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Diritti degli animali
La bontà nei confronti degli animali è diventata una norma sociale solo in tempi recenti, negli ultimi centocinquanta o duecento anni, e soltanto in una parte del mondo. Ed è a ragione che si può collegare questa parte della storia alla storia dei diritti umani, dato che l'interesse per gli animali, storicamente parlando, è germogliato da interessi filantropici più ampi-nei confronti degli schiavi e dei bambini, in particolare.
Bisogna, perciò, innanzitutto intendersi sul significato da attribuire alla parola "diritti". Secondo la prospettiva utilitaristica e simpatetica i diritti sono l'altra faccia dei doveri. Se esiste il dovere di non fare soffrire inutilmente gli esseri sensibili, si può dire che gli esseri sensibili godono del diritto a non essere fatti soffrire. Alla prospettiva di stampo utilitaristico si contrappone quella di tipo giusnaturalistico, che postula l'esistenza di diritti naturali degli animali; e poi, in un progressivo allargamento della coscienza ecologica, anche delle piante, e dell'ecosistema in genere. Ma, a questo punto, è importante elaborare una definizione di "valore in sé", che come tale andrebbe rispettato in maniera assoluta. Tom Regan è autore di uno dei tentativi più interessanti in tale senso; secondo Regan possedere valore intrinseco significa essere in grado di condurre una vita che può essere migliore o peggiore per il soggetto stesso che la vive, in modo del tutto indipendente dalle valutazioni altrui. I sostenitori della teoria del valore intrinseco affermano che solo così si riesce a difendere a fondo gli animali, senza le ineliminabili limitazioni della prospettiva utilitaristica e simpatetica, basate sulle valutazioni umane, che sono pur sempre soggettive e quindi passibili di errori e di cambiamenti. Il valore intrinseco è invece un elemento oggettivo peculiare di ogni singolo vivente, e costituisce una barriera di fronte alle pretese altrui: è una specie di guscio protettivo attorno a ciascuno che non può venire infranto se non in casi assolutamente eccezionali. Anche la posizione giusnaturalista considera, quindi, gli animali come soggetti morali, e anzi come titolari di diritti in quanto qualità oggettivamente esistenti.
Ma quali sono questi diritti? Per forza di cose si deve trattare di una piattaforma minimale di diritti, relativi a quelle caratteristiche che gli animali hanno in comune con l'uomo. In primo luogo il diritto a non essere fatti soffrire: e qui si apre la grossa piaga della vivisezione, o sperimentazione scientifica. Basti pensare che il numero complessivo annuo su scala mondiale degli animali di vario tipo, dalle cavie ai ratti, ai cani, ai gatti, alle scimmie e altri ancora, si aggira sugli ottocento, novecento milioni di esemplari. Il minimo che si dovrebbe fare da un punto di vista etico è una riduzione massiccia del numero degli esperimenti nonché la loro progressiva sostituzione con i cosiddetti metodi alternativi, vale a dire simulazioni su computer e test eseguiti su tessuti cellulari in vitro. Appaiono assolutamente privi di necessità anche tutti gli esperimenti compiuti nel campo della cosmesi e dell'industria bellica. L'altro problema enorme è rappresentato dagli allevamenti intensivi. Centinai e centinaia di milioni di animali vengono allevati e continuamente sostituiti per procurarci la carne, il latte, le uova: e di solito vengono tenuti in condizioni inumane. Basti pensare alle galline ovaiole, esposte ventiquattro ore su ventiquattro all'illuminazione artificiale, e che hanno a disposizione uno spazio per ciascuna di 450 cm2, cioè più o meno l'equivalente di una pagina di un libro. Ulteriori punti dolenti riguardano l'impiego di animali in spettacoli cruenti, l'esercizio della caccia, l'abbandono degli animali domestici. Il secondo diritto è quello alla vita. Per gli aderenti alle posizioni basate sul dovere di non provocare sofferenza, il diritto alla vita degli animali si presenta più complesso da dimostrare, dato che la morte può venire data eutanasicamente. Per i più non è un male che essi vengano allevati e uccisi per scopi alimentari. Secondo Bentham gli animali non sono in grado di prefigurarsi la morte, e quella che ricevono dalle mani dell'uomo è, o per lo meno potrebbe essere, più pietosa della morte cui andrebbero incontro in natura. Al cospetto della morte, nella mente umana si verifica un crollo dell'immaginazione, e quel crollo dell'immaginazione è alla base della nostra paura della morte. Quella paura non esiste e non può esistere per gli animali, dato che lo sforzo per comprendere l'estinzione, e il relativo fallimento, il fallimento nell'immaginarla, semplicemente non hanno avuto luogo. Per un animale la morte è solo qualcosa che succede, qualcosa contro cui ci può essere una rivolta dell'organismo ma non una rivolta dell'anima. È stato però obiettato , in primo luogo, che anche se si allevano e si macellano gli animali senza farli soffrire, tuttavia li si depriva della loro vita naturale; e, in secondo luogo, che con i metodi attuali di allevamento e di macellazione su larghissima scala, il cui obiettivo principale è quello di ridurre i costi e aumentare i profitti, appare praticamente impossibile non far soffrire gli animali. Il diritto alla vita degli animali coinvolge il grosso interrogativo sulla liceità del mangiar carne. Nel 1847, a Londra, fu fondata la prima Vegetarian Society; e poiché il suo statuto permetteva di cibarsi di uova e di latte il termine "vegetarismo" ricoprì e ricopre anche questi prodotti. In seguito coloro che invece intendevano cibarsi esclusivamente di vegetali coniarono il termine "vegan esimo". I vegani sostengono la loro posizione soprattutto sulla base del fatto che, cui si è già accennato, che la produzione di uova, latticini e alimenti animali in genere molto raramente è pain-free per gli animali. Il terzo diritto è quello alla libertà, che coincide con il problema degli zoo e dei circhi. Gli animali selvatici hanno un interesse per la libertà tale da superare i vantaggi che derivano loro dal trovar cibo e riparo e dall'essere accuditi dall'uomo. Anche le galline, che chissà perché sono ritenute tra gli animali più stupidi, messe di fronte a due uscite, una delle quali porta ad un recinto comodo e pieno di cibo e l'altra a uno spazio aperto, hanno sempre, infallibilmente scelto la seconda alternativa. L'isolamento in carcere ci fa capire che la libertà del corpo di muoversi nello spazio coincide con il punto con cui la ragione può danneggiare in modo più doloroso ed efficace un altro essere. E infatti gli effetti più devastanti li riscontriamo sulle creature meno idonee a sopportare l'isolamento, le creature che si conformano dimeno alla raffigurazione che Cartesio dà dell'anima come un pisello imprigionato in un baccello, per la quale un'ulteriore prigionia è irrilevante: negli zoo, nei laboratori, negli istituti in cui non può esserci il posto per il flusso di gioia che deriva dal vivere non in o come un corpo, bensì semplicemente dall'essere creature incarnate in un corpo .
John Berger:<<In uno zoo un estraneo non può mai incontrare lo sguardo di un animale. Lo sguardo dell'animale ha tutt'al più un guizzo e poi passa oltre. Gli animali guardano lateralmente. Guardano ciecamente al di là. Scrutano meccanicamente. quello sguardo tra l'animale e l'uomo, che deve aver svolto un ruolo importante nello sviluppo della società umana, e con cui, in ogni caso, gli uomini hanno sempre vissuto fino a poco meno di un secolo fa, è ormai estinto>>,About looking,Pantheon, New York,1980,p.26.
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