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L'Italia dopo il 1860




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L'Italia dopo il 1860



Nei suoi primi anni di vita il Regno d'Italia dovette affrontare problemi molto complessi:


si trattava infatti di completare l'unificazione nazionale annettendo il Veneto

di amalgamare regioni e popolazioni assai diverse fra di loro per tradizioni  e per struttura economica

di colmare il divario fra l'Italia centro-settentrionale, relativamente sviluppata, e l'Italia meridionale e insulare assai più arretrata

di reperire le risorse necessarie all'adempimento di tutti questi compiti.



Il primo Parlamento italiano, riunitosi a Torino nel febbraio del 1861, era diviso in una Destra e in una Sinistra, che però non erano costituite da partiti di forte struttura organizzativa e di preciso orientamento ideologico come taluni dei più grandi partiti attuali, ma rappresentavano piuttosto correnti di opinione molto sfumate

La distinzione tra Destra e Sinistra, in altre parole, non si basava su una contrapposizione di interessi di classi diverse, ma dipendeva piuttosto dagli orientamenti cul­turali e dalle esperienze personali dei singoli deputati.


La Destra era costituita, nella sua ala estrema,  da autentici reazionari che non riuscirono mai a svolgere una seria opposizione, trincerati com'erano nei loro pregiu­dizi antidemocratici; il grosso della Destra era poi formato da li­berali conservatori e moderati, fedeli alla monarchia sabauda, che intendevano continuare cautamente la politica di progresso del Ca­vour e credevano nella validità del metodo parlamentare. Erano quindi i seguaci di Cavour.


La Sinistra aveva anch'essa le sue sfumature: all'e­strema sinistra del Parlamento sedevano i republicani sia unitari sia federalisti, i garibaldini, i democratici to­scani del Guerrazzi e piemontesi del Brofferio e i siciliani, raccolti attorno a Crispi; la Sinistra più moderata, rappresentata da Rat­tazzi e da Depretis, era invece propensa ad accettare la monar­chia e il tradizionale gioco parlamentare: era quindi disposta a col­laborare con eventuali governi della Destra moderata, secondo una formula già sperimentata ai tempi del «connubio» Cavour-Rattazzi (vedi lezione precedente, La politica di Cavour). In complesso la Sinistra, che rappresentava il Partito d'azione, sembrava accantonare il problema della repubblica per dare invece la precedenza al problema della completa unificazione della penisola e del trasferimento della capitale a Roma, conside­rata la città storicamente più rappresentativa d'Italia. Infatti, anche se Mazzini continuava nella sua propaganda repubblicana, la Sini­stra, che in realtà era pesantemente condizionata dalla sostanziale sconfitta subìta con l'unificazione sotto Casa Savoia, si limitava a richieste molto blande, ispirate a un generico umanitarismo: la ri­chiesta, ad esempio, di un più ampio diritto elettorale e di una maggiore attenzione ai problemi drammatici dei ceti più poveri. Si ricorda, infatti, che allora avevano diritto di voto solo i cittadini maschi, di almeno 25 anni che pagassero un'imposta diretta di almeno 40 lire (corrispondenti 140 mila lire del Oggi un limite equivalente non escluderebbe quasi nessuno, ma i bilanci statali e le imposte dell'800 e erano talmente più contenuti degli odierni che allora solo un'esigua minora pagava contributi superiori alle 40 lire annue (il reddito individuale medio degli italiani era bassissimo).


Comunque, il problema sociale rimase sullo sfondo, mentre emersero in primo piano i problemi di Roma e del Veneto nei confronti dei quali la Destra intendeva mettere in atto una politica di trattative e di compromessi più o meno segreti, mentre la sinistra voleva procedere più drasticamente, sfruttando lo slancio del volontarismo garibaldino, sempre insofferente di ogni cautela diplomatica.

Analizzeremo nei prossimi paragrafi la politica di entrambi questi due gruppi, che si succederanno al governo del paese dall'unità, vale a dire  dal 1861 al 1876 (Destra) e dal 1876 al 1896 (Sinistra).


Prima di affrontare però in dettaglio le problematiche e le soluzioni adottate dai vari governi, facciamo una distinzione nella linea politica della Destra e della Sinistra.


la Destra è composta da uomini con un alto senso dello stato, ma con scarsa sensibilità ai problemi sociali. Di conseguenza anche problemi come il Brigantaggio saranno repressi duramente con la forza, senza cercarne le radici sociali.

La sinistra si mostrerà più disposta verso i problemi sociali

la Destra segue una politica di accentramento e più autoritaria, ma del resto era fondamentale per uno stato appena unito, allo scopo di consolidare tale unità.

Con la sinistra inizia un parziale decentramento

Continua a seguire la politica diplomatica di Cavour, relativamente al problema di Roma

Segue per lo più un atteggiamento anticlericale

Come aveva fatto Cavour, si appoggia soprattutto alla Francia

Segue piuttosto la Germania di Bismarck

gli uomini della Destra tradizionale erano portatori delle esigenze delle classi dei proprietari terrieri che nell'800 costituiva­no ancora il nerbo dell'economia italiana,

gli uomini della Sini­stra, in accordo con il progresso tecnico ed economico europeo dei tempi, furono l'espressione e il sostegno della nuova borghesia impegnata nella costruzione dell'industria e pertanto ne favoriro­no le tendenze e le aspirazioni

Grazie alla politica degli uomini della Destra, in ogni caso, si risolveranno numerose questioni: il pareggio del bilancio (anche se con imposizioni fiscali onerose soprattutto a danno delle classi meno abbienti), la riconquista del Veneto, la presa di Roma, quindi il completamento effettivo dell'unità.

Grazie alla politica della sinistra si avvierà l'industrializzazione del Nord Italia (a danno però dell'economia del Sud), nonché, tra le altre cose, l'allargamento del suffragio e l'aumento quindi del numero di elettori.


Morto Cavour nel giugno del 1861, la Destra storica, che tenne per oltre un decennio il governo, impose al paese un regime rigidamente accentrato, rivolto intenzionalmente alla difesa dell'unità appena raggiunta ma attuato in modo tale da creare gravi e diffusi risentimenti: l'accentramento, infatti, per un verso si risolse nella piemontesizzazione di tutta la penisola, per l'altro si fondò non sul consenso di una larga maggioranza di cittadini, ma sul tacito accordo fra la borghesia imprenditoriale del Nord - che vedeva nel Mezzogiorno un possibile mercato per i propri manufatti - e i grandi agrari del Sud, che avevano accettato lealmente la soluzione unitaria solo a patto che le vecchie strutture latifondistiche meridionali non venissero toccate.

Di questa solidarietà fra i ceti abbienti del Nord e del Sud pagarono naturalmente le spese le classi subalterne, costrette a prestare il servizio militare obbligatorio e a pagare onerose imposte indirette (come quella odiatissima sul macinato), ma escluse dal diritto di voto e da ogni partecipazione al potere.

Già con il  primo ministero di Ricasoli si cercò subito di dare al paese un'organizzazione amministrativa fortemente ac­centrata, come già accennato; il Regno venne pertanto suddiviso in province, ammini­strate da prefetti che rappresentavano il potere centrale; le pro­vince erano poi suddivise in comuni, amministrati da consigli co­munali, elettivi ma presieduti da sindaci di nomina regia.

Anziché riunire un'assemblea che elaborasse una nuova costituzione, si volle estendere a tutto il Re­gno il vecchio Statuto albertino, che, nella sua estrema genericità, poteva essere interpretato in senso liberale ma anche in senso rea­zionario; fu inoltre estesa a tutto il paese la legislazione civile e pe­nale del Piemonte, con grave danno per quelle regioni dove, come in Toscana, la legislazione era più progredita; infine, fu imposta a tutti la coscrizione obbligatoria che suscitò molte reazioni nega­tive perché la maggioranza della popolazione italiana, come si è detto, non vi era abituata. Allo stesso modo furono estesi a tutto il paese misure, pesi,  moneta ecc del Piemonte.

Questa tendenza del Piemonte a imporre la propria mentalità e le proprie consuetudini civili e militari fece sì che molti Italiani si sentissero vittime di una sopraffazione dei «Piemontesi», e ci fu persino chi disse che l'Italia aveva subìto «l'ultima invasione bar­barica». In tal modo, mentre Ricasoli otteneva il riconoscimento del nuovo Regno d'Italia da parte delle maggiori potenze europee e riorganizzava la marina e l'esercito, nel Mezzogiorno l'invadenza piemontese e l'applicazione di sistemi fiscali che imponevano cari­chi eccessivi alle miserabili popolazioni contadine del Sud contri­buirono alla crescita virulenta del brigantaggio: una vecchia e tri­sta piaga del Mezzogiorno, che però fra il '61 e il '65 assunse pro­porzioni molto più massicce e preoccupanti, anche perché da Roma, dove si era rifugiato, Francesco II di Borbone tentò di utilizzare le bande di briganti per restaurare il proprio potere sul trono di Napoli. Ne parleremo più approfonditamente tra poco.


Soluzione positiva ebbero invece i problemi del Veneto e del Lazio.


II Regno d'Italia poté  infatti annettere il Veneto partecipando (come già visto) come alleato della Prussia alla guerra scatenata da Bismarck nel 1866 contro l'Austria: una guerra che in realtà fu vinta, soprattutto dall'efficientissimo esercito prussiano.

Negli anni precedenti, però, il governo italiano - sollecitato anche dalle pressioni del Partito d'azione che mirava a ottenere questo risultato con modalità analoghe a quelle della spedizione dei Mille - aveva tentato di risolvere il problema mediante trattative segrete con l'Austria, e solo le proposte di Bi­smarck indussero poi l'Italia a mutare atteggiamento e a stipulare con la Prussia, nell'aprile del un'alleanza. Per stornare l'imminente pericolo, l'Austria offrì allora all'Italia la cessione del Veneto, ma il governo Lamarmora, sperando di acqui­stare anche il Trentino con una campagna vittoriosa, rifiutò l'of­ferta e si predispose ad affrontare quella che la nostra tradizione ricorda come terza guerra d'indipendenza.

Il conflitto iniziò nel giugno sotto buoni au­spici, non solo perché la Prussia disponeva di una grande potenza militare, ma anche perché le forze di terra e di mare italiane, almeno numericamente, erano superiori a quelle del­)'Austria. Tuttavia le forze armate italiane erano minate da insuffi­cienze organizzative, e i quadri ufficiali piemontesi non si erano ancora amalgamati con quelli dell'ex esercito borbonico. Alla prova dei fatti queste deficienze emersero in modo clamoroso: per terra l'esercito, il 24 giugno, subì a Custoza una sconfitta; sul mare la flotta comandata dall'incapace ammiraglio Persano subì un duro scacco nello scontro di Lissa. L'onore delle armi italiane, compromesso dalla inettitudine e dalle meschine rivalità dei capi, fu in parte salvato dal corpo dei volontari di Garibaldi, che il 21 lu­glio riportarono sugli Austriaci la vittoria di Bezzecca.

La clamorosa vittoria prussiana di Sadowa fece co­munque volgere le sorti militari a netto sfavore del­l'Austria e la costrinse a stipulare anche con l'Italia l'armistizio di Cormons e la pace di Vienna (3 ottobre 1866), con la quale essa ce­deva il Veneto a Napoleone III, che a sua volta lo passava all'Italia. L'annessione del Veneto, seguita in realtà ad una umiliante scon­fitta, provocò nel paese un'ondata d'indignazione contro il go­verno, la monarchia e le alte sfere militari, mentre il Partito d'azione recuperava vigore e prestigio e inaspriva la polemica contro una classe politica supinamente legata alla causa monarchico-con­servatrice. Nel Mezzogiorno lo scontento popolare fu invece abil­mente sfruttato dai Borboni e dai clericali, che nel settembre del '66 riuscirono a suscitare a Palermo una rivolta, domata solo dal­l'intervento dell'esercito.


Della questione di Roma tratteremo più approfonditamente tra poco.




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