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Storia contemporanea




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-        CESARE: Caio Giulio Cesare (100-44)
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STORIA CONTEMPORANEA


LO SCOPPIO DELLA GUERRA


L'elemento più carico di tensione fu senz'altro la crescente ostilità tra Serbia e Austria-Ungheria, aggravato dalla lotta tra Austria e Russia per l'egemonia sui Balcani. Nei Balcani la Serbia costituiva il principale nemico dell'Austria e il maggiore nemico per la conservazione dell'Impero austro-ungarico. Pertanto il governo di Vienna era deciso a schiacciarla prima che fosse troppo tardi, pur essendo consapevole che una guerra nei Balcani avrebbe inevitabilmente coinvolto la Germania e la Russia e, con ogni probabilità, anche la Francia e l'Inghilterra. Dopo le guerre balcaniche del 1912-13, il governo austriaco aveva dovuto soffocare violente agitazioni nazionalistiche degli Slavi del sud che inneggiavano a una «Grande Serbia». Il distacco dei territori Slavi a sud del Danubio avrebbe infatti provocato la dissoluzione dell'Impero e un ampliamento della Serbia, dietro alla quale si nascondevano le ambizioni panslaviste della Russia. L'arciduca Francesco Ferdinando, erede al trono di Francesco Giuseppe, fautore di una politica liberale, intendeva riorganizzare su basi federaliste l'Impero austro-ungarico. I suoi piani incontravano però la netta opposizione dei patrioti serbi, che consideravano con ostilità ogni progetto tendente a prolungare la sovranità austriaca sugli Slavi meridionali. La situazione si aggravò al punto che un fanatico nazionalista, Gavrilo Princip, attentò alla vita dell'arciduca e di sua moglie, recatisi in visita a Sarajevo, capitale della Bosnia. L'assassinio fu così l'occasione, per l'Austria, di schiacciare una volta per tutte i fermenti indipendentisti slavi e di scatenare un conflitto destinato ad assumere dimensioni mondiali. Il 23 luglio l'Austria, attribuendo alla Serbia la responsabilità morale dell'attentato, inviò un ultimatum al governo serbo, che lo respinse ritenendolo lesivo dei diritti di uno Stato sovrano. Al rifiuto della Serbia, l'Austria rispose il 28 luglio con la dichiarazione di guerra, che provocò lo scatto quasi automatico dei meccanismi delle alleanze. La Russia ordinò infatti la mobilitazione generale in soccorso della Serbia, mentre la Germania, il 1s agosto, dichiarò guerra alla Russia e, due giorni più tardi, alla Francia, sua alleata. La Germania attaccò la Francia violando la neutralità del Belgio, sancita dal 1839 e determinando, oltre al crollo momentaneo dell'esercito francese, l'intervento della Gran Bretagna a fianco della Francia. La Germania si attirò così anche la condanna unanime da parte dell'opinione pubblica internazionale. Il conflitto non era tuttavia destinato a rimanere circoscritto alla sola Europa: il 23 agosto entrò in guerra contro la Germania anche il Giappone, che mirava ad impadronirsi dei possedimenti tedeschi in Cina. La guerra assumeva dunque una dimensione mondiale, estesa ulteriormente dalla Turchia, che il 31 ottobre si schierava a fianco degli imperi centrali, provocando gravi danni all'Intesa, le cui flotte, con la chiusura dello Stretto dei Dardanelli, si videro precluse le vie di comunicazione con la Russia. Nessuno dei contendenti era preparato ad una guerra lunga e logorante: allo scoppio delle ostilità, era opinione corrente che il conflitto sarebbe stato di breve durata e basato sulla strategia politica e militare tradizionale.


LE PRIME OPERAZIONI


La Germania era bene organizzata per una guerra breve e intensa. Applicando il Piano Schlieffen, essa impegnò le proprie forze sul fronte occidentale per giungere a una soluzione rapida del conflitto, convinta che la sconfitta della Francia, da ottenersi nel giro di poche settimane con la conquista di Parigi e delle province industriali del nord, avrebbe provocato, di riflesso, anche il tracollo finanziario della Russia. Il piano tedesco si basava sull'effetto-sorpresa dell'invasione del Belgio, e sull'impeto di un attacco che, nelle previsioni, avrebbe dovuto aprire in breve tempo la strada verso Parigi. Contemporaneamente, sul fronte orientale, sarebbe stato sufficiente appoggiare l'esercito austro-ungarico con piccoli contingenti per tenere sotto controllo i Russi. Il piano era ingegnoso e si proponeva di aggirare le fortificazioni alla frontiera franco-tedesca invadendo la Francia da nord attraverso il Belgio, avendo come punto di riferimento la fortezza di Metz. Le armate tedesche, composte da circa due milioni di uomini, erano state disposte col proposito di avanzare e attaccare la capitale da sud, in modo da accerchiare le armate francesi, chiuse tra Parigi e i Vosgi. Per quanto curato nei minimi particolari, il piano fallì per alcuni errori del giovane capo di stato maggiore, von Moltke, e soprattutto per una iniziativa personale del generale Bìulow, che comandava la seconda delle tre armate, quella che avrebbe dovuto puntare direttamente sulla capitale. Le armate di Bülow finirono invece per passare a est di Parigi consentendo così ai generali francesi Joffre e Gallien di lanciare una violenta offensiva contro il loro fianco: la battaglia della Marna (5-9 settembre 1914) salvò Parigi spostando le linee verso est, lungo l'Aisne e la Somme. I Tedeschi tentarono lo sfondamento con l'obiettivo di occupare la costa, ma i porti sulla Manica furono salvati consentendo così l'arrivo degli aiuti britannici e, col giungere dell'inverno, entrambe le parti si chiusero nelle trincee in una posizione di stallo destinata a durare fino al 1918.


IL FRONTE ORIENTALE


Più rapida del previsto fu la mobilitazione dell'esercito russo, il cui alto comando fu assunto dal granduca Nicola. Grazie alle informazioni di ufficiali slavi al servizio degli Asburgo, i Russi poterono infatti prevenire i piani di guerra dell'Austria-Ungheria invadendo la Galizia e destinando due grandi armate all'invasione della Prussia orientale. Contro di esse vennero infatti inviate forze tedesche al comando dei generali Hindenburg e Ludendorff che conseguirono schiaccianti vittorie a Tannenberg (3 agosto) e sui laghi Masuri (7-13 settembre), tanto che oltre duecentocinquantamila soldati russi furono uccisi o fatti prigionieri. Per fronteggiare la situazione, la Germania era stata però costretta a indebolire il fronte occidentale, senza che la vittoria riportata sui Russi potesse dirsi decisiva, dato che in Galizia, contro gli Austro-Ungheresi, erano stati i Russi ad avere la meglio. Pertanto, anche sul fronte orientale si giunse a una posizione di stallo che immobilizzò enormi contingenti di truppe tedesche e austro-ungariche. Anche la flotta tedesca era trattenuta nei porti, assediati da ingenti forze della marina britannica. Con l'inverno 1914-15 su tutti e due i fronti iniziò pertanto una guerra di logoramento alla quale nessuno era preparato e, per spezzare l'immobilismo, entrambe le parti furono indotte ad allargare il campo del conflitto, mentre si approfondivano le lacerazioni politiche interne e in vari Paesi la situazione si faceva difficilissima. Inoltre la coordinazione tra la Russia e i suoi alleati era scarsissima e limitata al reciproco impegno a non concludere una pace separata. Nel 1915 l'Inghilterra progettò di sferrare un attacco ai Dardanelli tendente ad allentare la pressione turca sul Caucaso, per consentire così i rifornimenti via mare alla Russia. Contro il parere dei Francesi, che non intendevano sguarnire il fronte occidentale, e per volontà di Winston Churchill, primo lord dell'Ammiragliato, nel marzo una grande spedizione anglo-francese fece rotta verso i Dardanelli, sbarcando nella penisola di Gallipoli. La spedizione fallì, poiché le forze alleate incontrarono una resistenza così forte da essere costrette a ritirarsi, subendo ingenti perdite.


L'ITALIA E LA GUERRA


L'ultimatum inviato dall'Austria alla Serbia fu redatto senza che vi fossero accordi preliminari con l'Italia. Ciò consentì al nostro Paese di rimanere neutrale, benché fosse legato agli imperi centrali dalla Triplice Alleanza. Naturalmente la proclamazione della neutralità non impedì che l'opinione pubblica si dividesse nei due opposti partiti dei neutralisti e degli interventisti. All'inizio i neutralisti erano senza dubbio in maggioranza sia nel Paese sia in Parlamento. Il loro schieramento era piuttosto composito e comprendeva i socialisti, i cattolici e i liberali giolittiani. I socialisti erano neutrali per questioni di principio. A differenza di altri partiti socialisti aderenti alla Seconda Internazionale, essi mantennero la loro ostilità alla guerra, considerata come una conseguenza dell'imperialismo e quindi contraria agli interessi dei lavoratori. Nel 1915, dopo l'intervento in guerra dell'Italia, i socialisti adottarono il motto «né aderire né sabotare», che se da un lato si rivelò privo di una qualsiasi efficacia politica, dall'altro li espose all'accusa di tradimento. Contrari erano anche i cattolici, sia per ragioni morali, sia perché erano riluttanti a prendere le armi contro l'Austria che rimaneva pur sempre un Paese cattolico. Il neutralismo dei liberali, e in particolare quello del loro leader Giovanni Giolitti, era fondato su precise considerazioni di carattere realistico: essi infatti erano convinti che sarebbe stato più opportuno risolvere le divergenze con l'Austria attraverso la diplomazia; l'avventura bellica, proprio per gli sconvolgimenti politici e sociali che comportava, veniva giudicata una soluzione estrema e pericolosa. Non meno variegato era il campo interventista; favorevoli alla guerra furono innanzitutto i conservatori, tra i quali Salandra, Sonnino e Luigi Albertini, direttore del «Corriere della Sera», i quali sostenevano che l'Italia avrebbe dovuto necessariamente partecipare al conflitto per salire al rango delle grandi potenze. Interventisti furono però anche alcune personalità democratiche come il social-riformista Leonida Bissolati e il radical-progressista Gaetano Salvemini i quali, seppure con diverse sfumature, pensavano alla guerra contro l'Austria come una prosecuzione delle lotte risorgimentali e come un impegno di solidarietà con le grandi democrazie occidentali opposte agli imperi centrali. Oltre ai democratici furono favorevoli alla guerra soprattutto i nazionalisti che, esaltando ideali imperialistici, consideravano il conflitto un bene in se stesso. I nazionalisti, intrisi di ideologie antidemocratiche, in un primo tempo perorarono l'intervento a favore degli imperi centrali e solo in un secondo tempo si convertirono alla causa dell'Intesa. Capo riconosciuto del movimento nazionalista fu Gabriele d'Annunzio, che arrivò ad incitare i suoi seguaci allo scontro fisico con i neutralisti. Ultimo acquisto in campo interventista fu Benito Mussolini, socialista, che, in un primo tempo, come direttore de «l'Avanti» ed esponente dell'ala rivoluzionaria del partito, aveva proclamato la sua irriducibile avversione alla guerra. Espulso dal partito, Mussolini fondò, con l'appoggio finanziario della Francia, il giornale «Il Popolo d'Italia», dalle cui colonne sostenne la causa nazionalista. A favore della guerra furono infine gli irredentisti (Cesare Battisti, Nazario Sauro, Damiano Chiesa) che si riproponevano di liberare i territori italiani ancora soggetti all'Austria. Mentre erano in corso le polemiche tra i diversi schieramenti, il governo Salandra, venendo meno ai patti della Triplice Alleanza, tramite il ministro egli Esteri Sidney Sonnino, prese contatto con l'Intesa: il 26 aprile 1915 stipulò con gli Alleati un trattato segreto, il Patto di Londra, in base al quale l'Italia si impegnava ad intervenire contro gli imperi centrali entro un mese. Il patto prevedeva, come contropartita, una serie di compensi territoriali a vittoria ottenuta: il Trentino e l'Alto Adige, Trieste, l'Istria e la Dalmazia, il porto di Valona in Albania. Col Patto di Londra, l'ingresso dell'Italia in guerra era praticamente deciso. Ora al partito interventista e al governo rimaneva il difficile compito di convincere la nazione e il Parlamento della necessità di entrare in guerra, tanto più che gli accordi con l'Intesa erano stati raggiunti senza che il Parlamento stesso ne fosse a conoscenza. L'obiettivo venne raggiunto attraverso lo scatenamento di un'odiosa campagna intimidatoria, legata a manifestazioni di piazza (le radiose giornate), nelle quali si distinse Gabriele D'Annunzio, che aizzò la folla a linciare Giolitti e a disprezzare i socialisti, che dovevano essere considerati alla stregua di vigliacchi e traditori a causa del loro pacifismo. Il Parlamento tuttavia rimaneva contrario alla guerra e Salandra, vistosi battuto, rassegnò le dimissioni al re, che le respinse. Ritiratosi Giolitti dalla lotta, la Camera cedette e votò in favore dell'intervento. Gli unici voti contrari furono espressi dai socialisti. Il 24 maggio la dichiarazione di guerra venne consegnata all'Austria.


L'OFFENSIVA DI VERDUN E LA CONTROFFENSIVA DELLA SOMME


Nel 1916 furono sferrate una serie di offensive e controffensive che, pur essendo caratterizzate dall'impiego di mezzi ingenti e causando perdite notevoli, apportarono cambiamenti di rilievo solo sul fronte orientale. Qui, infatti, il conflitto era tornato ad essere una guerra di movimento, sia perché i Russi mancavano di artiglieria pesante, sia perché il fronte era troppo lungo per poter costruire linee trincerate. Questa mobilità costò ai Russi la perdita di due milioni di uomini, tra morti, feriti e prigionieri, ma, disponendo di grandi risorse umane, l'esercito zarista poté continuare la lotta. I Russi rientrarono in possesso della Bucovina e della Galizia e ciò portò la Romania ad entrare in guerra a fianco dell'Intesa (27 agosto). Con l'esaurirsi dell'offensiva russa, la Romania venne circondata dagli eserciti nemici e fu così costretta ad arrendersi agli imperi centrali e alla Bulgaria, le cui truppe la occuparono completamente. Non essendosi dimostrati decisivi i successi tedeschi sul fronte orientale, il generale Falkenhayn, successore di von Moltke come capo di stato maggiore, decise di puntare nuovamente sul fronte occidentale, elaborando un piano basato su una strategia di logoramento. Scelto nella difesa francese un punto vitale, che gli avversari avrebbero difeso a qualsiasi costo, concentrò su di esso l'attacco, in modo da costringere i Francesi ad attingere alle proprie riserve. Il punto prescelto fu la fortezza di Verdun, contro la quale vennero ammassate diciannove divisioni tedesche. Non meno gravi furono tuttavia le perdite tedesche durante i cinque mesi di battaglia, conclusasi nel luglio 1916 col sacrificio di 350.000 francesi e di un numero di poco inferiore di soldati tedeschi, senza provocare spostamenti di rilievo nelle forze in campo. Per allentare la pressione nemica su Verdun, all'inizio del luglio 1916 le truppe inglesi sferrarono la loro prima grande offensiva sulla Somme, dove, per la prima volta, furono impiegati i carri armati. I comandanti non furono però in grado di usarli efficacemente per aprire una via attraverso le linee tedesche, e anche la battaglia della Somme si prolungò sino a ottobre, costando perdite superiori a quella di Verdun: mezzo milione di uomini ai Tedeschi, quattrocentomila agli Inglesi, duecentomila ai Francesi.


LA GUERRA SUI MARI


Per indebolire economicamente il nemico, le potenze dell'Intesa avevano imposto il blocco navale alla Germania e ai suoi alleati, cosicché anche le importazioni dai Paesi neutrali erano soggette a notevoli limitazioni. La Germania reagì iniziando un'intensa guerra sottomarina che irritò notevolmente l'opinione pubblica americana. Nel maggio del 1915 un sottomarino tedesco aveva silurato infatti, al largo della costa irlandese, il piroscafo inglese «Lusitania». Poiché tra le milleduecento persone che vi persero la vita figuravano un centinaio di cittadini statunitensi, il presidente Wilson avvertì la Germania che non avrebbe tollerato il ripetersi di un simile atto. La Germania rinunciò allora temporaneamente alla guerra sottomarina, che riprese poi nel 1917 provocando l'intervento americano. Durante l'intero periodo della guerra si ebbe una sola grande battaglia navale, quella dello Jutland, nel 1916. La flotta inglese, che aveva le sue basi a Scapa Flow e a Rosyth, controllava la flotta tedesca ancorata nei porti del Mare del Nord, dietro una barriera di campi minati. Per allentare la crescente pressione del blocco navale e per cercare di distruggere parte della flotta britannica, l'ammiraglio tedesco Scheer decise di dare battaglia. All'ammiraglio Hipper fu assegnato il compito di fare da esca e il 31 maggio 1916, al comando di una squadra di esploratori e incrociatori leggeri, egli entrò in contatto con una formazione inglese al comando dell'ammiraglio Beatty. Sin dal 1914, però, l'ammiragliato britannico conosceva il codice segnaletico tedesco, e aveva pertanto ordinato alla flotta di salpare. Si giunse così allo scontro tra le due grandi flotte, al comando degli ammiragli Scheer e Jellicoe. Le navi tedesche riuscirono a infliggere delle perdite agli avversari, ma la battaglia si risolse in una grande vittoria britannica. Approfittando dell'oscurità della notte, infatti, la flotta tedesca si ritirò oltre i campi minati e, all'alba, gli Inglesi si ritrovarono padroni di un mare deserto. Nell'agosto successivo i Tedeschi tentarono un agguato sottomarino che fallì. Frattanto continuava il blocco, e i Tedeschi decisero di intensificare gli attacchi sottomarini. L'aggressività degli «U-boot» tedeschi, che nel febbraio del 1917 affondarono navi per oltre cinquantamila tonnellate e in marzo per seicentomila, contribuì ad accrescere i timori e il risentimento degli Americani, che ormai consideravano inevitabile il loro intervento. Il 2 aprile il Congresso autorizzò il presidente Wilson a dichiarare guerra alla Germania. Annunciando il suo intervento, il presidente statunitense precisò che gli Stati Uniti entravano in guerra «per difendere la democrazia per i diritti e le libertà delle piccole nazioni e per ristabilire, a fine conflitto, l'egemonia universale del diritto».


LA CADUTA DELLO ZAR


Frattanto si era avuto il crollo militare della Russia, alla quale Germania e Austria-Ungheria avevano inflitto immense perdite, soprattutto a causa dell'inefficienza e l'indecisione del comando supremo zarista e per la cronica scarsità di munizioni. Molto gravi furono le ripercussioni interne, e la situazione andò facendosi sempre più critica, sino a diventare insostenibile. Il peso maggiore della guerra aveva finito col gravare sulle spalle di milioni di contadini mandati a morire in nome di un regime da essi generalmente odiato. Nel marzo del 1917 si ebbero vari ammutinamenti e una grande ondata di scioperi, soprattutto nella capitale: ciò portò la tensione a un punto tale che lo zar Nicola II fu costretto ad abdicare in favore del fratello, il granduca Michele, che a sua volta abdicò mentre il problema del nuovo assetto costituzionale veniva rimandato a una futura assemblea costituente. Il governo provvisorio, presieduto dal principe L'vov, decise di continuare la guerra con rinnovato vigore. In contrapposizione al governo si era costituito intanto a Pietroburgo un Soviet eletto dagli operai e dai soldati della capitale, il che aveva determinato una dualità di poteri. Mentre infatti il governo incitava il popolo a compiere un ulteriore sforzo bellico in cambio di vaghe promesse democratico-costituzionali, il Soviet dichiarava di voler concludere la guerra per iniziare la rivoluzione sociale. Nel luglio del 1917 al governo L'vov ne seguì uno provvisorio presieduto dal socialista moderato Aleksandr Kerenskij. Il nuovo governo rappresentava il chiaro tentativo di costituire un'asse di equilibrio tra il Comitato esecutivo dei moderati e il Soviet di Pietroburgo. Inizialmente i bolscevichi non fecero parte né del Soviet né del governo, ma l'evolvere della situazione era attentamente seguito da Lenin. Egli era deciso a fare in modo che l'intervallo tra la rivoluzione borghese, il cui organo rappresentativo era il governo provvisorio, e la rivoluzione proletaria, rappresentata dal Soviet, venisse ridotto, per consentire il passaggio immediato dalla prima alla seconda. Lenin era rientrato in Russia dalla Svizzera nell'aprile del 1917 attraverso la Germania e la Svezia, viaggiando su un treno blindato col permesso dell'alto comando tedesco che contava sulla rivoluzione per accelerare il crollo della Russia. Il leader comunista accentuò la funzione rivoluzionaria dei comitati, lanciando lo slogan «tutto il potere ai Soviet». Costretto a sostenere contemporaneamente il peso della guerra e della rivoluzione, il governo provvisorio, dopo essere riuscito ad avere ragione della rivolta bolscevica scatenata nel luglio, non poté fare nulla per evitare la dissoluzione delle armate provocata dalla diserzione in massa dei contadini. Così i leninisti, assunto il controllo di gran parte dei Soviet, compreso quello della capitale, si prepararono a sferrare il colpo decisivo contro un governo ormai giunto sull'orlo del crollo. Nella notte tra il 6 e il 7 novembre (25 ottobre, secondo il calendario giuliano allora usato in Russia) venne attuato il colpo di Stato, preparato dal comitato militare rivoluzionario del Soviet di Pietroburgo controllato da Trotzkij. Nel giro di pochi giorni l'intera Russia venne posta sotto l'autorità del congresso dei Soviet. In dicembre Trotzkij, incaricato della Difesa e degli Affari Esteri, iniziò i negoziati con la Germania e il 3 marzo 1918, con la firma del trattato di Brest-Litovsk, si concluse la guerra russo-tedesca.


LA DISFATTA DI CAPORETTO


Nel corso del 1917 le forze belligeranti si resero conto che il conflitto si andava prolungando oltre le previsioni della vigilia, comportando enormi costi in termini di vite umane e di risorse. I mezzi tecnici in dotazione agli eserciti di allora non permettevano infatti la guerra di movimento (l'impiego dei carri armati e dell'aviazione era appena agli inizi) e favorivano piuttosto la guerra di posizione e di logoramento, che alla lunga avrebbe inevitabilmente avvantaggiato gli Stati che disponevano di maggiori risorse umane e materiali per far fronte allo sforzo bellico. La svolta decisiva avvenne proprio nel 1917, allorché gli imperi centrali, consapevoli della loro inferiorità, gettarono nel conflitto le loro residue energie. Decisivo si dimostrò l'intervento statunitense, soprattutto nella lotta contro i sottomarini tedeschi. La guerra sottomarina era stata accompagnata da una nuova offensiva tedesca sul fronte occidentale, e il tentativo del generale francese Nivelle di sferrare un poderoso attacco si era risolto con la perdita di centomila uomini. Si accrebbe allora il malcontento fra le truppe francesi e si ebbero alcuni ammutinamenti. Nivelle venne sostituito dal generale Pétain che riuscì a riportare la disciplina, impegnandosi poi nella battaglia di Passchendaele, che consentì ai Francesi di avanzare di alcuni chilometri, ma costò ben quattrocentomila morti. Alla fine del 1917 gli Inglesi sferrarono un attacco a sorpresa nei pressi di Cambrai, mettendo in campo circa quattrocento carri armati che riuscirono a sfondare le linee tedesche e a penetrare in profondità. Mancavano però carri armati di riserva, e il terreno conquistato dovette essere presto abbandonato. Si ritornò al precedente immobilismo, che fu possibile spezzare soolo nel 1918, grazie alla collaborazione delle forze statunitensi. Sul fronte italiano, la guerra si era sviluppata inizialmnte con una serie di attacchi sull'Isonzo, interrotti nel maggio del 1916 da una controffensiva austriaca, la Strafexpedition, che non aveva però raggiunto i risultati sperati. Nel mese seguente era entrato in crisi il ministero Salandra, sostituito dal governo Boselli che confermò Sonnino agli Esteri. Boselli, nel tentativo di rinvigorire l'intervento italiano, dichiarò guerra anche alla Germania (28 agosto); senonché nell'anno successivo, dopo le reiterate offensive che li avevano costretti ad arretrare al di là dell'Isonzo, gli Austro-Tedeschi sfondarono le linee italiane. Dopo la battaglia della Bainsizza, undicesima offensiva italiana sull'Isonzo, il generale tedesco Ludendorff arrivò infatti alla conclusione che l'Austria non avrebbe potuto resistere un altro anno e che per evitarne il crollo era necessario schiacciare l'Italia. Il 23 ottobre le forze austro-tedesche sferrarono sull'alto Isonzo l'offensiva di Caporetto, riuscendo a sfondare il fronte italiano. Ne seguì una ritirata che costò ingentissime perdite tra morti e prigionieri, mentre altre migliaia di soldati disertavano. Venne stabilita una linea difensiva sul Piave, e il generale Cadorna venne sostituito al comando supremo dal generale Armando Diaz. Il disastro causò anche la caduta del ministero Boselli, rimpiazzato da un nuovo governo presieduto da Vittorio Emanuele Orlando. Gran Bretagna e Francia inviarono rinforzi, e gli Austriaci, nonostante i ripetuti tentativi, non riuscirono a travolgere la nuova linea difensiva.


LA FINE DELLA GUERRA


Dopo quattro anni di guerra, nel 1918 vennero adottate da ambo le parti nuove tattiche. Per meglio resistere all'offensiva tedesca, fu creato un unico comando alleato, e la carica di comandante supremo fu assunta dal generale francese Foch. Da parte loro i Tedeschi, comandati dal generale Ludendorff, iniziarono una grande avanzata lungo la Marna su un fronte di oltre sessanta chilometri, senza però riuscire a conquistare il nodo ferroviario di Arras. Essi vennero poi battuti dal generale Foch che, dopo aver neutralizzato i Tedeschi, sferrò una serie di attacchi decisivi in rapida e immediata successione, potendo contare sull'aiuto di nove divisioni statunitensi e su un afflusso continuo di soldati americani. Mentre andava delineandosi la vittoria alleata in Francia, anche sul dimenticato fronte della Bulgaria veniva lanciato, nel settembre del 1918, un poderoso attacco che costringeva i Bulgari a deporre le armi, mentre Cechi e Polacchi abbandonavano l'Impero asburgico per proclamare l'indipendenza dei loro territori. Anche sul fronte italiano si aveva un rovesciamento di posizioni, e la sconfitta di Caporetto veniva riscattata nell'ottobre 1918 a Vittorio Veneto, dove gli Italiani riportavano una vittoria destinata a diventare uno dei «miti» nazionali. I rovesci militari ebbero gravi ripercussioni interne sia in Austria sia in Germania, e all'alto comando tedesco non rimase altra alternativa che chiedere la pace. Il 9 novembre Guglielmo II abdicava, rifugiandosi in Olanda, mentre veniva firmato l'armistizio. Nell'ultima fase della guerra erano avvenuti in Austria notevoli cambiamenti interni. Nel novembre del 1916 il vecchio imperatore Francesco Giuseppe era morto, e gli era succeduto il diciannovenne Carlo I (o Carlo VIII), animato da propositi di pace, ma politicamente impreparato e privo di una valida guida. Ancora prima che, nel novembre 1918, egli rinunciasse a ogni pretesa al trono dell'Austria e dell'Ungheria, il dominio asburgico si era frantumato in una serie di blocchi nazionali, riconosciuti come cobelligeranti dalle potenze occidentali. Il 12 novembre 1918, con la proclamazione della Repubblica Austriaca, veniva ufficialmente consacrata la dissoluzione del grande impero costruito dagli Asburgo nel corso di sette secoli di storia. Invano, alla Conferenza di pace di Parigi, il nuovo cancelliere socialista Karl Renner cercò di dimostrare che egli rappresentava una nazione nuova, al pari degli altri Stati nati dalla dissoluzione dell'Impero asburgico: l'Austria, ormai ridotta a un piccolo Stato, venne trattata come gli altri Paesi sconfitti. Col trattato di Saint-Germain essa cedeva all'Italia il Tirolo (dal passo del Brennero), il Trentino, Trieste e l'Istria; alla Cecoslovacchia la Boemia, la Moravia, la Slesia austriaca e parte della Bassa Austria; alla Romania la Bucovina e al nuovo Stato di Jugoslavia la Bosnia, l'Erzegovina e la Dalmazia. Non migliore fu il trattamento riservato all'Ungheria, che dovette cedere immensi territori ai Paesi vicini, soprattutto alla Romania, e accettare che tre milioni di Magiari diventassero sudditi di altri Stati.


IL NUOVO ASSETTO EUROPEO


Protagoniste della conferenza di Parigi furono le grandi potenze vincitrici: Stati Uniti, Gran Bretagna e Francia. L'Italia, inclusa insieme con il Giappone tra i «grandi» per pura cortesia, abbandonò presto la conferenza da cui si era già ritirato il Giappone. La conferenza si era aperta a Parigi il 18 gennaio 1919 e la sua seduta conclusiva si tenne il 21 gennaio 1920, senza che fossero stati ancora firmati i trattati di pace con l'Ungheria e la Turchia. Ad essa erano rappresentati, oltre agli «alleati», anche le potenze «associate». Poiché nelle sue ultime fasi molti Stati avevano aderito alla guerra, il gruppo dei Paesi rappresentati era piuttosto numeroso e comprendeva anche vari Stati latino-americani. Erano invece assenti i Russi e i rappresentanti delle potenze nemiche: Germania, Austria, Ungheria, Bulgaria, Turchia.

Con il trattato di Versailles firmato il 28 giugno 1919 la Germania cedette al Belgio i piccoli distretti di Eupen e Malmedy, restituì alla Francia l'Alsazia-Lorena e consentì che si tenesse nello Schleswig un plebiscito per la determinazione del confine con la Danimarca. Inoltre essa cedette per quindici anni alla Francia la regione carbonifera della Saar, il cui destino sarebbe poi stato determinato da un referendum, mentre l'esercito tedesco veniva ridotto a centomila uomini e si proibiva alla Germania di costruire aerei militari, artiglieria pesante e carri armati.

Per garantire l'adempimento delle condizioni stabilite e il pagamento delle riparazioni di guerra, le forze di occupazione alleate sarebbero rimaste in Renania per quindici anni. Infine la Germania rinunciava a tutti i suoi diritti sull'impero coloniale del Reich. Le frontiere tedesche subirono spostamenti non solo a ovest, ma anche a est, in seguito alla sistemazione dell'Europa orientale e alla nascita di due nuovi Stati: Polonia e Cecoslovacchia. Alla prima cedette una fascia nota come «corridoio polacco», corrispondente al basso corso della Vistola, mentre il porto di Danzica diveniva città libera, amministrata dalla Società delle Nazioni. Alla Cecoslovacchia cedette la piccola zona nei pressi di Troppau, mentre venne stabilito che nelle aree plurinazionali della Prussia orientale e della Slesia settentrionale si tenessero dei plebisciti. Inoltre la Germania sconfessava il trattato di Brest-Litovsk e riconosceva l'indipendenza degli ex territori russi. Ciò consentì ai Paesi baltici - Finlandia, Estonia, Lettonia e Lituania - di diventare Stati sovrani, consolidando la posizione della Polonia. Il trattato con la Germania stabiliva inoltre che essa avrebbe rinunciato a qualsiasi progetto di unione con l'Austria. La carta politica dell'Europa risultò notevolmente modificata dal trattato di Versailles e da quelli successivi di Saint-Germain con l'Austria (10 settembre 1919), di Neuilly con la Bulgaria (27 novembre 1919), di Trianon con l'Ungheria (4 giugno 1920), di Sèvres con la Turchia (20 agosto 1920), in seguito respinto dal governo turco e sostituito dal trattato di Losanna (6 agosto 1924).


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