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Nazismo e Fascismo, la guerra in Spagna




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Nazismo e Fascismo, la guerra in Spagna






Hitler e Mussolini verso la guerra



Salito al potere e annientata col terrore ogni opposizione, Hitler iniziò il progressivo smantellamento dei trattati di pace, mascherato a tratti da iniziative «pacifiche».

Così nel luglio del 1933 egli partecipò al Patto a quattro, promosso da Mussolini e inteso ad impe­gnare l'Inghilterra, la Francia, la Germania e l'Italia alla conservazione della pace

Ma mentre il patto rimaneva lettera morta, un significato ben diversamente concreto e minaccioso ebbero, nell'ottobre dello stesso anno, l'abbandono della Conferenza per il disarmo e l'uscita della Germania dalla Società delle Nazioni.


Il 25 luglio del 1934, alcuni gruppi di nazisti austriaci tentarono un colpo di forza su Vienna, con l'intenzione di proclamare senz'altro l'annessione del­l'Austria alla Germania. Alcuni edifici pubblici furono effettivamente occupati, e il cancelliere austriaco Engelbert Dollfuss venne ferito a morte e decedette il giorno stesso.

Il tentativo, represso dal­le forze governative, fu condannato dalle cancellerie europee, e Mussolini fece schierare alcune nostre divisioni al confine del Brennero, per ammonire i Tedeschi che l'Italia si rendeva garante dell'indipendenza austriaca e si sarebbe opposta con la forza ad ogni tentativo di annessione.

Di fronte a questa precisa presa di posizione, il Führer preferì scindere le proprie responsabilità, anzi smentì, con evidente falsificazione, che il tentativo insurrezionale nazista di Vienna fosse stato promosso dalla Germania.


Ben più fruttuoso per il nazismo fu il Si aprì infatti con il plebiscito della Saar (previsto dal trat­tato di Versailles), la cui popolazione votò a grandissima maggioranza per il ritorno alla Germania, esprimendo così anche una fondamentale adesione al regime hitleriano.

Nel marzo la Germania ripristinò la leva militare obbligatoria e iniziò il processo di riarmo terrestre e aereo. Questa violazione dei trattati di pace fu condannata in un convegno italo-franco-inglese, svoltosi a Stresa nell'aprile; ma presto subentrarono gravi dissensi fra l'Italia - che voleva impadronirsi dell'Etiopia, come diremo - e le altre due potenze, e Hitler ne approfittò per continuare indisturbato nella politica di riarmo.


L'Impero etiopico retto dal negus Hailé Selassié, era stato accolto nella Società delle Nazioni sin dal su proposta italiana e francese, cosicché, mal­grado le sue strutture arretrate e semifeudali, si presentava agli oc­chi dell'opinione pubblica internazionale come uno stato sovrano con pienezza di diritti, e tale era effettivamente. Perciò l'aggressio­ne italiana ottobre per quanto diplomaticamente preparata da una semiapprovazione francese e da qualche contatto con l'Inghilterra, fu condannata dalla Società delle Nazioni, alla quale il negus si era rivolto sin dall'aprile per chiederne l'intervento nella controversia italo-etiopica, nata da alcuni incidenti di frontiera.

La condanna fu seguita dalle sanzioni economiche (18 novembre 1935) previste dal patto societario contro gli aggressori e seriamente caldeggiate dal ministro degli esteri inglese Anthony Eden che, con Winston Churchill, fu dei pochissimi conservatori convinti che le avventure nazifasciste andassero stroncate sin dagli inizi.

Ma le sanzioni furono applicate molto blandamente, perché non si pose l'embargo alle materie prime di fondamentale importanza militare, come per esempio il carbone e il petrolio. Il risultato di questa politica ambigua fu pertanto quello di permettere al fascismo la prosecuzione indisturbata della guerra e di conferirgli all'interno dell'Italia un momento di popolarità per la fierezza con la quale «tirava diritto», secondo l'espressione mus­soliniana, sfidando una coalizione internazionale.

L'Inghilterra, in particolare, subì una grave perdita di prestigio, perché - inviata nel Mediterraneo la sua flotta a scopo intimidatorio ma senza la minima intenzione di andar oltre la semplice minaccia - non con­seguì alcun risultato.

Della tensione internazionale approfittò il Führer per rimilitarizzare la Renania (7 marzo 1936), senza che l'Inghilterra e la Francia trovassero l'energia per opporsi al nuovo colpo inferto all'equilibrio europeo.


Intanto anche le operazioni militari italiane in Etiopia, nonostante qualche iniziale incertezza, vennero condotte avanti speditamente e si conclusero il 5 maggio 1936 con l'entrata delle truppe del maresciallo Badoglio in Addis Abeba. Quattro giorni dopo l'Etiopia, integrata dall'Eritrea e dalla Somalia, fu costituita in Impero dell'Africa Orientale Ita­liana, e Vittorio Emanuele III ne cinse la corona.


Ma le conseguenze più rilevanti dell'impresa etiopica si ebbero in Europa: infatti le democrazie occidentali e la Società delle Nazioni ne uscirono screditate, il militarismo tedesco se ne avvantaggiò, e l'Italia fu spinta dall'ostilità an­glo-francese ad accostarsi alla Germania.

Cominciò così quella stretta collaborazione italo-tedesca in vista della quale il «duce» do­vette rinunciare a rendersi garante dell'indipendenza austriaca.



La guerra civile in Spagna


La solidarietà fra l'Italia e la Germania, stabilitasi in occasione, delle sanzioni, si concretò in seguito in un vero e proprio accordo per il comune intervento dei due paesi nella guerra civile spagnola

La Spagna, che fino all'inizio del Seicento era stata la più grande potenza europea, aveva in seguito perduto completamente il suo primato ed era rimasta ai margini dello sviluppo borghese e capitalistico, cosicché all'inizio del '900 essa si trovava in condizioni sociali ed economiche molto arretrate.

Dominata dalla nobiltà agraria, dall'esercito, dalla burocrazia e da un clero ricco e potente, essa era agitata da forti tensioni fra la gran massa dei braccianti e dei contadini poveri, da una parte, e le ricchissime casate nobiliari proprietarie terriere, dall'altra.

L'unica regione relativamente industrializzata era la Catalogna, nella cui capitale, Barcellona, viveva un proletariato industriale soggetto a un duro sfruttamento. La stessa borghesia imprenditoriale, che nei paesi più progrediti si era da tempo imposta come classe dirigente, occupava in Spagna una posizione nettamente subalterna rispetto alle caste privilegiate.

Dopo la crisi seguita allo scacco che gli Stati Uniti le avevano inflitto nel la Spagna aveva visto rafforzarsi le correnti repubblicane e socialiste, che premevano per una riforma agraria e per lo svecchiamento democratico dello stato e della società nazionale.

Le caste dirigenti, d'altra parte, con l'appoggio del re Alfonso XIII erano riuscite a bloccare in un primo tempo ogni sviluppo democratico, imponendo la dittatura del generale Miguel Primo de Rivera

Ma la crescente impopolarità di costui aveva in un secondo tempo costretto il re a congedarlo e a rientrare nella norma costituzionale: anzi il successo delle sinistre nelle elezioni amministrative del aveva indotto Alfonso XIII ad abbandona­re il paese, che poté così darsi un'avanzata costituzione repubbli­cana.


Nella repubblica prevalsero inizialmente i partiti politici progressisti, che attuarono una serie di riforme, rivolte ad ammodernare il paese, a sottrarlo al tradizionale clericalismo e a eliminare almeno le più clamorose ingiustizie sociali.

Nelle elezioni politiche del novembre le destre ripresero però il sopravvento, e, ottenuto il governo, abrogarono le riforme già attuate o in corso di attuazione e instaurarono un regime autoritario, pronto a reprimere nel sangue ogni moto popolare di protesta. Famosa, a questo proposito, fu la repressione di una rivolta dei minatori delle Asturie (ottobre che costò agli insorti circa morti, 7000 feriti e incarcerati.

La politica ultrareazionaria attuata dalle destre nel biennio spinse le sinistre (borghesi, marxiste e anarchiche) a presentarsi unite in un Fronte popolare nelle successive elezioni politiche del febbraio e il Fronte ottenne una grande vittoria che permise ai progressisti di riprendere le redini del governo e di iniziare l'attuazione del programma di riforme concordato.


Conseguita la vittoria, il Fronte delle sinistre si di­ mostrò subito assai fragile: mentre infatti i democratici borghesi e i socialisti moderati puntavano su un'azione gradua­le di riforma, le masse contadine e operaie, guidate dagli anarchici e dai socialisti estremisti (i comunisti non avevano largo seguito in Spagna), occupavano terre e fabbriche, e facevano giustizia sommaria dei loro oppressori, uccidendo proprietari, ecclesiastici e funzionari.

Questi eccessi, nell'intenzione di chi li commetteva o li approvava, dovevano servire a trasformare la vittoria del Fronte in una rivoluzione sociale; in realtà servirono solo a rompere l'unità delle sinistre e rafforzarono invece la volontà di rivincita delle destre: i falangisti (che costituivano in Spagna un'organizzazione simile al fascismo italiano) risposero infatti al terrore rosso col terrore nero delle loro bande armate, e gli esponenti dell'esercito si prepararono a liquidare con la forza la repubblica democratica, dimostratasi impotente a reprimere i crimini dei 'rossi'.

Il blocco reazionario trovò presto il suo caudillo (o «duce») nel generale Francisco Franco, comandante delle truppe stanziate in Marocco, già distintosi nello sterminio dei minatori delle Asturie.

Egli, d'intesa con altri ufficiali superiori, fra il e il luglio riuscì a portare parte dell'esercito sulla via della ribellione contro il governo regolare democratico, sbarcò con le sue truppe in Spagna e diede così inizio alla guerra civile.


Francia e Inghilterra proclamarono allora il principio del non intervento, cui, a parole, aderirono anche la Germania e l'Italia.

Ma si trattò di una semplice commedia, perché Hitler e Mussolini stipularono proprio in quei mesi degli accordi precisi (noti sotto il nome di Asse Roma-Berlino), che li impegnavano fra l'altro a sostenere con tutti i mezzi Franco e il falangismo spagnolo (ottobre 1936). Il loro «non intervento» consistette dunque nell'invio di cospicui aiuti in uomini, armi e materia­li a Franco e ai suoi seguaci

Dalla parte del governo repubblicano legittimo si schierò invece, insieme con la Russia che mandò aiuti di limitate proporzioni, la più consapevole opinione pubblica internazionale democratica; e gli antifascisti di tutte le nazionalità reclutarono e inviarono in Spagna una Brigata internazionale, nella quale si distinse per il suo valore la Legione garibaldina, composta da fuorusciti italiani.

Era peraltro impossibile che il popolo spagnolo e i volontari antifascisti riuscissero a reggere indefinitamente contro i nemici, appoggiati dalle relativamente inesauribili risorse di stati moderni come la Germania e l'Italia: le zone di resistenza del governo repubblicano dovettero capitolare una dopo l'al­tra, e con la presa di Madrid, avvenuta nell'aprile 1939, la ditta­tura franchista poté affermarsi su tutto il suolo della Spagna.


Il caudillo, esente dalle tendenze apocalittiche di uno Hitler come dall'istrionismo venato di qualche umanità di un Mussolini, poté, con fredda abilità, imporre alla Spagna un regime reazionario forse anche più nemico di ogni progresso degli altri regimi fascisti, ma saldamente basato sui pilastri del clero, della burocrazia, dell'eser­cito e della proprietà agraria semifeudale.



Egli seppe prudentemente mantenere la Spagna estranea alla seconda guerra mondiale, che fu la voragine nella quale precipitarono il nazismo e il fascismo, e pose ogni cura nel tenere il suo paese lontano dal vivo circuito del­le correnti ideologiche e politiche contemporanee; cosicché, mal­grado la crescente pressione delle opposizioni clandestine, gli scio­peri, le manifestazioni popolari e gli attentati, il regime poté regge­re fino alla morte del dittatore novembre




Nella guerra civile spagnola si può intravedere una sorta di prova di quello che poi sarebbe stato il secondo conflitto mondiale: uno scontro tra ideologie opposte.




Patto antikomintern e nuove aggressioni nazi-fasciste



Negli stessi anni in cui la Spagna era sconvolta dalla guerra civile accaddero in Europa e in Estremo Oriente altri avvenimenti gravissimi, destinati a scatenare una seconda guerra mondiale.


Agli accordi dell'Asse Roma-Berlino, stipulati nell'ottobre del seguì dopo un mese il Patto antiko­mintern fra la Germania e il Giappone (cui un anno più tardi aderì anche l'Italia).

Il Patto, come dice il nome, era rivolto contro il Komintern (ossia contro l'Internazionale comunista) e aveva dunque un chiaro significato antisovietico: i due contraenti, in altre parole, speravano di prendere la Russia «tra due fuochi» e di impedir­le così qualsiasi intervento sia in Europa, dove Hitler si apprestava a compiere le imprese che vedremo, sia in Estremo Oriente, dove il Giappone intendeva portare a termine un vasto programma imperialistico.


Dopo la vittoriosa guerra del contro la Russia zarista, il Giappone aveva ulteriormente accresciuto la propria potenza bellica e produttiva: la partecipazione alla «Grande guerra» gli aveva infatti permesso di impadronirsi delle basi tedesche in Cina e nelle isole del Pacifico, e la sua industria si andava affermando fra le più efficienti del mon­do.

Ma, appunto perché la produzione industriale superava di gran lunga le capacità di assorbimento del mercato interno, il Giappone tendeva a cercare nuovi sbocchi commerciali e aspirava a espandere la propria influenza in Asia a spese della Cina. Fra il 1931 e il 1932 esso si era pertanto impadronito con un improvviso colpo di mano della Manciuria e vi aveva insediato lo stato-fantoccio del Manciukuò, che era in realtà una sua colonia.

Il Patto antikomintern doveva servirgli a condurre liberamente una nuova aggressione contro la Cina eliminando il pericolo di un eventuale intervento russo.

La progettata invasione della Cina ebbe infatti inizio nel luglio del 1937, pochi mesi dopo la firma del Patto, e per alcuni anni sembrò raggiungere gli obiettivi che s'era proposta.


Ci preme sottolineare fin d'ora che le iniziative del Giappone in Asia e nel Pa­cifico colpivano gli interessi statunitensi in quelle regioni e pone­vano pertanto le premesse di quello scontro che determinerà l'intervento diretto degli Stati Uniti nella seconda guerra mondiale.





Stabiliti rapporti amichevoli con l'Italia e con il Giappone, Hitler poté riprendere con successo il programma di annessione dell'Austria, fallito nel 1934. Fin dal 1936 il cancelliere austriaco Schuschnigg era stato costretto a riconoscere che l'Austria era uno Stato tedesco, per quanto indipendente e sovrano, e a concedere «cariche politiche di responsabilità» ad esponenti filonazisti.

Caduta la garanzia italiana in seguito all'impresa etiopica e al conseguente accostamento italo-tedesco, Schuschnigg si rendeva perfettamente conto di essere alla mercé della sopraffazione germanica e tentava solo, subendo le imposizioni del dittatore nazista, di ritardare gli eventi nella speranza di qualche congiuntura più favorevole.

Ora, nel febbraio del 1938, Schuschnigg viene convocato in Germania, dove gli viene imposto di affidare alcuni ministeri a personalità naziste austriache, e in particolare il ministero degli interni a Seyss-Inquart, leader dei na­zisti austriaci.

Poco dopo, ammassate truppe sulla frontiera austro­tedesca, il Führer impone a Schuschnigg addirittura di rimettere le proprie funzioni nelle mani dello stesso Seyss-Inquart, e que­st'ultimo - secondo gli ordini impartitigli per telefono da Berlino - invita le truppe tedesche ad entrare nel suolo austriaco.


Così, il 13 marzo 1938 l'Austria viene annessa al Reich, e Vienna viene ridotta al rango di capoluogo della Marca Orientale secondo la nuova denominazione imposta dai Tedeschi per una reminiscenza sacro-romano-imperiale.


Il nazismo viene immediatamente esteso al nuovo territorio, con il consueto seguito di violenze e di effera­tezze, rivolte in particolare contro gli Ebrei.

L'Austria accettò dunque d'essere annessa al Terzo Reich senza opporre alcuna resistenza, e la Francia e l'Inghilterra subirono il fatto compiuto, limitandosi a sollevare vane proteste verbali.


Hitler si sentì perciò più che mai autorizzato a proseguire nelle avventure internazionali e negli interventi militari: infatti non erano passati due mesi dall'occupazione dell'Austria, quando egli, con un anticipo di alcuni anni sui suoi stessi programmi, cominciò ad agitare il problema delle minoranze tedesche dei Sudeti, che il trattato di Versailles aveva poste sotto la sovranità della repubblica cecoslovacca. Londra e Parigi allora, anziché impegnarsi a difendere la Cecoslovacchia dalle minacce naziste, consigliarono al governo di Praga la via della prudenza e delle concessioni.


Il risultato di questi cedimenti fu la Conferenza di Monaco fra Hitler, Mussolini e i capi dei governi francese e inglese, Daladier e Chamberlain (settembre

La Conferenza autorizzò il Führer a occupare i territori rivendicati, e il Führer, naturalmente, s'impegnò a sua volta a garantire l'indi­pendenza di quanto rimaneva della Cecoslovacchia.

Che conto si dovesse fare dei suoi impegni lo si vide pochi mesi dopo, nel marzo del 1939, quando egli s'impadronì quasi per intero del paese e lo trasformò nel Protettorato di Boemia e di Moravia, vera e propria colonia del Terzo Reich


Cominciavano così a verificarsi le previsioni del leader conserva­tore inglese Winston Churchill, che il 5 ottobre 1938, commentando la capitolazione di Monaco in un discorso alla Camera dei Comuni, aveva detto: «Abbiamo subìto una disfatta totale e senza scusanti. Ci troviamo di fronte a un disastro di prima grandezza. La via lun­go il Danubio, la via al Mar Nero è stata aperta ai Tedeschi. Tutti i paesi dell'Europa centrale e del bacino danubiano verranno assor­biti, l'uno dopo l'altro, nel vasto sistema della politica nazista. E non pensate che questa sia la fine; anzi è soltanto l'inizio».


A sua volta Mussolini, che mal sopportava d'esser messo in ombra dai successi nazisti nell'Europa centrale, volle prendersi una specie di rivincita facendo occupare l'Albania (aprile 1939); ma si trattava di un ben magro compenso allo squilibrio che con la sua complicità s'era creato nell'Europa centrale a tutto vantaggio del Reich tedesco.

In realtà, il «duce» era ormai rimorchiato dai nazisti, a imitazione dei quali dal 1938 aveva persino adottato, con le leggi razziali,  l'abietta politica antisemita, del tutto estranea alle tradizioni e ai sentimenti del popolo italiano


E la sudditanza dell'Italia fascista alla Germania nazista fu ribadita il 22 maggio del 1939 con la stipulazione del cosiddetto Patto d'acciaio, col quale i due paesi s'impegnavano reciprocamente ad appoggiarsi con le armi e con tutti i mezzi, qualora l'uno dei due si trovasse coinvolto in «complicazioni belliche».


Solo apparentemente, infatti, il Patto metteva entrambi gli alleati sullo stesso piano, mentre nella realtà esso obbligava l'Italia ad affiancarsi alla Germania nella guerra che il Führer avrebbe infallibilmente provocato di lì a pochi mesi.



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