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L'Italia dopo l'unità




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L'Italia dopo l'unità


Dopo l'unità per quindici anni (dal 1861 al 1876) alla guida del paese ci fu un raggruppamento politico denominato Destra storica composta da esponenti dell'aristocrazia e della borghesia liberale moderata del centro-nord. Il primo problema affrontato da questo governo fu il completamento dell'unificazione italiana con l'annessione del Veneto e di Roma.

Completare l'unità non significava solo allargare i confini politici dello stato, ma soprattutto dare una stabilità politica ad esso la cui autonomia e unità era ancora in bilico essendo sottoposto a diverse forze sia dall'interno che dall'esterno. Grazie all'alleanza con la Prussia  nella guerra che essa vinse contro l'Austria nel 1866 l'Italia ottenne il Veneto: questa guerra, sanguinosa e disastrosa dal punto di vista militare (l'esercito italiano fu sconfitto a Custoza e la flotta a Lissa), fu detta poi terza guerra d'indipendenza: infatti l'Italia in cambio della propria partecipazione ottenne il Veneto che fu ceduto dagli austriaci ai prussiani e da questi a Napoleone III perché lo consegnasse all'Italia.

La questione romana fu molto più difficile da risolvere: l'Italia dipendeva dalla Francia di Napoleone III ed era da essa limitata, poiché l'unità italiana era stata condotta almeno all'inizio grazie all'appoggio francese e poiché a Roma era presente una guarnigione francese a difesa del papa. Con la Convenzione del settembre 1864 firmata da Italia e Francia si stabilì il graduale ritiro delle truppe francesi da Roma e il trasferimento della capitale italiana da Torino a Firenze. I democratici condannarono queste decisioni, essendo favorevoli alla conquista di Roma attraverso un'azione militare e popolare: Garibaldi tentò due volte nell'impresa con truppe volontarie, ma fu fermato la prima volta sull'Aspromonte e la seconda a Mentana dopo di che fu arrestato e condotto sull'isola di Caprera, dove morì nel 1882. Con queste azioni il Risorgimento italiano era finito.

Nonostante tutta la classe dirigente fosse contraria ai tentativi di forza temendone le ripercussioni internazionali, al suo interno si trovavano diversi orientamenti riguardo ai rapporti con la Chiesa. I moderati della Destra seguivano il motto di Cavour "libera Chiesa in libero Stato", cioè sostenevano la laicità dello Stato e la separazione fra esso e la Chiesa. Questa linea era tipica del ceto politico settentrionale, mentre in altri settori della classe dirigente, sia a Destra che a Sinistra, si facenìva sentire l'influsso del giurisdizionalismo tipico della cultura meridionale: si voleva un aperto laicismo riducendo l'influenza della Chiesa sulla società come condizione per il progresso civile.















Questa seconda linea di pensiero ebbe la meglio, in quanto il governo per necessità di bilancio fu costretto nel 1866 a requisire i beni ecclesiastici e Pio IX fu assolutamente intransigente verso il nuovo stato rifiutando ogni soluzione diplomatica Nel 1864 pubblicò con l'enciclica Quanta cura il Sillabio, in cui venivano elencate tutte le proposizioni e le teorie condannate dalla Chiesa (alle idee socialiste era affiancate anche quelle liberali e il principio dell'autonomia dello stato della Chiesa). Quindi lo Stato italiano si orientò verso un'azione di forza che divenne possibile dopo la sconfitta e la deposizione di Napoleone III ad opera dei prussiani. Il 20 Settembre 1870 I bersaglieri entrarono in Roma attraverso la breccia di porta Pia. Pio IX scomunicò i responsabili dell'"usurpazione" e si dichiarò prigioniero dello Stato Italiano.

Nel 1871 il parlamento approvò la legge delle Guarentigie che doveva regolare i rapporti fra Stato e Chiesa e la capitale fu trasferita a Roma. Questa legge rappresentava un compromesso tra i separatisti e i fautori di una netta limitazione dei poteri del papa: la chiesa era libera di svolgere autonomamente la propria funzione religiosa, il papa otteneva la sovranità della Città del Vaticano con una dotazione annua, ma lo Stato manteneva il diritto di controllo sulla destinazione dei beni ecclesiastici. Ma Pio IX respinse queste norme che erano per lui unilaterali e vietò la vita politica ai cattolici.

L'Italia post-unitaria era gravata principalmente da due problemi: un complessivo ritardo nello sviluppo economico rispetto alle altre potenze europee e una grave eterogeneità dal punto di vista economico, politico-amministrativo e culturale. La forza lavoro italiana era occupata al 70% nell'agricoltura, al 18% nell'industria e al12% nel settore terziario. L'agricoltura era arretrata, l'industria era fragile, sempre con qualche rara eccezione nel nord del paese. Il mercato interno era praticamente inesistente, essendoci dogane fra gli stati, differenti sistemi commerciali e comunicazioni inefficienti. La percentuale di alfabetizzazione era molto bassa e ancora più basa quella degli italiani che usavano correttamente la lingua nazionale. Alcune malattie, altrove debellate, come il tifo, il colera e il vaiolo, affliggevano la popolazione italiana senza una alimentazione adeguata e che versava in cattive condizioni igenico-sanitarie.

A questi problemi tentarono di dare una soluzione gli uomini della destra, una classe dirigente che portava in sé i limiti di una cerchia troppo ristretta, anche se omogenea: i suoi rappresentanti condividevano l'oculata amministrazione dello stato,; la fiducia nel liberismo, la diffidenza nei partiti organizzati; la convinzione di essere un élite capace di agire negli interessi della nazione, guardando alle masse popolari con un misto di rispetto e paternalismo; una quasi totale incomprensione dei problemi della società meridionale.

La Desta sul piano istituzionale allargò a tutto il regno la legislazione del regno di Sardegna tra cui la legge elettorale sabauda: ne risultò che solo 1,9% degli italiani aveva diritto di voto e alle prime elezioni solo il 57% di essi si recò a votare: la maggioranza del ceto medio, gli operai e i contadini era privi di rappresentanza politica. Lo statuto Albertino, che rimase in vigore fino al 1948, accoglieva le fondamentali rivendicazioni liberali, ma lasciava ampio spazio al potere del sovrano e del governo nei confronti del parlamento. Oltre alla continuità dell'ordinamento sabaudo il governo fu favorevole all'accentramento amministrativo poiché lo stato sardo si era modellato su quello francese napoleonico. Contro questa decisione si fecero avanti le proposte di decentramento amministrativo per valorizzare e rispettare le diversità nell'eterogenea realtà italiana come quella di Marco Minghetti che però non arrivò neppure al voto: la Destra aveva il timore di perdere il controllo di uno Stato ancora fragile.

Il regno fu diviso in 59 province, in cui il governo era rappresentato da un prefetto, e anche i sindaci erano nominati dal governo e rispondevano a esso: le realtà locali erano prive di ogni autonomia. Le conseguenze di queste scelte furono: uno stato fin dall'inizio accentrato e burocratico, con un'amministrazione poco efficiente; in particolare nelle regioni meridionali, un senso di estraneità allo stato.

Le scelte economiche della Destra furono orientate verso l'unificazione economica, la costruzione di infrastrutture e il risanamento del bilancio statale (questi ultimi due propositi in evidente contraddizione tra loro). Secondo la dottrina liberista propria della destra, l'economia italiana poteva venir risanata solo grazie alla creazione di un mercato interno e all'apertura vero l'esterno: il governo abbatté dazi e dogane interne e realizzò l'unificazione monetaria; la tariffa piemontese fu estesa a tutto il paese e nel 1863 furono firmati i trattati commerciali con la Francia e l'Inghilterra. La scelta liberista, che esponeva lo stato alla concorrenza di sistemi produttivi più evoluti, diede effetti contraddittori: da una parte favorì l'esportazione dei prodotti agricoli e dei semi-lavorati; dall'atra generò sofferenza per l'apparato industriale troppo esposto alla concorrenza, che non conobbe uno sviluppo significativo nel primo ventennio post-unitario. Fu l'industria meridionale a risentire maggiormente in modo negativo di queste scelte: fino ad allora era stata protetta dalle alte tariffe doganali borboniche, e la compensazioni di questi effetti negativi con l'espansione delle esportazioni agricole rafforzò la vocazione agraria delle regioni meridionali, il cui aumento di produzione però significò solo una crescita della rendita dei grandi proprietari terrieri.

Per rendere efficace l'unificazione e l'apertura del mercato nazionale serviva un programma di sviluppo delle infrastrutture che ottenne notevoli risultati, soprattutto nel campo ferroviario. Ma questo aggravò ancora di più la situazione finanziaria dello stato: il debito pubblico si alzò costantemente nei primi vent'anni di storia del nostro paese. Per far fronte a questo problema il governo fece ricorso a prestiti collocando titoli del debito pubblico sul mercato italiano e francese e mise in vendita beni del demanio pubblico ed ecclesiastico.

Il governo si proponeva inoltre un pareggio del bilancio che fu effettivamente raggiunto nel 1876 ma a prezzo di un inasprimento del prelievo fiscale, che per di più era molto squilibrato: le imposte indirette aumentarono a sproposito rispetto a quelle dirette che quindi colpirono i ceti meno abbienti penalizzando i consumi popolari. Nel 1868 venne introdotta la tassa sul macinato che colpiva i contadini, portando a forti proteste popolari: la rivolta contadina fu duramente repressa.

Per la Destra le crisi sociali cha nascevano dalle campagne, dalla miseria dei contadini e dall'irrisolto problema della terra erano problemi di ordine pubblico da risolvere con la forza e non fu certo favorevole alle popolazioni meridionali. Il vuoto di potere lasciato dalla caduta dei Borboni fu colmato enfatizzando l'autorità statale e l'applicazione della legislazione sabauda provocò contraddizioni e reazioni di rifiuto in regioni nettamente diverse dal Piemonte per cultura,assetto sociale e tradizione: per esempio, il sistema fiscale era più duro di quello borbonico e il servizio militare prevedeva sette anni di leva obbligatoria.

Così nacque tra le popolazioni meridionali una profonda sfiducia nello Stato che non era riuscito a mostrarsi come il garante della giustizia: si radicarono organizzazioni criminose, come la camorra e la mafia che già esistevano in età borbonica e con lo stato unitario non solo non furono debellate, ma accrebbero la loro influenza stringendo rapporti con esponenti del potere pubblico. Da ciò nacque il fenomeno del brigantaggio che insanguinò il Mezzogiorno fino al 1865: le bande, formate da contadini, da sbandati del disciolto esercito borbonico, da legittimisti, da renitenti alla leva e da banditi veri e propri, prendevano di mira i "galantuomini", si ribellavano allo Stato italiano spesso in nome della Chiesa o dei Borboni, da cui erano aiutati. L'unica risposta che la Destra seppe dare fu la repressione militare: per cinque anni ci fu una vera e propria guerriglia tra briganti e Stato.















Bibliografia:

  • "Moduli di arte E - Dal neoclassicismo alle avanguardie", Electa-Bruno Mondadori
  • "Protagonisti e testi della filosofia 3" di Fornero e   Abbagano
  • "Verismo e Positivismo" di Vittorio Spinazzola, Garzanti editore
  • "Vita dei campi" di Giovanni Verga
  • "Novelle Rusticane" di Giovanni Verga
  • "I Malavoglia" di Giovanni Verga
  • "Studiare storia 2" di Fossati, Luppi, Zanette, edizioni scolastiche Bruno Mondadori

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