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5 - L'industrializzazione dei paesi in ritardo
Alcuni paesi a struttura prevalentemente agraria imboccano la via dell'industrializzazione quando già esisteva un'economia industriale avanzata in parte del mondo.
I casi più importanti furono quelli del Giappone, dell'Italia e della Russia, dove in ognuno di questi paesi i problemi furono affrontati in modo particolare e con premesse diverse: in Italia la premessa fu il conseguimento dell'unità e dell'indipendenza, per la Russia l'abolizione della schiavitù mentre per il Giappone l'impulso arrivò dall'incontro con il colonialismo occidentale e dalla reazione alla minaccia di assoggettamento da parte dell'occidente.
Nonostante i diversi metodi in cui si avviò l'industrializzazione, ci furono anche elementi comuni in questi sviluppi, i più importanti dei quali furono la funzione assai maggiore dello stato e la permanenza di condizioni di arretratezza nelle campagne.
6 - Il caso del Giappone: una rivoluzione dall'alto
A metà dell'ottocento la struttura della società giapponese era per molti aspetti simile a quella dell'Europa medievale: vi era una rigida struttura gerarchica, con la popolazione racchiusa in caste chiuse ed ereditarie alla cui sommità vi erano i daimyo, o grandi signori, possessori di terra, potere amministrativo e giudiziario nei loro feudi.
Dopodiché venivano i samurai, o piccoli nobili, che formavano gli eserciti feudali; sotto vi erano le corporazioni di mercanti e artigiani e i contadini.
Il governo del paese era nelle mani dello shogun, o generalissimo, e del consiglio dei daimyo, mentre l'imperatore era privo di effettivi poteri.
Il Giappone era praticamente privo di rapporti col mondo esterno dal 17° secolo ma gli occidentali forzarono il blocco verso la metà del 1800 riuscendo ad imporre al Giappone l'apertura di alcuni scali commerciali agli USA, alla gran Bretagna, alla Francia e alla Russia, in base ai cosiddetti trattati ineguali, che fra l'altro limitavano anche la sovranità giapponese.
La penetrazione economica occidentale fece esplodere la crisi latente nella società giapponese e la reazione nazionalista contro gli stranieri e contro lo shogun e l'oligarchia feudale cominciarono, promosse da un movimento che si raccolse attorno all'imperatore e che fu guidato dalla parte progressista della feudalità e dei samurai, e dai mercanti.
Il primo tentativo di ribellione fu soffocato e l'imperatore dovette riconoscere i trattati ineguali e abbandonare l'atteggiamento di intransigente xenofobia.
Il movimento allora si orientò verso la riforma interna: con l'ascesa al trono del nuovo imperatore incominciò il periodo Meiji durante il quale lo shogunato fu soppresso ed il potere imperiale pienamente restaurato; furono inoltre attuate riforme che eliminarono gli aspetti più arcaici dell'ordinamento feudale e diedero una nuova struttura alla Stato affidando l'amministrazione a funzionari statali, sopprimendo le restrizioni all'iniziativa economica, introducendo un nuovo metodo di insegnamento e creando un esercito sulla base del servizio militare.
La maggior parte della classe dirigente aderì alla rivoluzione e si fece promotrice della trasformazione istituzionale: il nuovo governo si pose come obiettivo di dare al paese una moderna attrezzatura industriale per difendersi dall'invadenza occidentale.
Furono chiamati tecnici stranieri, altri giapponesi furono mandati a studiare fuori del paese e le campagne si "assunsero" l'onere finanziario dell'industrializzazione, perché sottoposte a durissima pressione fiscale.
Le nuove industrie create con fondi pubblici, furono poi passate a privati a condizioni favorevoli continuando però a essere sostenute dallo stato: dunque le concessioni delle fabbriche furono riservate a consorzi di grandi capitalisti che ebbero il monopolio di una larga parte della produzione e che conservarono sempre la tendenza a ricorrere alla protezione dello Stato e dell'autorità militare.
Però ora il mercato nazionale non bastava e il Giappone fu costretto a cercare all'estero le possibilità e le condizioni del suo sviluppo: si formò dunque l'ideologia del Grande Giappone ed il suo programma nazionalista e razzista di affermazione del dominio nipponico sull'Asia portò il Giappone ad avere una forte impronta bellicista che si manifestò con la guerra del 1894 contro la Cina e con il rapido inserimento di esso nelle potenze imperialistiche.
L'autoritarismo politico fu un altro aspetto necessario di questo tipo di sviluppo sociale: l'accoglimento delle richieste liberali fu soltanto apparente e la costituzione concessa nel 1889 non modificò la struttura assolutistica in quanto l'imperatore mantenne i suoi poteri illimitati e le caste militari restarono indipendenti dall'autorità politica, mentre al parlamento fu riservata una funzione quasi esclusivamente consultiva.
Per questo fu estremamente rigido l'atteggiamento del governo verso i tentativi di diffondere idee socialiste e di creare organizzazioni della classe operaia: il primo partito socialdemocratico, fondato nel 1901, fu sciolto e i suoi capi furono condannati a morte.
7- La sinistra al potere e lo sviluppo economico italiano
L'avvento della sinistra al potere nel 1876 suscitò un'ondata di recriminazioni e di timori.
Agli esponenti della destra sembrava riprovevole il fatto che per salire al governo la sinistra avesse fatto leva su qualsiasi tipo di malcontento e ritenevano pericoloso l'allargamento dei quadri della direzione politica ai rappresentanti della piccola e media borghesia che non davano sicurezza contro la minaccia della democrazia.
La politica del nuovo governo, sotto la direzione di Depretis, sgombrò il terreno da questi timori poiché si vide che le differenze tra le due correnti non erano così profonde: dopo i primi anni in cui fu più marcata la ricerca di una differenziazione della destra, egli non si irrigidì in una politica di partito in senso stretto e si sforzò anzi di assicurare al governo una più larga maggioranza parlamentare facendo in modo che in essa confluissero anche gruppi appartenenti ad altri schieramenti politici ed in particolare alla destra.
Attraverso questa pratica, nominata trasformismo, le barriere tra i due partiti vennero a cadere, lasciando ai margini della maggioranza le esigue forze dei conservatori, dei repubblicani e dei radicali.
Il cambiamento del partito di governo ed il trasformismo servirono a consolidare il sistema politico perché furono più apertamente riconosciute le esigenze delle diverse componenti della classe dirigente e fu assicurato un maggiore equilibrio dei loro interessi; inoltre vi fu un maggiore spazio politico alle forze della media e piccola borghesia che la destra aveva tenuto lontano dal governo.
Una parte del successo di Depretis e del suo trasformismo va attribuita anche alla pratica della concessione di favori e garanzie di poteri locale a gruppi politici e singoli deputati disposti ad entrare nella maggioranza.
Quasi a far da contrappeso all'allargamento delle forze di governo, sotto il regno di Umberto i il partito di corte si fece più attivo e si impegnò a far sentire la sua influenza conservatrice al di fuori dei normali canali parlamentari.
Il programma della sinistra si attuò con la riforma elettorale del 1882 che portò il numero degli elettori a 2 milioni e con la legge sull'obbligatorietà dell'istruzione elementare per un biennio: ma queste leggi mantenevano la discriminazione nei confronti dei contadini specialmente meridionali in quanto la legge sul diritto di voto escludeva gli analfabeti e i nullatenenti e perciò non riconobbe il diritto di voto ai contadini del sud, dove l'analfabetismo e la povertà erano largamente diffusi; la seconda legge invece era congegnata in maniera tale da restare inoperante proprio nelle zone più povere del mezzogiorno.
Un altro aspetto che rivelava la volontà del governo di difendere le strutture sociali arretrate nel mezzogiorno fu l'ostilità nei confronti dell'emigrazione, ostacolata con ogni mezzo, per evitare che mancasse manodopera e che perciò i padroni non potessero imporre salari bassi e contratti di lavoro gravosi: soltanto dopo il 1890, quando la sovrappopolazione delle campagne meridionali raggiunse punte insopportabili e pericolose, si cominciò a liberalizzare l'emigrazione.
Infine l'abolizione della tassa sul macinato non fu seguita da una riforma del sistema fiscale che continuò a gravare principalmente sui consumi popolari.
Sul piano economico l'immissione del grano americano e la riduzione dei noli marittimi provocarono una grave caduta dei prezzi agricoli che mise in crisi un largo settore dell'agricoltura europea: la crisi fu un'occasione per il riesame e la messa a punto della politica economica del governo.
In Italia c'era il problema dello sviluppo economico, con un ritardo che ogni giorno diventava sempre più grave e che non era limitato all'agricoltura ma riguardava principalmente l'industria: per superare tutto ciò era necessario che lo stato partecipasse e sostenesse lo sviluppo capitalistico - industriale e una simile impostazione prevedeva una forte pressione sull'agricoltura che avrebbe provocato l'immobilizzazione delle strutture agrarie del mezzogiorno.
Capisaldi di questa politica furono l'adozione del protezionismo doganale e le sovvenzioni dirette ad alcuni complessi industriali di particolare importanza: ci fu una prima fase di modesto sviluppo industriale che ancora non era il grande slancio e la contemporanea crisi agraria influì negativamente sull'andamento generale dell'economia, rallentando la formazione e l'investimento di capitali privati e mantenendo basso il livello della domanda del mercato.
La vera svolta protezionistica si ebbe nel 1887 con l'adozione di una tariffa che in pratica eliminò concorrenza straniera: questa volta la protezione fu estesa anche ad alcuni fondamentali prodotti alimentari.
Non si sa ancora quanto abbia influito questa mossa sul decollo dell'economia, ma è certo che dal 1896 si verificò quel decollo con l'inizio di una fase di intensa espansione che durò fino al 1908; in questo periodo si formò il cosiddetto triangolo industriale tra Lombardia, Piemonte e Liguria.Nella fase conclusiva ebbero un ruolo determinante le banche che fecero affluire capitali alle imprese industriali nascenti o in via di espansione.
Sorta sulla base della protezione statale e della compenetrazione con il capitale bancario, l'industria italiana assunse un carattere monopolistico: più che sulla competizione economica l'industria puntò sul dominio privilegiato del mercato, sui bassi salari, sulle commesse statali, sulla concentrazione delle imprese.
Il processo di industrializzazione non eliminò gli squilibri esistenti nel paese e in primo luogo tra il nord e il sud, che invece si aggravarono.
Anche nelle zone più arretrate del paese si ebbe una ripresa delle lotte contadine, contemporaneamente all'inizio della grande ondata migratoria che si ingigantì fino al 1913.
8 - Crispi. La nascita del partito socialista italiano e la svolta politica di fine secolo
La tentazione di ricorrere a metodi autoritari per dominare una situazione difficile si fece sentire sempre più e il più risoluto interprete di questa tendenza fu Francesco Crispi, sostenitore della politica di forza che diede un contenuto sempre più aggressivo al suo nazionalismo.
Queste tendenze erano estranee alla tradizione italiana soprattutto sul piano della politica estera caratterizzata fino a quel punto dalla prudenza; nel 1882 l'Italia aveva aderito alla Triplice Alleanza con Germania e Austria e aveva avviato una cauta politica coloniale, con l'acquisto della baia di Assab e l'occupazione del porto di Massaia.
Giunto al potere Crispi invece riconfermò i legami con la Triplice cercando di dare al trattato un'impronta antifrancese e un'aiuto per riprendere l'espansione coloniale in Africa: politica coloniale condotta con maggior decisione che dapprima si mantenne nei limiti e divenne in seguito più impegnativa, con l'allargamento dei possedimenti sulle coste del Mar Rosso.
L'imperialismo crispino non era sostenuto da una tendenza espansionistica della borghesia industriale ma basata sul bisogno di terra dei contadini meridionali, ai quali veniva indicata la possibilità di risolvere il loro problema mediante l'insediamento coloniale in Africa, mentre l'ostilità costante della Chiesa verso lo Stato e l'iniziale attività di organizzazione e di propaganda dei socialisti facevano ritenere sempre più pericolosi i risentimenti e i rancori del mondo contadino.
Nella politica interna l'opera di Crispi era basata sul rafforzamento del potere esecutivo, della repressione dei movimenti sociali e dell'opposizione di estrema sinistra.
Al fallimento di un tentativo di conciliazione con la Chiesa, seguì una ripresa dell'anticlericalismo che approfondì il solco tra liberali e cattolici.
Inoltre nel 1888 si procedette ad una riforma dell'amministrazione locale che rese elettive le cariche più importanti ma che nello steso tempo vennero sottoposte a più rigidi controlli mediante l'istituzione della giunta provinciale.
L'autoritarismo di Crispi provocava preoccupazioni, rese più gravi dalle conseguenze economiche della rottura dei rapporti con la Francia e dalla fioritura di speculazioni edilizie compiute dalle banche, che scoppiarono poi a breve tempo in scandali e che spinsero Crispi a dimettersi.
Gli successe il marchese Rudinì, che attenuò la politica antifrancese e cerco di impostare una politica di contenimento delle spese e poi il piemontese Giolitti, che durò fino al 1893.
Il problema del socialismo e delle agitazioni sociali era venuto intanto in primo piano nella politica interna e già si delineavano differenze di opinione; la stessa politica autoritaria aveva avuto l'effetto di sollecitare l'unificazione delle correnti e dei gruppi socialisti.
Una nuova corrente si era formata in Romagna ed in Emilia: il nuovo partito, che pure voleva condurre la lotta con mezzi legali fu sciolto, ma continuò ad agire e riuscì a far nascere nel 1892 a Genova il primo partito dei lavoratori italiano, il partito socialista italiano.
Al partito socialista si pose il difficile problema del coordinamento con l'agitazione dei contadini sia perché la società italiana era ancora in grandissima parte rurale sia perché in contemporanea si erano creati nuove organizzazioni d'ispirazione socialista in Sicilia (i fasci siciliani): i movimenti ben presto divennero di ampie proporzioni e allarmarono le classi dirigenti, anche se le loro rivendicazioni miravano semplicemente ad un miglioramento dei rapporti lavorativi e ad una più equa spartizione dei tributi.
Il movimento rivendicativo prese movimento nel 1893 quando era al governo Giolitti che vedeva il problema in maniera diversa da Crispi: egli pensava che l'oppressione e lo sfruttamento delle classi lavoratrici fossero un ostacolo all'evoluzione politica ed allo sviluppo economico del paese, mentre alti salai e migliori condizioni di lavoro avrebbero solleticato l'aggiornamento tecnico e l'investimento di capitali, favorendo l'attività produttiva; in un primo momento perciò fu restio ad utilizzare la forza per soffocare i fasci siciliani, con la speranza che tutto si risolvesse con un accordo.
Ma lo scoppio di altri moti analoghi, i moti della Lunigiana, diedero l'impressione che la rivolta si stesse spandendo per tutto il paese e Giolitti, accusato di debolezza e coinvolto nello scandalo della banca romana, dovette dimettersi e cedere il posto a Crispi.
L'agitazione dei fasci fu soffocata e l'ordine restaurato nell'isola: con l'occasione anche il partito socialista fu sciolto insieme alle organizzazioni sindacali.
Dunque il clima repressivo fu ricreato e fu ripresa anche la politica coloniale, malgrado l'insufficienza dei mezzi di cui in quel momento il governo poteva disporre e l'ostilità dell'opinione pubblica: la sconfitta di Adua fu un colpo durissimo che lo costrinse a rassegnare le dimissioni.
Rudinì, il successore, si impegnò in una revisione generale della politica governativa: fu fatta la pace con l'Abissinia, furono riprese le relazioni con la Francia e fu concessa una amnistia ai condannati politici, ma la minaccia di tipo reazionaria non venne meno e non furono abbandonati i metodi repressivi.
Il problema interno si aggravò, da una parte i fautori della repressione e dall'altra parte i fautori della libertà ma crescevano le forze dell'opposizione e l'opinione pubblica si stava orientando sempre più decisamente a favore della linea non reazionaria.
La decisiva prova di forza tra i due schieramenti cominciò nel 1898, quando in numerose città italiane scoppiarono tumulti contro il carovita e la reazione del governo fu durissima; contemporaneamente vennero arrestati anche molti militanti e capi socialisti.
Di fronte alle proteste che seguirono questi avvenimenti, il generale Pelloux presentò alcuni provvedimenti che limitavano le libertà di stampa, associazione e di riunione: socialisti, repubblicani e liberali fecero fronte comune e cercarono di opporsi, anche con il metodo dell'ostruzionismo.
Il governo indì nuove elezioni nelle quali però i vari schieramenti dell'opposizione ottennero la maggioranza.
Umberto I cedette il governo a Saracco ma il re venne ucciso e Vittorio Emanuele III fece formare un nuovo governo, nel quale entrò anche Giolitti: la svolta consisteva nel riconoscimento della libertà di organizzazione e di azione politica delle classi lavoratrici e della necessità di introdurre anche in Italia una legislazione protettiva del lavoro.
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