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Leggi anche appunti:Esiti della ricercaESITI DELLA RICERCA 1 Le prescrizioni nella detenzione domiciliare |
ESITI DELLA RICERCA
Da un esame dei provvedimenti emessi dal Tribunale di Sorveglianza di Firenze - per me agevole in quanto addetta all'esecuzione dei provvedimenti medesimi - e dei provvedimenti emessi dal Giudice per le Indagini Preliminari del Tribunale di Firenze - la cui ricerca non è stata facile sia per motivi procedurali che per motivi di segretezza legati alla fase delle indagini preliminari - sono emesse con evidenza le differenti modalità esecutive delle due misure.
La detenzione domiciliare, benché un legislatore alquanto frettoloso l'abbia disciplinata sul modello della misura cautelare degli arresti domiciliari, con una norma di rinvio all'art. 284 c.p.p., si caratterizza per l'imposizione di prescrizioni meno rigide di quelle di norma imposte con i provvedimenti applicativi della misura custodiale.
Infatti nel leggere le ordinanze di sostituzione della custodia cautelare in carcere con quella degli arresti domiciliari ciò che ictu oculi colpisce è la formula spesso standard con cui si dispone la scarcerazione se non detenuto per altra causa: si autorizza l'interessato a recarsi personalmente e senza scorta, e per la via più breve e senza soste intermedie, presso l'abitazione e si impone allo stesso di non allontanarsene, gli si impone inoltre il divieto di comunicare anche a mezzo fax e telefono con persone diverse da quelle che con lui coabitano.
Questa dicevo è la modalità di ammissione più frequente agli arresti domiciliari, ciò non significa che in certi casi, per motivi di sicurezza, o per comprovate esigenze processuali la scarcerazione avvenga anche con scorta, sono ipotesi che però nella prassi sono abbastanza limitate, sia perché se ci sono questi presupposti difficilmente si concedono gli arresti sia perché anche il Ministero della Giustizia (con circolare prot. 501926 del 27 giugno 2001) da un lato richiama l'attenzione su quanto disposto appunto dall'art. 97 bis disp. att. c.p.p. (modalità di esecuzione del provvedimento che applica gli arresti domiciliari: in base al quale, il giudice può autorizzare l'imputato a raggiungere il luogo dell'arresto) dall'altro auspica una riduzioni delle movimentazioni coattive degli arrestati a domicilio a quelle realmente necessarie, questo al fine di permettere alla polizia penitenziaria, di dar corso con più puntualità alle meno numerose traduzioni che sarebbero richieste.
Anche sul fronte dell'esecuzione della pena, devo dire che il Tribunale di Sorveglianza, molto raramente, ancor più che nella fase cautelare, dispone la scarcerazione con scorta, certe volte subordina l'esecuzione della detenzione domiciliare all'accompagnamento del detenuto in comunità terapeutiche da parte di personale volontario, o da parte di personale della comunità ma in questi casi si tratta di condannati tossicodipendenti, per cui le regole di gestione delle misure tendono ad uniformarsi sia nella fase delle indagini che in quella dell'esecuzione.
Per questa categoria di detenuti o di indagati/imputati sono previste norme particolari, a tutela della loro condizione e finalizzate a favorire l'opportunità di disintossicazione, dal T.U. in materia di stupefacenti ( D.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309).
Durante le indagini preliminari ma anche durante il processo, non può essere disposta la custodia cautelare in carcere, salvo che sussistano esigenze cautelari di eccezionale rilevanza, nei confronti di tossicodipendente che abbia in corso un programma terapeutico di recupero presso i servizi pubblici o strutture autorizzate. Al fine di impedire anche la temporanea traduzione in carcere del tossico-dipendente che frequenta un programma di disintossicazione, causata dall'arresto di polizia giudiziaria, il pubblico ministero può avvalersi dell'art. 386, 5° comma c.p.p. per cui può disporre che l'arrestato o il fermato sia custodito in uno dei luoghi indicati nel comma 1 dell'art. 284 c.p.p. (propria abitazione o altro luogo di privata dimora ovvero un luogo pubblico di cura o di assistenza). Risulta che una tale prassi sia seguita dalla Procura della Repubblica di Milano mentre che non lo sia affatto dalla Procura della Repubblica di Firenze.
Sul versante dell'esecuzione, troviamo norme di favore previste sia dall'art. 90 che dall'art. 94 T.U. stupefacenti, che rispettivamente consistono o in un affidamento in prova terapeutico o in una sospensione pena per cinque anni, dopo i quali, se l'interessato ha attuato il programma terapeutico e non ha commesso un delitto non colposo punibile con la sola reclusione, la pena e ogni altro effetto penale si estingue.
Quando gli arresti domiciliari sono concessi ad un tossicodipendente per andare in comunità, l'obbligo principale consiste nel permanere nella sede della comunità, in questi casi possono essere richieste autorizzazioni per uscite di gruppo, facenti parte di un percorso riabilitativo, che vengono solitamente accolte anche perché il personale delle comunità è generalmente molto scrupoloso e preciso nel fare le richieste, sia sollecito a dare assistenza e fornire i controlli adeguati nei singoli casi concreti.
La detenzione domiciliare piuttosto raramente viene concessa presso una comunità, nella quale ipotesi si preferisce concedere l'affidamento, anche perché non tutte le comunità sono disponibili ad accogliere soggetti in detenzione domiciliare a causa dei controlli cui sono sottoposti i condannati da parte della polizia, le comunità non sono favorevoli alla presenza della polizia che può turbare lo svolgimento delle attività.
Così spesso accade che soggetti portatori di problematiche di tossicodipendenza abbiano la detenzione domiciliare nella propria abitazione, con la prescrizione di seguire programmi diurni presso i S.E.R.T..
Per quanto attiene invece alla minuziosa previsione della modalità esecutiva dell'autorizzazione a recarsi personalmente presso l'abitazione, "per la via più breve e senza soste intermedie", devo dire che non c'è riscontro nelle ordinanze di detenzione domiciliare.
Analogamente nei provvedimenti di ammissione alla misura alternativa assai raramente si impone al condannato il divieto di comunicare anche a mezzo di telefono, fax o anche via e.mail con persone diverse dai conviventi, questo perché, eccetto il caso dell'art. 47 ter 1° comma ter, la detenzione domiciliare è pur sempre un beneficio che viene concesso tenendo presente il leit-motiv che ne è alla base, cioè il fine della risocializzazione del condannato, fine che con l'isolamento dalla società civile è più difficile realizzare.
Per quanto attiene alla possibilità di svolgere un'attività lavorativa ho notato che nelle ordinanze di ammissione agli arresti domiciliari il giudice quasi mai autorizza subito allo svolgimento di tale attività, ma solo dopo una richiesta successiva da parte dell'interessato o del difensore, (motivata da situazioni di necessità economica e dettagliata per quanto attiene alla ditta, la sede di lavoro, gli orari, i percorsi) il G.I.P. autorizza l'interessato ad assentarsi dal luogo di arresto per esercitare l'attività lavorativa.
Questo però non avviene sempre, certe volte il giudice per motivi sempre legati ad esigenze di sicurezza o esigenze cautelari può negare tale autorizzazione, come può negarla, ma in questo caso la motivazione risulta più difficile, quando non ravvisa la sussistenza di uno stato di assoluta indigenza. Dicevo che in questa seconda ipotesi la motivazione diventa per il giudice più difficile perché, come abbiamo già visto, la situazione di assoluta indigenza è un concetto in evoluzione anche secondo la Suprema Corte, inoltre è anche un concetto relativo perché come è noto il tenore di vita di una persona e della sua famiglia si adegua a quelle che sono le sue risorse economiche.
Sotto questo profilo la divergenza fra quanto dispongono le prescrizioni degli arresti domiciliari e le prescrizioni della detenzione domiciliare è massima.
Il Tribunale di Sorveglianza, eccetto casi di detenzione domiciliare sostitutiva del differimento pena (nella quale ipotesi normalmente è l'interessato che non può lavorare per motivi di salute), valuta la possibilità di lavoro come un elemento in più a favore della concessione del beneficio. Infatti, partendo dal presupposto che la misura, oltre che a tutelare determinati status personali, deve servire al recupero del condannato, - il lavoro viene infatti considerato come uno strumento molto efficace per la rieducazione, una componente essenziale del trattamento rieducativo (art. 15 O.P.) - il Tribunale di Sorveglianza non solo autorizza il condannato ad allontanarsi dal luogo di esecuzione della misura alternativa per svolgere una attività lavorativa pur in mancanza del rigido presupposto "dell'assoluta indigenza", ma considera favorevolmente tale possibilità, come strumento di individualizzazione dell'esecuzione della pena.
Come abbiamo già detto a proposito del regime della misura degli arresti domiciliari, anche la Corte Costituzionale sul punto è stata molto chiara ed esaustiva: fra le due misure, apparentemente uguali, c'è una differenza sostanziale, solo nella detenzione domiciliare si deve assicurare l'effettiva attuazione della finalità di cui all'art. 27, 3° comma Costituzione, per questo motivo la possibilità per il condannato di svolgere una attività lavorativa si configura come un elemento essenziale del contenuto della misura.
La Corte Costituzionale nel dichiarare manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale concernente le limitate possibilità che l'imputato agli arresti domiciliari ha di essere autorizzato a svolgere attività lavorativa fuori dal suo domicilio, dettate dall'art. 284, 3° comma c.p.p. per violazione degli art. 1; 2; 3; 4; 13, 2° comma; 27 3° comma; 35 Costituzione, ha centrato l'essenza delle due misure, da cui poi discendono e si spiegano razionalmente e logicamente le differenze e l'interesse preminente, riconosciuto dalla legge, al rispetto della misura cautelare.
E' soprattutto con riguardo all'ipotesi di detenzione domiciliare prevista dall'art. 47 ter 1° comma bis O.P. che il Tribunale di sorveglianza ha necessità di riempirla di quei contenuti che il riferimento all'art. 284 c.p.p. sembra ostacolare.
Uno di questi sembra essere proprio l'imposizione di prescrizioni relative ad attività di carattere rieducativo come il lavoro.
Sembra irragionevole e sembra porsi fuori non solo dalla giurisprudenza costituzionale sulla flessibilità della pena a cui ho fatto cenno nell'introduzione, ma sembra anche intraprendere una strada diversa da quella suggerita dalla recente ordinanza della Corte Costituzionale (n° 532 del 18 dicembre 2002) richiedere per questa nuova ipotesi di detenzione domiciliare esclusivamente l'idoneità ad evitare la reiterazione dei reati e l'impossibilità di concedere l'affidamento e, quindi una valutazione di pericolosità sociale.
Da tener presente c'è da un lato che il limite di pena fissato in due anni fa si che il suo ambito di applicazione risulta comunque di enorme portata, dall'altro il Tribunale di Sorveglianza non può, per sua natura arrivare a forme di penalizzazione avvilenti e vessatorie.
E' per questo motivo che qualora sia accertata o almeno presumibile la disponibilità del soggetto a svolgere attività lavorativa, non sarà certo la magistratura di sorveglianza, eccetto casi eccezionali, ad impedire che ciò avvenga, ma anzi mi è capitato di vedere fra le prescrizioni quella in base alla quale l'interessato si deve attivare per reperire idonea attività di lavoro sulla cui base chiedere poi al Magistrato di Sorveglianza la modifica degli orari in cui può lasciare l'abitazione.
Sempre l'art. 284 3° comma c.p.p. prevede che il giudice possa autorizzare l'indagato/imputato ad assentarsi nel corso della giornata dal luogo di arresto per il tempo strettamente necessario, quando non può altrimenti provvedere alle sue indispensabili esigenze di vita.
Devo dire che dall'esame dei provvedimenti che ho consultato, il Giudice delle Indagini Preliminari si attiene scrupolosamente a tale criterio così stretto, non prevedendo mai, a priori, la indispensabile esigenza di vita. Infatti solo a seguito di successive richieste, ben motivate, il giudice autorizza delle uscite finalizzate ad esigenze di vita più o meno indispensabili.
Tali autorizzazioni possono concretizzarsi in un permesso per andare ad un colloquio di lavoro, per andare in Questura a rinnovare il permesso di soggiorno, perché solo con questo viene prestata l'assistenza medica, per recarsi a fare visite medico-diagnostiche, ma anche per recarsi allo studio legale del difensore o per partecipare ad una partita di calcio nel caso di tossicodipendente.
Diversamente, nel caso di misura alternativa, il Tribunale di Sorveglianza, dà per scontato che ci siano delle indispensabili esigenze di vita, cioè fa una valutazione aprioristica, individua infatti regolarmente una fascia oraria in cui il detenuto domiciliare può assentarsi dal luogo in cui si svolge la misura e provvedere a quelle che sono le sue esigenze indispensabili di vita, anche semplicemente fare una passeggiata.
Torno a ripetere che a questa previsione, direi di routine, può fare eccezione la concessione della detenzione domiciliare per scopi essenzialmente umanitari (art. 47 ter 1° comma ter), nel qual caso invece l'ordinanza può prevedere anche prescrizioni particolarmente rigide, come il divieto di frequentare pregiudicati e comunque persone diverse dai familiari e da quelle che lo assistono.
Ci sono dei detenuti domiciliari ammessi a tale misura alternativa in base all'art. 47 ter 1° comma ter per problemi di salute che rendevano incompatibile lo stato detentivo con la malattia, che a causa soprattutto del loro grado di pericolosità sociale non hanno avuto il differimento della pena e soggiacciono a delle prescrizioni esecutive ritagliate sul 1° e 2° comma dell'art. 284 c.p.p.. In questa ipotesi l'unica differenza che emerge con riferimento agli arresti domiciliari è che nel primo caso il soggetto, in relazione alle proprie indispensabili esigenze di vita, può recarsi presso ambulatori, servizi sanitari e ospedalieri per interventi, accertamenti diagnostici e cure previo avviso anche telefonico agli organi di polizia incaricati della vigilanza e con obbligo di presentare, a richiesta di questi, certificazione idonea a comprovare lo spostamento effettuato.
Nell'ipotesi degli arresti domiciliari, l'allontanamento dalla propria abitazione anche per motivazioni di questo genere, deve essere sempre preventivamente autorizzato dal giudice.
Inoltre, anche nel caso di detenzione domiciliare cosiddetta "umanitaria", generalmente vengono concesse due ore al giorno in cui il detenuto può allontanarsi dalla propria abitazione, questo anche perché, in considerazione che la pena non può essere contraria al senso di umanità, pure il detenuto in carcere ha diritto a permanere almeno per due ore al giorno all'aria aperta.
Anche al di fuori dell'ipotesi di detenzione domiciliare "umanitaria" il condannato può recarsi, solo certe volte previo avviso all'autorità di polizia incaricata della vigilanza, presso ambulatori, servizi sanitari ed ospedalieri per interventi, accertamenti diagnostici e cure; se si renderà necessario il suo ricovero in tali luoghi, il luogo del ricovero diverrà quello di detenzione domiciliare e l'interessato ne darà sollecito avviso agli organi di Servizio Sociale e di Polizia competenti.
E' evidente quindi un trattamento assai diverso per chi si trova ristretto agli arresti domiciliari rispetto a chi si trova in espiazione della pena nella forma della detenzione domiciliare, tale diversità come si è appena detto si giustifica con la diversa natura delle due misure, una cautelare, l'altra alternativa e di conseguenza con le diverse finalità che si propongono: da una parte salvaguardare esclusivamente i pericula libertatis previsti dalla legge, dall'altra realizzare il principio dell'effettività della pena avendo però presente la finalità di rieducazione, in entrambi i casi poi tutelare il diritto alla salute.
Alla luce di quanto abbiamo detto, appare del tutto superfluo ribadire che il richiamo che l'art. 47 ter 4° comma O.P. fa all'art. 284 c.p.p. per quanto attiene alle modalità esecutive, è un richiamo quantomeno frettoloso e prima facie denso di problematiche interpretative.
Non a caso infatti, è proprio un'impugnazione in itinere, forse causata anche da un numero sempre maggiore di detenuti domiciliari, (si pensi che il Tribunale di Sorveglianza di Firenze, dopo la legge Simeone, è passato da 165 condannati ammessi alla detenzione domiciliare nel 1998 a 407 nel 2002) quella della Procura Generale di Firenze, esercitante le funzioni di pubblico ministero nelle udienze del Tribunale di Sorveglianza, che si è concretizzata in una decina di ricorsi per Cassazione contro i provvedimenti di ammissione alla detenzione domiciliare lamentando proprio la violazione di legge per quanto attiene alle modalità esecutive in riferimento all'art. 284 3° comma c.p.p..
I motivi dei ricorsi consistono nell'evidenziare il difetto di mancata motivazione in merito alle concrete e specifiche necessità di allontanarsi dal luogo di detenzione, non potendo ritenere sufficiente, perché del tutto generico, il richiamo a non meglio precisate "indispensabili esigenze di vita".
In definitiva la Procura Generale, partendo dal presupposto che lo status personale del detenuto domiciliare è assimilabile a quello dell'indagato/imputato sottoposto agli arresti domiciliari, ritiene che qualsiasi autorizzazione il giudice possa dare, deve essere improntata a criteri di particolare rigore di cui deve essere dato conto nella motivazione del relativo provvedimento (C. Cass. n. 03649 del 202.2000).
Con questi ricorsi per Cassazione, che ancora non sappiamo che esito avranno nello specifico, si è messo il dito su quello che è il vero nodo del problema.
Sicuramente il Tribunale di sorveglianza di Firenze nelle proprie ordinanze non motiva abbastanza in merito alle concrete e specifiche necessità cui il detenuto domiciliare non può provvedere se non allontanandosi dal luogo della detenzione - ciò è anche dovuto alle maxi-udienze (non raramente, con cento e più provvedimenti ciascuna) che comportano motivazioni stereotipate e non individualizzate - ma ciò che viene da chiedersi è se il collegio nel concedere tale beneficio deve motivarne le modalità esecutive in melius, secondo lo stretto richiamo che l'art. 47 ter O.P. fa all'art. 284 c.p.p. o piuttosto considerando che trattandosi di espiazione di pena a seguito di una condanna definitiva, deve tener presente che la misura non può consistere in un trattamento contrario al senso di umanità ma che anzi deve tendere alla rieducazione del condannato, come recita l'art. 27 3° comma Cost..
E' per questo motivo che, difronte ad un richiamo così preciso e così limitante come l'art. 284 c.p.p., deve intervenire la giurisprudenza di merito, che facendo tesoro dei principi espressi nella citata ordinanza della Corte Costituzionale del 18 dicembre 2002 n. 532 deve motivare il diverso trattamento del detenuto domiciliare per quanto attiene alle prescrizioni della misura rispetto a colui che si trova agli arresti domiciliari, sottolineando che trattandosi di esecuzione della pena, per giunta in misura alternativa alla detenzione, deve ispirarsi al fine della rieducazione e non essere improntata a criteri di particolare rigore.
Corollario di quanto abbiamo finora detto sono anche le conseguenze sulla frequenza e sull'ampiezza delle aperture della detenzione domiciliare.
Da un'osservazione degli atti dell'esecuzione della misura presso l'Ufficio di Sorveglianza emerge infatti l'estrema flessibilità della detenzione domiciliare.
L'interessato tramite il Centro di Servizio Sociale Adulti, invia al magistrato di sorveglianza una miriade di domande di autorizzazioni temporanee (certe volte per la verità gli interessati danno l'impressione che si siano dimenticati di essere pur sempre detenuti) per i motivi più vari, di lavoro, di studio, ma anche di divertimento o di svago, che chiedono sostanzialmente di posticipare l'orario di rientro e di allontanarsi temporaneamente dal luogo di detenzione.
Il magistrato di sorveglianza, decide autonomamente, se accogliere la domanda, se respingerla, o se accoglierla solo in parte, il tutto in un breve lasso di tempo. Una tale duttilità della misura non è riscontrabile nell'esecuzione degli arresti domiciliari, nè dal punto di vista procedurale - il giudice per le indagini preliminari infatti deve sempre chiedere il parere al pubblico ministero - nè dal punto di vista del merito della decisione e ciò non può essere che così sia perché lo prevede l'art. 284 3° comma c.p.p. sia perché gli arresti domiciliari devono salvaguardare le esigenze cautelari.
Fra le disposizioni della detenzione domiciliare ce n'è una molto significativa, è quella che dispone la trasmissione del provvedimento al Centro di Servizio Sociale Adulti, perché - anche se nell'ordinanza spesso non c'è una vera e propria prescrizione per il detenuto domiciliare di prendere contatti con il Centro - provveda agli opportuni interventi di sostegno.
Le disposizioni per i C.S.S.A sugli interventi di sostegno sono esplicitate solo in alcuni casi più particolari, altrimenti la formula piuttosto vaga non può che rinviare a quel tipo di supporto previsto dall'art. 118 del Regolamento di esecuzione dell'O.P. (D.P.R. 30 giugno 2000, n. 230).
Un adempimento un po' particolare mi è parso quello che faceva carico al CSSA di assistere una persona ultra settantenne, con numerose patologie e in una situazione di estremo disagio sociale e solitudine, anche per quanto riguarda le incombenze e gli adempimenti relativi alla sottoscrizione delle prescrizioni. Tutto ciò naturalmente al fine di spiegare le modalità di attuazione della detenzione domiciliare che prende avvio dalla sottoscrizione delle prescrizioni difronte all'autorità di polizia incaricata della notifica, poiché nel caso specifico l'interessato mostrava di non comprendere gli oneri da compiere per beneficiare della misura.
Il rapporto necessario con il Centro di Servizio Sociale rientra nello scopo rieducativo che ha la detenzione domiciliare.
Oltre alle fin ora descritte modalità esecutive della detenzione domiciliare, possono esserci altre prescrizioni specifiche relative a singoli casi concreti, come adempiere agli obblighi di assistenza familiare, sottoporsi al controllo dei liquidi organici presso il S.E.R.T competente per territorio, proseguire rapporti terapeutici con istituti di psicologia di gruppo o con centri alcoologici, anche con l'obbligo della valutazione settimanale della alcoolemia, fare opera di volontariato.
Una precisazione per quanto attiene al luogo in cui può essere espiata la detenzione domiciliare è quella che riguarda i nomadi o i giostrai, in questi casi l'ordinanza riporta come luogo di detenzione domiciliare l'indirizzo del campo nomadi, del campo sosta o dell'area giostrai.
Le modalità esecutive finora descritte sono riferibili alle diverse tipologie di detenzione domiciliare, non evidenziandosi nei provvedimenti prescrizioni diverse o meno ampie legate a particolari categorie di soggetti se non in relazione al luogo di svolgimento della misura; di solito quando questo è una comunità terapeutica o altro luogo pubblico di cura, assistenza o accoglienza non sono previste le autorizzazioni a lasciare il luogo della detenzione per motivi di lavoro o per indispensabili esigenze di vita.
L'articolazione più ampia delle prescrizioni della detenzione domiciliare rispetto agli arresti domiciliari è giustificata dalla collocazione di questa misura tra le misure alternative alla pena detentiva.
L'idea rieducativa della pena racchiusa nell'art. 27, 3° comma Costituzione, attuata con la legge di riforma dall'ordinamento penitenziario, ha trasformato radicalmente l'esecuzione penale.
Prima di allora la pena detentiva aveva una finalità essenzialmente retributiva e general-preventiva.
L'obiettivo perseguito attraverso la riforma dell'ordinamento penitenziario è quello della modificazione in itinere del trattamento punitivo deciso con la sentenza di condanna, solo osservando questo principio di flessibilità della pena, la pena detentiva ma anche le misure extra moenia sono strumenti sanzionatori costituzionalmente legittimi perché proiettati verso il recupero dei responsabili dei fatti delittuosi.
Anche la detenzione domiciliare quindi non può prescindere da questa funzione, non può ridursi al solo controllo, privo di un qualsiasi contenuto di sostegno o di un qualche percorso di socializzazione, come invece può avvenire per gli arresti domiciliari.
Un detenuto domiciliare solo controllato è in una situazione di sostanziale solitudine e d'impoverimento dei rapporti sociali, che potrebbe far preferire il carcere, soprattutto se pensiamo non solo ai dilatati limiti di pena e di ammissibilità, ma all'affermazione della detenzione domiciliare prevista dall'art. 47 ter 1° comma bis O.P., che potrebbe configurarsi come ipotesi sostanzialmente nuova, in quanto solo il regime è uguale a quella precedentemente prevista ma richiede essenzialmente una valutazione di pericolosità sociale.
La finalità rieducativa della pena comporta il ripristino dei rapporti con gli strumenti e gli ambiti sociali, cioè con la famiglia, il lavoro, lo studio, o altro impegno che comunque sia di aiuto al condannato.
La flessibilità della pena di cui la detenzione domiciliare è espressione, non significa non rispettare il diritto del condannato a restare se stesso, a non avere intromissioni all'interno della propria personalità e della propria vita - questa visione ritiene come valore centrale quello della libertà individuale - ma significa offrire al condannato delle opportunità di rifarsi una vita migliore per non essere più emarginato e costretto a mantenere la sua relazione con gli altri in termini conflittuali, non ha certo finalità correzionali, manipolatorie o di palingenesi morale.[1]
Valorizzare quindi la funzione rieducativa della detenzione domiciliare, riempiendola di contenuti che facendo semplicemente un'interpretazione letterale delle norme che la disciplinano potrebbe anche non avere, sembra un'operazione sia conforme alla Costituzione che allo spirito dell'intero ordinamento penitenziario, sia in linea con la recente ordinanza della Corte Costituzionale del 18 dicembre 2002 n. 532.
Detto ciò non si può non avvertire la detenzione domiciliare surrogatoria dell'affidamento, "come inadeguata" per i condannati per reati di criminalità economica, i cosiddetti "colletti bianchi", e comunque per i soggetti più abbienti - per i quali potrebbe anche esservi un'applicazione più razionale di quella attuale della pena pecuniaria - ma che invece ne possono essere i fruitori per eccellenza presentandosi come una remissione di pena mascherata.
La detenzione domiciliare potrebbe diventare privilegio delle classi più forti restaurando lo stereotipo del delinquente come appartenente a classi disagiate (secondo l'equazione povertà = pericolosità sociale) poiché porta ad escluderne la concessione ai soggetti stranieri in particolare agli immigrati, raramente in possesso di un domicilio controllabile e ancor meno di riferimenti familiari positivi e a sconsigliarne la concessione a soggetti emarginati, fragili e sprovveduti.
Mentre è proprio per questa tipologia di condannati che la detenzione domiciliare va riempita di contenuti risocializzanti e affiancata da interventi di sostegno, poiché in una certa misura esprimono una delinquenza in qualche modo legata alla società, sulla quale quindi grava una parte di responsabilità per il reato.
L'idea della corresponsabilità sociale nel reato insieme a quella che nessuno può dire che il delinquente resta delinquente per sempre, credo che sia alla base della finalità rieducativa della pena che si esprime attraverso una pena non inflessibile, immodificabile, ma all'opposto modificabile in relazione al percorso di risocializzazione compiuto da un soggetto.
"La flessibilità della pena non viola l'eguaglianza, perché pensa proprio ad attuare quella eguaglianza voluta dal cpv dell'art. 3 della Costituzione, che impegna a 'rimuovere gli ostacoli d'ordine economico e sociale della persona umana'. E' questa l'eguaglianza a cui pensa la Costituzione e la flessibilità della pena serve a garantirla".[2]
L'attenzione che il legislatore, che la giurisprudenza, devono avere consiste nel far si che questa misura alternativa non si riduca ad una misura né controllata né assistita, perché se la sola afflizione non produce comprensione della colpa ciò non
la produce nemmeno una misura priva di contenuti sanzionatori reali e priva di contenuti risocializzanti, cioè una sanzione meramente simbolica.
Al contrario una detenzione domiciliare "vuota", produce dinamiche sociali che esprimono un bisogno di punizione, una domanda di punizione, che fa si che la pena recuperi inesorabilmente la sola dimensione afflittiva, togliendo spazio a finalità diverse.
A tal proposito si parla di nuovi processi di ri-carcerazione che legittimano la pena detentiva non "dall'alto", cioè da movimenti culturali e politici minoritari, ma "dal basso".
"Si sta diffondendo oggi una cultura post-moderna e populista della pena, che pone, forse per la prima volta, la questione di una penalità socialmente condivisa dal basso".[3]
Ciò che conta allora è fare si che l'esecuzione della pena anche nella forma della detenzione domiciliare svolga tutte le sue funzioni storiche, retributiva, general-preventiva, rieducativa, in modo che non si passi da una filosofia della
penalità moderna fondata su una "economia della parsimonia" (pena minima) ad una filosofia della penalità post-moderna fondata su una "economia dell'eccesso" ( pena espressiva) - che in un certo senso richiama la visione della pena pre-moderna con tutta la sua ostentazione ed esemplarità - poiché più penalità non produce più sicurezza dalla criminalità.
La forma classica della detenzione domiciliare, quella introdotta ex novo nel 1986 quale equivalente in sede esecutiva degli arresti domiciliari, ha subito oramai modificazioni e ampliamenti tali che la misura da beneficio per pochi è diventata una nuova specie di pena.
La volontà di valorizzare l'attitudine della detenzione domiciliare a sostituire la pena detentiva è la causa delle manipolazioni cui è stata sottoposta la sua disciplina.
Oggi pertanto la detenzione domiciliare si offre in una tipologia variegata nella quale sicuramente è facile vedere sia l'originaria ispirazione umanitaria sia una accentuazione della funzione deflattiva. Il sovraffollamento delle carceri è stato sicuramente la ratio legis delle innovazioni introdotte con la legge Simeone-Saraceni del 1998, comprese quelle riguardanti la detenzione domiciliare.
Ciò che con questo lavoro mi sono proposta di fare è riflettere innanzitutto sugli aspetti giuridici della detenzione domiciliare in confronto con gli arresti domiciliari per analizzarne poi anche gli aspetti sociologici scaturenti dall'esecuzione delle due misure. Da un punto di vista dell'inquadramento giuridico, gli arresti domiciliari non essendo espiazione di pena definitiva si differenziano nettamente dalla detenzione domiciliare, in quanto sono volti solo a neutralizzare i pericula libertatis.
Quando invece ci addentriamo nel contenuto giuridico della misura non possiamo fare a meno di notare come le due misure abbiano uno stesso nucleo, uno stesso contenuto prescrittivo consistente nel divieto di allontanarsi dalla propria abitazione o da altro luogo di privata dimora ovvero da un luogo pubblico di cura o di assistenza.
Oltre a questa prescrizione fondamentale le due misure sembrano avere in comune anche le altre prescrizioni relative alle modalità esecutive, calibrate sugli stessi criteri restrittivi o ampliativi.
Nonostante però questa innegabile somiglianza giuridica, cui certe volte si aggiunge la vocazione di entrambi gli istituti a tutelare particolari situazioni soggettive per motivi assistenziali e umanitari, in concreto le due misure si articolano in maniera molto diversa.
Come abbiamo visto nell'ultimo capitolo, le modalità esecutive della detenzione domiciliare prevedono di norma degli spazi di libertà molto più ampi rispetto agli arresti domiciliari, non rilevando neppure, nella quasi totalità dei casi, l'ipotesi specifica di detenzione domiciliare.
E' quindi sotto l'aspetto sociologico che le due misure hanno un impatto molto diverso con la realtà, con il concreto realizzarsi contraddicendo se vogliamo la lettera della legge.
Di fronte a tutto questo dobbiamo quindi cercare di dare una spiegazione giuridico-sistematica, quella proposta attraverso questo lavoro consiste nel valorizzare la finalità rieducativa della detenzione domiciliare.
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