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La detenzione domiciliare per motivi di famiglia, di salute, di studio, di lavoro (art. 47 ter, comma 1 O.P.)
L'attuale art. 47 ter comma 1, modificato dalla legge 27 maggio 1998, n. 165 (che ha innalzato il limite di pena da tre anni a quattro) prevede che: la pena della reclusione non superiore a quattro anni anche se costituente parte residua di maggiore pena, nonché la pena dell'arresto, possono essere espiate nella propria abitazione o in altro luogo di privata dimora ovvero in un luogo pubblico di cura, di assistenza o accoglienza, quando trattasi di:
a) donna incinta o madre di prole di età inferiore di anni dieci con lei convivente.
La ratio della norma è duplice: da un lato tutelare il bisogno di cura e di assistenza dei figli minori, e dall'altro, mediante il raddoppio dell'età rilevante da 5 a 10 anni, contribuire a contenere il fenomeno del sovraffollamento carcerario.
Per quanto concerne il rapporto di filiazione si deve senz'altro ritenere che oltre al rapporto di filiazione naturale riconosciuto assuma rilievo anche quello adottivo, perché solo così, solo prescindendo dalla natura di tale legame si può tutelare il figlio.[1]
La scelta di raddoppiare l'età del figlio se da un lato appare pienamente legittima in quanto costituisce espressione della discrezionalità spettante al legislatore, può nondimeno risultare irrazionale perché il limite fissato è particolarmente elevato e produce uno squilibrio nella logica dell'istituto, inteso a tutelare soprattutto la prole nei primi anni di vita assicurandole la presenza e l'assistenza di almeno uno dei genitori. Si profila pertanto il rischio di un uso strumentale della norma da parte di soggetti pericolosi che per la mancanza di presupposti oggettivi o soggettivi non possono beneficiare di altra misura alternativa.
b) Padre, esercente la patria potestà, di prole di età inferiore ad anni dieci con lui convivente, quando la madre sia deceduta o altrimenti assolutamente impossibilitata a dare assistenza alla prole.
Con questa nuova previsione introdotta dalla legge Simeone è stato codificato il principio enunciato dalla Corte Costituzionale con la sentenza n. 215 del 13 Aprile 1990 che aveva dichiarato l'illegittimità costituzionale della detenzione domiciliare concedibile alla madre nella parte in cui non prevedeva che potesse essere concessa anche al padre detenuto qualora la madre sia deceduta o altrimenti assolutamente impossibilitata a dare assistenza alla prole.
Mette conto precisare che in questa ipotesi il padre può fruire del beneficio de quo soltanto se questi esercita la potestà genitoriale nei confronti del figlio. Sotto questo profilo, posto che le ipotesi di decadenza o di sospensione valgono certamente per entrambi i genitori, il fatto che il requisito in parola sia previsto solo con riferimento al padre ha suscitato qualche perplessità.
Una spiegazione parziale può consistere nel fatto che la detenzione domiciliare concessa alla madre consente una sorta di "ricongiungimento familiare" che, in considerazione del particolare rilievo che assume la figura materna nei confronti dei minori in età evolutiva, ha sempre una valenza positiva.[3]
Per quanto concerne la nozione di "assoluto impedimento della madre" sembra prevalere in giurisprudenza un orientamento rigoroso soprattutto con riferimento ai casi in cui l'impedimento è fondato sulla necessità di svolgere attività lavorativa: si è così escluso che l'effettuazione di turni di notte da parte della madre integri la fattispecie prevista.[4]
c) Persona in condizioni di salute particolarmente gravi, che richiedano costanti contatti, con i presidi sanitari territoriali.
Ai fini della concessione di questa figura di detenzione domiciliare non è dunque sufficiente che il condannato sia affetto da una patologia di rilevante gravità, ma occorre altresì che vi sia la necessità di costanti contatti con i presidi sanitari territoriali.
Come è stato puntualizzato in giurisprudenza, per essere considerate "particolarmente gravi" le condizioni di salute "non necessariamente devono consistere in patologie incompatibili con lo stato di detenzione o comunque dalla prognosi infausta, ben potendo essere ravvisate in una o più alterazioni della funzionalità fisico-psichica, caratterizzate da un elevato grado di intensità e idonee a rendere ancora più afflittiva l'espiazione della pena in istituto"[5]
Il presupposto per la concessione della misura penitenziaria appare più vincolante di quello richiesto nell'art. 147 c.p. per il differimento dell'esecuzione anche se la patologia considerata in questa ipotesi deve essere sicuramente grave. Anzi la giurisprudenza formatasi in tema di differimento, tende ad insistere sul carattere della gravità della patologia, implicante un serio pericolo per la vita del condannato o la possibilità di altre rilevanti conseguenze dannose .
Va inoltre rilevato che la norma non distingue fra patologie fisiche e patologie psichiche: ne consegue che la misura de qua può essere applicata anche in quei casi in cui la componente psico-patologica assume un rilievo particolare quale causa di incompatibilità con il regime carcerario (mentre, come è noto, ai fini della concedibilità del differimento di esecuzione della pena ex art. 147 c.p. le patologie di natura psichiatrica sono considerate irrilevanti[7]) Mette conto rammentare che siffatta impostazione non ha trovato riscontro nella giurisprudenza della Cassazione che con la sentenza emessa il 10 gennaio 1992 ha escluso che l'epilessia e la sindrome ansioso-depressiva siano patologie che possano giustificare la concessione della detenzione domiciliare.
d) Persona di età superiore a sessanta anni se inabile anche parzialmente.
Come emerge dal tenore della norma rilevano ai fini dell'integrazione della fattispecie de qua due diverse condizioni:la prima legata all'età, la seconda connessa alla invalidità o inabilità del condannato, di cui per altro non viene precisata l'entità.
In giurisprudenza si è affermata una interpretazione che tende ad identificare l'invalidità con la ridotta autosufficienza del condannato così anche la dottrina ritiene che l'inabilità non è l'invalidità in senso lavorativo, ma è un decadimento, spesso legato all'età, alle condizioni di salute psico-fisiche che compongono una limitazione apprezzabile dell'autosufficienza e della vita di relazione.[9]
Tuttavia il fatto che il legislatore abbia ampliato a dismisura l'ambito di applicabilità della misura rende anche siffatta
interpretazione poco convincente, configurandosi come un tentativo di razionalizzare gli effetti distorsivi derivanti da una norma che riflette la scelta compiuta dal legislatore nel senso della deflazione della popolazione detenuta.[10]
e) Persona minore di anni ventuno per comprovate esigenze di salute, di studio, di lavoro e di famiglia.
La norma appare chiaramente ispirata alla esigenza di ampliare il quadro degli strumenti utilizzabili per sottrarre i giovani dall'ambiente carcerario e dal c.d. contagio criminale cui sono generalmente esposti in quell'ambiente.
In quest'ottica si colloca l'interpretazione che, muovendo dalla peculiarità che connota questa species di detenzione domiciliare, esclude che la misura alternativa debba essere revocata, ex art. 47 ter, 7° comma legge 26.07.1975, n° 354, per effetto del compimento del 21° anno di età e quindi consente al condannato di proseguire l'espiazione della pena nella forma della detenzione domiciliare anche dopo il superamento di detto limite di età[11].
Va infine sottolineata l'estrema genericità dell'altro presupposto, costituito dalle "esigenze di salute di studio di lavoro e di famiglia", cui è subordinata la concessione del beneficio: siffatta genericità si risolve nell'attribuzione al Tribunale di Sorveglianza di un'ampio potere discrezionale in ordine alla verifica dell'esistenza del presupposto stesso e quindi in ordine all'applicazione della misura.
Nelle ipotesi esaminate, i contenuti della misura sono sicuramente di natura umanitaria e assistenziale, ma non mancano quelli di natura risocializzativa, qualora la detenzione domiciliare
venga disposta in favore di donna incinta o madre di prole di età inferiore ad anni dieci con lei convivente e soprattutto a favore di minori degli anni ventuno.
Questo comma dell'art. 47 ter O.P. integra situazioni riconducibili ai principi dettati dalla Costituzione in tema di protezione della maternità, dell'infanzia e della gioventù (art. 31 Cost.) nonché in tema di tutela della salute, come diritto dell'individuo e interesse della collettività (art. 32 Cost.)
La detenzione domiciliare generica (art. 47 ter, comma 1 bis O.P.)
"La detenzione domiciliare può essere applicata per l'espiazione della pena detentiva inflitta in misura non superiore a due anni, anche se costituente parte residua di maggior pena, indipendentemente dalle condizioni di cui al comma 1 quando non ricorrono i presupposti per l'affidamento in prova al servizio sociale e sempre che la misura sia idonea ad evitare il pericolo che il condannato non commetta altri reati. La presente disposizione non si applica ai condannati per i reati di cui all'art. 4 bis"
Del tutto nuova è l'ipotesi di detenzione domiciliare disciplinata da questa norma che rappresenta una delle novità maggiormente significative introdotte dalla legge Simeone.
Le condizioni per l'applicazione della misura sono le seguenti:
il condannato deve espiare una pena non superiore a due anni;
la pena non deve essere stata inflitta per uno dei reati ostativi di cui all'art. 4-bis legge 26.07.1975, n° 354;
occorre che il Tribunale di Sorveglianza ritenga che nei confronti del condannato non ricorrano i presupposti per l'applicazione dell'affidamento in prova al servizio sociale, e che comunque la misura sia idonea ad evitare il pericolo di recidiva.
Particolare attenzione meritano le condizioni di cui ai punti n° 2 e 3.
I c.d. reati ostativi sono elencati dall'art. 4-bis legge 26.07.1975, n° 354 (riformulato dalla legge 23.12.2002, n° 279) e sono così definiti perché l'accesso alla misure alternative ed ai permessi premio è subordinato alla sussistenza di condizioni particolari e cioè la collaborazione con la giustizia nei termini di cui all'art. 58-ter legge 26.07.1975, n° 354 (si profilano allora i reati assolutamente ostativi, nel senso che la mancanza della collaborazione impedisce l'accesso a qualsiasi beneficio: esempio l'associazione di tipo mafioso di cui all'art. 416 bis c.p.); ovvero all'assenza di collegamenti con la criminalità (si configurano in questo caso i reati c.d. relativamente ostativi: esempio la rapina aggravata).
Mette conto precisare che, secondo il costante e consolidato orientamento della giurisprudenza, l'ostacolo derivante dalla natura del reato può essere superato nel caso in cui il condannato abbia interamente espiato la pena imputabile al reato ostativo, ciò che può verificarsi nel caso in cui nei confronti del reo si stato emesso un provvedimento di unificazione delle pene ex art. 663 c.p.p., ovvero nel caso in cui sia stato riconosciuto il vincolo della continuazione tra il reato ostativo e quello comune. In questi casi si procede a quella operazione che nella prassi dei Tribunali di Sorveglianza viene definita come "scorporo della pena" al fine di individuare il quantum di sanzione che, non essendo più imputabile alla fattispecie ostativa consente di applicare le misure alternative e quindi anche la detenzione domiciliare.
Infatti "va tenuta presente un'importante precisazione della Corte di Cassazione (sent. 15/5/1999 n. 2529) la quale ha stabilito, in conformità ad una precedente sentenza interpretativa di rigetto della Corte Costituzionale n. 361/94 che nel caso di soggetto sottoposto ad esecuzione di pene cumulate delle quali alcune soltanto sono state inflitte per delitti che comportano, ai sensi dell'art. 4 bis O.P., esclusione o limitazione di misure alternative alla detenzione, il cumulo può essere sciolto ai fini della determinazione del momento in cui considerata come avvenuta l'espiazione delle pene relative a quei delitti, l'esclusione o la limitazione non devono più operare".[12]
Il presupposto di cui al punto n°3) presenta una struttura complessa: da un lato occorre (elemento negativo) che non ricorrano le condizioni per concedere al condannato l'affidamento in prova al servizio sociale; dall'altro è necessario (elemento positivo) che la detenzione domiciliare sia comunque idonea a prevenire il pericolo di recidiva.
Premesso che ai fini dell'accertamento di tale presupposto assumono rilievo tutti gli indici di cui all'art. 133 c.p., va osservato che in concreto la detenzione domiciliare verrà applicata, in luogo dell'affidamento, o quando il condannato
presenta un grado di pericolosità sociale non adeguatamente contenibile mediante la concessione della misura meno afflittiva (si pensi al caso in cui il reo abbia commesso un
nuovo reato dopo aver terminato di espiare, in regime di affidamento, la pena inflitta per un precedente illecito: in questo caso sembra evidente che la misura di cui all'art. 47 della legge 26.07.1975, n° 354 si è rivelata inidonea a prevenire il pericolo di recidiva); ovvero quando il reo non dispone di una attività lavorativa, la cui mancanza si configura come un indice sintomatico del pericolo di recidiva in quanto induce a ritenere sussistente il pericolo che egli possa commettere ulteriori reati al fine di procurarsi i mezzi di sussistenza.
In questa prospettiva si comprendono le critiche formulate dalla dottrina che ha evidenziato come questa misura "non sembri poggiare sulla benché minima necessità di rieducazione"[13]; ovvero come essa si presenti "priva di ogni potenzialità e valenza rieducativa, svincolata da intenti umanitari ed assistenziali, la misura risponde unicamente ad esigenze di politica criminale di deflazione carceraria, ma non costituisce alcun criterio razionale e condivisibile di scelta del regime custodiale attenuato che indiscriminatamente assicura" ; o, addirittura, come essa rappresenti un "condono totale con un lenzuolino domiciliare"
In senso parzialmente contrario si può replicare a critiche così corrosive osservando che la detenzione domiciliare biennale, nella misura in cui consente di neutralizzare la
pericolosità del condannato appare in grado di svolgere una funzione utile, evitando da un lato gli effetti desocializzanti connessi all'esecuzione della pena in regime carcerario e consentendo, dall'altro, un graduale e controllabile
reinserimento sociale del condannato, soprattutto se si tiene conto del fatto che la detenzione domiciliare potrà essere sostituita con l'affidamento in prova al servizio sociale.
Non da trascurare poi è il fatto che comunque anche in questa tipologia di detenzione domiciliare è previsto l'intervento del Servizio Sociale cui spetta il compito di aiutare e sostenere il condannato.
L'assenza di presupposti precisi hanno indotto parte della magistratura di sorveglianza a ricercare contenuti che in qualche modo possono ricondurre l'istituto ai principi di ordinamento penitenziario.
Così l'obbligo del lavoro è una prescrizione prevista, quando possibile, non solo nei casi in cui sia necessario per ragioni di sopravvivenza (come invece nell'art. 284 c.p.p.) ma in funzione di verificare il graduale adeguamento del condannato alle regole del vivere sociale[16]
Per concludere su questo punto si può osservare che la detenzione domiciliare c.d. generica di cui all'art. 47 ter, 1° comma bis costituisce, unitamente alla semilibertà c.d. sostitutiva dell'affidamento in prova al servizio sociale di cui all'art. 50, 2° comma della legge 26.07.1975, n° 354, norma modificata dalla legge Simeone-Saraceni, il punto di emersione di un nuovo e diverso modo di concepire le funzioni del Tribunale di Sorveglianza, per altro in fase ancora embrionale, di cui abbiamo accennato nell'introduzione
Invero, proprio in forza degli istituti sopra richiamati - detenzione domiciliare generica e semilibertà sostitutiva dell'affidamento - nel caso in cui il condannato debba espiare
una pena inferiore a due o tre anni, il Tribunale può scegliere fra tre, o eventualmente quattro, diverse sanzioni da applicare al reo: la pena carceraria, la semilibertà (se non ricorrono le condizioni per l'applicazione dell'affidamento in prova al servizio sociale ed il reato commesso non rientra nella categoria dei delitti ostativi), la detenzione domiciliare ed infine l'affidamento.
In questa prospettiva sembra delinearsi una radicale trasformazione, dei compiti del Tribunale di Sorveglianza la cui funzione non si esaurisce nella concessione di un beneficio penitenziario destinato certe volte a vanificare gli sforzi compiuti dalla polizia giudiziaria, dal pubblico ministero e dal giudice della cognizione per addivenire ad un giudicato di condanna, ma consiste nello scegliere, sulla scorta di una valutazione incentrata sugli elementi e le circostanze di cui all'art. 133 c.p., il tipo di sanzione penale che risulta maggiormente adeguato alla gravità del fatto ed alla personalità del suo autore.
L'ipotesi prevista dal comma 1 bis dell'art. 47 ter sicuramente induce a pensare che la detenzione domiciliare cosiddetta generica possa essere considerata una semplice modalità alternativa di esecuzione della pena, senza alcun contenuto risocializzante, al massimo con una finalità parzialmente non desocializzante.
Il legislatore, preoccupato del sovraffollamento carcerario, causato anche da una pressione punitiva cui non si vuole rinunciare su piano della comminatoria per motivi di prevenzione generale, ha creato questa norma che si presta ad interpretazioni eterogenee: da quella di puro strumento deflattivo della popolazione carceraria, a quella più o meno rieducativa. La detenzione domiciliare "generica", preordinata sicuramente, come recita lo stesso articolo 47 ter 1° comma bis, alla prevenzione della recidiva, costituisce una misura del tutto singolare nel quadro delle misure alternative alla pena detentiva.
L'ibridismo di tale disposizione si nota anche con riguardo al momento in cui il beneficio viene in discussione, ossia se prima dell'inizio dell'esecuzione o successivamente.
La detenzione domiciliare "umanitaria" (art. 47 ter, comma 1 ter O.P.)
"Quando potrebbe essere disposto il rinvio obbligatorio o facoltativo della esecuzione della pena ai sensi degli articoli 146 e 147 del codice penale, il Tribunale di Sorveglianza, anche se la pena supera il limite di cui al comma 1, può disporre la applicazione della detenzione domiciliare, stabilendo un termine di durate di tale applicazione, termine che può essere prorogato. L'esecuzione della pena prosegue durante la esecuzione della detenzione domiciliare".
Anche la norma in parola costituisce una delle novità più significative introdotte dalla legge Simeone, che in tal modo ha colmato una lacuna che era emersa nella previgente normativa, per la quale in presenza dei presupposti di fatto indicati negli art. 146 e 147 c.p (concernenti rispettivamente il rinvio obbligatorio e facoltativo dell'esecuzione della pena) s'imponeva, nella prima ipotesi la scarcerazione, nella seconda, ove non ricorressero le condizioni per concedere la detenzione domiciliare di cui all'art. 47 ter, 1° comma, una rigida alternativa tra il mantenimento dello status detentionis e la piena rimessione in libertà del condannato che vedeva interrompersi l'esecuzione della pena.
L'introduzione dell'art. 47 ter 1° comma ter, ha suscitato comunque non pochi problemi interpretativi nel coordinamento con l'art. 146 c.p., ci si è chiesti a quale delle due previsioni normative debba essere data prevalenza.
La dottrina non è concorde e avanza quindi più soluzioni. Secondo alcuni l'art. 47 ter 1° comma ter dovrebbe cedere sempre il campo all'art. 146 c.p. - secondo una parte della dottrina purchè la gravidanza o il parto siano cronologicamente precedenti l'inizio dell'esecuzione della pena - secondo altri, la cui impostazione è più condivisa dalla giurisprudenza di merito, la misura alternativa dovrebbe sempre essere concessa in via prioritaria, essendo più favorevole per i suoi destinatari, perché essendo esecuzione di pena, e non una temporanea parentesi di questa, può risultare più vantaggiosa anche alla luce di ulteriori prospettive esecutive in forma di misure alternative.[17]
Certamente, di contro, vi è da osservare che quanto meno di difetto di coordinamento è facile parlare se non di antinomie e contraddizioni anche perché, la considerazione che la giurisprudenza di merito fa, nel ritenere la detenzione domiciliare più favorevole per i condannati rispetto al differimento pena, non è condivisibile completamente, soprattutto considerando la possibilità della revoca dovuta ad un comportamento del soggetto contrario alla legge o alle prescrizioni dettate e le ancora più sfavorevoli preclusioni previste da una certa interpretazione dell'art. 58 quater O.P..
Attraverso questa ulteriore forma di detenzione domiciliare il legislatore ha inteso attuare un adeguato contemperamento tra il principio di certezza ed indefettibilità della pena (corollario a sua volta del principio della effettività della giurisdizione penale) e la necessità di fare in modo che l'esecuzione della pena avvenga in forme compatibili con il senso di umanità.[18]
E' innegabile comunque che questa ipotesi di detenzione domiciliare crei delle difficoltà di coordinamento fra l'art. 146 c.p. e l'art. 47 ter, 1° comma ter, che il Tribunale di Sorveglianza concretamente risolve nel dare di solito la preferenza alla concessione della detenzione domiciliare perché in tal modo non si interrompe l'esecuzione della pena (questa può essere vista anche come decisione a favore del condannato) e inoltre il reo (che potrebbe essere condannato anche per un reato di cui all'art. 4 bis O.P.) è sicuramente più controllato, realizzandosi così anche un'esigenza di controllo cui vanno sottoposti i soggetti più pericolosi. Pertanto questa ipotesi di detenzione domiciliare si configura concretamente come polifunzionale.
Per quanto concerne i presupposti di applicabilità della misura in esame occorre in primo luogo osservare che sono irrilevanti sia l'entità della pena che il tipo di reato (e quindi il fatto che il reo stia espiando una pena inflitta per un delitto compreso nel genus dei reati ostativi di cui all'art. 4-bis legge 26.07.1975, n° 354).
In secondo luogo deve profilarsi una situazione di fatto
suscettibile di integrare gli estremi del differimento di esecuzione della pena obbligatorio o facoltativo.
I casi di differimento obbligatorio sono previsti dall'art. 146 c.p. e sono i seguenti:
quando la pena deve essere eseguita nei confronti di una donna incinta;
quando la pena deve essere eseguita nei confronti di madre di infante di età inferiore ad anni 1;
quando la pena deve essere eseguita nei confronti di un condannato affetto da AIDS conclamata o da grave deficienza immunitaria;
quando la pena deve essere eseguita nei confronti di un condannato che a causa di una malattia particolarmente grave versa in condizioni di salute incompatibili con lo stato di detenzione, ovvero si trova in una fase della malattia così avanzata da non rispondere più ai trattamenti disponibili ed alle terapie curative.
Il differimento facoltativo può essere disposto, ex art. 147 c.p., nei seguenti casi:
quando è stata presentata domanda di grazia;
quando la pena deve essere eseguita nei confronti di condannato che versa in condizioni di grave infermità fisica
quando la pena deve essere eseguita nei confronti di madre di prole di età inferiore a tre anni
Sul piano applicativo le questioni di maggior interesse si sono poste con riguardo al caso in cui l'istanza di differimento viene fondata sulla sussistenza di motivi di salute.
Occorre preliminarmente osservare che in ordine alla definizione del concetto di grave infermità fisica si registrano in giurisprudenza due diversi orientamenti. Secondo un primo indirizzo ai fini del differimento assume rilievo soltanto la oggettiva gravità della patologia di cui soffre il condannato, mentre nessun rilievo può essere attribuito alla eventuale incompatibilità dello stato patologico con la permanenza in carcere sotto il profilo della possibilità di somministrare al reo le terapie di cui necessita. Per una diversa impostazione per disporre il rinvio dell'esecuzione della pena occorre che la patologia di cui soffre il condannato necessiti di cure e trattamenti che non possono essere espletati in regime detentivo, neppure mediante il ricorso agli strumenti all'uopo previsti dall'art. 11 legge 26.07.1975, n° 354.[19]
Ciò premesso si tratta di individuare quali sono i parametri cui il Tribunale di Sorveglianza deve attenersi nella scelta tra l'applicazione della detenzione domiciliare e la concessione del differimento di esecuzione della pena.
Si è così affermato che la nuova disciplina postula che "in presenza di una grave infermità fisica del condannato, una volta assodata l'incompatibilità, alla luce dei parametri costituzionali, dell'esecuzione della pena detentiva nelle forme ordinarie, il giudice valuti se l'espiazione della pena possa invece avvenire con le alternative modalità della detenzione a domicilio, senza porsi in contrasto con i predetti parametri"[20].
Ovvero "ai fini della concessione del rinvio facoltativo dell'esecuzione della pena per grave infermità fisica, è necessario che le condizioni patologiche siano tali da rendere obiettivamente impossibile fronteggiarle in ambiente carcerario, a nulla rilevando che esse, indipendentemente dal tipo di malattia che lo ha determinato, possa essere trattato meglio in ambiente extra-carcerario"[21];
D'altra parte è indubbio che in subiecta materia il potere del Tribunale di Sorveglianza, stante l'assenza di parametri predeterminati, appare particolarmente ampio e "deve ancorarsi a qualsiasi ragione che abbia una certa pregnanza sul piano delle caratteristiche del reo e delle sue condizioni personali e familiari (età, condizioni di salute, esistenza o meno di garanzie di affidabilità, compatibilità degli interventi terapeutici con il regime carcerario) o sul piano della gravità e durata della pena da scontare".[22]
Sembra invece che non possano sussistere dubbi in ordine alla concessione del differimento nel caso di prognosi infausta quoad vitam: in tal caso le condizioni di salute del condannato sono talmente compromesse da rendere l'espiazione della pena, anche nella forma attenuata della detenzione domiciliare, priva di qualsiasi significato e contraria al senso di umanità.
Come già anticipato, secondo l'orientamento prevalente in giurisprudenza, ai fini della concessione della detenzione domiciliare sostitutiva del differimento, assume rilievo soltanto la grave infermità fisica: sono pertanto escluse dall'ambito di applicazione della misura de qua le patologie di natura psichica con la conseguenza che in questo caso dovrà trovare applicazione l'art. 148 c.p. che prevede il ricovero del condannato in un Ospedale Psichiatrico Giudiziario
Il Tribunale di Sorveglianza nell'applicare la misura deve stabilire il termine di durata, scaduto il quale, la detenzione domiciliare potrà essere eventualmente prorogata ove risulti accertata la permanenza delle condizioni che ne avevano legittimato la concessione.
Vi possono essere comunque delle eccezioni in merito, qualora ad esempio il motivo del differimento pena e quindi della detenzione domiciliare sia costituito da una malattia grave e presumibilmente irreversibile (si pensi al caso della cecità, o altre malattie croniche). In questo caso la misura può essere concessa anche per tutta la durata della pena: in proposito merita di essere segnalata la soluzione adottata dal Tribunale di Sorveglianza di Firenze che ha imposto al condannato la prescrizione di esibire periodicamente al CSSA competente per territorio che a sua volta è tenuto ad informare il magistrato di sorveglianza la certificazione della ASL circa l'evoluzione delle proprie condizioni di salute[24]
La scadenza del termine indicato nell'ordinanza del Tribunale di Sorveglianza, senza che sia intervenuto un provvedimento di proroga della misura è sufficiente perché l'ufficio del pubblico ministero che cura l'esecuzione possa emettere un nuovo ordine di carcerazione. Pertanto se il condannato non ha tempestivamente proposto l'istanza tendente ad ottenere la concessione della proroga della misura vi è la concreta possibilità che possa essere nuovamente introdotto in istituto.
Con riguardo a tale problematica ci si è chiesti se il magistrato di sorveglianza possa disporre l'ammissione in via provvisoria a fruire della detenzione domiciliare ex art. 47 ter 1° comma ter O.P. nei casi in cui sussisterebbero i presupposti per concedere il differimento obbligatorio o facoltativo dell'esecuzione della pena e di conseguenza possa anche disporre la proroga della detenzione domiciliare, trasmettendo contestualmente gli atti al Tribunale di Sorveglianza per la decisione definitiva. Siffatta soluzione avrebbe infatti il pregio di evitare il "differimento secco" o il reingresso in carcere del condannato e di consentire che l'espiazione della pena avvenga senza l'interruzione dovuta al differimento.
A sostegno della soluzione negativa milita il principio della tipicità della tutela cautelare (nel caso di specie si tratta del potere di disporre in via provvisoria l'applicazione o la proroga della detenzione domiciliare), la cui esplicazione è consentita soltanto nei casi tassativamente previsti dalla legge (previsione che nel caso di specie - come si desume dell'art. 47 ter, 1° comma quater che circoscrive i casi in cui il magistrato di sorveglianza può disporre l'applicazione provvisoria della misura alle ipotesi di cui ai commi 1 e 1 bis - non è rivenibile nel sistema normativo).
Va detto tuttavia che orientamenti favorevoli alla soluzione positiva sono emersi sia in giurisprudenza[25] che in dottrina
Per concludere su questo punto può essere utile osservare come le categorie soggettive cui si applica la detenzione domiciliare sostitutiva del differimento coincidono sostanzialmente (salvo l'ipotesi del condannato che ha presentato domanda di grazia ex art. 147, 1° comma, n° 1, c.p.) con quelle per le quali l'art. 275 c.p. stabilisce il divieto, derogabile soltanto in presenza di esigenze cautelari di particolare rilevanza, di applicazione della misura cautelare coercitiva della custodia in carcere.
Sul piano della disciplina positiva emerge la diversità del trattamento, su cui torneremo nel capitolo successivo, riservato ad una particolare categoria di persone, e precisamente quella rappresentata dalla donna incinta ovvero madre di prole con età inferiore ad un anno.
In tal caso si profila un'ipotesi di differimento obbligatorio ex art. 146 c.p. con la conseguenza che la condannata ha comunque diritto, nella peggiore delle ipotesi, ad ottenere la concessione della detenzione domiciliare sostitutiva ex art. 47 ter, 1° comma ter; mentre un analogo diritto, seppur proiettato verso l'applicazione degli arresti domiciliari, non è configurabile nel caso in cui la donna incinta (o con prole di età inferiore ad anni uno) sia indagata e/o imputata atteso che la misura cautelare coercitiva della custodia in carcere potrà essere applicata ove ricorrano esigenze cautelari di eccezionale rilevanza.
L'eterogeneità delle situazioni poste a confronto - misura cautelare da un lato e sanzione penale alternativa al carcere dall'altro - induce tuttavia ad escludere che siffatta diversità di disciplina possa in qualche modo violare il principio costituzionale di eguaglianza sancito dall'art. 3 Cost.
Quanto appena espresso comunque non impedisce di pensare che ci sia una sorta di discrasia nel sistema dovuta ad una mancanza di coordinamento fra la fase cautelare e quella dell'esecuzione della pena per quanto concerne le stesse categorie soggettive.
Infatti durante l'espiazione della condanna come nella fase cautelare alcune situazioni sono tutelate a tal punto che ne è sempre esclusa la detenzione in carcere, ma nel primo caso può essere concessa la detenzione domiciliare, nel secondo solo se sussistono esigenze di eccezionale rilevanza sono concessi gli arresti domiciliari (persona affetta da AIDS conclamata o da grave deficienza immunitaria ovvero da altra malattia particolarmente grave).
La stessa cosa non può dirsi per le altre due categorie soggettive, per le quali solo nella fase esecutiva della pena è previsto il diritto a non essere detenute in carcere, nella peggiore delle ipotesi può essere concessa la detenzione domiciliare, mentre nella fase delle indagini preliminari e durante il dibattimento possono, per esigenze di eccezionale rilevanza, essere sottoposte alla misura della custodia cautelare in carcere (donna incinta o madre di prole di età inferiore ad un anno).
Sembrerebbe quasi che la protezione della maternità e dell'infanzia sia inferiore alla protezione del diritto alla salute.
Da notare inoltre che l'eccezione prevista dalle esigenze cautelari di eccezionale rilevanza che giustificano la custodia cautelare in carcere per la donna incinta o madre di prole di età inferiore ad un anno o gli arresti domiciliari per i malati di AIDS conclamata o affetti da gravi deficienza immunitaria o da malattia particolarmente grave non è prevista per colui che il giudice ritiene possa beneficiare al momento della sentenza di condanna della sospensione condizionale della pena.
La spiegazione di questa differenza non si giustifica se non nel principio di proporzionalità delle misure cautelari con l'entità del fatto e la sanzione che si ritiene possa essere irrogata (art. 275 2° comma c.p.p.)
La finalità di questa ipotesi di detenzione domiciliare è senza dubbio umanitaria.
A. Margara Seminario sulle misure alternative Università di Firenze facoltà di Giurisprudenza anno accademico 1999/2000
Vaudano. Con un intervento frettoloso e approssimativo si amplia il ricorso alla detenzione domiciliare in Guida dir. 1998 n. 23 p. 25
P. Comucci, Problemi applicativi della detenzione domiciliare in riv. Diritto e proc. Pen., 2000, pp. 210 e ss.
G. Pierro: La nuova disciplina nel quadro della trasformazione del sistema della esecuzione penale in op. cit. p. 300.
S. Seguto : Corso di aggiornamento per l'assunzione di funzioni penali del C.S.M., Frascati 16-20 Ottobre 2000.
Cfr. giurisprudenza citata in AA.VV. Commentario Breve al Codice Penale, Padova, 2001, sub. art. 147 c.p.;
cfr. a titolo di esempio Cass. 22.11.2000, n° 8936, Piromalli, in Cass. Pen, 2002, n° 1009, secondo cui "ai fini del differimento facoltativo dell'esecuzione della pena per infermità fisica, il grave stato di salute va inteso come patologia implicante un serio pericolo per la vita o la probabilità di altre rilevanti conseguenze dannose, eliminabili o procrastinabili con cure o trattamenti tali da non poter essere praticati in regime di detenzione inframuraria neppure mediante il ricovero in ospedali civili o in altri luoghi esterni di cura ai sensi dell'art. 11 della legge 26.07.1975, n° 354"- fattispecie nella quale è stato ritenuto corretto il diniego del rinvio dell'esecuzione nei confronti di un condannato affetto da ipertensione arteriosa, ectasia aortica, cardiopatia ipertensiva in aortomiocardiosclerosi senile, pregresso adenocarciroma prostatico e crisi renali in reni di tipo senile).
Cass. 31.01.2000, Carriero, in Cass. Pen. 2001, n° 222: relativa ad una fattispecie in cui il condannato era stato sottoposto ad un intervento di rivascolarizzazione arteriosa in un centro clinico specializzato; anche Cass. 4.07.2002, n°2620, Greco, secondo cui "anche se la gravità oggettiva della malattia non deve implicare un serio pericolo per la vita del condannato o la probabilità di altre rilevanti conseguenze dannose, occorre pur sempre considerare tale 'gravità' in modo particolarmente rigoroso, tenuto conto del principio di uguaglianza di tutti i cittadini di fronte alla legge senza distinzioni di condizioni personali: principi che implicano appunto, al di fuori di situazioni assolutamente eccezionali, la necessità della pronta esecuzione delle pene legittimamente inflitte" che ha rigettato il ricorso proposto avverso l'ordinanza emessa in data 20.12.2001 dal Tribunale di Sorveglianza di Firenze che aveva negato la concessione del differimento e della detenzione domiciliare al condannato affetto da 'sindrome da pre-eccitazione ventricolare del tipo Wolff-Parkinson White'
Cass.5.12.2000, cit. Cass. 15.10.1996, Dello Russo, in CED, RV-206328; Tribunale di Sorveglianza di Genova, ord. del 29.02.2000, Bompressi, in Cass. Pen. 2000, n° 1753; Tribunale di Sorveglianza di Genova, ordinanza del 22.01.2002, Bompressi; cfr. tuttavia l'orientamento di segno contrario espresso dal Tribunale di Sorveglianza di Firenze proprio con riguardo al caso Bompressi: ord. 18.06.1998, in Foro It., 1998,II, c.631.
Mag. Sorv. Firenze Dec. N. 934/02 del 29/7/02: dispone l'applicazione provvisoria della detenzione domiciliare; cfr. tuttavia l'orientamento di segno contrario espresso dal Magistrato di Sorveglianza di Pisa con Dec. N. 40/03 del 29/3/03 che dichiara inammissibile l'istanza di applicazione provvisoria di detenzione domiciliare; e ancora dal Magistrato di Sorveglianza di Pisa con Dec. N° 75/03 del 10/6/03 che dichiara inammissibile l'istanza di proroga della detenzione domiciliare.
Appunti su: art 47 ter conna 1 ter motivi di salute, arr 47 ter op altrimenti impossibilitata giurisprudenza, |
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