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Concezione retributiva e concezione preventiva della pena, alcune riflessioni




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Concezione retributiva e concezione preventiva della pena, alcune riflessioni.


Con lo sviluppo delle moderne declinazioni del potere di punire, la nascita del sistema penitenziario porta con sé un complesso corredo di discorsi giustificativi, una pletora di concezioni che attribuiscono alla detenzione diverse qualità e diversi compiti.

Le concezioni teoriche che si focalizzano sulla funzione della prigione sono essenzialmente due: da un lato le teorie retributive della pena, anche dette assolute, e dall'altro le teorie preventive.

Le due correnti di pensiero intraprendono strade differenti per giustificare la necessità e l'efficacia della pratica detentiva: le teorie retributive incentrano la loro attenzione sul reato commesso e sul danno provocato e sostenendo il libero arbitrio come motore fondante della condotta umana, affidano alla prigione lo scopo di punire l'autore di tali crimini in quanto promotore di un danno, " si assume che ciascun atto criminoso produca un'alterazione a livello di un preteso equilibrio dei rapporti sociali, per cui l'inflizione di una sofferenza al reo è giustificata dall'esigenza di ripristinare tale equilibrio con una reazione di segno opposto"17. Si stabiliscono delle corrispondenze proporzionali fra il danno causato alla vittima ed il reato commesso dal colpevole e alla sofferenza prodotta succede la sofferenza inflitta, è l'individuo colpevole che merita moralmente una punizione per il male prodotto.

Le teorie preventive invece non si concentrano esclusivamente sull'autore del reato, ma sottolineano l'importanza dell'ambiente sociale nel determinare le condotte degli uomini, forti di una prospettiva più ampia, giustificano la detenzione come mezzo per evitare la diffusione di comportamenti considerati pericolosi, la detenzione diventa strumentale alla protezione dei rapporti sociali: durante il periodo di reclusione il colpevole, seguito dall'istituzione, deve compiere un percorso di riabilitazione individuale ed essere pronto al termine della pena ad un reinserimento nella società che lo ha condannato. A differenza delle teorie assolute che puntano a punire per punire il condannato e per questo possono essere considerate espressione di una concezione più arcaica della pena, le teorie preventive mirano ad alterare il futuro agire del colpevole, e a condizionare attraverso un sistema simbolico di deterrenza anche il comportamento del resto dei cittadini.

La pena agisce dunque sia a livello preventivo generale, influenzando la condotta dei cittadini, che a livello preventivo individuale occupandosi del singolo trasgressore.

A livello generale la detenzione agisce in negativo, cioè la sua minaccia deve intimidire e scoraggiare i cittadini dal commettere atti criminosi, in sostanza si sostiene che la minaccia dell'uso della forza associata alla commissione di comportamenti vietati riesca ad indurre nel singolo un timore della sanzione efficace perché basato sulla prevedibilità delle conseguenze delle proprie azioni ( vedi Ripoli, 2006, p. 24) ed in positivo, deve altresì rassicurare i cittadini sulla probità e auspicabilità del comportamento corretto all'interno dei limiti legali lo scopo è di migliorare la tendenza generale delle persone ad essere rispettose della legge (vedi Mathiesen, 2000, p. 78, traduzione mia) deve tendere a creare conformità nel rispetto delle leggi. A livello individuale invece la detenzione da un lato neutralizza per un certo periodo di tempo il trasgressore, lo esclude dal corpo sociale, lo neutralizza, in modo che non continui con l'azione criminale e con il cattivo esempio che ogni azione non punita suscita, individua come soluzione al problema della recidiva da parte del reo l'inibizione totale delle sue capacità d'azione,[.] manifesta un meccanismo di negazione del problema della criminalità che si esprime attraverso l'esigenza di allontanare, espellere i trasgressori dalla società più come portatori di contagio che come autori isolati di un atto violento o dannoso ( vedi Ripoli, 2006, p. 25) e dall'altro deve mettere il trasgressore in condizione di intraprendere un percorso di riqualificazione orientato al futuro reinserimento nella società: il periodo vissuto in reclusione deve mettere il colpevole di fronte a se stesso e alle sue responsabilità ed ottenere un mutamento nelle inclinazioni criminali, il carcere acquista dunque una dimensione riabilitativa.

Dopo aver brevemente esposto le teorie che spiegano secondo diverse prospettive la funzione della detenzione come pena da attribuire ai rami devianti del corpo sociale, ognuna con la propria declinazione di cosa un penitenziario debba essere, se l'attenzione debba essere incentrata sull'espiazione della pena e dunque un carcere strutturato per adempiere alla mera funzione punitiva come nelle teorie assolute della pena, o se debba essere un luogo dove la dignità del condannato abbia un peso e l'intento sia una riabilitazione di chi sconta la pena in un carcere meno custodialistico e più orientato alla rieducazione come nelle teorie preventive, vorrei adesso sottolineare un aspetto contraddittorio riguardo alla giustificazione della detenzione in termini di prevenzione generale, infatti mi sembra che la punizione non agisca come si pensa dovrebbe in termini preventivi ( vedi Mathiesen, 2000, pp. 75- 83) perché non raggiunge efficacemente il target di persone alle quali dovrebbe rivolgersi. A differenza delle teorie sulla devianza che attribuiscono le cause di queste azioni non conformi alla norma a motivazioni di stampo biologico, un uomo commette certe azioni a causa di una mancanza fisiologica riscontrabile in determinati tratti somatici ( vedi il lavoro di classificazione effettuato da Lombroso alla fine del XIX secolo), o a differenza delle teorie psicologiche che cercano le cause di tali atti devianti all'interno della sfera psicologica, nei moti interiori dell'inconscio e nelle tensioni psichiche, o in contrasto con il punto di vista sociologico di Merton e della sua teoria della privazione relativa, nella quale egli individua nella stratificazione sociale e nella diversa distribuzione di risorse legittime la causa che porta alcuni individui privi di tali strumenti a compiere azioni devianti per conseguire ugualmente le mete culturali di un determinato gruppo sociale, la prevenzione generale prende spunto da un approccio economico della natura umana: l'azione deviante è basata quindi su di una scelta razionale, l'uomo appunto in quanto animale razionale prima di commettere un crimine valuterà gli aspetti positivi e gli aspetti negativi della sua azione, il possibile guadagno e la possibile punizione ed in seguito a questa comparazione agirà di conseguenza. A mio parere questo approccio economico lineare non tiene però conto del fatto che, proprio perché l'uomo è un animale razionale, in situazione di difficoltà ed indigenza cercherà una soluzione che soddisfaccia le proprie esigenze fuori o dentro i limiti legali a seconda della sua posizione sociale e delle risorse disponibili, se l'uomo possiede le risorse per agire dentro la cornice legale agirà di conseguenza, se non le possiede intraprenderà un delitto che gli permetta di saziare le esigenze dalle quale è stato spinto, la prevenzione generale dunque se indirizzata verso le persone che rispettano la legge non raggiunge il suo obiettivo, in quanto esse non commettono crimini non per paura della punizione, ma per non averne necessità, al contrario le persone che non hanno la possibilità di sopravvivere legalmente agiranno in maniera criminosa nonostante l'incombenza della punizione.

Per quanto riguarda invece la detenzione come vettore positivo di un meccanismo di prevenzione individuale mi preme sottolineare che, ammesso che durante la detenzione si possano alterare le attitudini di una persona e risocializzarla, (aspetto che approfondirò meglio nel prossimo capitolo attraverso le analisi delle interviste) modificando i comportamenti prodotti da una specifica situazione sociale, se non si agisce di pari passo innanzitutto nel modificare le condizioni sociali che hanno generato le azioni devianti, una persona che ha intrapreso un percorso di riabilitazione e viene reinmessa nella società alle medesime condizioni di quando ne era stata momentaneamente prelevata non può che trovarsi nella situazione del pescatore ben allenato in un mare senza pesci da pescare. Il mondo del carcere, durante la sua evoluzione ha proposto comunque strategie e pratiche differenti per raggiungere nell'individuo recluso un cambiamento attitudinale. Nonostante queste tattiche hanno di volta in volta concentrato la propria attenzione su attività diverse per implementare un'effettiva riabilitazione del soggetto recluso, si può affermare che esse hanno mantenuto un certo grado di costanza nel proporre quattro temi principali come possibili vettori di tale cambiamento: questi temi sono il lavoro, l'educazione scolastica, l'influenza morale e la disciplina ( Mathiesen, 2000, p. 40). Partendo dalle prime istituzioni di reclusione sino ad arrivare a quelle che costituiscono il sistema penitenziario attuale, ciò che è mutata è l'importanza relativa attribuita ad ognuna componente nell'influenzare il carattere del detenuto, se ad esempio nelle prigioni europee del XVIII secolo l'accento era posto sull'influenza morale e la disciplina, nei penitenziari ottocenteschi americani, modello Auburn, il principale ruolo riformante era attribuito al lavoro, mentre nelle attuali prigioni probabilmente questo ruolo è attribuito all'educazione scolastica. Che fosse il lavoro che, contrapposto alla monotonia dell'isolamento, riuscisse a inculcare nel detenuto un ravvedimento morale e ricongiungerlo alla morale ufficiale; o l'azione incessante della ferrea disciplina che, inscrivendo il detenuto in un complesso susseguirsi di azioni e appuntamenti rituali sanzionati quando non seguiti correttamente, porti il recluso a modificare le proprie attitudini comportamentali; l'influenza dei testi religiosi o l'educazione scolastica o nella declinazione moderna la riabilitazione legata all'idea di trattamento, tutte queste componenti hanno, durante lo sviluppo del sistema penale detentivo, garantito un supporto ed in una certa misura la giustificazione della pena intesa come reclusione.

A partire dal dopoguerra, sino agli anni settanta il modello riabilitativo era in auge e il sistema penitenziario, il cui trend di intervento era inscritto nel cosiddetto correzionalismo penale applicato dallo Stato assistenziale, si affidava ad un cospicuo corpo di tecnici del comportamento, in primis le equipe medico- psichiatriche che cercavano di implementare il recupero dell'individuo, la cui devianza dalle norme era definita in termini di patologia, attraverso un percorso individualizzato basato su tecniche di classificazione mediche e attraverso condanne indeterminate durante le quali i medici si riservavano la scelta di liberare in anticipo il detenuto che avesse raggiunto dei cambiamenti significativi ( Garland, 2001, p.104). Nel periodo successivo, invece questo modello entra in crisi a causa delle critiche che gli sono mosse e a causa della pubblicazione di ricerche empiriche che dimostravano l'inefficacia del trattamento ai fini di un'effettiva riabilitazione. Le critiche pongono in rilievo la sproporzione di potere dei medici nei confronti dei "pazienti", infatti si cerca di arrivare ad un modello che stabilisse prima su tutte una certezza della pena che dovesse essere comminata in base al reato e non al recupero del detenuto, in modo da ottenere una tutela dei diritti dei detenuti che spesso subivano l'applicazione discrezionale della reclusione a tempo indeterminato che, nel nome del trattamento, celava un atteggiamento paternalistico, discriminatorio e repressivo (Garland, 2001, p. 130). Concludendo, oltre a queste critiche di ordine morale, che pretendevano un maggiore salvaguardia dei diritti individuali, a fronte di un potere che cercava di condurre gli individui ad una conformità forzata, nascondendo sotto il velo della patologia una devianza le cui cause risiedevano invece nei rapporti di potere e nelle disuguaglianze economiche, anche le ricerche effettuate all'interno delle carceri sanciscono l'inefficacia del modello riabilitativo, l'ambiente carcerario infatti, le gerarchie di potere ed i meccanismi totalizzanti che disciplinavano la vita in un istituto di pena non potevano costituire lo sfondo sul quale raggiungere un cambiamento in positivo del detenuto e spesso invece conducevano ad una degenerazione nella direzione opposta.

Dopo aver considerato e discusso le correnti di pensiero grazie alle quali la sanzione detentiva si è sviluppata come risposta generale alla criminalità, passerò nel successivo paragrafo ad esaminare la specificità della pena detentiva, le sue origini e le sue caratteristiche.








"Carcere e diritti", Ripoli, p. 22.

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