sia dalla retribuzione. In sostanza l'oggetto indica il contenuto delle rispettive prestazioni del lavoratore e del datore di lavoro ed ha una estensione articolata ed elastica fino a ricomprendere tutte le attività che possono essere ricondotte nel vincolo della subordinazione. I requisiti che esso deve possedere sono quelli richiesti dall'art. 1346, c.c., per il contratto in generale, ossia:

  • la liceità: l'oggetto non deve essere contrario a norme imperative, all'ordine pubblico ed al buon costume;
  • la possibilità: al riguardo si distingue tra impossibilità di fatto ed impossibilità giuridica (numerose norme mitigano, comunque, mediante la previsione della sospensione del rapporto, gli effetti di una sopravvenuta impossibilità temporanea del datore di lavoro a ricevere la prestazione o del lavoratore ad eseguirla);
  • la determinatezza o la determinabilità, alla quale concorrono i contratti collettivi e gli usi (si ricorda che questi ultimi hanno natura negoziale e prevalgono sulle norme dispositive di legge solo quando dettano regole in senso più favorevole al lavoratore).
La forma

Il contratto di lavoro è un contratto a forma libera. Al principio della libertà della forma, tuttavia, si deroga in tutte le ipotesi in cui particolari patti, ovvero gli elementi accidentali del contratto, costituiscano clausole negoziali sfavorevoli al prestatore. Così devono risultare a pena di nullità da atto scritto:

  • il patto di non concorrenza, per il periodo successivo alla cessazione del rapporto, con il quale il lavoratore si obbliga a non svolgere attività professionali in concorrenza con il precedente datore;
  • l'apposizione del termine, che deve essere altresì giustificata dalla specialità del rapporto;
  • la determinazione del periodo di prova.

Al principio della libertà della forma si deroga anche per determinati tipi di contratti di lavoro, tra cui si ricordano:

  • il contratto di arruolamento marittimo, (richiede l'atto pubblico);
  • il contratto di formazione e lavoro;
  • il contratto a tempo parziale.

Ipotesi a sé stante è, poi, quella rappresentata dal contratto di lavoro a tempo determinato del personale di volo, per il quale è richiesta, sì, la forma scritta, ma non ad substantiam, bensì ad probationem, cioè ai soli fini probatori.

Gli elementi accidentali del contratto di lavoro

Gli elementi accidentali del contratto sono quegli elementi che le parti sono libere di apporre o meno, ma che una volta apposti incidono sull'efficacia del contratto stesso. Essi possono essere inseriti anche nel contratto di lavoro: nella pratica, ricorrente è soprattutto l'apposizione della condizione e del termine.

La condizione ed il patto di prova

La condizione - che è un avvenimento futuro ed incerto dal quale le parti fanno dipendere la produzione degli effetti del contratto, cui la condizione è opposta, ovvero l'eliminazione degli effetti già prodotti dal contratto - può inerire in maniera esplicita od implicita al contratto di lavoro, e può essere:

  • sospensiva, se da essa dipende la produzione degli effetti del contratto di lavoro (es. patto di prova);
  • risolutiva, se da essa dipende l'eliminazione degli effetti già prodotti; qualora essa tenda, però, all'elusione delle norme limitative del licenziamento, è da ritenersi illecita.

Si osservano i principi civilistici con una particolarità: la retroattività della condizione sospensiva non può risalire oltre l'effettivo inizio della prestazione di lavoro; la retroattività della condizione risolutiva è sicuramente esclusa per l'impossibilità di restituzione delle prestazioni di lavoro già eseguite.

Una parte della dottrina (GHERA, MAZZIOTTI) configura, quale particolare forma di condizione sospensiva, il patto di prova, cioè la clausola scritta[1] inserita nel contratto di lavoro, con la quale le parti subordinano la definitiva assunzione all'esperimento positivo di un periodo di prova (art. 2096, c.c.). Si è detto che il patto di prova è una clausola scritta: esso, infatti, deve risultare da atto scritto contenente l'indicazione della durata della prova: in mancanza, l'assunzione del lavoratore si considera definitiva. La funzione è quella di verificare, nel reciproco interesse, l'utilità della prosecuzione del rapporto di lavoro: in particolare, per il datore verificare la capacità professionale del lavoratore e la sua complessiva idoneità alle mansioni affidate ed al contenzioso aziendale; per il lavoratore, invece, il periodo di prova consente di valutare la sua convenienza all'occupazione del posto di lavoro.

Poiché la prova è evidentemente uno strumento predisposto più nell'interesse del datore che del prestatore, la legge (o il contratto collettivo) fissa il limite massimo di sei mesi per la sua durata. L'art. 2096, co. III, c.c., regola il recesso dal periodo di prova, stabilendo che 'ciascuna delle parti può recedere dal contratto, senza obbligo di preavviso o d'indennità. Se però la prova è stabilita per un tempo minimo necessario, la facoltà di recesso non può esercitarsi prima della scadenza del termine'. Con riguardo al recesso, la Corte costituzionale, con la sent. 16/12/1980, n. 189, ha chiarito che esso non può essere immotivato, ma deve trovare la sua ragione nell'esito negativo della prova: è, dunque, illegittimo il licenziamento in periodo di prova se non è stato concretamente consentito al lavoratore di dimostrare le sue qualità professionali.

Se poi l'esperimento dà esito positivo, il periodo di prova si trasforma nel rapporto di lavoro subordinato vero e proprio. Se, invece, l'esperimento dà esito negativo, il datore è obbligato a corrispondere al prestatore il trattamento di fine rapporto e le ferie retribuite o la relativa indennità sostitutiva, nonché ogni altro emolumento previsto per il lavoratore che non sia incompatibile con la particolare natura del periodo di prova.

Il termine ed il contratto a tempo determinato

Il nostro ordinamento ha da sempre affermato il principio della normalità del contratto di lavoro subordinato a tempo indeterminato e della eccezionalità di quello a tempo determinato.

A seguito dell'entrata in vigore del D. Lgs. 368/01 può legittimamente essere instaurato un rapporto di lavoro a tempo determinato tutte le volte in cui ricorrano ragioni di carattere tecnico, produttivo, organizzativo o sostitutivo.

La formula utilizzata dal legislatore, come si vede, è elastica e indefinita. Tuttavia, volendo provare a indicare quali ragioni possano concretamente legittimare la stipulazione del termine, si può pensare in primo luogo ai casi già contemplati dalla L. 230. Come si diceva, questa legge prevedeva ipotesi che, in via esclusiva e tassativa, consentivano l'apposizione del termine; attualmente, le stesse ipotesi possono essere utilizzati come esempi di valide giustificazioni dell'apposizione del termine. Quindi, bisogna continuare a familiarizzare con le attività stagionali, con la sostituzione dei lavoratori assenti con diritto alla conservazione del posto, con l'esecuzione di un'opera predeterminata, straordinaria e occasionale, eccetera. Tuttavia, questi non sono altro che esempi della ragione che, secondo la nuova normativa, può legittimare l'assunzione di un lavoratore a termine.

In ogni caso, per quanto elastica sia la lettera della norma, si deve tener presente che la ragione tecnica o produttiva o organizzativa deve comunque legittimare l'apposizione di un termine ad un contratto che, altrimenti, sarebbe a tempo indeterminato o non sarebbe stipulato tout - court: del resto, la Cassazione ha affermato che, anche dopo l'entrata in vigore della nuova disciplina legislativa, il contratto di lavoro normale è quello a tempo indeterminato, mentre il contratto a termine resta un'ipotesi eccezionale. Pertanto, la ragione giustificativa dell'apposizione del termine deve far riferimento ad un'esigenza particolare, eccezionale o comunque transitoria, tale da non poter essere soddisfatta né con l'impiego del personale già dipendente, né con l'assunzione di nuovi lavoratori a tempo indeterminato. La legge prevede anche ipotesi in cui l'apposizione di un termine è vietata. Ciò accade nei seguenti casi:

  • sostituzione di lavoratori scioperanti;
  • con riguardo alle unità produttive dove, nei sei mesi precedenti, siano stati effettuati licenziamenti collettivi che abbiano coinvolto lavoratori adibiti alle medesime mansioni cui fa riferimento il contratto a tempo determinato (salvo che l'assunzione avvenga per la sostituzione di lavoratori assenti, o sia concluso ex art. 8 c. 2 L. 223/91, o ancora abbia una durata iniziale non superiore a tre mesi; in ogni caso, gli accordi sindacali possono portare deroghe a questo divieto);
  • con riguardo alle unità produttive nelle quali sia in atto una sospensione dei rapporti di lavoro o una riduzione dell'orario, con diritto al trattamento di integrazione salariale, che interessino lavoratori adibiti alle mansioni cui fa riferimento il contratto a termine;
  • infine, l'assunzione a termine è preclusa per le imprese che non abbiano effettuato la valutazione dei rischi ex art. 4 D. Lgs. 626/94.

La legge precisa che tanto l'apposizione del termine, quanto la ragione che la giustifica devono risultare per iscritto, pena l'inefficacia del termine stesso, a meno che il termine non sia superiore a dodici giorni, nel qual caso l'atto scritto non è necessario. Copia dell'atto scritto deve essere consegnata al lavoratore entro cinque giorni dall'inizio della prestazione.

Il contratto a termine può essere prorogato, a condizione che il rapporto, inizialmente, avesse una durata inferiore a tre anni. La proroga è ammessa una sola volta e a condizione che sia giustificata da ragioni oggettive (che devono essere provate dal datore di lavoro), riferite alla stessa attività lavorativa per la quale era stato stipulato il contratto a termine. In ogni caso, per effetto della proroga il rapporto non può durare complessivamente più di tre anni.

Bisogna prestare attenzione al fatto che la legge contempla l'ipotesi del contratto a termine non superiore a tre anni solo al fine della eventuale proroga, non certo in considerazione della durata massima del rapporto. Ciò significa che nessuna norma vieta esplicitamente l'apposizione di un termine superiore a tre anni. Tuttavia, in concreto, si deve osservare che ben difficilmente si potrebbe ipotizzare una valida ragione giustificatrice che legittimi un termine così a lunga scadenza, se si pensa - come già si è detto - che la ragione giustificatrice deve comunque essere transitoria. Del resto, la stessa legge - come si è appena visto - dispone che, anche in caso di proroga, il termine non possa eccedere la durata dei tre anni: si vede quindi che lo stesso legislatore, se non vieta esplicitamente l'apposizione di un termine di durata superiore a tre anni, vede con estremo disfavore una simile ipotesi.

La continuazione del rapporto dopo la scadenza del termine non comporta di per sé la trasformazione del rapporto a tempo indeterminato. Infatti, in caso di continuazione del rapporto dopo la scadenza, il datore di lavoro deve corrispondere al lavoratore una maggiorazione della retribuzione, in misura del venti per cento, per ogni giorno di prosecuzione del rapporto fino al decimo; per ogni giorno ulteriore la maggiorazione è fissata nella misura del quaranta per cento. La trasformazione del rapporto a tempo indeterminato si verifica solo nel caso di continuazione del rapporto oltre il ventesimo giorno, se il contratto aveva una durata inferiore a sei mesi, ovvero negli altri casi oltre il trentesimo giorno.

Tra un contratto a termine e l'altro deve intercorrere un intervallo minimo: si tratta di dieci giorni, ovvero di venti, a seconda che il contratto sia di durata fino a sei mesi o sia superiore. Se questo intervallo non viene rispettato, il secondo contratto si reputa a tempo indeterminato; se i due rapporti si succedono senza soluzione di continuità, si considera a tempo indeterminato l'intero rapporto, dalla data di stipulazione del primo contratto.

In ogni caso, la legge precisa che il lavoratore assunto a termine ha diritto alle ferie, alla tredicesima mensilità, al TFR e a ogni altro trattamento in atto nell'impresa per i lavoratori a tempo indeterminato inquadrati al medesimo livello; ovviamente, questi istituti spettano in proporzione al periodo lavorato, e sempre che non siano obiettivamente incompatibili con la natura del contratto a termine.

Il decreto legislativo assegna ai contratti stipulati dai sindacati comparativamente più rappresentativi la facoltà di individuare i limiti quantitativi di utilizzo dei contratti a termine. Al contempo, vengono indicate alcune ipotesi che non possono sottostare ad alcun limite (tra le altre, fase di avvio di nuove attività, contratti motivati da ragioni sostitutive o dalla stagionalità, intensificazione dell'attività produttiva in determinati periodi dell'anno, contratti a termine stipulati per specifici programmi o spettacoli radiofonici o televisivi). E' evidente la ragione che ha indotto il legislatore a introdurre un simile divieto. In effetti, il fatto stesso di assumere un lavoratore a termine in una mansione occupata da un altro lavoratore, messo in mobilità non più di sei mesi prima, induce a ritenere che era illegittima la messa in mobilità (in quanto non vi era una reale esuberanza strutturale in quella posizione lavorativa) e che comunque è illegittima l'apposizione del termine (in quanto è contraddittorio affermare che vi è un'esigenza temporanea di ricoprire una posizione lavorativa che poco tempo prima era stabilmente assegnata a un lavoratore). Per questo motivo, è curioso che il legislatore, da un lato, ponga il divieto e, dall'altro, consenta alle parti sociali di derogarlo. Bisogna dunque avvertire che questo potere di contrattazione, che la legge assegna al sindacato, deve essere utilizzato con estrema cautela, in quanto il sindacato rischierebbe di coprire e avallare un comportamento illegittimo del datore di lavoro. In ogni caso, sono esenti da limiti quantitativi i contratti di durata non superiore a sette mesi, compresa l'eventuale proroga, ovvero non superiore alla maggior durata definita dalla contrattazione collettiva con riferimento a una situazione di difficoltà occupazionale per specifiche aree geografiche. Tuttavia, è previsto che anche un contratto con le caratteristiche appena indicate soggiace ai limiti quantitativi, se lo stesso fa riferimento a una mansione identica a un'altra, che aveva formato oggetto di un altro contratto a termine, scaduto da meno di sei mesi.

Obbligo d'informazione sulle condizioni applicabili al rapporto di lavoro

Ai sensi del D.Lgs. n. 152/97, il datore di lavoro ha l'obbligo di informare per iscritto il lavoratore circa le condizioni applicabili al contratto o rapporto di lavoro. Tale obbligo, che deve essere adempiuto entro 30 giorni dall'avvenuta assunzione, si sostanzia in una serie di dettagliate notizie che devono essere rese al prestatore, in particolare:

  • l'identità delle parti;
  • il luogo di lavoro;
  • la data di inizio del rapporto e la sua durata;
  • la durata del rapporto di prova, se previsto;
  • l'inquadramento, il livello e la qualifica del lavoratore;
  • l'importo iniziale della retribuzione;
  • la durata delle ferie retribuite cui ha diritto il lavoratore;
  • l'orario di lavoro;
  • i termini del preavviso in caso di recesso.

Quanto alle modalità per rendere al lavoratore le informazioni suddette, si hanno in sostanza due possibilità:

  • attraverso il contratto di lavoro scritto o nella lettera di assunzione o in altro documento da consegnare al lavoratore;
  • nella dichiarazione, da consegnarsi al lavoratore in caso di assunzione diretta ai sensi dell'art. 9bis L. 608/96.

Interpretazione ed integrazione del contratto di lavoro

Per quanto riguarda l'interpretazione del contratto di lavoro, non vi sono particolari differenze rispetto alla normativa civilistica generale. Assumono rilievo gli usi quando i datori di lavoro sono commercianti, artigiani, agricoltori.

L'integrazione del contratto trova vasta applicazione: il contratto di lavoro si limita in generale alle indicazioni essenziali, rinviando poi alla contrattazione collettiva e alle leggi.

La patologia negoziale: cause di nullità e di annullabilità del contratto di lavoro

Le vicende patologiche del contratto di lavoro sono regolate dai principi comuni di diritto privato. Perciò, tale contratto può essere:

  • nullo, per contrarietà a norme imperative[2], per la mancanza di un requisito essenziale, per illiceità della causa o del motivo, per impossibilità, illiceità o indeterminabilità dell'oggetto;
  • annullabile, per incapacità legale o naturale di agire, per i vizi del consenso (errore - sulle qualità del lavoratore o errore di diritto, ad es. non rispettando una graduatoria concorsuale - violenza e dolo) di una delle parti e per stipulazione del contratto in violazione delle norme sul collocamento.

Ciò detto in generale, occorre segnalare due fattispecie proprie del diritto del lavoro in cui il legislatore fa scaturire effetti giuridici da contratti di lavoro radicalmente nulli, e cioè:

  • l'ipotesi della prestazione di fatto, contemplata dall'art. 2126, co. 1, c.c., a termini del quale 'La nullità o l'annullamento del contratto di lavoro non produce effetto per il periodo in cui il rapporto ha avuto esecuzione, salvo che la nullità derivi dall'illiceità dell'oggetto o della causa'. L'art. 2126, co. 1, c.c., non equipara il rapporto di lavoro invalido a quello valido e non disciplina lo svolgimento di un rapporto di fatto: esso regola unicamente gli effetti giuridici di un rapporto di lavoro in concreto svoltosi fra le parti, a cui riconosce efficacia per il tempo in cui ha avuto attuazione, al fine di evitare che la portata retroattiva della pronuncia di nullità del contratto incida sulla prestazione lavorativa già resa e, dunque, sul diritto del prestatore alla retribuzione ed al versamento dei contributi assicurativi. L'art. 2126, comma 1, esclude dalla regola della inefficacia della invalidità del contratto per il periodo in cui il rapporto ha avuto esecuzione, il caso in cui la nullità derivi dalla illiceità dell'oggetto o della causa. Nel caos di nullità del contratto di lavoro derivante dall'illiceità dell'oggetto o della causa per violazione di norme a tutela del lavoratore (art. 2126, comma 2, c.c.) questi ha in ogni casso diritto alla retribuzione;
  • l'ipotesi del subappalto di mano d'opera: stante il divieto di intermediazione di cui alla L. 1369/60, i prestatori sono considerati, a tutti gli effetti, alle dipendenze dell'imprenditore che abbia effettivamente utilizzato le loro prestazioni.

Effetti dell'invalidità contrattuale

L'invalidità del contratto di lavoro, come abbiamo visto, può derivare sia da cause di nullità, sia da cause di annullabilità. Le differenze sono rilevanti:

  • la nullità può essere fatta valere da chiunque vi abbia interesse ed è imprescrittibile;
  • l'annullabilità può essere fatta valere solo dalla parte interessata e la relativa azione è soggetta a prescrizione quinquennale, salva l'eccezione di cui all'art. 1442, comma 4.

In deroga alla disciplina di diritto comune, secondo la quale il contratto nullo è inefficace fin dall'origine e quello annullabile conserva la sua efficacia sino al momento della pronuncia di annullamento, in materia di lavoro entrambi i vizi fanno salvi gli effetti giuridici prodotti dal contratto invalido al fine di evitare che il prestatore di lavoro subisca le conseguenze sfavorevoli della dichiarazione di nullità o dell'annullamento del contratto stesso (art. 2126).

La certificazione del contratto di lavoro

Al fine di ridurre l'entità del contenzioso relativo a tale materia e deflazionare il carico dei Tribunali, il Dlgs 276/03 ha introdotto nel nostro ordinamento un nuovo istituto giuridico, la certificazione dei contratti di lavoro, che svolge la funzione di strumento volontario e fidefacente per le parti e per i terzi in ordine alla natura del rapporto di lavoro e dei suoi effetti. A seguito delle modifiche introdotte dal Dlgs 251/04, la certificazione è stata estesa a qualsiasi tipologia contrattuale di lavoro subordinato, nonché ad altre modalità lavorative, quali il lavoro a progetto, le collaborazioni coordinate e continuative e l'associazione in partecipazione. La procedura di certificazione può essere utilizzata anche:

per avallare rinunce e transazioni di cui all'art. 2113 c.c., al fine di controllare l'effettività della volontà abdicativi;

per il deposito dei regolamenti interni delle cooperative di lavoro, con riferimento alla tipologia dei rapporti di lavoro attuati o che si intendono attuare con i soci;

in sede di stipulazione di un contratto di appalto ex art. 1655 c.c. e di attuazione del relativo programma negoziale, per distinguerlo dalla somministrazione di lavoro disciplinata dagli artt. 20 e seg. del Dlgs 276/03.

La funzione di certificazione è esercitata da apposite Commissioni di certificazione che possono essere costituite ad iniziativa:

degli enti bilaterali, nazionali o territoriali, costituiti da una o più associazioni di datori di lavoro e lavoratori comparativamente più rappresentative;

delle Direzioni provinciali del lavoro (composizione: dirigente della DPL, due funzionari del servizio politiche del lavoro, un rappresentante INPS e uno INAIL, un rappresentante dell'Agenzia delle entrate e un rappresentante del consiglio provincia degli ordini professionali) e delle Province (composizione: dirigente del servizio provinciale per l'impiego, tre funzionari del servizio provinciale competente, un rappresentante INPS e uno INAIL, due rappresentanti sindacali nominati dal presidente e due rappresentanti dei datori di lavoro);

delle Università pubbliche e private e delle Fondazioni universitarie (devono preventivamente essere iscritte in un albo presso il Ministero del lavoro e delle politiche sociali).

Le commissioni operano secondo un regolamento interno che esse sono tenute a trasmettere al Ministero del lavoro ai fini della valutazione di conformità alle disposizioni di legge. Il Dlgs 276/03 prevede, per uniformare il lavoro delle commissioni, l'emanazione da parte del Ministero del lavoro di appositi codici di buone pratiche per l'individuazione delle clausole indisponibili in sede di certificazione dei rapporti di lavoro, con specifico riferimento ai trattamenti economici e normativi. Inoltre lo stesso Ministero deve predisporre appositi moduli e formulari per la certificazione del contratto e del relativo programma negoziale.

L'avvio della procedura di certificazione avviene con apposita istanza presentata alla competente Commissione, redatta per iscritto e sottoscritta da entrambe le parti del contratto di lavoro. L'istanza deve espressamente indicare, a pena di improcedibilità, gli effetti civili, amministrativi, fiscali o previdenziali, in relazione ai quali le parti chiedono la certificazione.

La competenza territoriale ad accogliere l'istanza di certificazione e allo svolgimento della relativa procedura è così stabilita:

se le parti intendono avvalersi delle commissioni presso gli enti bilaterali, dovranno inoltrare l'istanza alla commissione costituita dalle associazioni cui aderiscono;

se le parti intendono avvalersi delle commissioni presso le DPL o la Provincia, è competente la commissione nella cui circoscrizione si trova l'azienda o una sua dipendenza alla quale sarà addetto il lavoratore.

Il Dlgs, in considerazione che ogni commissione provvede alla certificazione sulla base di un proprio regolamento, si limita a stabilire i seguenti principi procedurali di base:

l'inizio del procedimento deve essere comunicato alla DPL che provvede a inoltrare la comunicazione alle autorità pubbliche nei confronti delle quali l'atto di certificazione è destinato a produrre effetti;

il procedimento di certificazione deve concludersi entro il termine di giorni 30 (termine ordinatorio);

l'atto di certificazione deve contenere esplicita menzione degli effetti civili, amministrativi, previdenziali o fiscali, in relazione ai quali le parti richiedono la certificazione;

l'atto di certificazione deve essere motivato e contenere il termine e l'autorità cui è possibile ricorrere.

I contratti di lavoro certificati e la relativa documentazione devono essere conservati presso le sedi della certificazione, per un periodo di almeno 5 anni a far data dalla loro scadenza.

La commissione svolge altresì una funzione di consulenza ed assistenza effettiva sia in relazione alla stipulazione del contratto di lavoro e del relativo programma negoziale sia in relazione alle modifiche dello stesso concordate in sede di attuazione del rapporto di lavoro, con particolare riferimento alla disponibilità dei diritto ed alla esatta qualificazione dei contratti di lavoro.

Ai sensi dell'art. 79 del Dlgs 276/03, la certificazione ha effetto non solo tra le parti del contratto di lavoro certificato, ma anche verso i terzi. Contro gli effetti dell'atto di certificazione è possibile proporre ricorso al giudice del lavoro competente, con la particolarità che il ricorso non interrompe l'operatività della certificazioni cui effetti permangono per tutta la durata del giudizio e fino ad una eventuale sentenza di accoglimento. Possono proporre ricorso sia le parti del contratto, sia i terzi nella cui sfera giuridica la certificazione produce effetto. I motivi dell'impugnativa sono tassativamente indicati dalla legge (art. 80). In particolare il ricorso può essere proposto: 1. per erronea qualificazione del contratto; 2. per vizio del consenso dell'atto di certificazione; 2. per difformità tra il programma negoziale certificato e la sua successiva e concreta attuazione.

L'esito del giudizio potrà essere una sentenza di rigetto o di accoglimento del ricorso. Nel primo caso il rapporto di lavoro permane tra le parti secondo la tipologia contrattuale certificata e restano impregiudicati gli effetti prodotti da tale contratto sin dalla sua stipulazione. In caso di accoglimento, la sentenza del giudice, che ha accertato l'erronea qualificazione del rapporto o la discordanza tra rapporto certificato e rapporto concretamente realizzato, fa sì che tra le parti si producano gli effetti del rapporto reale, in conformità al consolidato principio di prevalenza del rapporto fattuale sul nomen iuris. Tali effetti si producono: sin dall'inizio nel caso di erronea certificazione; dal momento in cui ha cominciato a verificarsi un comportamento discordante dal tipo contrattuale certificato.

È stabilita infine la competenza del TAR nella cui giurisdizione ha sede la commissione che ha certificato il contratto, per i ricorsi in caso di violazione del procedimento o per vizio o eccesso di potere.




Per l'apposizione del patto di prova al contratto di lavoro è previsto l'atto scritto che deve essere di data anteriore o, al massimo, contestuale alla costituzione del rapporto di lavoro e deve essere sottoscritto da entrambe le parti.

Trattasi di nullità parziale in quanto la clausola viziata è sostituita di diritto con le norme imperative violate.

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