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Paesaggio agrario e territorio nella Sardegna giudicale




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Paesaggio agrario e territorio nella Sardegna giudicale



L'organizzazione amministrativa dei giudicati.



Il paesaggio agrario sardo in epoca giudicale era caratterizzato da una divisione in distretti territoriali denominati Curatorìe, nella Sardegna meridionale (nei giudicati di Calari ed in quello d'Arborea) essi venivano chiamati anche Partes.

Le curatorìe furono poste sotto la giurisdizione di un alto funzionario giudicale al quale competevano mansioni di carattere amministrativo ed anche giudiziario, tale funzionario fu chiamato Curatore.1

Una tale organizzazione amministrativa non è attestata negli altri stati europei del tempo, siano essi di origine latino-barbarica che greco-bizantina.2

Questi distretti erano, nei singoli giudicati, di varia estensione, e risultavano formati da un complesso più o meno numeroso di ville, per ragioni topografiche, etniche, politiche, storiche e demografiche3; infatti erano formati da un insieme proporzionale di ville in modo da ottenere una popolazione pressoché uguale in ciascuna curatorìa, conseguentemente le più piccole erano quelle più densamente popolate, mentre le più grandi erano spopolate e dovevano contenere al loro interno numerose ville fino a raggiungere un numero di abitanti pari a quello delle altre curatorìe; in caso di aumento o regresso demografico le curatorìe venivano accorpate o divise.

Le ville componenti la curatorìa si legavano ad un determinato territorio e dipendevano dalla villa più importante, la quale divenne il capoluogo della regione; probabilmente in questa villa, dove il curatore aveva la sede ordinaria del proprio governo << curia, domus >>, si radunava anche l'assemblea locale << corona, collectu, golletorgiu >>, per le decisioni che richiedevano il consenso della popolazione libera.4

Queste assemblee, che testimoniano la prosecuzione di antichi usi, si tenevano nella chiesa del capoluogo, oppure davanti alla chiesa, o più spesso nella casa o davanti alla casa del curatore << ubi est solitum convocari consilium dicte universitatis >>; nei documenti Logudoresi si incontrano spesso le indicazioni di luoghi detti << gollettorgios >> ( = luogo di adunanza ), per esempio nel Condaghe di San Pietro di Silki, scheda 285: << gollettoriu de silva>>, oppure nella scheda 202: << nurake de gollettoriu>>, probabilmente l'adunanza si teneva, in questo caso, in prossimità di un nuraghe.

Il Solmi pensò che tra il capoluogo della curatorìa e le ville da esso dipendenti vi fossero oltre a rapporti giurisdizionali, tributari e politici, anche interessi comuni rappresentati dal godimento dei frutti di speciali terre fiscali, chiamate in epoca tarda Ademprivi, destinate all'uso collettivo degli abitanti di un determinato distretto, sotto la sorveglianza del curatore che esercitava la sua giurisdizione, attraverso degli ufficiali detti Maiores, sulle Kitas circoscrizionali, cioè le organizzazioni preposte alla tutela dei terreni o saltus (la Kita de saltus) e all'esazione dei redditi e delle multe (Kita de Kerkitores).5

L'elenco delle curatorìe, con le relative ville, fu tracciato per la prima volta dal Fara, fu ripreso più tardi dall'Angius e rivisto in maniera più approfondita dal Besta e successivamente da altri storici sardi.6

Durante le lotte fra i giudici, i confini dei giudicati e, quindi, la composizione delle curatorìe furono profondamente sconvolte; ad esempio il giudicato d'Arborea, il quale era situato in mezzo agli altri giudicati, tese ad espandersi a danno degli altri e assorbì in parte, durante il XIII secolo, alcuni distretti limitrofi del Logudoro, della Gallura e del Cagliaritano, mutando le denominazioni e la fisionomia dei distretti amministrativi.7

La nuova organizzazione militare di tipo difensivo, introdotta dai Pisani, basata sulla costruzione di imponenti castelli sulle cime dei monti, specialmente lungo i confini dei giudicati, diede origine alla nascita di nuovi centri, densamente popolati, attorno ai nuovi castelli che mutarono la struttura delle antiche curatorìe; perciò spesso a capo delle curatorìe si posero i nuovi << borghi >>, e la carica del curatore fu ricoperta da castellani e capitani di milizie.

Nonostante questi mutamenti, le antiche curatorìe, che rispettavano la configurazione geografica dell'isola, si conservarono successivamente con forme quasi corrispondenti; anche durante la dominazione aragonese, in gran parte, furono rispettate tali divisioni, le quali presero spesso il nome di Incontrade. Essa si limitò ad attribuire ai feudatari uno di questi distretti, talvolta anche più di uno, riunendoli in Baronie o in Marchesati che conservarono al loro interno le antiche divisioni rappresentate dalle ville; questo ordinamento fondiario fu sconvolto solo in seguito all'abolizione dei feudi e alla creazione di nuovi Circondari.

Una delle principali operazioni permesse dall'organizzazione territoriale in curatorìe furono le votazioni per il rinnovo del "parlamento" giudicale detto Corona de Logu.8

Il giorno stabilito per le elezioni, che veniva annunciato dai banditori in tutte le ville del giudicato, gli uomini liberi, forse solo quelli che pagavano le tasse, si recavano nel capoluogo della propria curatorìa e si riunivano in un'assemblea distrettuale, la Corona de Curatorìa, per eleggere, davanti al curatore ed alla presenza di un notaio, il proprio rappresentante in seno alla Corona de Logu.

I luoghi delle adunanze, detti gollettorgios, come precedentemente ricordato, erano la chiesa o il sagrato, oppure la casa o la piazza antistante all'abitazione del curatore; tutta la fase elettorale, dal momento del bando alla costituzione della massima assemblea dello stato, durava circa una ventina di giorni.

I Curatores, che i documenti erano soliti citare immediatamente dopo i Giudici nell'indicazione delle podestà e degli ufficiali della Sardegna,9 erano prima di tutto i supremi ufficiali amministrativi locali, addetti all'esazione dei diritti fiscali con facoltà di controllo sugli altri ufficiali regi ed erano, contemporaneamente, i giudici ordinari del loro distretto.

Il titolo di Curatores dato ai massimi responsabili delle curatorie, rivela la sua origine romana. Il Solmi ricollega l'istituzione sarda del curatore al Curator o Procurator dei latifondi imperiali che vi furono in Africa non soltanto con funzioni economiche ed amministrative, ma anche con autorità di governo e di giurisdizione, come documentato dalle iscrizioni africane.

Anche in Sardegna i vasti possedimenti fondiari dell'imperatore e del fisco si organizzarono in tale maniera sotto l'autorità del curator ; in seguito alla decadenza dell'impero romano, durante la dominazione bizantina, i Curatores dei latifondi furono sottoposti al Praeses che concesse loro, come supremi rappresentanti degli interessi del fisco, tutti i poteri locali di governo e le principali funzioni di polizia.

Successivamente , il Solmi, dopo ulteriori studi, senza negare del tutto l'influenza che sull'istituzione del curatore fu, probabilmente, esercitata dal Curator Rei Pubblicae e , soprattutto dal Curator dei latifondi, giunse alla conclusione che le origini dell'istituzione dovessero essere ricercate nell'ordinamento giuridico delle circoscrizioni territoriali romane e principalmente nell'ordinamento delle circoscrizioni rurali, che rappresentarono la base sulla quale furono, durante il medioevo sardo, organizzate e strutturate la curatorìe e, conseguentemente, le attribuzioni e la giurisdizione del curatore.11

I Curatores, accanto ai Donnikellos12 della famiglia regnante ed ai rappresentanti dell'Alto Clero, facevano parte, socialmente, del ceto dei Maiorales, e costituivano quindi la nobiltà, anche se tanto l'aggettivo nobils quanto quello di illustris, nella titolatura pontificia era riservato solo al giudice e ai suoi parenti. ; facevano parte dei Magnates del regno, e fra di loro venivano spesso eletti gli Iudices de fattu o Vicarii iudicis, quando il giudice per assenza o per minore età non era in grado di attendere all'amministrazione del giudicato.

Il curatore del Campidano, ricoprì anche la carica di Logusalbadore della città; testimoniando in tal modo la sopravvivenza della carica del Lociservator che, all'epoca della dominazione bizantina aveva un'importanza fondamentale nell'organizzazione amministrativa. E' di notevole importanza notare che il Logusalbadore di Cagliari, come i Locservatores o Topoteretoi, aveva la facoltà di << acta redigere >>, cioè di utilizzare la propria firma per dare fede ad atti privati che venivano  sottoposti alla sua giurisdizione.

Si può affermare che la carica del curator nacque dalla modificazione spontanea di alcuni fattori dell'ordinamento romano che i Bizantini non sentirono la necessità di sopprimere per sostituirli con forme più complicate.

I curatori venivano eletti direttamente dal giudice, generalmente venivano scelti tra i membri della famiglia del giudice oppure fra i Maiorales; accadde anche che degli stranieri, in conseguenza della loro penetrazione nei giudicati sardi, fossero chiamati a governare le curatorìe .

Il mandato del curatore non era vitalizio ma a tempo determinato << ad nutum >> del giudice, forse rimaneva in carica per due anni,15con gli altri funzionari della corte, essi formavano il Consiglio del regno e potevano, inoltre, ricoprire altre cariche.

Il curatore era posto sotto la dipendenza diretta del giudice, come riportato, a lui spettava il governo generale della circoscrizione territoriale e l'amministrazione della giustizia, secondo l'antico concetto della cura pubblica romana.

In qualità di supremo funzionario amministrativo locale, soprintendeva alla regolare esazione dei diritti fiscali, all'organizzazione delle prestazioni personali dovute al giudice ed ai suoi rappresentanti dagli abitanti delle singole ville come le cacce collettive (silvas) e le operas de curatore; sorvegliava i beni spettanti al potere pubblico ed alle ville, esercitava un'autorità di controllo sugli agenti regi della sua curatorìa (Armentarii, Maiores de Saltus, Maiores de Scolca, Maiores de Kerkitores, Mandatores de Rennu) e sull'operato degli altri impiegati minori.16

Regolava inoltre l'esercizio degli usi privati sulle terre pubbliche ed assisteva alla determinazione dei confini interni dei Saltus (lacanas) assegnati alle ville o ai privati, infine, stimava i danni causati dagli incendi.17

Infine, il curatore, in campo giudiziario, assisteva alla Corona de Judike e rappresentava << in loco >> il massimo organo giudiziario; praticava la giurisdizione ordinaria soggiornando nel capoluogo della curatorìa o recandosi nelle ville da essa dipendenti; giudicava, attraverso il suo tribunale detto Corona de Curatore, assistito dai Boni Homines, intorno a tutte le cause civili e penali senza limitazione di competenza: cause relative alla proprietà dei servi e cause liberali, cause relative alla proprietà delle terre, cause dipendenti da reati contro le persone o contro i beni.

Spesso però il giudice, in viaggio per il giudicato e accompagnato dalla sua corte itinerante, si sostituiva al curatore nelle cause d'appello o dietro istanza di una delle parti, avocando al suo tribunale (Corona de Judike) ogni causa, assumendo, quindi, tutto il potere giurisdizionale rappresentato dalla sua stessa figura21, infatti, ad esempio, le sentenze potevano essere appellate presso il supremo tribunale del giudice.

Il curatore esercitava anche le funzioni di polizia del distretto territoriale e regolava il sevizio armato sia per la guardia delle ville o Scolca, soprintendendo al Maiore de Scolca, che per il servizio militare dovuto al Rennu in caso di guerra statale.

Risiedeva, probabilmente, nella villa più importante del distretto, considerata come un capoluogo, ma questa villa non aveva un'organizzazione diversa né diritti superiori rispetto alle altre; spesso il curatore, come il giudice si recava nelle ville e là svolgeva la sua attività amministrativa e giudiziaria.

Il curatore, che non aveva un compenso fisso, partecipava dei proventi derivati dall'attività giudiziaria e in certi servigi dovuti dai privati, come le Silvas de Curatore, cacce collettive organizzate periodicamente a vantaggio di questo funzionario, e le Operas de Curatore.22

Il Besta suppone che il curatore avesse anche il godimento temporaneo dei beni pubblici assegnati alla sua carica, quasi come dei benefici , e forse anche il reddito delle tasse per l'uso dei beni pubblici da lui tutelati.

Nel territorio delle curatorìe sorgevano le Ville (Biddas), che costituivano i distretti territoriali subordinati alle curatorìe, esse rappresentavano nell'accezione medioevale del termine un centro abitato indipendentemente dai grandi proprietari terrieri laici ed ecclesiastici.24

La villa, con le sue adiacenze territoriali << Saltus >>, rappresentò il nucleo e la base fondamentale della vita sociale nella Sardegna giudicale, perché le città e lo stesso concetto di città erano ormai quasi tramontati.25

Il territorio di ogni villa detto << fundamentu >>, comprendeva una parte di terra detta << populare >>26 che apparteneva a tutta la comunità, che se la divideva secondo le necessità e solitamente la coltivava a grano oppure era destinata ad altre colture; originariamente era recintata, successivamente fu recintato solo il perimetro esterno.

Le terre nelle quali si coltivava il grano erano dette << terras de argiolas >>, il grano era pressoché l'unico cereale coltivato in Sardegna, insieme all'orzo i cui campi erano detti << oriinas >> e l'avena era chiamata << orjos de caballos >> perché usata, appunto, come mangime per i cavalli; la terra << populare >> era coltivata a grano o a orzo ed a fave e successivamente veniva lasciata incolta seguendo la rotazione triennale, vi erano inoltre nel più vasto territorio della curatorìa le ville << despopulate >> o << villa heremas >>.

Il territorio della villa comprendeva anche ampi Saltus, incolti, boschi e pascoli comuni per il bestiame, che durante la notte veniva rinchiuso in recinti detti << guluare >> o << bulvare >>, i funzionari addetti al bestiame comune erano detti Maiores de Pradu.

Solitamente per indicare la pertinenza dei fondi ci si riferiva alla villa a cui le terre erano riconosciute.

Le Ville dunque, in quanto comunità, potevano comprendere numerose terre, che erano poste sotto il controllo della Scolca, il corpo di guardia dipendente dai Maiore de villa.

Ogni famiglia possedeva il proprio orto ed il frutteto, o la vigna, che erano proprietà personali e che, a differenza dei populares, erano recintate e dette anch'esse, come le grandi proprietà fondiarie << cungiaus >>.

Gli abitanti della ville erano contadini o piccoli artigiani,27 solitamente i grandi proprietari possedevano gran parte delle terre del paese e, conseguentemente, ricoprivano le cariche più importanti, i loro numerosi servi risiedevano nelle domos, a loro appartenenti.

A capo di ogni villa vi era un Maiore de Villa, nominato dal Curatore; anche la sua carica, come quella del curatore, era a tempo determinato e non a vita, il Besta suppone che fosse eletto per un biennio.28

La stessa organizzazione della ville sarde riproduce la struttura e l'ordinamento della villa durante l'impero romano; infatti a capo della villa troviamo un Maiore de villa, che sia per il nome che per le funzioni può essere considerato il continuatore dell'istituzione ricoperta in epoca romana dai Magistri vici, eletti annualmente dal gruppo dei Vicani, o del Villicus, oppure del Magister, che il fisco oppure i grandi latifondisti posero a capo del governo delle ville comprese nei loro possedimenti.

Come il Curatore neppure il Maiore de Villa percepiva un compenso fisso, infatti viveva dei proventi delle multe, riceveva, forse, una percentuale sulle multe, e dei redditi derivati dall'uso dei beni pubblici o comunali affidati al suo controllo.

Il Maiore era, quindi, un pubblico funzionario, posto sotto la dipendenza del Curatore, era il responsabile della sicurezza del territorio a lui affidato (la villa), infatti esercitava soprattutto funzioni di polizia, era il responsabile della custodia dei boschi, delle terre comuni, e della sorveglianza del bestiame, in modo che non arrecasse danno ai campi coltivati, solitamente privi di recinzioni, e della vigilanza delle terre chiuse.31

Inoltre aveva il compito di perseguire i reati minori, come furti e danneggiamenti delle coltivazioni e le violazioni delle regole di polizia, conciliabili con multe o attraverso il risarcimento dei danni, presiedendo un proprio tribunale detto Corona de Maiore, formata dai Maiores della villa.

Nelle sue funzioni era coadiuvato da un gruppo di guardie giurate dette Iuratos che, annualmente venivano eletti dal giudice o dal curatore, ed erano obbligati, dopo aver prestato giuramento, a ricercare, denunciare, arrestare o << tenner >> e consegnare alla polizia o << batire ad sa corte >> i colpevoli dei reati contro la sicurezza personale e contro quella della proprietà, il collegio degli Iuratos era formato da un vario numero di membri, secondo l'importanza delle singole ville, che potevano essere infatti << mannas >> o << pizzinnas >>.

Nella risoluzione degli affari civili ed amministrativi32 era coadiuvato da pubblici ufficiali detti anch'essi Maiores; inoltre tutta la vita e le attività economiche da essa dipendenti erano controllate dal maiore attraverso dei funzionari curtensi come i Pradargios, i Maiores de Viddazzonargius, De Pradu, De Silva.

Il maiore, quindi esercitava egli stesso una giurisdizione, anche se di ordine inferiore, infatti l'autorità pubblica veniva delegata dal giudice, solitamente, al curatore, che ricopriva anche le funzioni di giudice ordinario.

Veniva quindi nominato per le sole esigenze di un centro abitato (la villa), dove si svolgeva un'attività di tipo agro-pastorale, che esigeva un certo tipo di controllo, perciò questo funzionario provvedeva alle necessità di questi centri come un semplice organo amministrativo di polizia.

Dopo questa premessa è facile comprendere che il maiore de villa, essendo legato alla "vita" economica della villa, giudicava soltanto in materia di furti e danneggiamenti campestri e nelle violazioni delle regole di polizia e le sue sanzioni consistevano, infatti, solo nelle multe o nel risarcimento dei danni, stabiliti dal tribunale da lui presieduto, Corona de Maiore; in casi non frequenti, la sua competenza si allargava anche alle cause minori relative alla proprietà degli animali e alla produzione agricola.33

Secondo il diritto sardo, le ville si organizzavano nella Scolca che può essere messa in relazione con la sculca della bassa latinità, e con quella che, secondo la legge longobarda, indicava un corpo di guardia.34

La scolca, come la sculca longobarda denotò un corpo di guardia, una custodia, frutto di un tacito accordo tra gli abitanti della villa, che principalmente ebbe il compito di difendere la proprietà privata contro i furti ed i danneggiamenti e perciò ebbe uno scopo economico e di polizia e non politico o militare; avendo lo scopo di mantenere indenni le terre coltivate, ebbe come luogo nel quale operava la sua giurisdizione, i campi coltivati o la zona della habitacione, che comprendeva i cuniatos, gli ortos, le terre de agrile.35

Nel marzo di ogni anno, tutti gli abitanti della villa,36 che avevano compiuto i quattordici anni di età e non superato i settanta giuravano, tale giuramento era detto Iura de Scolca, di non recar danno ad alcuno nella persona e negli averi e di denunciare tutti coloro che conoscessero aver recato danno e di fare il turno di vigilanza a loro spettante.

Questo giuramento, in seguito al quale si costituiva una società di pace all'interno della villa, riguardava sia lo spazio abitato che quello circostante intensamente coltivato, che formava la cosiddetta habitacione.38

Tale giuramento diede luogo ad un rapporto di carattere personale fra tutti gli abitanti della villa, il quale aveva principalmente lo scopo di prevenire i reati contro il patrimonio.

A capo di questa società di pace (la scolca) vi era un Maiore, che prese perciò il nome di Maiore de Scolca,39 era coadiuvato nei suoi incarichi da guardie giurate, iuratos, e da ufficiali minori legati all'attività curtense come i Pradargios e i Maiores de Gulvare.

Intorno alla struttura della villa, si raccoglievano le Chitas de Saltu e de Pratu con i loro maiores, addette chiaramente, alla custodia dei saltos e dei prati comuni e i maiores de gulvares o de mandras che controllavano i terreni recintati comunali, circondati da siepi o muretti a secco, nei quali doveva essere raccolto il bestiame di notte per impedire che, vagando disperso, danneggiasse i coltivi.

Probabilmente sempre dipendenti giurisdizionalmente dalle villae, dovettero essere le associazioni rurali, che erano rappresentate dal mandatore de liveros, che a differenza dei mandatores de rennu e dei mandatores dei monasteri, non fu né un semplice messo e neppure un procuratore; il Solmi, nella figura del mandatore de liveros, ravvisa il procuratore degli interessi speciali dei Liveros, cioè delle persone libere, associate in una organizzazione autonoma la cui giurisdizione si svolgeva nella consuetudine di ricorrere a quest'ultimo come ad un arbitro.

Una delle istituzioni caratteristiche del periodo giudicale fu quella che, in seguito, venne detta con una parola spagnola Incarica e che rimase in uso fino alla promulgazione del Codice Feliciano nel 1827. In forza di essa, quando avveniva un furto oppure un crimine, se il colpevole non veniva arrestato entro un certo tempo,41 gli abitanti della villa nel cui territorio era stato commesso il reato erano tenuti a risarcire collettivamente il danno ed il maiore ed i iuratos erano obbligati a pagare una multa.












L'ordinamento fondiario.



Ogni giudicato, detto anche rennu o logu, era suddiviso in curatorìe o partes che, a sua volta, comprendevano varie ville1 che rappresentavano, insieme ai boschi ed ai pascoli da esse dipendenti, la continuazione dell'aggregazione etnica dei gruppi primitivi e dell'antico latifondo romano.

Attraverso le donazioni di terre e servi a favore della chiesa, a partire dall'XI secolo, sappiamo che il villaggio sardo, sia di modesta estensione che spopolato, denominato, a seconda dei casi, villa o bidda, domus, donnicalia o curtes, esercitava una giurisdizione su dei terreni ben limitati comprendenti, solitamente, coltivi, vigneti, salti, boschi, corsi d'acqua e insediamenti sparsi conosciuti col nome di domestia o domesticas.2

Il territorio sul quale la villa esercitava una giurisdizione veniva chiamato << fundamentu >>, esso comprendeva sia terre comuni che private. Le terre comuni venivano definite << populare >> o << paberile >> e, venivano sfruttate dagli abitanti poveri del villaggio, che ne facevano richiesta, con un sistema collettivistico; queste terre, secondo il principio della rotazione triennale, venivano seminate a cereali e successivamente lasciate a riposo o adibite a pascolo.

Le terre comunitarie comprendevano inoltre << saltus >>, cioè terreni incolti, aree boschive ed infine pascoli, definiti << pardu >>.

Le terre private comprendevano appezzamenti di terreno di piccola o grande estensione, appartenenti ai liberi o ai servi, e latifondi che, se appartenevano al giudice formavano il patrimonio << de peguliare >>, cioè privato, se appartenevano allo stato costituivano il patrimonio << de rennu >>; queste terre erano spesso recintate e coltivate ad ortaggi, cereali, piante da frutto e viti.

L'estensione dei possedimenti privati, sia laici che ecclesiastici, trascendeva la divisione amministrativa dei giudicati e spesso i possedimenti si estendevano a coprire il territorio di diverse ville, o di diverse curatorie, se queste si trovavano in prossimità dei confini.3

I possedimenti privati appartenenti ai giudici, ai ricchi proprietari, alla Chiesa ed ai continentali, detti << terramannesos >> comprendevano: salti boschivi << boscus >>, pascoli << pradus >>, case << domestia >>, corsi d'acqua << aquas >>, campi coltivati << semina, aradoriu, oriina >> solitamente recintati << cuniatos >>, servi ed ancelle << servus et ancillas >> e animali << quaturperna >>; come tutte le proprietà private potevano essere vendute << compora >>, donate << dadura >>, permutate << tramuda >>, transate << campaniu >> attraverso un accordo volontario delle parti << combentu >>.

In queste estese tenute si trovavano degli insediamenti detti domos, domestias, donnicalie, curtes, curia, nei quali abitavano numerose famiglie di servi; nelle fonti documentarie sono riportati lunghi elenchi di nomi di servi e perciò è possibile calcolare la loro consistenza numerica che poteva variare da un quarantina di persone, circa, fino ad oltre un centinaio.4

La prof. B. Fois, dopo un'attenta lettura dei documenti, è giunta alla conclusione che: curtes, curias, donnicalia ed anche villa, almeno in un secondo momento, indicano la stessa tipologia di insediamento; il termine domo è invece ambivalente e significa tanto casa quanto insediamento e con quest'ultimo significato non sembra avere caratteristiche diverse da quello della donnicalia o della curtes oppure del termine ecclesia presente nel Codex Diplomaticus Sardiniae, (vol. I, sec. XI, doc. 17, p. 161)5.

I piccoli possidenti terrieri e i nullatenenti, detti donnos paberos,6 che erano costretti per le loro necessità a sfruttare le terre comuni, avevano alle loro dipendenze << servos et ancillas >>, detti << de paperos >>, per i lavori agricoli, ed una chiesa << ecclethia paupera >>, che doveva essere una chiesa priva o con poche proprietà e perciò quasi priva di introiti, e, quindi, ammessa a godere del sistema comunistico per il sostentamento necessario al culto.

Accanto alla villa << arregnada >>, cioè sottoposta al potere del giudice e dei suoi funzionari, si aveva anche la villa << della chiesa >>, << cum terris et silvis, servis et ancillis et omni suppelletili >>, oppure come si era soliti dire << cum omnibus suis pertinentis >>; spesso la Chiesa esercitava pieni poteri sulla villa concessale, e nella villa, i funzionari del giudice: il curatore per la curatoria, il maiore de villa per la villa e per il suo territorio, l'armentariu per la tutela della proprietà del rennu o di quella del giudice, erano esclusi dalle terre ecclesiastiche.

Nel territorio appartenente alla circoscrizione territoriale della villa poteva anche verificarsi l'esistenza di centri agricoli di minore estensione ed importanza che, secondo la loro consistenza, prendevano diversi nomi, principalmente venivano usati i nomi di << domus >> e di << domestia >>.9

Le domus, dette anche cortes, curiae, donnicalias, erano costituite da un agglomerato di case rurali, e costituiva il minore organismo fondiario che comprendeva al suo interno tutte le principali componenti di una amministrazione colonica: case << domestia >>, abitate da servi ed ancelle legati alla terra che, con i loro attrezzi agricoli ed il bestiame, soprattutto buoi, a loro affidato, conducevano il fondo, terreni incolti e boschivi << saltus >>, corsi d'acqua << aqua >>, terre coltivate a cereali o adibite a pascolo, secondo il sistema della rotazione annuale, spesso facevano parte della domu anche vigneti e frutteti, ma questi ultimi erano molto rari, le terre venivano chiamate << semida, aradoriu, oriina, bina >>, sevi << servus et ancillas >>, animali << quaturperna >> e recinti per la loro custodia. Le domus appartenevano ai grandi proprietari terrieri, all'Alto Clero, ed ai monasteri ed erano caratterizzate da un'economia a carattere agro-pastorale modesta e varia, probabilmente limitata al solo consumo interno.

La domestia, detta anche << domestica >>, era un centro fondiario meno esteso e meno importante rispetto alla domu e, spesso, faceva parte del più vasto territorio della stessa domu; era formata da appezzamenti di terre adibite a colture di vario tipo, soprattutto di cereali.

Nella domestia vi era generalmente una casa colonica nella quale trovavano asilo i pochi servi che lavoravano nelle cosiddette << semitas >>, cioè poderi destinati a svariati tipi di coltivazione; spesso in una domestia erano comprese proprietà appartenenti a diversi proprietari.

Tanto la domu quanto la domestia erano proprietà private, nella maggior parte dei casi le domus appartenevano ai liberi molto ricchi, agli stessi giudici, che spesso le curavano personalmente, almeno agli inizi del periodo giudicale, ne rappresenta un esempio la "giudicessa" Nibata che lavorò nei centri agricoli di sua appartenenza << cum forza et potestu suo >>.

Spesso le domus venivano donate, insieme alle loro pertinenze, alle chiese maggiori, bisogna tener presente che nei documenti concernenti cessioni ai pisani e genovesi, oppure alle chiese cattedrali delle due città, il termine più usato per indicare questi fondi era il sardo << donnicalia >>, che deriva da dominus, oppure la parola latina << curtis >>; potevano anche essere concesse in dote dai giudici alle proprie figlie, come << sa domu de manu doniga >>, cioè di proprietà privata giudicale, donata dal giudice Barisone d'Arborea alla figlia Susanna nel 1115.

Rappresentava una vera e propria consuetudine dotare le chiese dei vari ordini monastici di domus e ville, spesso le domus erano costituite da terreni già messi a coltura o da coltivare, con saltus da disboscare, con servi, detti anche << homines >>12, e con recinti per il bestiame spesso molto consistente.

A causa della penetrazione monastica le donus acquistarono una maggiore importanza economica e sociale, per la solerte attività dei monaci in campo agricolo che determinò uno sviluppo dell'agricoltura e della pastorizia, dovuto all'introduzione di nuovi metodi di coltivazione, di irrigazione e di allevamento.

Il resto del territorio era diviso in varie parti e veniva sfruttato in maniera collettiva, la vidazzone, termine che deriva da << abitazione de sa villa >>, di proprietà collettiva della villa veniva divisa in due o più parti, destinate alternativamente all'attività agraria e al pascolo del bestiame domito. La parte destinata alla coltura agraria veniva lottizzata, eccetto naturalmente i terreni privati, fra i componenti della villa, liberi e servi.

La vidazzone comprendeva il populare e il paberile, il paberile era il terreno stralciato dal saltu de rennu e concesso, soprattutto, all'uso collettivo dei poveri << paberos >> della villa, il populare era la parte restante.

I saltus populares erano costituiti da boschi e terre spesso montagnose, riservate al pascolo libero e comunistico, l'aggettivo << populare >>indicava la sua appartenenza al popolo, cioè al demanio della villa.

I saltus de rennu erano costituiti da boschi e terre incolte molto estese, appartenevano al demanio giudicale, talvolta venivano sfruttate comunisticamente dagli abitanti della villa, in cambio di varie prestazioni, tavolta venivano coltivate dai servos de rennu, oppure erano concesse in uso ai privati.

Prendevano il nome di secatura de rennu i terreni che il giudice aveva stralciato dal saltu de rennu per donarli ai privati, che li avrebbero posseduti alle medesime condizioni con cui li possedeva il fisco, senza che venissero lesi, eccetto che nelle terre recintate, i precedenti diritti d'uso della popolazione, un tipo speciale di secatura de rennu era il paberile.

Ville, domus e domestiae rappresentavano le basi dell'ordinamento fondiario della Sardegna giudicale; in questi centri dove l'economia predominante era quella legata alla terra, con una produzione tipicamente curtense, sufficiente al fabbisogno della popolazione, perduravano modi di vita, sistemi di produzione e consuetudini dell'epoca basso-imperiale romana o del periodo della dominazione bizantina.

Le terre generalmente non erano chiuse, difficilmente erano limitate da un recinto o da un fossato, i confini delle proprietà detti << sinnas >>14, venivano determinati da grosse pietre, come si era soliti fare al tempo di papa Gregorio Magno (590-605), a "protezione" dei confini e delle terre delimitate vi erano delle chiesette di campagna sparse nei saltus.

Le terre chiuse si chiamavano << cuniadus >> ed erano, generalmente, quelle destinate alla coltura della vite ai frutteti e, raramente, agli oliveti in quanto tale pianta non era molto diffusa.

Le terre aperte erano quelle coltivate a cereali, appunto perché aperte, sia che fossero terre comuni, chiamate oltreché paberile anche comunariu, perché sfruttate in comune dalle persone prive di proprietà per il loro sostentamento, sia che fossero private, venivano spesso invase dal bestiame con grave danno per le colture.

Le terre coltivate ad orzo prendevano il nome di << oriina >>, mentre quelle coltivate a grano avevano vari nomi: erano dette << aradorias o de agrile >>, quelle sfruttate con il sistema della rotazione, per un anno a maggese e per un anno a coltura; le << semidas >>, invece, erano poderi formati da terreni destinati a tutti i tipi di coltivazione.

L'estensione dei terreni si misurava attraverso vari sistemi, la << curria >> nel Meridione e la << linza >> o << birga >> nel Settentrione dell'isola erano le unità di misura più usate.16

Alcune volte un appezzamento di terreno veniva definito << orroglu >>, talvolta << parzonni >>, ma il termine << parzonni >> indicava anche la proprietà17: ad esempio una parzzoni del giudice Costantino di Cagliari, sita in un saltu, comprendeva, nel 1130, un campo, un podere, terre coltivate a cereali e alcune vigne.

Le terre dipendenti dalla domu erano destinate alla coltura della vite, la vite era molto diffusa e l'ampiezza di una vigna si misurava contando gli ordines, cioè i filari; altre erano destinate a frutteti oppure ad orti, il frutteto, detto anche pomu, era più raro, gli alberi più diffusi erano il fico, il noce, il melo, il pero, il cedro; alcune piante da frutto si trovavano spesso sparse in terreni adibiti alla coltura dei cereali o della vite.

Gli orti e i frutteti erano recintati e chiusi da siepi, palizzate o muretti a secco, secondo la zona e il materiale reperibile in loco, per impedire al bestiame di sconfinarci; questi terreni sono chiamati nei condaghi << cungiaus >> , cioè chiusi.

Molto diffusi erano anche i canneti, poiché la canna era utilissima per la costruzione delle case o delle capanne, per ricavare i sostegni per le viti, per costruire i recinti e per molti altri usi.

Dalla domu dipendevano, inoltre, le terre presenti nei saltus, erano le terre delle zone boschive e montagnose, utili per il pascolo, per il legname e, spesso venivano disboscate e messe a coltura;21 quindi nei saltus, insieme all'incolto, vi erano case coloniche e campi coltivati, oltreché il terreno adibito a pascolo.

Soprattutto nei salti le coltivazioni avevano bisogno di una recinzione, che salvasse i coltivi dai danni arrecati dagli animali e dagli uomini; infatti divenne un obbligo chiudere << cuniari >> le terre, per trasformarle in campi coltivati o in vigne, oppure circondare gli orti con dei fossati, mentre il proprietario del salto aveva diritto a porre chiusure e guardie << castiari >> a difesa delle terre sottratte agli usi promiscui delle popolazioni.

Presso le domus potevano anche trovarsi le isclas, dette anche insulas o iskras, erano terre circondate da acque oppure terreni acquitrinosi; più precisamente erano estensioni di terreno investito o circondato dalla biforcazione di un fiume o dalla confluenza di due corsi d'acqua, pertanto erano terre poste a valle e quindi facilmente coltivabili.

Le isclas erano terre fertilissime, ma venivano utilizzate solo da maggio a ottobre e lasciate poi a pascolo. Nella iscla si coltivavano le angurie, i cetrioli, i legumi e i meloni, perciò spesso veniva chiamata << ortu a melone>>22, vi crescevano anche i giunchi, che servivano per intrecciare i cestini, ad esempio il condaghe di San Pietro di Silki ricorda una << iscla de junketu >>.

Nel << fundamentu >>, che componeva la << domu >>, o nella << villa >>, gli abitanti, sia che fossero servi o liberi, vivevano in povere case di una o più stanze, secondo la ricchezza del proprietario, le case avevano il pavimento in terra battuta, i muri costruiti con mattoni di fango << ladiri >> o paglia soprattutto nelle zone pianeggianti ( nei Campidani ), oppure avevano muri assai rozzi di pietra non lavorata legata con fango e malta, specialmente nelle zone montagnose dell'isola; nella tipologia di costruzione utilizzata nelle pianure erano esperti i << maistros de ludu >>.

I tetti delle case poggiavano su un'incannucciata attraverso la quale, nella cucina, fuoriusciva il fumo; l'arredamento era costituito da poche e misere suppellettili, l'illuminazione durante la notte era prodotta dalla fiamma del focolare oppure dalle lucerne, alimentate con olio di lentischio.

Non è stato possibile stabilire con certezza se i porticati fossero già diffusi e se le case avessero un piano superiore; una << domu cum iscala >> compare ad esempio, agli inizi del XIII secolo, in un atto concernente permute ed acquisti del vescovo Paolo di Suelli, probabilmente, però, la scala di questa casa, più che ad un piano superiore, doveva portare ad un solaio.

Le case avevano sempre un ampio cortile oppure un'ampia distesa di terra incolta, spesso antistante o intorno alle costruzioni, o forse fra le costruzioni stesse, detta << plazza >>, nella quale vi era un pozzo e la << funtana >>, che offriva l'acqua per le persone, per i lavori agricoli e per gli animali, spesso una parte della << plazza >> veniva recintata e piantata ad orto, data l'immediata possibilità di irrigazione e la vicinanza delle case 24; inoltre ciascun gruppo di case aveva il suo forno, detto << forru >>, nel quale si cuoceva il pane.

Nel villaggio, intersecato da numerose viuzze contorte, spiccava per altezza, solidità e, talvolta per l'eleganza architettonica e per il tipo di costruzione, la chiesa parrocchiale.25

La chiesa, generalmente costruita in pietra lavorata a differenza delle case, veniva edificata dai << maistros in pedra et in calcina >> con l'aiuto dei fedeli; talvolta erano gli stessi servi e non a costruirla, sotto la direzione di un << maistru >>.

Le città, invece, erano circondate da torri e mura, le cui porte venivano chiuse durante le notte; quando a causa dell'intensificarsi dei traffici aumentò la loro ricchezza economica, si ornarono di numerose chiese e di opere architettoniche di pregevole gusto artistico e, di case a più piani.

Le vie delle città acquisirono spesso la denominazione delle attività in esse svolte (via dei mercanti, dei fabbri dei conciatori, etc.), la piazza centrale, infine, rappresentava il cuore della città.

L'ordinamento tributario dei giudicati e le esenzioni immunitarie concesse dai giudici.



La proprietà dei giudici, detta << de pegugiare >>, cioè peculiare, era costituita da estesi latifondi che appartenevano anche ai membri della sua famiglia, ed era distinta dal patrimonio detto << de rennu >>, cioè appartenente allo stato o al fisco.1

I giudici, che inizialmente discesero da un unico ceppo originale, quello dei Lacon imparentato con gli Unali, furono, probabilmente, i discendenti degli Arconti bizantini, che godevano del possesso di vaste proprietà ottenute attraverso matrimoni e in parte acquisite come << roga >>, cioè come compenso per la loro carica.

Il latifondo , che caratterizzò la proprietà terriera durante il basso impero, si mantenne in vita anche nel periodo giudicale e le famiglie dei giudici godettero attraverso le terre, come i possessores, di un reddito assai elevato.

Il patrimonio detto << de rennu >> era, ugualmente, molto consistente ed era formato da beni immobili, i latifondi, in parte coltivati e in parte non sfruttati, infatti le fonti spesso ricordano: terras, vinias, ortus e, soprattutto saltus de rennu, cioè tutti i territori non soggetti alle appropriazioni da parte della collettività e dei privati; gran parte di questi rimaneva abbandonata ed incolta, quindi libera di fatto e di diritto dagli usi e dalle usurpazioni delle popolazioni rurali che conducevano su di essi le proprie greggi o vi si recavano per raccogliere ghiande o legna; anche questi terreni fruttavano un gettito finanziario in quanto il loro sfruttamento veniva concesso mediante un versamento al fisco.

Soprattutto questi terreni furono l'oggetto delle numerose donazioni dei giudici verso chiese, monasteri ed opere, non solo verso chiese e monasteri "indigeni", che sorgevano nel suolo pubblico ed erano dotati di pubblici beni e prendevano il nome di << ecclesias >> o << munisteres de rennu >>, ma anche verso istituti "stranieri" o affiliati a casate straniere e, più tardi, verso i privati.

La consuetudine delle donazioni agli enti ecclesiastici da parte dei giudici, determinò, nell'ultimo periodo della storia giudicale, un notevole impoverimento dei possedimenti del fisco.

Gli usi collettivi della terra diedero probabilmente luogo a dei compensi verso il fisco; soprattutto per l'uso dei pascoli e dei saltus, che erano soliti essere misurati ad << ederats de porcus >>, analogamente venivano versati censi per l'erbaticum, per l'escaticum o per il glandaticum.

Nelle terre messe a coltura il fisco, invece, si avvantaggiava attraverso uno sfruttamento diretto, facendole lavorare dai servos de rennu oppure traeva un profitto indirettamente, cedendole, attraverso il pagamento di un censo, a terze persone, spesso privati, sotto forma di locazione o enfiteusi.

Talvolta in queste terre sorgevano dei centri con un ristretto insediamento di popolazione, che costituivano le << curtes de rennu >> e, poiché si trovavano in condizioni speciali di dipendenza dal fisco, furono assai appetite dai Pisani e dai Genovesi, perché aspiravano alla costituzione in quelle curtes di veri e propri monopoli commerciali e forse, a causa della diffusione dell'usura, il pontefice considerò le curtes o donnicalias come un << foenerandi detestabile genus >>.

I giudici, probabilmente, godettero anche dei profitti delle terre << de rennu >> mese a coltura; la decima, donata dal giudice cagliaritano all'arcivescovo di Cagliari e poi passata ai Vittorini, rappresenta forse la parte delle imposte, derivate da questi redditi, spettanti al giudice, così come, secondo la tradizione bizantina, accadeva in Sicilia e nelle ville venete, nelle quali veniva versato un << decimum >> alle autorità locali sui gettiti delle proprietà demaniali.2

Il fisco o rennu era quindi costituito dagli immobili precedentemente appartenuti al << patrimoniun caesaris >>, dai redditi derivati dal loro sfruttamento diretto o indiretto, dai beni mobiliari o immobiliari ricaduti nel patrimonio fiscale per diritto di successione o per derelizione oppure per confisca, dalla vendita degli uffici, dalle multe e dal gettito delle imposte dirette e indirette.

Il sistema tributario giudicale, che gravava su tutta la popolazione; liberi, semiliberi e servi, per quanto non privo di mutamenti, rappresentò la prosecuzione degli antichi << munera patrimonii >>, << munera personalia >> e << munera mixta >> che, nell'ordinamento tributario dell'impero romano, riguardarono soprattutto il sistema fiscale dei distretti rurali; lo stesso sistema tributario del periodo aragonese, desunto attraverso gli ordinamenti pisani, derivò dall'ordinamento tributario del periodo giudicale.

Gli oneri, imposti ai sudditi dei giudicati, potevano essere distinti in tre categorie3: oneri reali, che si basavano sulla proprietà fondiaria dei singoli individui, oneri personali, che riguardavano le singole persone e le famiglie, oneri misti, che potevano consistere in una << colletta >> straordinaria e generale che veniva imposta in particolari circostanze.

I tributi principali: cergas, collectas, rasonis, calcolati in rapporto al reddito annuale del contribuente << segundu sa forza issoru >>, venivano pagati in natura, cioè con prodotto agricoli come il grano << lahori >>, l'orzo << orriu >>, oppure con capi di bestiame o con le loro carni << pegus e pezas >>, alla cui esazione erano addetti i Kerkidores.

Il pagamento in natura fu una delle caratteristiche dell'economia sarda medioevale caratterizzata dalla perenne mancanza di denaro liquido, infatti i giudici sardi non battevano moneta, ad eccezione del giudicato d'Arborea nel'300; nel medioevo la divisione delle monete era ancora quella delle monete romane ( 1 lira = 20 soldi, 1 soldo = 12 denari ); tale divisione monetaria rimarrà in vigore in Sardegna fino alla riforma albertina del 1836-44.

Le monete, quindi, circolavano molto raramente ed erano tutte di provenienza "estera" e penetrarono molto lentamente nel sistema economico isolano, basato, fondamentalmente, sul monopsonio, secondo il quale il sovrano acquistava il surplus dai sudditi e lo rivendeva nei mercati stranieri.

Altri tributi venivano corrisposti attraverso prestazioni d'opera, detti munia o angarias, oppure arrobadias, che consistevano nell'aratura, nella semina, nella mietitura, nella vendemmia, nella custodia del bestiame nelle terre demaniali per il giudice o per l'apparato amministrativo statale, in attività artigianali confacenti al mestiere esercitato, oppure in prestazioni d'opera riguardanti la costruzione delle strade, dei ponti, delle fortificazioni e dei castelli << castris >> a vantaggio dell'intera comunità.

Spesso venivano corrisposti anche attraverso le cosiddette << operas de rennu >> e le << operas de curatoria >> a seconda che si prestassero nel patrimonio fiscale a vantaggio del giudice o del curatore.

Le imposte dirette che corrispondevano ai << munera patrimonii >> dell'ordinamento tributario dell'impero romano, venivano pagate da tutta la popolazione.

In Sardegna sui redditi fondiari spettavano le << partes agrariae >>, non soltanto al fisco o rennu ed al patrimonio privato del giudice ( peguliare ), ma anche ai funzionari dell'amministrazione centrale e locale ( curatori, maiori e armentari )4.

Le imposte fondiarie venivano indicate con nomi diversi: dadu, cergas, collectas, rasonis, consistevano principalmente in tributi in grano, orzo e vino, prodotti, per il profitto dell'amministrazione giudicale, dalle terre del regno, e perciò versate non solo dai liberi, ma anche dai servi e dai coloni che erano impegnati nelle attività agrarie5; queste imposte erano dovute da ciascuno in proporzione alla ricchezza goduta ed al reddito dei fondi posseduti; i testi dell'epoca giudicale affermano che le persone erano tenute a contribuire << segundu sa forza issoru >>, cioè secondo le proprie capacità contributive, quindi probabilmente sulla base del reddito annuale; ma durante la dominazione pisana diventarono dei tributi fissi, che potevano essere pagati sia in natura che in denaro.

La prima e più importante imposta fondiaria era il << dadu >> o la << data>>, che compare nei documenti sardi fin dal secolo XI, era pagata da tutti i sudditi, anche dai servi che avessero avuto una loro proprietà, acquistata con il loro << peculio >>, cioè con il loro capitale, oppure che avessero preso una terra in affitto, secondo le capacità contributive; di volta in volta veniva fissato l'importo complessivo che veniva ripartito fra le singole villas, dove i maiores ed il loro << consizu >> procedevano alla quotazione individuale.6

Probabilmente furono esenti dal pagamento del << dadu >>, ma tenuti ad un altro versamento di diversa entità detto << donamento >> i << liberi ab equo >> e i << lieros de coallu >>, menzionati nella Carta de Logu d'Arborea, che probabilmente erano tenuti a prestare, quando veniva loro richiesto, il servizio militare, in cambio di una cessione di terre appartenenti al fisco, a meno che non possedessero consistenti proprietà; si trattava di personaggi di una certa levatura sociale e di una certa agiatezza economica, essi dovevano provvedere al proprio cavallo, all'armatura e alle armi, che erano tenuti ad esibire in periodiche rassegne.

Insieme al << dadu >> va messa in relazione un'altra imposta la << collectura >> , di origine romano-bizantina, oppure la << colta >> ricordata nei documenti arborensi, alla cui esazione erano preposti i kerkidores, che si recavano nelle varie ville per tale scopo.

La << collectura >>, pagata in natura, era costituita da una prestazione, proporzionale al reddito, di lino, di << lahore de olbezas >> o di legumi, di << orzu de cavallos >> o d'avena, di << triticu o d'ordeu >>cioè di frumento o orzo9, oppure nella cessione di qualche capo di bestiame, in base al numero di capi posseduti, di una parte del bestiame macellato << escarcarium pro squarsquario >>, oppure di una parte della produzione casearia.

Le singole prestazioni, probabilmente, venivano indicate con le voci: << intradia >> o << trauda >> che deriva dal latino << tributa >> , anche se forse tali parole indicavano anche le << partes agrariae >> dovute al giudice, in quanto amministratore delle terre, per la loro concessione.

Una notevole fonte di reddito per lo Stato derivava anche dagli oneri personali che erano dovuti, quasi sempre, da tutta la popolazione ( liberi e servi ) e in determinate condizioni.

Questo oneri venivano chiamati << munera personalia >> o << servitia realia et personalia >>, rappresentavano per lo Stato un vantaggio, se non un vero e proprio reddito, almeno come risparmio di determinate spese per i pagamenti di alcune prestazioni d'opera a cui erano tenute determinate categorie di persone.12

I munera personalia, rappresentavano la prosecuzione delle antiche << operae aratoriae >>, << sartoriae >>, << messoriae >>, e le forme degli antichi << juga >>, che venivano imposte ai coloni dei latifondi durante la dominazione romana.

Queste prestazioni personali conservarono in Sardegna le antiche denominazioni di << munia >> , << angariae >> , oppure << operas >>, e forse si distinguevano inoltre in << bona et mala >>.

Queste prestazioni, definite spesso col none più generale di << munia >>, consistevano in opere "manuali" in virtù delle quali i sudditi erano tenuti a lavorare obbligatoriamente per un certo periodo i terreni appartenenti al fisco, fossero essi campi da arare, da mietere, fossero vigne da piantare o vendemmiare, ed a prestare varie tipologie di servizi con l'ausilio degli animali ( buoi e cavalli ) e dei carri.

I documenti citano tra i << munia >> le << operas de rennu o de regulu o peculiares >>, e le << operas de curatore o demaine >>, secondo la persona "pubblica" che era autorizzata ad esigerle ed alla quale andava il beneficio.16

Un esempio ci viene fornito dalla << arrobadia >> che consisteva nell'obbligo imposto ai sudditi, liberi o servi, di coltivare e seminare una determinata estensione di terreno nelle proprietà demaniali, per il profitto del giudice e dei suoi funzionari, con tali caratteristiche rimase in vigore anche durante la dominazione pisana, finché il sistema feudale la assegnò a vantaggio dell'istituzione pubblica dei monti frumentari; nelle tipologie dei << munia >> possono essere annoverate anche le prestazioni dovute dai liberos de paniliu, si trattava prevalentemente di opere aratoriae e messoriae.17

Inoltre le prestazioni di bestiame, dovute alle istituzioni, in determinate occasioni << pegus de domu >>, si accompagnavano alle prestazioni di carne << pezas >> dovute come tassa di macellazione, per il diritto di macellare il bestiame destinato all'attività agraria oppure alla vendita: << pegus de quasquariu, escarcarium >>18.

I principali tra questi << serbizzos >> erano: il servizio militare, del quale non si conosce precisamente l'organizzazione, sappiamo però con certezza che alcune persone erano tenute a prestare  il servizio militare a cavallo e, quindi, erano obbligati a curare il cavallo, insieme a quello dovevano presentarsi nelle periodiche mostre e non avevano la facoltà di alienarlo neppure per una cifra ragguardevole. Queste persone venivano definite << lieros de cavallu >>, il loro obbligo derivava dalla cessione di terre del fisco in cambio dell'onere del servizio militare; inoltre erano esenti dai pubblici oneri compresi nel concetto di << munza >>.

I << mungia >>, citati dalla Carta de Logu , erano servigi limitati a determinate categorie di persone, tra questi servigi venivano annoverate le << operas de sigillu e de levari ori >>, queste prestazioni non sono determinabili nel loro contenuto perché rappresentano dei veri e propri apax, cioè sono le uniche attestazioni di tali voci presenti nei documenti.

Tra i << serbizzos >> erano citati anche il << prodare pro corona de iudike o de curatore >>, il << prodare pro silvas de iudike o de curatore >>, il << genithu >>, le << zergas >>, e le << silvas o donnicas >>.20

Le << silvas o donnicas >> consistevano in battute di caccia periodiche, nelle quali obbligatoriamente partecipava tutta la popolazione, a vantaggio del giudice o del curatore, secondo una tradizione sia sarda che continentale; anche le silvas potevano essere considerate come delle speciali tasse, perché ognuno era tenuto a dividere le carni e le pelli, frutto delle cacce, a vantaggio del giudice o del curatore.21

Una rigida disciplina regolava le silvas per far si che tutta la selvaggina fosse portata senza frode al << collectariu >>22 e divisa secondo precise regole: la maggior parte delle << pezzas et pelles >> spettava, ovviamente, alle autorità e, forse, in questa prestazione di carne e pelli consisteva il << quasquarium >> al quale alludono alcuni documenti; non sappiamo con precisione quante silvas dovessero essere organizzate nell'arco di un anno, probabilmente quattro nel Giudicato di Torres ed una in quello d'Arborea.

Infine tra questa prestazioni personali bisogna ricordare: la << roatia >> che consisteva nell'obbligo, imposto ai sudditi, di arare o seminare determinate estensioni di terreno demaniale, il << gemilioni >> che pare fosse diffuso solo nel giudicato cagliaritano, consisteva in prestazioni di servizi di lavoro manuale o in lavori nelle vigne, oppure in lavori di mietitura << gimilioni de manus, de binia, de messari >> che, per oscuri motivi, il giudice aveva diritto di pretendere solamente in determinate ville e dagli uomini ammogliati, la prestazione detta << pro castris >> dovuta per la costruzione delle fortificazioni fu molto diffusa durante la dominazione pisana quando furono edificati numerosi castelli in Sardegna.

Imposte indirette furono sicuramente i << thelonea >>, di origine bizantina, spesso citati nei documenti, che si pagavano sulle importazioni e le esportazioni.24

L'economia infatti non era completamente chiusa e, nonostante fossero notevolmente diminuiti, i traffici commerciali si mantennero vivi; inoltre le entrate del rennu, che comprendeva anche le saline e le miniere, le cui produzioni partecipavano insieme al surplus dei redditi agricoli e pastorali alla formazione di capitali, insieme ai redditi delle famiglie più ricche, compresa quella del giudice, crearono una base economica per l'affermazione di una economia aperta, che si sviluppò prevalentemente sotto l'impulso delle marinerie genovesi e pisane.

I << thelonea >> nel cagliaritano erano di due tipi: << thelonea de hiberno e thelonea de aestate >>, la distinzione era data dall'onere maggiore preteso nei mesi estivi e primaverili, migliori per la navigazione; erano i dazi pagati dai << taxidia >> che approdavano in Sardegna per le importazioni e per le esportazioni delle merci, dell'esazione di questi dazi erano responsabili i maiores de portu.25

Il giudice ricavava proventi anche dalle vendite di alcuni uffici, è importante notare che questa pratica nell'impero bizantino ebbe una larghissima diffusione perché assicurava allo stato il gettito dei suoi proventi evitandogli le spese dell'esazione.

Le cariche suscettibili di vendita erano le << curatorias >>, le << armentarias >>, le << maiorias >>, le << kerhitorias >>, era un vero e proprio affare la vendita e l'acquisto delle cariche pubbliche, perché i curatores, i maiores de villa, de scolca, de pratu, e i kerkitores, rappresentavano i funzionari dell'amministrazione finanziaria ed ebbero anche il compito della riscossione dei tributi in natura e delle prestazioni d'opera; ad esempio l'armentariu, collocato nelle curatorie e nelle ville più importanti del giudicato era il responsabile oltre che dell'amministrazione della proprietà fiscale, anche della riscossione dei tributi in natura e della sovrintendenza sulle opere agrarie; il gennezzariu, preposto come responsabile delle varie industrie regie, era anche l'esattore dei tributi ad esse riconducibili, oppure il porcariu, responsabile dei pascoli regi e delle prestazioni da essi dipendenti.27

Una speciale tassa, anch'essa di origine bizantina, che prendeva il nome di << gimilione >>, veniva pagata da ogni persona sposata e corrispondeva ad una sorta di imposta di famiglia.

I sudditi erano, probabilmente, tenuti al pagamento di un'altra tassa, detta << pro nunzando >>, cioè per l'ufficio del << nuntius >> giudicale, incaricato delle citazioni giudiziarie e forse anche dei bandi emanati dalle autorità pubbliche.

La << prea >> attestata nei documenti sardi era una sorta d tassa di successione dovuta al regno << pro morti d'homine >>28, non si è certi che questa tassa, attestata nel documento volgare dell'XI secolo, avesse una portata generale, sembra però che in tutto il giudicato di Calari decadessero per diritto allo stato tutti i beni mobili delle persone morte senza discendenti diretti, mentre solo i beni immobili erano lasciati alla successione dei parenti.

Tale diritto veniva indicato come << jus enei >> e, con la parola << eneu >> si intendeva colui il quale non aveva figli.

Il Besta interpreta la << prea pro morti d'homine >> come il diritto, riservato alla pubblica autorità, di pignorare i beni dell'omicida, perché interpreta << morti d'homine >> come l'omicidio, per assicurare il pagamento della multa , la << maquida >>, affermando inoltre che tale consuetudine sarebbe un fenomeno peculiare della popolazione di ceppo servile ; quindi si può concludere che anche le multe in denaro << maquida >>, che se non venivano pagate, si trasformavano in pene corporali, anche se intorno a questo argomento gli storici sono discordi, contribuissero ad incrementare il patrimonio del rennu.

Il giudice aveva anche il diritto ad incamerare i beni vacanti dei cittadini, anche quelli degli stranieri, che fossero morti nel suo giudicato, a meno che non esistessero norme diverse all'interno dei trattati internazionali.

I giudici non solo erano soliti concedere ai vescovi ad alle chiese interi villaggi, con concessioni immunitarie, ma elargirono, inoltre, ai vescovi, alle chiese, ed alle famiglie continentali molto importanti, larghissime immunità finanziarie e giurisdizionali, che furono molto simili, anche se non identiche, alle concessioni feudali.

Un esempio di questa consuetudine è contenuto nel primo documento volgare sardo, che testimonia una donazione eseguita dal giudice Torchitorio all'Arcivescovo di Cagliari, nella quale nove ville, abitate da << liberos de paniliu >>, venivano sottratte al dominio giudicale e sottoposte all'azione finanziaria e giurisdizionale della chiesa cagliaritana.

La donazione non rappresenta soltanto una concessione beneficiaria di un vasto bene immobile, dove le terre e gli uomini, liberi e servi, i diritti e i redditi sono offerti alla chiesa, ma costituisce anche un atto di immunità, simile alla tipologia delle immunità feudali.

L'atto non si limitava ad attribuire alla chiesa tutti i diritti e i redditi all'interno di quelle ville, ma anche l'esenzione della chiesa dai tributi fino a quel tempo dovuti al fisco i quali, a causa della donazione, dovevano essere riscossi dalla stessa chiesa; inoltre sanciva l'autorità politica riconosciuta alla chiesa di governare le ville con propri rappresentanti, simili agli ufficiali giudicali ( curadores e maiores ); infatti si affermava anche il diritto, a favore dell'arcivescovo, di amministrare la giustizia e di compiere le esecuzioni forzate.31

In queste ville al giudice rimaneva soltanto il riconoscimento del potere regio e, la possibilità di pagare un aiuto sussidiario, laddove non fosse stata sufficiente l'autorità della chiesa.

Queste immunità riguardarono anche le vaste donazioni fondiarie dei giudici a favore delle chiese di S. Maria di Pisa e di S. Lorenzo di Genova e dei comuni di Pisa e Genova, nelle quali era sempre citata l'esenzione immunitaria dalle opere e dai tributi, spettanti agli ufficiali pubblici, ed alla pubblica attività del curatore e del maiore.

Le origini di queste forme di immunità, legate alla natura fondiaria dell'organizzazione amministrativa, devono essere ricercate all'interno di uno spontaneo sviluppo dell'ordinamento fondiario romano, dove il latifondo godeva di una autonomia territoriale sulle terre imperiali e su quelle private, attraverso<< immunitas >> finanziarie, << patrocinia >> privati, ed esenzioni militari, che portarono spesso ad una costituzione immunitaria di tipo "municipale".

Successivamente prima la dominazione pisana, ed in seguito, principalmente, quella aragonese subordinarono tali immunità al sistema propriamente feudale, nel quale il feudo sardo mantenne quel carattere patrimoniale, che rappresentò una sua caratteristica originaria.32






Sulle circoscrizioni amministrative ed i loro responsabili cfr. C. BELLIENI, La terminologia giuridica nell'ordinamento medioevale sardo di diritto pubblico, in << Studi in onore di Francesco Loddo Canepa >>, Firenze, 1959, vol. I, p. 41 e ss.; E. BESTA, La Sardegna medioevale, cit., vol.II, p. 69 e ss.; A. SOLMI, Studi storici sulle istituzioni della Sardegna nel Medioevo, cit., p. 125 e ss.; F. ARTIZZU, Pisani e Catalani nella Sardegna medioevale, Padova, 1973, p. 18 e le fonti ivi citate.; A. BOSCOLO, La Sardegna bizantina e alto-giudicale, cit., pp. 161-16; F. ARTIZZU, La Sardegna pisana e genovese, Sassari, 1985, p. 64.

F. C. CASULA, La storia di Sardegna, cit., p. 173.

Cfr. F. ARTIZZU, La Sardegna pisana e genovese, cit., p. 64.


CDS, vol. I, sec. XIV, doc. 150, p. 817 e ss; nel quale risultano attestate le assemblee delle singole curatorìe, convocate per il giuramento solenne e per la nomina del proprio rappresentante per la conclusione definitiva della pace tra il Re d'Aragona e la giudicessa Eleonora d'Arborea nel 1388.

A.SOLMI, Studi storici sulle istituzioni della Sardegna nel Medioevo, cit., p. 76.; F.C. CASULA, La Storia di Sardegna, cit., p. 174.

G. F. FARA, De Chorographia Sardiniae libri duo. De Rebus Sardois libri quattuor, Torino, 1835, p. 55 e ss.; V. ANGIUS, Sardegna, nel dizionario Casalis, tav. XXIX e ss.; E. BESTA, La Sardegna medioevale, cit., vol. II, p. 72 e ss.; G. ZIROLIA, Ricerche storiche sul governo dei Giudici in Sardegna e relativa legislazione, Sassari, 1897, p. 153 e ss.

A. SOLMI, Studi storici sulle istituzioni della Sardegna nel Medioevo, cit., pp. 85-86.

R. DI TUCCI, L'organismo giudiziario sardo: la Corona, in << Archivio Storico Sardo >>, vol. XII, 1916-17.

CDS, vol. I, sec. XI, docc. 21-22, pp. 164-165-166.

CDS, vol. I, sec. XIV, doc. 4, p. 506: <<  curator Arestani >>.

A. SOLMI, Studi storici sulle istituzioni della Sardegna nel Medioevo, cit., p. 116.; E. BESTA, La Sardegna medioevale, cit., vol. II, pp. 70-71.; A. BOSCOLO, La Sardegna bizantina e alto-giudicale, cit., p. 16

Ivi, p. 8.

CDS, vol. I, sec. XII, doc. 71, p. 225: << nobilitas >>; CDS, vol. I, sec. XII, doc. 69, pp. 223-224: << illustris >>.



F. ARTIZZU, La Sardegna pisana e genovese, Sassari, 1985, p. 65.

La dimostrazione di questa caratteristica è riscontrabile in: E. BESTA, Appunti cronologici sul Condaghe di S. Pietro di Silki, in << Archivio Storico Sardo >>, 1905, vol. I, fasc. 1-2, p. 57.; E. BESTA, La Sardegna medioevale, cit., vol. II, p. 77.

. F. ARTIZZU, La Sardegna pisana e genovese, cit., p. 65.; F. C. CASULA, La Storia di Sardegna, cit., p. 175.; A. SOLMI, Studi storici sulle istituzioni della Sardegna nel Medioevo, cit., pp. 121-12

E. BESTA, La Sardegna medioevale, cit., vol. II, p. 77.; A. SOLMI, La costituzione sociale e la proprietà fondiaria in Sardegna, Pisa, 1904, p. 40 e ss.; G. BONAZZI, Il condaghe di S. Pietro di Silki, Sassari, 1900, sch. 9, p. 5; sch. 61, p. 18; sch. 64, p. 19; sch. 202, pp. 48-49; sch. 221, p. 54, etc., nelle quali si nota l'intervento del curatore nell'assegnazione delle terre.

Condaghe di San Pietro di Silki, sch. 31, pp. 11-12 ( in seguito per brevità sarà abbreviato in CSPS ).; Condaghe di San Michele di Salvenor, a cura di R. DI TUCCI, in << Archivio Storico Sardo >>, vol. VIII, Cagliari, 191 ( ugualmente sarà abbreviato in CSMS ), sch. 23-243-244.

CSMS, sch. 299-301-311.

Ibidem, sch. 299-311.

CSPS, sch. 110, p. 31; sch. 305, p. 71, dove è riservato al giudice il giudizio sui reati contro i propri diretti dipendenti.

E. BESTA, La Sardegna medioevale, cit., vol. II, p. 77.

Nel Condaghe di S. Nicola di Trullas ( abbreviato in CSNT), sch. 161, p. 181, risulta una << guda de curatore >>, cioè un bene dato in godimento speciale al curatore.

B. FOIS, Territorio e paesaggio agrario nella Sardegna medioevale, cit, p. 108.

F. ARTIZZU, La Sardegna pisana e genovese, cit., p. 66.; F.C. CASULA, La Storia di Sardegna, cit., p. 176.

E. BESTA, I condaghi di S. Nicola di Trullas e S. Maria di Bonarcado, Spoleto, 1937, ( per brevità saranno rispettivamente abbreviati in CSNT e CSMB ); il termine si trova spesso nel CSNT, sch. 171, p. 70; sch. 186, p. 73; sch. 261, p. 87; sch. 296, p. 96; sch. 318, p. 102, etc.

CSMB, sch. 194, p. 194 << Petru Saba muraiolu >>; sch. 73, p. 147 << Migale Spanu fabru >>; CSNT, sch. 262, pp. 87-88 << mastru Rubertu >>; A. SOLMI, Le carte volgari dell'Archivio arcivescovile di Cagliari, Firenze, 1905, doc. IX, 2, p. 21 << Mazzu de Suini su fabru >>; doc. X, 3, p. 24 << Gostantini Flori Pikinnu, frau d'arcu >>, dove frau sta ovviamente per fabbro.

E. BESTA, La Sardegna medioevale, cit., vol. II, p. 80.

A. SOLMI, Studi storici sulle istituzioni della Sardegna nel Medioevo, cit., p. 126.  

F. C. CASULA, La Storia di Sardegna, cit., P. 176.; E. BESTA, La Sardegna medioevale, cit., vol. II, p. 80.

A. BOSCOLO, La Sardegna bizantina e alto-giudicale, cit., p. 163.

F. LODDO CANEPA, La Sardegna dal 1460 al 1478, Corso Universitario Dattiloscritto, anno 1946-47, p. 160.

Il condaghe di S. Michele di Salvenor, cit., sch. 6-94, dove il maiore compare intento a giudicare sulla proprietà di alcune pecore e sui prodotti della terra.(abbr. in CSMS)

G. LA CORTE, La scolca e il suo maiore. I Buiakesos, sassari, 1899, p. 7 e ss.; F. ARTIZZU, Rendite pisane nel giudicato di Cagliari agli inizi del secolo XIV, in << Archivio Storico Sardo >>, vol. XXV, fasc. 3-4 (1958), pp.8-4; E. BESTA, Postille critiche al Condaghe di San Michele di Salvenor, in << Archivio Storico Sardo >>, vol. XII (1917), p. 249.; E. BESTA, La Sardegna medioevale, cit., vol. II, p. 80 e ss.; A. SOLMI, La costituzione sociale e la proprietà fondiaria in Sardegna, cit., p. 4; E. BESTA, Diritto Sardo, Torino, 1899, p. 59.

E. BESTA, La Sardegna medioevale, cit., vol. II, pp. 80-81.

CSPS, sch. 140, pp. 35-36; sch. 141, p. 36; sch. 144, p. 36; sch. 158, p. 155, etc.

Statuti Sassaresi, ed. Guarniero, libro I, cap. 16.

G. LA CORTE, La scolca e il suo maiore. I Buiakesos. cit., p. 7 e ss.; A. SOLMI, La costituzione sociale e la proprietà fondiaria in Sardegna, cit., p. 41 e ss.

CSPS, sch. 221, p. 54: << maiore de scolca et tota villa >>.

E. BESTA, La Sardegna medioevale, cit., vol. II, p. 80.; Statuti Sassaresi, lib. I, cap. 17.

Carta de Logu, cap. 16.

N. SANNA, Il cammino dei sardi: Storia, Economia, Letteratura ed Arte in Sardegna, cit., vol. II, p. 181.

Sulle circoscrizioni amministrative: A. SOLMI, Studi storici sulle istituzioni della Sardegna nel Medioevo, cit, p. 75 e ss.; E. BESTA, La Sardegna medioevale, cit., vol. II, p. 66 e ss.

J. DAY, Gli uomini e il territorio: i grandi orientamenti del popolamento sardo dall'XI al XVII secolo, in << Storia dei Sardi e della Sardegna. Il Medioevo >> di AA. VV., a cura di M. GIUDETTI, Milano, 1988, p. 26.

B. FOIS, Territorio e paesaggio agrario nella Sardegna medioevale, cit., p. 96.

CDS, vol. I, sec. XII, doc. 2, p. 178: in questo documento per ogni donnicalia viene dato l'elenco dei servi, ognuno dei quali viene contato << cum omnibus filiis suis >>, costituendo così un nucleo familiare di circa quattro persone; inoltre cfr. B. FOIS, Organizzazione del territorio, imprese agricole e manodopera nella Sardegna medioevale, in << Rapporti fra proprietà impresa e mano d'opera nell'agricoltura italiana dall'XI secolo all'Unità >>, Verona, 1984, pp. 50-51.

B. FOIS, Territorio e paesaggio agrario nella Sardegna medioevale, cit., p. 96, nota n° 25.

Ivi, pp. 44-45.

A. SOLMI, Studi storici sulle istituzioni della Sardegna Medioevale, cit., p. 420, doc. II, dove si ha un esempio di << ecclethia paupera >>.

Sui possedimenti delle chiese e sulle loro prerogative: A. SOLMI, Carte volgari dell'Archivio arcivescovile di Cagliari, cit., p. 13 e ss.; doc. I, p. 24 e ss; doc. XI, p. 45; doc. XIX; A. SOLMI, Studi storici sulle istituzioni della Sardegna nel Medioevo, cit., p. 56 e ss.

F. CHERCHI PABA, Lineamenti storici dell'agricoltura sarda nel secolo XIII, in << Studi storici in onore di F. Loddo Canepa >>, Firenze, 1959, vol. II, p. 136 e ss.; A. SOLMI, Carte volgari dell'Archivio arcivescovile di Cagliari, cit., doc. XII, p. 27 e ss.; doc. XI, p. 18 e s.; doc. XIV, p. 33 e ss.; doc. XIX, p. 45.

A. BOSCOLO, Aspetti della vita curtense in Sardegna nel periodo alto-giudicale, cit, p. 47 e ss.

A. BOSCOLO, La Sardegna bizantina e alto-giudicale, cit., p. 176 e ss.

A. SABA, Montecassino e la Sardegna medioevale, Montecassino, 1927, doc. XXXV, p. 200.

Sulle donazioni di domus alle chiese ed ai monasteri e sulla loro consistenza cfr. A. SOLMI, Studi storici sulle istituzioni della Sardegna nel Medioevo, cit., doc. 1, p. 410.; A. SOLMI, Carte volgari dell'Archivio arcivescovile di Cagliari, cit., doc. VI, p. 18 e s.; doc. XI, p. 24 e ss.; CDS, vol. I, sec. XII, doc. 80, p. 232; CSPS, sch. 191-348.; CSNT, sch. 39, pp. 41-42; sch. 174, p. 71; sch. 254, p. 86; sch. 274, p. 91.; A. SABA, Montecassino e la Sardegna Medioevale, cit., doc. XI, p. 15; doc. XIV, p. 157.; doc. XVII, p. 165.



CSMB, sch. 1, pp. 115-116; CSNT, sch. 58, p. 46; A. SOLMI, Studi storici sulle istituzioni della Sardegna nel Medioevo, cit., doc. III, p. 413 e ss.; A. SOLMI, Carte volgari dell'Archivio arcivescovile di Cagliari, cit., doc. V, p. 17 e s.

A. SOLMI, Carte volgari dell'Archivio arcivescovile di Cagliari, cit., doc. XVII, p. 40 e ss.; doc. XV, p. 36 e ss.; doc. II, p. 15.; doc. XIII, p. 29.

Ibidem, doc. IX, p. 21 e ss.; CSNT, sch. 51, p. 44; sch. 84, p. 51; F. CHERCHI PABA, Lineamenti storici dell'agricoltura sarda nel secolo XIII, in << Studi in onore di F. Loddo Canepa>>, cit., vol. II, p. 185.

A. SOLMI, Carte volgari dell'Archivio arcivescovile di Cagliari, cit., doc. III, p. 16.; doc. X, p. 23.; doc. XIV, p. 33.

I tipi di chiusura erano normalmente quattro, secondo la testimonianza di MARCO TERENZIO VARRONE, nell'opera: De Re Rustica, in << Opere da Marco Terenzio Varrone >>, a cura di A. TRAGLIA, Torino, 1974, I, 14: << earum tutelarum genera IIII, unum naturale, alterum agreste, tertium militare, quartum fabrile >>.

CSNT, sch. 101, p. 54; sch. 121, p. 58; CSMB, sch. 105, p. 158.

CSNT, sch. 34, p. 41; A. SOLMI, Carte volgari dell'Archivio arcivescovile di Cagliari, cit., doc. XIII, p. 28 e ss.; doc. VI, p. 19; doc. XVIII, p. 42; R. DI TUCCI, Il condaghe di San Michele di Salvenor, in << Archivio Storico Sardo >>, vol. VIII, fasc. 3-4, sch. 6-12-121.

A. SOLMI, Studi storici sulle istituzioni della Sardegna nel Medioevo, cit., doc. IV, p. 416.

F. CHERCHI PABA, Evoluzione storica dell'attività industriale agricola caccia e pesca in Sardegna, cit, vol. II (dedicato al Medioevo), p. 140.

CSPS, sch. 197, p. 47.


A. SOLMI, Carte volgari, cit., doc. VIII, p. 19 e s.; doc. IX, p. 21 e ss.; doc. XVIII, p. 4

Sulle tipologie di costruzione: P. TOLA, Codex Diplomaticus Sardiniae, in << Monumenta Historiae Patriae >>, Torino, 1861-68, vol. I, sec. XII, doc. V, pp. 180-181; A. SOLMI, Carte volgari.., cit., doc. 9, p. 21 e ss.

Sui patrimoni << de pegugiare >> e << de rennu >>, si veda: A. SOLMI, Studi storici sulle istituzioni della Sardegna nel Medioevo, cit., p. 72 e ss; E. BESTA, La Sardegna medioevale, cit., vol. II, p. 83 e ss.

A. BOSCOLO, La Sardegna bizantina e alto-giudicale, cit., p. 168.

E. BESTA, La Sardegna medioevale, cit., vol. II, p. 83 e ss; A. SOLMI, Studi storici sulle istituzioni della Sardegna nel Medioevo, cit., p. 160 e ss; F. ARTIZZU, Rendite pisane nel

giudicato di Cagliari agli inizi del secolo XIV, in << Archivio Storico Sardo >>, vol. XXV, fasc. 3-4 (1958), p. 98; F. ARTIZZU, Ricerche sulla storia e le istituzioni della Sardegna medioevale, Roma, 1983, p. 7 e ss.


A. SOLMI, Carte volgari dell'Archivio arcivescovile di Cagliari, cit., doc. XVIII, 2; doc. XIX, 3; E. BESTA, Liber Iudicum Turritanorum, Palermo, 1906, p. 14.

P. S. LEICHT, Studi sulla proprietà fondiaria nel medio evo, Verona, 1907, vol. II, p. 70 e ss; E. BESTA, La Sardegna medioevale, cit., vol. II, p. 83 e ss.

CDS, vol. I, sec. XIV, doc. 76, pp. 739-740.


CDS, vol. I, sec. XI, doc. 5, pp. 150-151-152; doc. 6, p. 153:: << ..no'lis levet de pruna collectura qui s'at faguir in sa terra d'Arborea..>>.

E' degno di nota il fatto che il verbo << collire >>, nel dialetto logudorese, significhi << esigere >>; a tale proposito cfr. Statuti Sassaresi, libro I, 29.

Si veda il documento del 1239 citato da A. SOLMI, Carte volgari dell'Archivio arcivescovile di Cagliari, cit., p. 98, n.

E. BESTA, La Sardegna Medioevale, cit., vol. II, p. 88 e ss.

E. BESTA, Diritto Sardo nel medio evo, Torino, 1899, p. 69; A. SOLMI, Carte volgari dell'Archivio arcivescovile di Cagliari, cit., p. 55; P. S. LEICHT, Studi sulla proprietà fondiaria nel medio evo, cit., vol. II, p. 69.

CDS, vol. I, sec. XIV (a. 1336), doc. 48, p. 701.

A. SOLMI, Carte volgari dell'Archivio arcivescovile di Cagliari, cit., p. 99.

CDS, vol. I, sec. XII (a. 1198), doc. 140, p. 227.

A. SOLMI, Carte volgari dell'Archivio arcivescovile di Cagliari, cit., doc. XXI, 3.

CDS, vol. I, sec. XII (a. 1136), doc. 45, p. 210; vol. I, sec. XII (a. 1173), doc. 101, p. 224; vol. I, sec. XIII (a. 1205), doc. 5, pp. 307-308; inoltre E. BESTA, Diritto Sardo nel Medioevo, cit., p. 69, n. 93.

A. SANNA, I << liberos de paniliu >> nella Sardegna medioevale, in << Annali delle Facoltà di Lettere, Filosofia e Magistero dell'Università di Cagliari >>, vol. XXXV (1972), p. 227 e ss.

A. SOLMI, Carte volgari dell'Archivio arcivescovile di Cagliari, cit, doc. XVIII,

Carta de Logu, cap. 91.

A. SOLMI, Carte volgari dell'Archivio arcivescovile di Cagliari, cit., doc. XXI, 3.; P. S. LEICHT propone l'ipotesi che le << silvas donnicas >> rappresentassero l'obbligo di recarsi nelle << selve donniche >> per abbattere il bosco, nell'opera, Studi sulla proprietà fondiaria del medio evo, cit., vol. II, p. 70; tale ipotesi venne però rifiutata dal Besta.

E. BESTA, P. E. GUARNIERO, Carta de Logu de Arborea, in << Studi Sassaresi >>, a. III, vol. I, fasc. 1-3, 1905, capp.

CSPS, sch. 266, p. 61.

V. FINZI, Gli statuti del libero comune di Sassari, Cagliari, 1911, libro I, 75-115-175; Carta de Logu, capp. 81-82-83.

Sui << thelonea >> e sulle altre imposte indirette: E. BESTA, La Sardegna medioevale, cit., vol. II, p. 89 e ss.; A. SOLMI, Studi storici sulle istituzioni della Sardegna nel Medioevo, cit., p. 160 e ss.

E. BESTA, Il Liber Iudicum Turritanorum, con altri documenti logudoresi, Palermo, 1906, app. doc. I.

CONSTANTINUS PORFYROGENITUS, De Cerimoniis aulae bizantinae, in Migne, patrologiae cursus completus, series graeca, Parigi, 1884, II, 86.

A. SOLMI, Carte volgari dell'Archivio arcivescovile di Cagliari, cit., doc. XIII, 7; doc. I, 5; doc. V, 3; doc. XIV, 7.

Ibidem, doc. I, 6.

Cfr. un documento posteriore in, Collecìon de documentos inéditos de Aragon, Barcelona, 1856, doc. XI, pp. 686-687; dallo stesso documento, alla pagina 681, si apprende che la tassa di successione versata dagli eredi al comune di Pisa era di due lire.

E. BESTA, La Sardegna medioevale, cit., vol. II, p. 64.

A. SOLMI, Carte volgari dell'Archivio arcivescovile di Cagliari, cit., doc. I, 3-6: << et non usent intrare perunu curadore et nin perunu maiore ad juigare et ni a preare in istas villas de paniliu>>.


A. SOLMI, Sulla origine e sulla natura del feudo in Sardegna, in << Rivista italiana di sociologia >>, vol. XIV, 1906, p. 3 e ss.

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