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L'ITALIA D'INIZIO SECOLO
Nei primi anni del secolo l'Italia ebbe il suo decollo industriale, seppure in notevole ritardo e con minore intensità rispetto ai Paesi europei più moderni (Gran Bretagna, Germania, Francia). Anche da noi, come negli altri Paesi capitalistici, si consolidarono quegli stretti legami tra industria, banche e Stato che caratterizzarono il capitalismo finanziario. Nacquero grandi banche (come la Banca Commerciale e il Credito Italiano), e lo Stato iniziò a intervenire massicciamente nella vita economica; nel 1905, per esempio, le ferrovie furono nazionalizzate, cioè divennero un'impresa statale.
Grazie anche alle commesse dello Stato, che oltre a materiale ferroviario richiedeva navi e armamenti, l'industria siderurgica divenne presto un potente trust: man mano che si sviluppava la produzione nelle sue industrie di Terni, Savona, Piombino e Bagnoli, aumentavano anche il potere e l'influenza dei suoi dirigenti nei ministeri e sul governo.
Analogo sviluppo aveva avuto l'industria elettrica, con la fondazione della società Edison: in circa quindici anni la produzione di energia elettrica era aumentata di 250 volte, e di conseguenza era diminuita l'importazione di carbone dall'estero. Inoltre sorgevano e prosperavano industrie automobilistiche (Lancia, Alfa Romeo, FIAT), della gomma (Pirelli), di macchine per scrivere (Olivetti).
L'iniziativa industriale, tuttavia, era limitata al Nord e a qualche zona del Centro Italia. Il Sud rimase estraneo a questo sviluppo. Anche in campo agricolo, furono specialmente i grandi agrari della Valle Padana a modernizzare le loro aziende, acquistando macchinari e impiegando lavoratori salariati.
I latifondisti meridionali approfittarono invece dei dazi con i quali il governo li proteggeva dalla concorrenza del grano americano per continuare nelle tradizionali colture poco produttive, senza introdurre innovazioni tecniche. I proprietari terrieri del Sud divennero importanti sostenitori del governo, a cui promettevano i voti dei parlamentari che riuscivano a fare eleggere.
L'industrializzazione dunque non soltanto non corresse gli squilibri tra il Nord e il Sud d'Italia, ma li accrebbe. Anche se mediamente il reddito individuale degli Italiani aumentò, in questo periodo, del 30%, l'emigrazione meridionale toccò la sua punta più alta.
In questo momento delicato la vita politica italiana fu dominata dalla figura di Giovanni Giolitti, un piemontese di orientamenti liberali che resse il governo quasi ininterrottamente dal 1901 al 1914. Egli fu molto abile nel favorire lo sviluppo dell'industria nel Nord, e nel migliorare complessivamente l'amministrazione dello Stato. Viceversa, non fece nulla per migliorare le condizioni di arretratezza del Sud: considerandolo soltanto un serbatoio di voti, favorì anzi la corruzione e la violenza dei potenti locali.
La sua scaltrezza politica seppe evitare, nel Nord, l'uso dei mezzi repressivi contro i movimenti popolari, che era prevalso alla fine dell'Ottocento. Gli scioperi e le proteste sociali erano in aumento, ma Giolitti mantenne un atteggiamento di neutralità nei conflitti tra padroni e operai, considerandoli un aspetto ineliminabile della società industriale. Anziché reprimere le organizzazioni sindacali, egli le favorì, perché riteneva che avessero la funzione di disciplinare la protesta operaia, che altrimenti sarebbe potuta esplodere in pericolosi episodi di violenza.
Benedetto Croce e Gaetano Salvemini, due storici spesso in antitesi, vedono Giolitti da punti di vista opposti.
Furono quelli, in Italia, gli anni in cui meglio si attuò l'idea di un governo liberale, perché, da un lato, esso manteneva l'ordine sociale e l'autorità dello Stato, e dall'altro accoglieva i nuovi bisogni col lasciare libero campo alle competizioni economiche anche tra datori di lavoro e lavoratori, e con l'attendere a prowidenze sociali [].
Giolitti fu uomo di molta accortezza e di grande sapienza parlamentare, ma non meno di seria devozione alla patria, di vigoroso sentimento dello Stato, di profonda perizia amministrativa. [].
A lui, di animo popolare, erano connaturate la sollecitudine per le sofferenze e per le necessità delle classi non abbienti e l'avversione all'egoismo dei ricchi e dei plutocrati, che allo Stato sogliono chiedere unicamente la garanzia dei propri averi e del proprio comodo.
II «ministro della malavita»
L'onorevole Giolitti approfitta delle miserevoli condizioni del Mezzogiorno per legare a sé la massa dei deputati meridionali; da a costoro carta bianca nelle amministrazioni locali; mette nelle elezioni a loro servizio la malavita e la questura; assicura ad essi ed ai loro clienti la più incondizionata impunità; lascia che cadano in prescrizione i processi elettorali e interviene con amnistie al momento opportuno; mantiene in ufficio i sindaci condannati per reati elettorali; premia i colpevoli con decorazioni; non punisce mai i delegati delinquenti; approfondisce e consolida la violenza e la corruzione dove rampollano spontanee dalle miserie lo cali; le introduce ufficialmente nei paesi dove erano prima ignorate. L'onorevole Giolitti non è certo il primo uomo di governo dell'Italia unita che abbia considerato il Mezzogiorno come terra di conquista aperta ad ogni attentato malvagio. Ma nessuno è stato mai così brutale, così cinico, così spregiudicato come lui nel fondare la propria potenza politica sull' asservimento, sul pervertimento, sul disprezzo del Mezzogiorno d' Italia; nessuno ha fatto un uso più sistematico e più sfacciato, nelle elezioni del Mezzogiorno, di ogni sorta di violenze e reati.
G. Salvemini, II ministro della malavita e altri scritti sull'Italia giolittiana, Milano
In questo clima fu fondata nel 1906 la Confederazione generale del lavoro (l'attuale CGIL), che riuniva a livello nazionale i sindacati delle diverse categorie (tessili, metalmeccanici, ecc.), mentre quasi contemporaneamente era nata un'analoga associazione degli industriali la Confederazione italiana dell'industria.
Anche in campo politico Giolitti cercò di stabilire alleanze con i partiti avversari per rendere più forte il suo governo. In un primo tempo intrattenne buoni rapporti con i socialisti: ma, mentre l'ala riformista del Partito socialista sembrava disposta all'accordo, l'ala «massimalista» (cosiddetta perché voleva «il massimo», cioè la rivoluzione) vi si oppose.
Giolitti si rivolse allora ai cattolici. Dalla presa di Roma (1870), essi costituivano una grande forza che per protesta si teneva fuori dal gioco politico. Il papa Pio X aveva però ammorbidito questa posizione, finché nel 1913 Giolitti si accordò con l'Unione elettorale cattolica presieduta dal conte Gentiloni: in base a quello che fu chiamato il «patto Gentiloni», i cattolici si impegnavano a votare per i candidati moderati che dessero garanzia di una politica a loro favorevole.
Soltanto grazie ai voti cattolici Giolitti riuscì ancora a conquistare la maggioranza nelle elezioni del 1913, le prime che si tenevano col suffragio universale maschile: gli elettori d'un balzo passarono da 3 a 8 milioni. Il Partito socialista, e specialmente la sua ala massimalista, riportò un grande successo, dovuto anche al fatto che la situazione sociale era molto peggiorata: l'aumento dei prezzi e della disoccupazione moltiplicava gli scioperi nel Nord industriale, mentre il Sud, che Giolitti aveva sempre trascurato, era abbandonato a una miseria crescente. Finisce, con il suffragio universale maschile, il momento della destra e della sinistra storica e comincia quello dei partiti di massa.
Fu però soprattutto la politica estera ad alienare a Giolitti le simpatie di molti Italiani. Pur non volendo ripetere i tentativi coloniali che già alla fine dell'Ottocento erano costati all'Italia gravi umiliazioni, Giolitti finì per cedere alle pressioni dei nazionalisti, in aumento anche in Italia come nel resto d'Europa. Costoro sostenevano la necessità che l'Italia, nazione «proletaria», avesse il suo «posto al sole», che potesse accogliere i disoccupati italiani anziché costringerli a emigrare in America.
Spinto anche dai fabbricanti d'armi e dagli ambienti cattolici (la finanza vaticana aveva molti interessi in gioco), e nonostante l'opposizione dei socialisti e degli anarchici, nel 1911 Giolitti decise di invadere la Libia, allora divisa in Tripolitania e Cirenaica, e sottomessa all'impero turco. Per punire la Turchia che inviava armi ai Libici, l'Italia occupò anche le isole del Dodecaneso, che sarebbero rimaste sotto il suo dominio fino al 1947.
Con la pace di Losanna (1912) la Turchia dovette accettare la sovranità italiana in Libia: ma in realtà gli Italiani occuparono solo le coste di quel Paese, perché le popolazioni arabe dell'interno opposero per 20 anni una tenace resistenza.
In Italia, frattanto, cresceva la polemica contro l'«imperialismo straccione» del governo, che nulla faceva per affrontare problemi sociali ed economici sempre più gravi. Giolitti si ritirò dal governo. Toccò al suo successore, Antonio Salandra, reprimere con la forza delle armi la protesta popolare, inviando nelle Marche e in Romagna, cuore della rivolta, ben 100.000 soldati.
LA GRANDE GUERRA
All'inizio del nostro secolo le maggiori potenze mondiali correvano inesorabilmente verso una guerra generalizzata.
L'espansione imperialistica aveva accentuato i suoi caratteri competitivi. La rivalità più aspra si manifestava, in particolare, tra Inghilterra e Germania. L'Inghilterra era sempre la prima potenza economica europea, ma la Germania, oltre a essersi conquistata il secondo posto, aveva un ritmo di crescita assai maggiore, dovuto in gran parte alla superiorità della sua tecnologia, più moderna di quella inglese.
I mercati francese, olandese, belga, italiano e russo, e perfino quello inglese, erano invasi da prodotti fabbricati in Germania, e già questo fatto impensieriva gli industriali e irritava i nazionalisti di quei Paesi. Ma per i monopoli tedeschi ciò non era sufficiente: essi chiedevano mercati più estesi e più sicuri, e maggiori fonti di materie prime. Pertanto, appoggiati dagli ambienti militari, premevano per un'espansione territoriale della Germania sia in Europa sia nei Paesi extra-europei, dove le colonie tedesche, assai limitate, erano ben poca cosa rispetto agli imperi inglese e francese. Quando la Germania, che non era una potenza marittima, riuscì in pochi anni ad allestire una flotta seconda soltanto a quella inglese, fu chiaro che tra i due colossi si sarebbe giunti a uno scontro.
II comune timore nei confronti della Germania fece tacere la tradizionale rivalità tra Francia e Inghilterra. Nel 1904 le due nazioni stabilirono una «Intesa cordiale», che tre anni più tardi si sarebbe trasformata in Triplice intesa, con la partecipazione della Russia.
A questo punto l'impero tedesco si trovava circondato da nemici. Rispetto ai tempi di Bismarck la sua situazione si era capovolta. Ora il sistema difensivo della Triplice alleanza, stipulata nel 1882, era poco affidabile perché uno dei tre alleati, l'Italia, all'inizio del secolo aveva stretto buoni rapporti con la Francia, che faceva parte dell'alleanza avversaria.
Come unico sicuro alleato della Germania non rimaneva che l'impero austro-ungarico, così detto perché l'imperatore austriaco Francesco Giuseppe nel 1867 aveva assunto anche il titolo di re d'Ungheria, costituendo una "duplice monarchia". Ma la struttura del grande Stato multinazionale incominciava a scricchiolare. Mentre Vienna diventava uno dei centri più vivaci della cultura europea, le diverse popolazioni assoggettate all'impero rivendicavano sempre più energicamente l'indipendenza nazionale: si ebbero movimenti nazionalistici cechi, sloveni, croati e ungheresi.
Non vanno dimenticati infine gli Italiani di Trento e Trieste, che animavano il movimento irredentistico, chiedendo l'annessione all'Italia dei territori ancora amministrati dagli Austriaci.
Alle tensioni nazionali all'interno dell'impero austro-ungarico si aggiungevano le rivalità tra i piccoli Stati dei Balcani, fomentate dall'Austria da un lato e dalla Russia dall'altro. L'Austria voleva espandere i suoi territori, accaparrandosi l'eredità dell'impero turco in Europa, ormai in sfacelo.
La Russia voleva invece garantirsi la possibilità di passare liberamente con le sue navi dagli stretti del Bosforo e dei Dardanelli, controllati dalla Turchia: l'accesso al Mediterraneo era una condizione indispensabile per diventare una potenza marittima, secondo i desideri dello zar.
L'occasione
perché queste tensioni esplodessero fu
data dalla rivoluzione dei «Giovani Turchi»
(1908), che in Turchia aveva posto fine al vecchio regime assolutista per sostituirlo con un più
moderno governo costituzionale. Della crisi della Turchia approfittò subito l'Austria, invadendo e annettendosi la Bosnia-Erzegovina
Poiché la Turchia manifestava l'intenzione di rafforzare
i suoi possedimenti nei Balcani, nel 1912 una coalizione di Greci, Serbi, Bulgari
Montenegrini, indirettamente appoggiata dalla Russia, attaccò le truppe turche
cacciandole definitivamente dai Balcani.
A questa prima guerra balcanica ne seguì subito una seconda (1913), per la spartizione delle terre conquistate, a cui aspiravano sia la Serbia sostenuta dalla Russia, sia la Bulgaria, sostenuta dall'Austria. La Bulgaria fu pesantemente sconfitta. Insieme alla Turchia, anch'essa sconfitta, strinse alleanza più stretta con l'Austria e la Germania, nella speranza di una rivincita. L'Austria a sua volta comprese che solo togliendo di mezzo la Serbia avrebbe potuto espandersi. Ma dietro la Serbia c'era la Russia, che era militarmente debole, ma aveva come alleate la Francia e l'Inghilterra, ben altrimenti temibili.
Così lo scontro diretto tra le potenze della Triplice intesa e gli Imperi centrali (come allora venivano chiamate Germania e Austria-Ungheria) appariva una prospettiva inevitabile.
Nel frattempo, un altro focolaio di tensione si era aperto in Marocco, che Francia e Germania si contendevano come colonia. Dopo due gravi crisi internazionali (1906, 1911) il Marocco divenne colonia francese. Ancora una volta, lo schieramento dell'Intesa usciva vincitore rispetto a quello degli Imperi centrali.
A questo punto la situazione era giunta a un punto veramente critico. Da una parte vi era la frustrazione dei Tedeschi e degli Austriaci che non riuscivano a garantirsi un'adeguata espansione coloniale e territoriale, dall'altra parte i timori e la concorrenza delle potenze dell'Intesa. Da entrambe le parti, poi, vi erano gli interessi dei grandi gruppi monopolistici e finanziari, che miravano al controllo del mercato mondiale, e avevano ormai deciso di accaparrarselo con la forza delle armi. Le armi, inoltre, non erano soltanto un mezzo di espansione: erano esse stesse un ottimo affare economico per i grandi monopoli. Le industrie metallurgiche e chimiche facevano a gara per accaparrarsi commesse militari dai governi. Si era così scatenata, nelle potenze dei due fronti contrapposti, una corsa agli armamenti senza precedenti. Quell'immenso potenziale di morte attendeva di esser usato. Non mancava che una scintilla
La scintilla che innescò la prima guerra mondiale fu l'assassinio dell'arciduca Francesco Ferdinando, che avrebbe dovuto succedere sul trono dell'Austria-Ungheria al vecchio imperatore Francesco Giuseppe. L'attentato fu opera di uno studente nazionalista serbo e avvenne a Sarajevo, in Bosnia, il 28 giugno 1914,
Per ritorsione l'Austria attaccò la Serbia un mese più tardi; il 1° agosto l'alleata Germania dichiarò guerra alla Russia, che si accingeva a sostenere la Serbia, e due giorni dopo alla Francia, mobilitata in favore della Russia. In realtà la Germania cercava di accelerare la guerra, convinta che le potenze dell'Intesa fossero ancora impreparate.
I suoi piani militari, predisposti fin dal 1905, prevedevano di battere prima la Francia e, in un secondo tempo, la Russia. La speranza di poter combattere sempre su un solo fronte non si realizzò, ma non fu l'unico calcolo sbagliato dei Tedeschi: essi credevano che l'Inghilterra non sarebbe entrata in guerra. Invece, non appena l'esercito tedesco invase il Belgio, nazione neutrale, per cogliere di sorpresa i Francesi, l'Inghilterra dichiarò guerra alla Germania (4 agosto). Il suo intervento fu decisivo: se è vero che il suo esercito terrestre non era ancora molto numeroso (in Inghilterra non esisteva la coscrizione obbligatoria), la sua forza sui mari servì a isolare gli Imperi centrali, i cui porti non potevano più essere riforniti di materie prime e derrate alimentari. Per contro, le navi inglesi rifornivano incessantemente gli alleati dell'Intesa.
In un primo momento sembrò che la guerra lampo prevista dalla Germania potesse realizzarsi. Dal Belgio neutrale i Tedeschi penetrarono rapidamente in territorio francese, avvicinandosi a Parigi e costringendo il governo a riparare a Bordeaux. L'epica battaglia della Marna (6-12 settembre 1914), che vide lo scontro di ben due milioni di soldati, fermò però l'avanzata dei Tedeschi, costringendoli ad arretrare.
La guerra di movimento era finita, mentre iniziava la guerra di posizione: 800 chilometri di trincea, lungo i quali Francesi e Tedeschi continuarono la loro opera quotidiana di distruzione del nemico, mantenendo però sempre le stesse posizioni, senza avanzare né retrocedere.
In Estremo Oriente la Germania, attaccata dal Giappone (alleato dell'Inghilterra), aveva perso i suoi presìdi coloniali in Cina, dove ora l'imperialismo giapponese poteva espandersi incontrastato. I Tedeschi avevano più successo, invece, sul fronte orientale europeo, grazie anche alla disorganizzazione dell'esercito russo, che risentiva della crisi generale dei domini dello zar. Le difficoltà della Russia aumentarono quando l'intervento di Bulgaria e Turchia a fianco degli Imperi centrali la costrinse a combattere su due fronti.
Allo scoppio della prima guerra mondiale i giornali, ispirati dai governi e dai monopoli finanziari, cercavano di orientare l'opinione pubblica a favore del conflitto, sostenendo che esso sarebbe durato poco e che la propria nazione era vittima dell'aggressione nemica. In questo modo strati sociali assai vasti furono conquistati alla causa della guerra.
Anche se le classi popolari, specialmente nelle campagne, rimasero per la maggior parte ostili alla guerra e indifferenti alla propaganda patriottica, molte organizzazioni operaie e socialiste si lasciarono convincere in favore del conflitto: per non essere considerate forze antipatriottiche, appoggiarono la politica dei rispettivi governi, abbandonando le parole d'ordine anticapitaliste e pacifista di un tempo. Così il Partito laburista inglese e il Partito socialista francese si trovarono a combattere su un fronte avverso al Partito socialdemocratico tedesco. Era il fallimento degli ideali di collaborazione tra i popoli che avevano alimentato la Seconda Internazionale.
Le tremende sofferenze causate dalla guerra, protraendosi per ben quattro anni, avrebbero fatto crollare molte illusioni e provocato radicali ripensamenti. In tutti i casi, governi, monopoli e mezzi di propaganda riuscirono a fare del conflitto una guerra di massa gli 'eserciti non erano mai stati così numerosi; tutte le attività finanziarie e produttive furono organizzate in vista del sostegno alla guerra; tutte le classi sociali furono costrette a dare il loro contributo, fossero o no favorevoli alla guerra. L'obiettivo dei due schieramenti non era soltanto la conquista di un territorio o la vittoria di una battaglia: era la distruzione completa della potenza militare e industriale del nemico.
A questo punto (maggio 1915) l'intervento dell'Italia contro l'Austria tornò utile alla Russia, perché gli Austriaci dovettero dividere il loro esercito su due fronti. Che cosa spinse l'Italia, a dieci mesi dall'inizio del conflitto, a intervenire contro gli Imperi centrali, a cui era legata dalla Triplice alleanza?
In realtà la maggioranza degli Italiani non voleva la guerra. Erano neutralisti, cioè favorevoli a una posizione di neutralità, i liberali giolittiani, i socialisti e i cattolici. Rispecchiando questa maggioranza, il governo italiano allo scoppio della guerra si era affrettato a proclamare la sua neutralità, sottolineando che la Triplice alleanza prevedeva un intervento degli alleati in caso di aggressione, ma non in caso di attacco, come di fatto era avvenuto. Inoltre, le condizioni dell'esercito nel 1914 non avrebbero permesso all'Italia di affrontare una guerra.
Già allora, però, i liberali di destra e i nazionalisti imperialisti, appoggiati dai proprietari di industrie belliche, erano interventisti, cioè favorevoli a un intervento che garantisse all'Italia conquiste territoriali. Dapprima costoro pensarono a un intervento a fianco dell'Austria per ottenere dalla Francia Nizza, la Corsica e la Tunisia. Non trovando il favore dell'opinione pubblica, passarono presto a sostenere un intervento dell'Italia nel campo avverso.
A favore di un intervento a fianco dell'Intesa si proclamarono anche gli irredentisti, desiderosi di portare a termine gli obiettivi del Risorgimento liberando Trento e Trieste. Attivo interventista divenne Benito Mussolini (il futuro capo del fascismo), espulso dal Partito socialista, dove militava.
Gli interventisti continuavano ad essere una minoranza in Parlamento e nel Paese, ma erano attivi e si facevano sentire anche utilizzando i giornali e le radio. Senza informare il Parlamento, il governo, guidato da Salandra, firmava il 26 aprile 1915 un accordo segreto con le potenze dell'Intesa, detto «patto di Londra», col quale si impegnava ad entrare in guerra entro un mese al loro fianco, con la promessa di ricevere, in caso di vittoria, oltre a Trento e Trieste, tutta l'Istria, una parte delle coste della Dalmazia e alcune colonie. Così il 24 maggio 1915 l'Italia dichiarava guerra all'impero austro-ungarico. Con la Germania sarebbe entrata in guerra 15 mesi più tardi.
Comandate dal generale Luigi Cadorna, le truppe italiane erano più numerose di quelle austriache, ma anche meno addestrate e peggio armate. Gli Austriaci avevano inoltre il vantaggio di poter utilizzare le postazioni alpine, strategicamente più efficaci.
A parte la conquista di Gorizia (agosto 1916), gli Italiani dovettero perciò per due anni limitarsi a una guerra di trincea, interrotta da battaglie (ben undici furono combattute sul fiume Isonzo) molto sanguinose ma perfettamente inutili dal punto di vista militare, perché lasciarono la situazione invariata.
Questa era d'altronde la condizione generale di tutti i fronti, dopo le grandi battaglie del 1916. In quell'anno i Tedeschi attaccarono i Francesi a Verdun: ma dopo quattro mesi di battaglia, costati 600.000 morti, le linee di frontiera erano rimaste immutate. Per alleggerire l'attacco su Verdun, Francesi e Inglesi scatenarono un'altra battaglia contro i Tedeschi lungo il fiume Somme: questa volta in tre mesi morirono un milione di soldati.
Di nuovo non si raggiunse alcun risultato, e con ciò nonostante l'uso di nuove armi micidiali, dai carri armati ai gas. Alle grandi battaglie seguiva un'estenuante guerra di logoramento, combattuta dalle opposte trincee: avrebbe vinto chi fosse riuscito a sopravvivere più a lungo alla mancanza di cibo, di uomini validi, di armi e di denaro.
Pur non essendo superiori sul piano militare, le potenze dell'Intesa lo erano su quello economico. Mentre infatti Germania e Austria erano isolate dal blocco navale inglese, i loro avversari ricevevano cospicui aiuti, specialmente dagli Stati Uniti d'America. La guerra si stava rivelando un ottimo affare per gli USA: essi avevano quadruplicato le esportazioni di grano in Europa, e le loro industrie producevano a tutto ritmo per i Paesi dell'Intesa. Ingenti capitali erano stati imprestati a Inglesi e Francesi.
Per rompere il blocco navale la Germania lanciò, nel gennaio 1917, la guerra sottomarina a oltranza: i suoi sottomarini, già in azione da due anni, avrebbero indiscriminatamente colpito tutte le navi, a qualunque nazionalità appartenessero, che portassero merci ai Paesi dell'Intesa.
Gli Stati Uniti, sentendosi minacciati nei loro interessi, nell'aprile del 1917 entrarono in guerra a fianco dell'Intesa. A questo punto la guerra aveva assunto veramente dimensioni mondiali. Ben poche erano le nazioni rimaste neutrali. Per quanto il teatro degli scontri fosse principalmente l'Europa, quasi tutti i Paesi del mondo dovettero prendere posizione per uno schieramento o per l'altro. Le colonie dovevano fornire prodotti e soldati alla madrepatria; i pochi Paesi indipendenti dovevano scegliere con chi commerciare. L'intervento degli Stati Uniti giunse nel momento più critico per l'Intesa. Infatti in Russia, a causa della crisi economica e del profondo malessere sociale acuiti dalle sconfitte militari, nel febbraio 1917 era scoppiata una rivoluzione contro lo zar. Abbattuto lo zar, il nuovo governo comunista nel marzo 1918 firmò una pace separata a Brest-Litovsk: la Russia si ritirava dalla guerra, facendo ampie concessioni territoriali alla Germania.
Nonostante la soddisfazione degli alti comandi tedeschi per le vittorie sul fronte orientale contro i Russi, anche per la Germania il 1917 fu un anno durissimo: cresceva l'opposizione delle masse popolari alla guerra, e nelle fabbriche di armi dilagavano scioperi, che il Kaiser fece tacere con dure repressioni e intensificando lo sforzo bellico.
Qualcosa di simile stava accadendo contemporaneamente in Francia, dove migliaia di soldati si rifiutarono di obbedire agli ufficiali, i quali risposero con centinaia di fucilazioni sommarie. Su tutti i fronti, compreso quello italiano, dilagava la sfiducia e l'insofferenza dei soldati nei confronti di una guerra che sembrava non dover finire mai. I militari dovevano combattere in condizioni durissime e rischiare continuamente la vita per motivi che non condividevano e spesso, anzi, rifiutavano. Si verificarono così diserzioni, passaggi al campo nemico, insubordinazioni ai superiori. Alcuni soldati si ferivano volontariamente per non essere inviati in prima linea. Il generale Cadorna (come i generali di altri Paesi) ordinò che questi atti fossero puniti con la decimazione: nelle compagnie dove si erano verificati, un soldato ogni dieci doveva essere fucilato.
In questo clima, il 24 ottobre 1917 gli Italiani subirono una sconfitta disastrosa a Caporetto. Gli Austriaci sfondarono le nostre linee e misero in fuga l'esercito, che d'un colpo dovette abbandonare al nemico l'intero Friuli. Cadorna, considerato responsabile della sconfitta (anche se egli la attribuiva invece al «disfattismo» dei socialisti) fu sostituito da Armando Diaz.
II 1918 segnò la vittoria dell'Intesa. Vittoria militare facilitata da una profonda crisi sociale che colpiva specialmente gli Imperi centrali.
La Germania, che si era liberata sul fronte orientale avendo concluso la pace separata con la Russia a Brest-Litovsk con ampie annessioni territoriali, riuscì ancora a vincere sul fronte occidentale due volte, malgrado fosse ridotta alla fame, prima di essere sconfitta tra il luglio e l'agosto dagli eserciti francese, inglese e americano riuniti. All'interno della Germania scoppiarono violenti movimenti di protesta, sfociati in una insurrezione della flotta.
A novembre a Monaco veniva proclamata la repubblica sotto la guida socialdemocratica, mentre il Kaiser Guglielmo II fuggiva. Pochi giorni dopo si firmava l'armistizio: i combattimenti cessavano, in attesa che i diplomatici preparassero gli accordi di pace.
Nel frattempo qualcosa di simile avveniva sul fronte austriaco. Dopo aver respinto un attacco dell'esercito nemico, con la battaglia di Vittorio Veneto (24-28 ottobre) gli Italiani infliggevano agli Austriaci una sconfitta definitiva, costringendoli a firmare l'armistizio il 4 novembre 1918.
LA RIVOLUZIONE RUSSA
All'inizio del secolo, con i suoi 160 milioni di abitanti la Russia era, dopo la Cina, il più vasto e popoloso stato del mondo. Nonostante le sue enormi risorse naturali (pianure fertili, giacimenti minerari,ecc.) era però un "gigante dai piedi d'argilla". Le sue strutture sociali erano infatti molto arretrate.
L'85% dei russi erano contadini. Rimasti fino al 1861 nella condizione medievale di servi della gleba, erano ora oppressi dalle tasse e dai proprietari da cui prendevano in affitto le terre.
L'industria, specialmente quella pesante, incominciava a svilupparsi nelle città di Mosca e Pietroburgo: il numero degli operai era limitato, ma la loro concentrazione dava la possibilità di organizzare proteste contro le condizioni di vita disumane.
Ogni organizzazione sindacale o politica era però proibita dallo zar, allora Nicola II Romanov, che continuava a governare come un despota. L'opposizione, viva specialmente tra studenti ed intellettuali, si manifestava perciò in forme illegali (frequenti erano gli attentati) e con organizzazioni clandestine.
La borghesia, assai limitata di numero, aveva un suo Partito democratico che lottava per ottenere la costituzione.
Invece il Partito socialdemocratico, sorto alla fine dell'Ottocento, nel 1903 si era diviso in due correnti: la corrente bolscevica (nome che in russo significa <<di maggioranza>>) era guidata da Vladimir Ulianov detto Lenin e sosteneva la necessità di lottare per una rivoluzione socialista guidata dalla classe operaia; la corrente menscevica (= <<di minoranza>>), pur volendo egualmente il socialismo, pensava che fosse necessario prima realizzare una democrazia liberale, alleandosi con la borghesia.
Mentre il dibattito politico si faceva incandescente, il malcontento sociale esplodeva dopo le prime sconfitte nella guerra contro il Giappone. Nel gennaio del 1905, un grande corteo, che chiedeva la costituzione, venne accolto a fucilate dalla polizia dello zar, e lasciò sul terreno quasi mille morti. L'indignazione popolare si manifestò in grandi scioperi spontanei. Nacquero allora i primi soviet (=consigli), assemblee popolari dove si radunavano le forze di opposizione di ciascuna città per discutere e organizzare la protesta.
Dopo alcuni mesi di agitazioni, lo zar concesse la costituzione e l'elezione di una Duma, il parlamento. Per evitare però che il popolo potesse acquistare troppo potere, egli stabilì che il voto di un nobile valesse come quello di mille contadini; inoltre, ridusse progressivamente i già limitati diritti della Duma, che aveva funzioni solo rappresentative. Non può stupire che il malcontento popolare aumentasse, nonostante la repressione poliziesca.
Partecipando alla prima guerra mondiale, la Russia dimostrò tutta la sua impreparazione. L'industria bellica si era sviluppata notevolmente negli ultimi anni, ma la classe dirigente russa si rivelò del tutto incapace. Due anni di guerra erano già costati ai russi due milioni di morti, e l'inverno 1916-1917 fu particolarmente disastroso a causa di carestie e malattie.
Nel febbraio del 1917 gli operai di Pietroburgo, che era allora la capitale e la città più industrializzata, si ribellarono, dando luogo a grandi scioperi spontanei. I soldati chiamati reprimere la protesta, anziché sparare, si unirono agli operai. Nacquero così i soviet degli operai e dei soldati, a Pietroburgo come a Mosca e in altre città.
Lo zar fu costretto ad abdicare, e nacque un governo provvisorio, presieduto da Libov e Kerenskij, in cui confluì la maggior parte dei partiti politici, con l'intenzione di dar luogo a una repubblica democratica e di continuare la guerra.
Fu questa la cosiddetta rivoluzione di febbraio, a carattere democratico-borghese.
Capo del governo provvisorio divenne, dopo pochi mesi, il socialista moderato Aleksandr F.Kerenskij.
Di fatto esistevano due poteri: i soviet, composti da rappresentanti del popolo divisi nelle due correnti, e il governo provvisorio, composto dalla borghesia e dalle classi agiate. Quest'ultimo dimostrò però la sua debolezza. Mentre i soldati al fronte si rifiutavano di combattere e istituivano altri soviet, la rivolta si estendeva alle campagne, dove i contadini affamati incominciavano a occupare la terre dei grandi proprietari.
Il processo rivoluzionario fu a questo punto accelerato dall'arrivo in Russia di Lenin, fino ad allora esule in Svizzera. Il suo rientro clandestino, su un vagone piombato, fu organizzato dal governo dal governo tedesco che sperava, come infatti avvenne, che la Russia in preda alla rivoluzione si sarebbe ritirata dalla guerra.
Lenin si dedicò subito ad un'intensa opera di propaganda e di direzione politica. Il suo programma, che egli sapeva esporre con grande vigore, conquistò rapidamente le masse popolari.
Ad aprile del 1917 Lenin propone una nuova linea politica nelle "Tesi di Aprile".
Essa si può sintetizzare in quattro punti: finire la guerra a qualunque costo; disconoscere il governo provvisorio e assegnare tutto il potere ai soviet; restituire la terra ai contadini; passare alla rivoluzione armata.
Frattanto la corrente bolscevica si trasformava in Partito comunista (1918); in pochi mesi i suoi militanti divennero 70.000, e conquistarono il controllo politico dei soviet grazio alla loro preparazione e capacità organizzativa.
A questo punto la situazione era matura per la seconda fase della rivoluzione, guidata d'ora in poi dal Partito comunista. Il 24 ottobre 1917 la Guardia Rossa, un esercito di operai armati organizzato da Lev Trotzkij, dopo aver occupato telefoni, stazioni ferroviarie e banche, dava l'assalto al Palazzo d'Inverno, sede del governo provvisorio.
Giunto al potere quasi senza combattere, in seguito alla rivoluzione bolscevica e alla fuga di Kerenskij, Lenin avviava subito le trattative che sarebbero sfociate nella pace di Brest-Litovsk, mentre proclamava l'abolizione della grande proprietà terriera (la confisca dei latifondi) e il suffragio universale per eleggere l'Assemblea Cositituente. Lo zar e la sua famiglia, arrestati, furono condannati a morte da un soviet.
Ben presto però la situazione si fece difficile per i rivoluzionari. I proprietari terrieri espropriati e i partiti del governo provvisorio organizzarono eserciti controrivoluzionari, i cosiddetti Russi Bianchi, che accerchiarono la zona in mano ai bolscevichi. In appoggio ai Bianchi giunsero anche truppe e aiuti inglesi, francesi a statunitensi. Il timore di una vittoria comunista si stava infatti diffondendo ovunque.
La guerre civile tra l'Armata Rossa e i Russi Bianchi durò oltre due anni (1918-1920) e provocò 9 milioni di morte, gran parte per la fame e gli stenti.
Per affrontare la difficile situazione i dirigenti bolscevichi adottarono il cosiddetto "comunismo di guerra", nazionalizzando le industrie e requisendo il grano ai contadini. Ciò nonostante, rispetto all'epoca zarista la produzione industriale era ridotta a un settimo, e la produzione agricola alla metà, anche per la riluttanza dei contadini a consegnare gratuitamente allo Stato i loro prodotti.
Menscevichi, socialisti moderati e anarchici si opponevano alla progressiva conquista del controllo dei soviet da parte dei bolscevichi. Per quanto essi appoggiavano ogni forma di scontento; nel 1921 sostennero la grande rivolta dei marinai della base militare di Kronstadt (nel golfo di Finlandia), che costituì l'ultimo grave pericolo per il potere bolscevico.
Alla fine, i controrivoluzionari furono sconfitti. Il potere era nelle mani del Partito bolscevico (o comunista).
La prima guerra mondiale presentò un eccezionale costo umano: otto milioni e mezzo di soldati morti, fra i quali 600.000 italiani. Ai morti si debbono aggiungere ben 21 milioni di feriti, molti dei quali rimasero inabili. Inoltre, appena finita la guerra, scoppiò in tutto il mondo una terribile epidemia di influenza, detta spagnola, che la medicina del tempo non riuscì curare. Produsse più vittime della guerra stessa: circa 13 milioni di morti.
IL costo umano fu indubbiamente il più grave, ma non certo l'unico. La guerra ebbe dei costi economici elevatissimi. I governi di entrambi i fronti investirono nelle spese di guerra cifra da capogiro, e gran parte delle ricchezze (dagli impianti industriali ai mezzi di trasporto) andarono distrutte. Per affrontare queste spese i governi ricorsero a tasse straordinarie e a sottoscrizioni, che impoverirono ulteriormente i cittadini. Ma specialmente le finanze degli Stati erano in dissesto. La potenze europee dell'Intesa, per far fronte alle spese, erano ricorse ampiamente ai prestiti degli USA: cessata la guerra, si trovavano così gravemente indebitate con gli Americani. Inoltre, poiché le industrie europee non erano in grado di provvedere ai bisogni quotidiani, molti prodotti venivano importati dagli USA o dal Giappone, accrescendo la dipendenza economica dell'Europa. Sul piano economico, dunque, la guerra non raggiunse gli obiettivi che le grandi potenze europee avevano sperato: Francia e Inghilterra, nazioni vincitrici, non conquistarono il controllo del mercato mondiale, ma si trovarono in una condizione di grave indebolimento. Il mercato mondiale era ormai controllato dagli USA, e il Giappone era in rapidissima ascesa. Questi due paesi, infatti, con pochi costi, avevano tratto tutti i vantaggi economici della guerra. Finiva, invece, con la prima guerra mondiale, la supremazia economica che per secoli aveva garantito all'Europa il dominio sul resto del mondo.
La crisi economica aggravò inoltre in tutta Europea una profonda crisi sociale, già evidente negli ultimi anni di guerra. I debiti contratti dai governi provocarono una fortissima inflazione: diminuiva il valore del denaro e cresceva a dismisura il costo delle merci. Le classi lavoratrici si trovavano più povere, e ovunque crebbe il malcontento: ai ricchi, e in primo luogo ai monopoli, veniva attribuita sempre più spesso la responsabilità della guerra. Crescevano i partiti di sinistra che intendevano abbattere il sistema economico capitalistico, ma si sviluppavano anche i partiti di destra che intendevano accrescere il potere dei monopoli, della polizia, del governo, anche con mezzi violenti.
Ovunque si acuivano la lotta politica e il conflitto tra le classi sociali: su questo terreno si sviluppò una serie di rivoluzioni e controrivoluzioni che portò al sorgere di regimi totalitari (sistemi di governo in cui ogni aspetto sociale, economico e politico è accentrato nello Stato, che utilizza tutti gli strumenti repressivi di cui dispone per controllare la vita dei cittadini).
Infatti, se la Rivoluzione russa aveva suscitato in molte parti d'Europa grandi entusiasmi, nello stesso tempo aveva scatenato profonde paure: le organizzazioni politiche di destra s'impegnarono attivamente per impedire altre rivoluzioni comuniste. Anzi, una parte consistente di queste forze si persuase che le elezioni democratiche e il Parlamento non fossero strumenti adeguati per combattere il comunismo, la cui forza nasceva dagli scioperi e dalle manifestazioni di piazza: sorsero così movimenti controrivoluzionari che utilizzavano la violenza come strumento di lotta politica.
Anche sul piano della politica internazionale la fine della guerra lasciò una situazione tutt'altro che rassicurante. Eppure, prima ancora che i cannoni tacessero, molti democratici in tutto il mondo avevano sperato che fosse finalmente giunto il momento di voltare pagina nelle relazioni tra gli Stati. Ad animare questa speranza era giunto un discorso rivolto dal presidente degli Stati Uniti Woodrow Wilson al Congresso del suo paese. In 14 punti il presidente americano proponeva un piano per garantire la pace tra le nazioni: soppresse le barriere doganali, ridotti drasticamente gli armamenti, si sarebbe dovuta costituire una Società delle Nazioni col compito di garantire una soluzione pacifica dei conflitti e difendere l'indipendenza nazionale di tutti i popoli, in nome del principio dell'autodeterminazione di essi. Ma quando, un anno dopo (gennaio 1919), si radunò a Parigi la Conferenza di pace, fu subito chiaro che i buoni proponimenti di Wilson non sarebbero stati rispettati. Dalla Conferenza facevano infatti parte esclusivamente le nazioni vincitrici: i vinti erano chiamati soltanto a sottoscrivere le decisioni altrui in una serie di trattati di pace. Il più importante fu quello di Versailles, firmato dalla Germania.
Di fatto poi le decisioni erano prese dal <<Consiglio dei quattro>>, composto dal presidente degli Stati Uniti, dal premier inglese Lloyd George, dal presidente francese Clemenceau (nonché presidente dei lavori) e dal capo del governo italiano Vittorio Emanuele Orlando. L'Italia, la più debole, fu presto messa da parte dalle altre tre, col pretesto che aveva da regolare i suoi conti soltanto con l'Austria. Per protesta, il rappresentante italiano abbandonò la Conferenza: le sorti del mondo furono perciò decise in una partita a tre fra USA, Inghilterra e Francia.
La nazione più accanita contro la Germania fu la Francia, desiderosa di annientare per sempre l'aggressività tedesca, di cui aveva fatto le spese fin dal 1870, anno della terribile sconfitta di Sedan. La Francia si riprese l'Alsazia e la Lorena che la Germania le aveva sottratto in quell'occasione, prese per 15 anni il controllo della zona mineraria della Saar, e inoltre spartì con l'Inghilterra le colonie tedesche. Alla Germania furono imposti anche notevoli sacrifici territoriali sui confini orientali: intere regioni passarono alla nuova nazione della Polonia, e in questo modo la Prussia orientale fu separata dal resto della Germania da una fascia di terre detta <<corridoio di Danzica>>.
Ma più ancora delle rinunce territoriali, pesarono sulla nazione tedesca gli enormi danni di guerra che le fu imposto di pagare: doveva consegnare ai vincitori gran parte della flotta, grandi quantità di carbone e di bestiame, e l'incredibile somma di 132 miliardi di marchi d'oro. Inoltre, in futuro il nuovo esercito non avrebbe potuto superare le 100.000 unità.
Anche agli alleati della Germania furono imposte drastiche riduzioni territoriali. Il vecchio impero austro-ungarico era crollato, e al suo posto erano sorte le nazioni indipendenti di Ungheria, Iugoslavia e Polonia. L'Austria, divenuta una repubblica, vedeva il suo territorio ridursi di 8 volte, e cedeva all'Italia Trieste, l'Alto Adige, il Trentino e l'Istria.
Analoga sorte subiva l'immenso impero turco, che veniva smembrato, riducendo la Turchia a un piccolo paese. Sulle terre appartenute ai Turchi si rivolse l'interesse di Inglesi e Francesi, attratti dai giacimenti di petrolio che lo sviluppo della motorizzazione faceva diventare quanto mai preziosi. Così i Francesi misero piede in Siria e in Libano, mentre gli Inglesi assunsero il controllo di Palestina, Giordania Iraq.
L'effetto più immediato della prima guerra mondiale fu dunque la fine dei grandi imperi territoriali che per secoli avevano condizionato la vita politica dell'Europa e del bacino mediterraneo. Al loro posto nascevano nuove nazioni e venivano alla ribalta popoli i cui sentimenti di indipendenza erano stati a lungo repressi. La carta geografica dell'Europa assumeva, grosso modo, i confini politici di oggi.
Tra le potenze vincitrici, Francia e Inghilterra fecero le maggiori acquisizioni territoriali. Al Giappone fu riconosciuto il controllo di una ricca regione della Cina. Solo gli USA non chiesero compensi territoriali: eppure furono i veri vincitori della guerra. Il fatto di essere divenuti la prima nazione industriale del mondo, superando l'Inghilterra, costituiva già un vantaggio impareggiabile.
Che gli Stati Uniti volessero sfruttare al massimo questo vantaggio, allargando la loro penetrazione economica in tutto il mondo (ma principalmente nel continente americano), fu chiaro quando, nell'aprile del 1919, sorse a Ginevra la Società delle Nazioni. Il Congresso americano si rifiutò di aderirvi. Poiché, per ovvie ragioni, relative alla nascita regime comunista, non vi aderiva neppure la Russia (che deciderà di entrarvi soltanto nel 1934), di fatto questo organismo, che avrebbe dovuto porre fine agli imperialismi, divenne uno strumento in mano alla Francia e all'Inghilterra per difendere i loro interessi.
L'ordine internazionale non era dunque affatto garantito. La prima guerra mondiale portò molti cambiamenti, ma non risolse alcun problema. Questi anzi si ripresentarono ben presto in forma più acuta. Dopo soli 21 anni un'altra guerra mondiale, ancora più spaventosa, avrebbe sconvolto il mondo.
Un'ondata rivoluzionaria investì tutta l'Europa, favorita dalla diffusa crisi sociale del dopoguerra: i fuochi rivoluzionari si accesero un po' ovunque.
Fu la Germania il paese in cui il vento rivoluzionario soffiò più forte. Dopo l'insurrezione che scacciò il Kaiser nel novembre 1918, sorse la <<repubblica dei consigli>>: in tutto il paese si formavano consigli operai e soldati, simili ai soviet. La animavano specialmente i comunisti della Lega di Spartaco (o spartachisti), che costituivano l'ala sinistra del Partito Socialdemocratico, la cui maggioranza era però contraria a uno sviluppo rivoluzionario.
Dopo una serie di scioperi e di scontri, gli spartachisti rimasero isolati di fronte alla reazione. I loro dirigenti Karl Liebknecht e Rosa Luxemburg furono assassinati nel gennaio del 1919, insieme a moltissimi altri militanti di quello che allora era il partito socialista più forte d'Europa. Il socialismo tedesco fu stroncato definitivamente in una sola settimana e dopo pochi mesi l'intero movimento fu sconfitto.
Anche in Ungheria nel 1919 sorse, sotto la guida del comunista Bela Kun, una repubblica socialista. Ma durò solo cinque mesi: indebolita da una gravissima crisi economica, fu repressa dall'esercito della vicina Romania che instaurò una monarchia.
Infine, anche in Italia negli anni 1919-1920 si ebbero tentativi rivoluzionari falliti.
Le difficoltà dei movimenti rivoluzionari in Europa facevano nascere l'esigenza di una migliore coordinazione tra i partiti rivoluzionari. Sorgeva perciò, nel 1919, la Terza Internazionale (o Internazionale comunista), in seno alla quale prese subito il sopravvento il partito comunista russo, il quale impose a tutte la altre organizzazioni una struttura e un programma politico simili al suo. Molti socialisti fondarono nuovi partiti comunisti con un più deciso programma rivoluzionario: in Francia nel 1920, in Italia nel 1921.
Alla fine della guerra, in Italia la situazione economica era disastrosa. Come sempre, erano le classi più povere a risentire maggiormente della crisi: basti pensare che i prezzi dei generi alimentari erano aumentati sei volte rispetto all'anteguerra, mentre il salario di un operaio era poco più che raddoppiato.
Il malcontento popolare si manifestò nel 1919 con violenti moti di piazza, mentre in alcune zone del Meridione si giungeva all'occupazione delle terre da parte dei contadini esasperati. Ma la fase più accesa del conflitto sociale si ebbe con l'occupazione delle fabbriche nell'autunno del 1920. Nata dall'acuirsi della lotta sindacale degli operai metalmeccanici di Milano e Torino, l'occupazione delle fabbriche assunse ben presto un chiaro significato politico. Negli stabilimenti, difesi con le armi dagli operai, continuava la produzione: gli occupanti erano convinti che la classe operaia fosse ormai matura per sostituirsi alla borghesia nel dirigere le industrie e lo stesso Stato.
Queste idee, sostenute e divulgate dal giornale <<Ordine Nuovo>>, diretto a Torino dal socialista di tendenze rivoluzionarie Antonio Gramsci, allarmavano la borghesia ed eccitavano i desideri di rivincita della destra.
Giolitti, nuovamente capo del governo nel 1920-1921, rifiutò di far ricorso alle armi contro gli operai, e riuscì a far prevalere le correnti sindacali più moderate. Al termine dell'occupazione Gramsci attribuì la sconfitta all'assenza di un partito rivoluzionario. Per questo si fece promotore di una scissione all'interno del Partito socialista, che portò alla fondazione del comunista d'Italia nel Congresso di Livorno del gennaio 1921.
Nel frattempo le forze di destra si stavano organizzando. Anch'esse avevano motivi di scontento da far valere contro lo Stato liberale, di cui volevano la distruzione, sebbene per motivi opposti a quelli della sinistra. Mentre la sinistra lottava perché la classe operaia e contadina giungesse al potere, la destra voleva evitare questo capovolgimento dei rapporti sociali, conferendo più potere alle classi sociali privilegiate.
Il fermento della destra era inoltre alimentato dalla scontentezza per le conclusioni della guerra. Alla Conferenza di pace di Parigi l'Italia aveva chiesto che le venissero concessi, oltre a Trento e Trieste, anche la Dalmazia, come le era stato promesso nel Patto di Londra. Ma il presidente americano Woodrow Wilson si era opposto, perché nel frattempo era sorto il Regno di Iugoslavia, cui la Dalmazia spettava in base al principio di nazionalità. I nazionalisti irredentisti e in generale le forze politiche di destra parlavano perciò ora di "vittoria mutilata".
Molti piccolo-borghesi, colpiti dalla crisi economica del dopoguerra, vedevano con favore un governo forte che riportasse l'ordine sociale, e sposavano gli ideali imperialistici che i costruttori di armi, come al solito, non mancavano di alimentare.
In questi ambienti trovò entusiastico favore l'impresa di Fiume guidata dallo scrittore Gabriele D'Annunzio. Nel settembre 1919 D'Annunzio, alla guida di un gruppetto di ex soldati, occupò Fiume, governandola arbitrariamente per più di un anno. La difficile situazione si sbloccò quando Giolitti, col Trattato di Rapallo, rinunciò alla Dalmazia ottenendo in cambio che Fiume fosse proclamata indipendente; quindi inviò l'esercito contro D'Annunzio, facendolo sgombrare. L'impresa di Fiume rimaneva comunque un fatto gravissimo, perché metteva in evidenza la tendenza della destra a sostituirsi allo Stato, facendo uso della violenza.
Interpretando i confusi desideri della destra nazionalista, nel 1919 Benito Mussolini fondò i <<Fasci di combattimento>>. Le idee di coloro che vi aderirono erano contraddittorie: a fianco di ex combattenti si trovavano sindacalisti, e perfino anarchici, che si illudevano di poter rovesciare le istituzioni monarchiche. Con i Fasci nacquero anche le prime squadre di camicie nere (questa era infatti la divisa dei fascisti). Armate di manganello, assalivano le sedi dei sindacati e dei partiti operai; usavano la violenza per combattere il comunismo e non riconoscevano l'autorità dello Stato. Dopo due anni, avevano già provocato la morte di centinaia di cittadini, ma la polizia non interveniva, dimostrando il tacito appoggio del governo.
Una parte della società italiana incominciò a guardare ai fascisti se non con simpatia, con tolleranza. I primi furono i proprietari terriere della Valle Padana, che videro nella violenza fascista un mezzo per far tacere le proteste dei braccianti; per analoghi motivi, incominciarono a sostenere finanziariamente i fascisti anche gli industriali del Nord. Le proclamazioni nazionalistiche di Mussolini conquistavano inoltre le simpatie degli alti ufficiali dell'esercito e degli ambienti di corte, mentre le rivendicazioni a favore degli ex combattenti facevano sperare a molti piccolo-borghesi di poter migliorare le proprie condizioni economiche, delle quali le organizzazioni di sinistra sembravano non preoccuparsi.
Infine, molti uomini politici liberali, Giolitti compreso, pensavano che i fascisti avrebbero dato una lezione a socialisti e anarchici, fomentatori di scioperi e disordini, e poi sarebbero tornati nella legalità. La magistratura spesso assolveva la camicie nere colpevoli di azioni criminose.
L'allargarsi del consenso sociale favorì anche il successo elettorale del fascismo. Se nelle elezioni del 1919 Mussolini aveva ottenuto soltanto 4.500 volti (e nessun seggio alla Camera), nel 1921 il Partito nazionale fascista (PNF), fondato proprio in quell'anno, ottenne 45 seggi. Il successo fu favorito dall'aggravarsi della situazione economica: l'industria stentava a riprendersi, l'inflazione raggiungeva il 450%, il debito dello Stato cresceva vertiginosamente e la disoccupazione dilagava. Mentre le lotte operaie si radicalizzavano, e molti speravano in una rivoluzione di tipo sovietico, vasti settori della borghesia chiedevano "misure forti" per risanare l'economia: e "misure forti" richiedevano un "uomo forte", quale Mussolini pretendeva di essere.
Il capo fascista era avvantaggiato dalla debolezza dei governi liberali: dal 1920 al 1922 se ne succedettero quattro, uno più inefficiente dell'altro. Infine, furono proprio le forze di sinistra a fare un ultimo tentativo per indurre il governo a reprimere con più decisione le violenze fasciste. Ma lo sciopero generale proclamato a tal fine fu un completo fallimento, ed ebbe l'effetto di provocare altre violenze delle camicie nere.
A questo punto Mussolini ritenne che fosse giunto il momento di impadronirsi del potere. Il Partito fascista aveva ormai 70.000 iscritti, lauti finanziamenti, appoggi in vari ambienti sociali, e una sua forza militare.
Sicuro di questo sostegni, il 28 ottobre del 1922 Mussolini, da Milano, ordinò ai fascisti di tutta Italia di marciare su Roma. Con questo atto di forza, il fascismo pretendeva di assumere il potere.
Le 50.000 camicie nere, giunte nella capitale, avrebbero potuto facilmente essere disperse dall'esercito regio. Ma Mussolini aveva preparato le cose perché ciò non accadesse. Il re Vittorio Emanuele III, infatti, non solo si rifiutò di firmare il decreto che avrebbe mobilitato l'esercito, ma quando ancora i fascisti occupavano la vie di Roma chiamo Mussolini, che giunse da Milano in camicia nera, e lo nominò primo ministro (cioè capo del governo).
Iniziava così il governo fascista dell'Italia: per mezzo di un colpo di Stato realizzato contro il Parlamento, ma con l'appoggio dei potenti. Sarebbe durato un ventennio: fino al luglio 1943.
Il fascismo non prese subito le forme di un'aperta dittatura. Mussolini capì infatti che ciò gli avrebbe alienato le simpatie di una parte dei suoi sostenitori. Il suo primo governo ottenne quindi un vasto consenso in Parlamento, che andava dai liberali di Giolitti ai cattolici, dal 1919 riuniti nel Partito popolare fondato dal sacerdote siciliano Don Luigi Sturzo. Costoro si illusero che quello di Mussolini fosse un "governo forte" ma transitorio, che sarebbe cessato quando fosse stato ripristinato l'ordine nella società.
Ma dal 1925 Mussolini lavorò per trasformare il Partito fascista nell'organismo centrale dello Stato, in modo da farne lo strumento della sua dittatura.
Le squadre di camicie nere venivano riconosciute ufficialmente come Milizia volontaria per la sicurezza nazionale (MVSN), una organizzazione di partito il cui compito principale era controllare la fede fascista dei cittadini, estirpando ogni forma di opposizione al regime. La milizia era organizzata secondo una rigida gerarchia; i capi si chiamavano gerarchi, ed erano camicie nere che avevano partecipato alla marcia su Roma e dimostrato assoluta fedeltà al Duce (così veniva chiamato Mussolini).
La Milizia controllava il Tribunale speciale per la difesa dello Stato, creato nel 1926 per giudicare e condannare gli oppositori del regime.
Il Gran consiglio del Fascismo aveva il compito di appoggiare e consigliare l'azione del governo, ed era presieduto da Mussolini e formato da membri scelti tra i più importanti gerarchi.
Mussolini era anche capo del Partito nazionale fascista, di cui nominava il segretario, il quale a sua volta nominava i federali, cioè i dirigenti delle organizzazioni provinciali di partito. Il PNF divenne un'istituzione dello Stato.
Il Partito fascista andò aumentando nel tempo i propri iscritti, anche perché una legge rese obbligatoria la tessera del partito per chi partecipava a concorsi pubblici per diventare dipendente dello Stato (insegnanti, impiegati, magistrati, ecc.). Divenne necessario essere iscritti anche per esercitare le libere professioni, come medico o avvocato: nel 1942 gli iscritti erano diventati 25 milioni!
Nel 1924 si tennero le elezioni, ma Mussolini aveva agito in modo da garantirsi la vittoria: egli aveva fatto approvare una nuova legge elettorale (la Legge Acerbo) per cui il partito che avesse ottenuto il 25% dei voti, avrebbe guadagnato un premio di maggioranza pari ai 2/3 dei seggi. Grazie a questo provvedimento il "listone" fascista ebbe in Parlamento 403 deputati, contro 106 dell'opposizione.
Nonostante l'iniqua legge elettorale e le violenze che accompagnarono le elezioni, i risultati dimostrarono che molti italiani avevano ancora il coraggio di dire "no" al fascismo. Mussolini decise che, per far tacere le opposizioni, occorreva passare a metodi ancora più brutali.
In questo progetto si colloca l'assassinio del deputato socialista Giacomo Matteotti, avvenuto nel giugno del 1924. Mentre i deputati dell'opposizione, incapaci di trovare forme di protesta più efficaci, abbandonavano il Parlamento (la secessione dell'Aventino, così chiamata perché ricordava quella della plebe dell'antica Roma), Mussolini dava un giro di vite decisivo al suo regime, abbandonando ogni parvenza di legalità parlamentare. Il 3 gennaio 1925 Mussolini pronunciò un discorso alla Camera nel quale ammetteva pubblicamente di assumersi la responsabilità morale del delitto Matteotti: inizia il regime fascista.
Nacquero così, nel 1925, le <<leggi fascistissime>> che abolivano tutte le libertà democratiche, cioè la libertà di stampa, di opinione, di riunione e di associazione. Esse resero illegale qualsiasi opinione antifascista.
Principale preoccupazione di Mussolini fu quella di concentrare nelle sue mani il potere legislativo. Nel 1926 al potere esecutivo (cioè a Mussolini stesso) veniva riconosciuto il diritto di emanare leggi, anche contro il parere del Parlamento. Nel 1929, si ebbe il passo decisivo: le elezioni vennero sostituite con un plebiscito. Il Gran consiglio aveva preparato una lista di 400 candidati (tutti fascisti); gli elettori avevano due scelte: approvarla in blocco inserendo nell'urna una scheda tricolore oppure votare <<no>> con una scheda grigia.
L'abolizione del segreto del voto garantiva il successo fascista, che difatti fu strepitoso: 8.506.676 <<sì>>, contro 136.198 <<no>>. I nuovi deputati, oltre tutto, contavano ormai ben poco, perché gran parte dei loro poteri erano stati trasferiti al Gran consiglio.
La tappa conclusiva di questo processo fu l'abolizione del Parlamento, decretata nel 1939.
Il Parlamento fu sostituito dalla Camera dei Fasci e delle Corporazioni, che non poteva neppure proporre leggi, ma si limitava a dare dei consigli. Ne facevano parte automaticamente tutti coloro che rivestivano determinate cariche nelle gerarchie del partito o delle Corporazioni. Le Corporazioni erano le organizzazioni che rappresentavano il mondo del lavoro (industriali e operai insieme), e che il fascismo aveva sostituito ai sindacati, garantendosi così l'appoggio degli industriali.
Secondo la propaganda fascista, la nuova Camera avrebbe dovuto esprimere tutte le forze della nazione. In realtà rappresentava soltanto le gerarchie del Partito fascista. Ogni elezione dal basso, anche nella forma soltanto apparente del plebiscito, era stata abolita: non vi erano più né eletti né elettori, nello Stato corporativo, il potere legislativo era nelle mani del Duce e del Gran consiglio del Fascismo.
Il risultato dello "Stato corporativo" fu che i salari diminuirono, e i profitti industriali aumentarono. Inoltre crebbe l'intervento dello Stato nell'economia.
Il regime fondò, nel 1933, l'IRI (Istituto per la ricostruzione industriale), un ente che aveva il compito di aiutare le banche e le industrie in gravi difficoltà a causa della crisi economica.
Anche il problema della disoccupazione, sempre grave, fu affrontato con l'intervento dello Stato, che si fece promotore di molte opere pubbliche, tra cui la bonifica delle Paludi dell'Agro Pontino e la fondazione delle città di Latina e Sabaudia, in Lazio.
Per compensare gli effetti di questi provvedimenti antidemocratici, Mussolini cercò di conquistarsi più vasti consensi per altre vie. Un grande successo, che procurò al regime l'appoggio delle alte gerarchie della Chiesa, fu la firma dei Patti Lateranensi (11 febbraio 1929) tra lo Stato italiano e il Vaticano. Il riavvicinamento tra stato e Chiesa era avvenuto per opera della riforma della scuola di Gentile (1923), che prevedeva l'insegnamento della religione cattolica sin dalle elementari, e inoltre parificava le scuole cattoliche, cioè private, alle scuole pubbliche grazie all'istituzione dell'esame di stato. Con il Trattato Internazionale il Vaticano veniva riconosciuto Stato indipendente; con la Convenzione Finanziaria veniva indennizzato dei danni subiti nel 1870, all'atto delle presa di Roma.
Con la parte più significativa, detta Concordato, la Chiesa ottenne che il Cattolicesimo fosse riconosciuto come religione di Stato. L'insegnamento della religione cattolica nelle scuole pubbliche divenne obbligatorio e il matrimonio religioso assunse valore civile. Al clero vennero riconosciuti alcuni privilegi tra i quali l'esonero dal servizio militare e il pagamento di uno stipendio da parte dello Stato.
Nel 1938 Mussolini proclamò il Manifesto della razza, che limitava gravemente la libertà dei 50.000 Ebrei italiani, allineandosi così alla politica antisemita della Germania, divenuta molto potente sotto la dittatura di Hitler.
Il Manifesto della razza affermava che esistono razze superiori e razze inferiori; che la popolazione italiana era prevalentemente ariana; che gli italiani dovevano proclamarsi "francamente razzisti"; che gli Ebrei non appartenevano alla razza pura italiana.
Il Gran consiglio del fascismo deliberò che agli Ebrei fosse vietato: dirigere aziende con più di 100 dipendenti; possedere più di 50 ettari di terreno; avere incarichi pubblici nelle amministrazioni civili e militari e negli enti provinciali e comunali; essere funzionari nelle banche e nelle assicurazioni.
Tutti gli Ebrei stranieri venivano espulsi dall'Italia. Inoltre nessun ragazzo ebreo poteva frequentare la scuola pubblica. Queste misure, che segnavano la perdita di tutti i diritti civili, furono l'inizio della tragica odissea del popolo ebraico anche in Italia: benché ben integrato con il resto della popolazione, esso dovette rinunciare alle proprie attività. Molti furono costretti a emigrare.
Non tutti gli italiani erano fascisti. Coloro che possedevano più vivo il senso della libertà e della giustizia non potevano accettare passivamente le sopraffazioni del regime. Sorse così l'antifascismo, che sino al 1925 il governo tollerò.
Dopo l'assassinio Matteotti, con l'emanazione delle "leggi fascistissime" i partiti d'opposizione, che sino allora attraverso i loro giornali avevano potuto diffondere notizie degli errori e dei crimini di Mussolini, furono soppressi.
Con i partiti vennero proibiti anche i sindacati. Non era lecito stampare nulla che non fosse preventivamente approvato dalla polizia; né fondare alcuna società, neppure sportiva; né riunirsi in un luogo pubblico in più di tre persone.
Gli oppositori del regime si trovavano soprattutto fra gli operai, i più colpiti, e tra gli intellettuali, che avevano gli strumenti culturali per individuare gli abusi e gli inganni della dittatura.
Tra le istituzioni volute da Mussolini c'era, oltre al Gran Consiglio del fascismo, l'OVRA (Opera di vigilanza e repressione antifascismo), una sorta di polizia segreta che si serviva essenzialmente di spie. Queste si infiltravano negli ambienti sospettati di antifascismo, e segnalavano i nomi delle persone ritenute più pericolose. A questo punto scattava il primo "avvertimento": una squadraccia di camicie nere si presentava in casa dell'antifascista e lo picchiava a sangue con i manganelli; oppure gli faceva bere a forza una forte dose di olio di ricino, giudicata una punizione più umiliante delle altre.
Se la persona sospetta non riusciva a dimostrare la propria innocenza, si poteva arrivare all'arresto. Si veniva arrestati anche sulla base di semplici insinuazioni. Quando, a volte dopo mesi di carcere e interrogatori che ricorrevano alle torture, veniva celebrato il processo di fronte al Tribunale speciale, la condanna era quasi sicura, anche se non c'erano prove dell'attività antifascista. Tra i condannati ricordiamo Sandro Pertini, Ernesto Rossi, Ferruccio Parri, Emilio Lussu, Fausto Nitti e moltissimi altri. Molti oppositori per sfuggire alla cattura emigrarono all'estero, specialmente a Parigi, dove fu attiva la "concentrazione antifascista", che radunava democratici e socialisti. In Francia emigrarono Piero Godetti, Giovanni Amendola, i fratelli Carlo e Nello Rosselli: tutti morti là in seguito alle percosse subite in Italia, oppure fatti assassinare da Mussolini. A Parigi Togliatti, Turati, Treves e altri capeggiavano il gruppo dei fuoriusciti.
In tredici anni di attività il Tribunale speciale emanò 42 sentenze di condanna a morte (rimessa in uso appunto dal fascismo, dopo che per decenni non era stata più applicata); comminò complessivamente 28.000 anni di carcere; utilizzò ampiamente due tipi di pena: l'esilio e il confino. Il primo allontanava definitivamente dal paese una persona pericolosa per il regime, che poteva fare proseliti. Il secondo, che consisteva nell'obbligo di risiedere per un determinato periodo di tempo in una località fissata dal Tribunale (di solito uno sperduto paesino del Sud), mirava a isolare l'antifascista da parenti e amici e a metterlo in condizioni di rinunciare all'attività politica.
Spesso chi aveva scelto la scomoda e pericolosa via dell'antifascismo non si lasciava scoraggiare né dal carcere né dall'esilio né dal confino.
Gli esiliati o i fuoriusciti per sfuggire all'arresto tentavano di far giungere la loro voce di incoraggiamento ai compagni rimasti in Italia, ai quali la censura impediva di avere notizie su ciò che avveniva nel resto d'Europa, benché molti ascoltassero le trasmissioni Radio Mosca e della radio svizzera. I giornali stampati all'estero venivano diffusi in Italia da coraggiosi emissari che rischiavano di essere arrestati e condannati.
Per imporre il suo potere personale, Mussolini aveva bisogno di un modello, di uno stile scenografico che facesse presa sulle masse. Il suo nazionalismo gliene suggerì subito uno: la Roma imperiale. Agli insoddisfatti Mussolini prometteva, attraverso il ritorno alle virtù militari che avevano fatto grande l'antica Roma, la restaurazione dell'impero. Il termine fascio, adottato da Mussolini fin da quando, nel 1919, costituì il primo <<Fascio di combattimento>>, era un termine romano. I fasci dei Romani (detti "littori" dal nome dei soldati che li portavano nelle processioni) erano verghe legate da una stringa di cuoio, che simboleggiavano il potere coercitivo di un magistrato (la verga stava a significare che il potere poteva essere esercitato con la fustigazione); se tra le verghe vi era una scure, significava che il magistrato aveva potere di vita e di morte. Il simbolo scelto da Mussolini, completo di scure, indicava dunque la volontà di imporre un potere politico anche con l'uso della forza.
Il simbolo del fascio non era che un aspetto del culto della romanità che Mussolini impose agli italiani. Lo stesso titolo di Duce derivava dal latino dux, che significa "il condottiero".
Della romanità, il fascismo adottò gli aspetti più esteriori (ma non tutti storicamente autentici): il saluto col braccio destro alzato, il passo con le gambe rigide, gli stendardi sormontati dall'aquila imperiale.
Si arrivò al punto di celebrare con grande pompa il Natale di Roma (21 aprile) e gli anniversari di Cesare, Augusto, Virgilio. Il Duce fece anche costruire a Roma il Foro Mussolini (oggi Foro italico) a imitazione dell'antico Foro romano. Inoltre, stabilì che il 1922, anno della marcia su Roma, fosse il primo anno della nuova era fascista, per cui le date comparivano scritte, per esempio, così: 1935, XIII E.F. (Era Fascista).
Connesso al culto della romanità, fioriva il culto dell'italianità, espressione di un nazionalismo esasperato e rozzo. Tra le manie del Duce vi era l'italianizzazione dei nomi stranieri: il pullover diventata farsetto, il goal rete, il cognac arzente e la chiave inglese doveva essere chiamata chiave morsa! Egli inoltre pretese che nella conversazione invece del <<lei>>, ritenuto di origine straniera (spagnola), si usasse il <<voi>> (adoperato da Dante) o il <<tu>>, secondo l'uso latino.
Come ogni dittatore, Mussolini impose il culto della propria persona. Egli incantava le adunate oceaniche riunite sotto il balcone della sua residenza romana, Palazzo Venezia, pronunciando slogan carichi di retorica: <<Meglio vivere un giorno da leone che cento anni da pecora; <<Molti nemici, molto onore>>; <<Chi ha ferro ha pane>>. Ammaliava gli italiani lusingandone l'amor proprio: <<Siete un popolo di santi, di eroi, di navigatori>>; <<Il nostro destino è stato, è, sarà sempre sul mare>>; oppure dialogando direttamente con gli ascoltatori: <<Se avanzo, seguitemi; se retrocedo, uccidetemi; se mi uccidono, vendicatemi>>.
Mussolini chiedeva fede e ubbidienza. Sui muri delle case si leggeva, scritto a caratteri cubitali, il motto: <<Credere, obbedire, combattere>>.
Mussolini sapeva bene che l'indottrinamento ha inizio a scuola: ecco perché fin dalla prima elementare i bambini dovevano studiare la «Rivoluzione fascista» e la biografia Del Duce. In tutta Italia era ammesso un unico manuale per la scuola elementare, quello di Stato.
Entrando in classe gli alunni salutavano "romanamente" l'insegnante e cantavano l'inno fascista, Giovinezza. L'insegnamento religioso cattolico era obbligatorio. Il giovedì si faceva vacanza (ma gli altri giorni si andava a scuola mattino e pomeriggio). Alla fine della settimana, gli studenti si univano agli adulti in adunate che inneggiavano al regime. Era il "sabato fascista": ognuno vi si recava in divisa per esibirsi con la sua squadra in esercizi paramilitari al grido delle parole d'ordine del Duce.
Anche negli altri ordini di scuola la "fascistizzazione" era stata profonda. Tutti i ragazzi erano inquadrati militarmente: dai 6 agli 8 anni venivano chiamati <<figli della lupa>> (con riferimento alla lupa che allattò Romolo e Remo); dagli 8 ai 14 anni <<ballila>>; dai 14 ai 18 <<avanguardisti>>; dai 18 ai 21 entravano
Nei <<fasci giovanili di combattimento>>. In divisa, con bandoliera sul petto, fez in testa, moschetto di legno, i ragazzi venivano quotidianamente allenati, attraverso la ginnastica, lo sport e un addestramento di tipo militare, a quegli ideali di coraggio, forza e sprezzo del pericolo che il Duce imponeva. Le ragazze dagli 8 ai 14 anni erano <<Piccole Italiane>>; dai 4 ai 18 <<Giovani Italiane>>. Gli Universitari aderivano al GUF (Gruppi Universitari Fascisti) il cui slogan era: "Libro e moschetto, fascista perfetto".
Nel 1937 tutte le organizzazioni giovanili furono unificate nella GIL, Gioventù Italiana del Littorio.
E gli insegnanti? Come tutti i dipendenti dello Stato, dovevano giurare fedeltà al Partito nazionale fascista, e aderire alle direttive politiche del governo. Chi non prestò giuramento perse il posto e fu costretto ad emigrare. Furono pochissimi i docenti che rifiutarono tale giuramento.
Un altro strumento in mano al governo fascista per indottrinare i cittadini era la stampa. Dal 1925 i giornali erano costretti a sottostare alla rigidissima censura del PNF, e spesso a quella personale del Duce. Era obbligatorio pubblicare quotidianamente notizie delle sue decisioni e resoconti dei suoi discorsi commentandole con espressioni entusiastiche.
Molti giornali furono definitivamente, soppressi: : l'"Avanti!", l'"Unità", "La voce repubblicana", il satirico "Becco giallo". Altri si allinearono con il regime: "Il Mattino", "La Stampa", "Il Giornale d'Italia", "Il Corriere della Sera". Altri ancora nacquero proprio col fascismo: "Il popolo d'Italia", fondato nel 1915 da Mussolini stesso in seguito all'espulsione dall' "Avanti!", e "Il lavoro fascista".
Presso le donne gli ideali fascisti erano propagandati dalle riviste femminili: "Novella", "Lei", "Annabella", "Grandi Firme".
Anche i giornaletti dei bambini furono toccati dalla propaganda fascista. Il "Giornale del Balilla" proponeva come eroi due personaggi nome significativo: Romolino e Romoletto. In altri casi, si utilizzavano i personaggi di fumetti stranieri, ma avendo cura di italianizzarne il nome: Topolino divenne Tuffolino, Minnie Mimma, Superman Ciclone, e Flash Gordon Fulmine.
Un divertimento alla portata di tutti era la radio la cui importanza nella vita quotidiana può essere paragonata a quella odierna della televisione.
Le prime trasmissioni furono emanate nel 1924 dalla URI (Unione radio italiana), divenuta nel 1928 EIAR (Ente italiano audizioni. radiofoniche, oggi RAI). Esisteva una sola rete, che trasmetteva svariati programmi: commedie, conferenze, lezioni di lingua straniera, programmi per i ragazzi, per le donne, per gli agricoli tori, pubblicità, musica classica, e soprattutto canzonette.
II 4 novembre 1925 gli Italiani ascoltarono per la prima volta alla radio la voce di Mussolini, che da allora sfruttò questo nuovo mezzo di propaganda esigendo la trasmissione in diretta di tutti i suoi discorsi, preceduta dall'invocazione della folla: «Duce, a noi! ». Anche il cinema fu utilizzato da Mussolini per la sua efficacia propagandistica. Egli incominciò col fondare nel 1924 l'Istituto LUCE (L'Unione Cinematografica Educativa), che produceva cinegiornali e documentati sul regime. I locali erano costretti a proiettare, insieme al normale film, anche un film LUCE, consistente per lo più in una serie di immagini ove appariva il Duce mentre inaugurava una fiera o trebbiava il grano, o pronunciava un discorso,
Per evitare la diffusione delle mode straniere, Mussolini finanziò abbondantemente l'industria cinematografica italiana che poté produrre centinaia di opere, tra cui i primi film sonori.
Sotto il profilo economico, dal 1926 ebbe inizio un periodo molto difficile: salivano i prezzi, diminuivano le possibilità di lavoro, molti capitali venivano impiegati all'estero, si aggravava il deficit tra l'importazione e l'esportazione.
Mussolini intuì il pericolo per il suo regime, le cui sorti erano legate a quelle della lira: per difenderla, ridusse il costo del lavoro, misura che colpì gli operai, i quali vedevano aumentare l'orario da 8 a 9 ore a parità di salario.
Il fascismo ricorse soprattutto a un aumento delle tasse, che affiancò a misure come la riduzione del prezzo dei giornali, il blocco dei fitti, la riduzione del costo dei biglietti ferroviari e dei francobolli. Mussolini cercò una soluzione alle difficoltà dell'Italia lanciandola, nel 1935, in un'avventura coloniale, la guerra d'Etiopia. In quell'occasione si raccolse l'oro per finanziare la guerra: tutti i cittadini erano invitati a "dare oro alla patria" sotto qualunque forma, anche l'anello matrimoniale.
La campagna africana costò all'Italia, fra l'altro, le sanzioni (=punizioni) economiche che le furono comminate dal Consiglio della Società delle Nazioni perché Mussolini aveva aggredito l'Etiopia, che era membro di quell'organismo internazionale. Nell'ottobre del '35 l'Italia fu punita con il divieto di commercio con l'estero di armi, munizioni e materie prime.
Fu allora che Mussolini lanciò la nuova parola d'ordine: autarchia. L'Italia avrebbe dimostrato la propria autosufficienza, producendo tutto il fabbisogno nazionale. Questo obiettivo non fu mai raggiunto, ma, ad esempio, il carbone venne sostituito con la lignite; il caffè con polvere di ghiande, orzo o cicoria tostati; la lana con il lanital, ottenuto dalla caseina (un prodotto della lavorazione del latte). Si prese a fabbricare la carta con la paglia; alla benzina si aggiungeva un'alta percentuale di alcool.
Una importante campagna lanciata da Mussolini fu quella demografica, con lo slogan: "Il numero è potenza".
L'obiettivo era il raggiungimento dei 60 milioni di abitanti entro il 1950 (il che avrebbe significato la fame per tutti!). Per incrementare le nascite il Duce usò diversi mezzi: la tassa per i celibi; l'acceleramento della carriera per gli impiegati statali con prole numerosa; l'esonero dal pagamento delle imposte per le famiglie con almeno 10 figli; un premio in denaro alle madri più prolifiche. Non furono poche le coppie che, pur di ricevere il premio, mettevano al mondo un bambino all'anno, soprattutto nelle campagne.
LA NASCITA DELL'U.R.S.S.
L'edificazione dell'economia socialista, la costruzione pianificata di strade, case, scuole e ospedali richiedeva un controllo centrale e coordinato delle iniziative: la democrazia «dal basso» dei soviet venne perciò pian piano sostituita con una direzione «dall'alto» da parte dello Stato. Nel 1922 fu realizzata l'Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche (U.R.S.S.), che si presentava come una confederazione di repubbliche indipendenti e con pari diritti. Nel 1924, l'U.R.S.S. si diede la sua prima Costituzione. Il potere centrale fu attribuito al Congresso dei soviet, che si riuniva ogni anno, e che nominava due Camere più ristrette che avevano il compito di approvare le leggi. Da esse derivavano i due massimi organi dirigenti: il Presidium, una sorta di direzione politica suprema, e il governo o Consiglio dei commissari del popolo. Per quanto formalmente separato dal partito, il potere dello Stato era di fatto strettamente controllato da esso. Con lo sviluppo delle competenze dello Stato, si sviluppò anche il ceto dei funzionari statali, cioè la burocrazia, che aumentò sempre di più il suo potere e venne a formare una nuova classe di privilegiati.
La Russia era uscita distrutta dalla guerra civile. Come disse Lenin, «la povertà della classe lavoratrice non era mai stata così estesa e acuta come nel periodo della sua dittatura». Il primo problema da affrontare fu quello della sussistenza.
Le difficoltà maggiori provenivano dai contadini, che si rifiutavano di consegnare il grano allo Stato, e minacciavano di coltivare soltanto le terre necessarie al proprio sostentamento, senza più produrre il sovrappiù che serviva a sfamare il resto della popolazione. Per vincere queste difficoltà, il Partito comunista dell'Unione Sovietica (PCUS) approvò un nuovo indirizzo economico, la NEP (Nuova politica economica), proposta da Lenin nel 1921 e attuata fino al 1928. Per indurre i lavoratori a produrre di più era di nuovo introdotto, in alcuni settori, il principio della proprietà privata e del profitto.
Nascevano i primi kolchoz, grandi cooperative agricole i cui membri utilizzavano in comune macchine e strumenti per lavorare la terra affidata loro dallo Stato a titolo gratuito e perpetuo. I prodotti dovevano essere consegnati allo Stato a prezzi fissati da quest'ultimo. Ciascun kolchoziano, però, poteva disporre di piccoli appezzamenti privati, i cui prodotti poteva vendere liberamente.
A capo di ciascun kolchoz c'era un Consiglio dei lavoratori.
Il commercio venne riaperto all'iniziativa privata, e fu incoraggiato l'investimento di capitali stranieri: il capitalista americano Henry Ford, per esempio, impiantò in Russia una fabbrica di trattori.
La grande industria, le banche, i trasporti rimanevano però in mano allo Stato. Inoltre, i consigli operai che si erano impossessati della direzione delle fabbriche erano stati da tempo messi da parte, e sostituiti con i vecchi direttori di origine borghese, ritenuti più esperti.
Ma l'obiettivo principale della NEP era quello di sbloccare la situazione di crisi nelle campagne: pagate le tasse, i contadini potevano ora vendere le eccedenze al mercato libero. In seguito a questi provvedimenti, la produzione agricola aumentò, e si evitò la carestia. Ma nacque anche un grave problema sociale: nelle campagne si rafforzò il ceto dei contadini ricchi, i kulaki (= avari), la cui avidità sembrava far rinascere lo spirito del capitalismo. Essi diventarono una potente forza contraria al comunismo: sfruttavano il lavoro di cinque milioni di salariati, controllavano i prezzi agricoli, facevano prestiti allo Stato a tassi altissimi.
La NEP era giudicata negativamente da Trotzkij, uno dei massimi dirigenti sovietici: occorreva a suo avviso diminuire il peso politico dei contadini e aumentare quello del proletariato industriale, limitando anche il potere della burocrazia dello Stato e del partito, che stava sostituendosi agli operai nella direzione del Paese. Trotzkij sosteneva inoltre la necessità di appoggiare maggiormente gli sforzi rivoluzionari negli altri Paesi: la rivoluzione comunista sarebbe potuta sopravvivere soltanto se si fosse estesa a tutto il mondo. Le posizioni di Trotzkij erano combattute da Stalin, divenuto segretario generale del Partito comunista, che invece sosteneva la possibilità di costruire il socialismo «in un solo Paese». Alla morte di Lenin, nel 1924, tra Stalin e Trotzkij si accese un'accanita lotta per la successione alla direzione del Paese.
Vinse Stalin, appoggiato dall'apparato burocratico del partito, e Trotzkij, sconfitto, fu prima espulso dal partito e costretto all'esilio, e in seguito assassinato dai sicari di Stalin. Quest'ultimo rimase al potere fino alla morte, nel 1953. Sotto la sua guida, il regime sovietico assunse un nuovo volto.
Il suo obiettivo principale fu quello di trasformare l'U.R.S.S. in una grande potenza industriale. Per fare ciò, ritenne innanzitutto necessario risolvere il problema delle campagne, garantendone il pieno controllo allo Stato. Egli perseguitò spietatamente i kulaki, alcuni milioni di persone, in parte uccidendoli, in parte condannandoli ai lavori forzati.
I contadini poveri furono spinti a unirsi in grandi fattorie collettivizzate di proprietà dello Stato (nel 1932 circa la metà dei contadini lavorava in collettività). La collettivizzazione delle campagne aveva tra l'altro lo scopo di organizzare il lavoro agricolo con metodi più moderni, in modo da risparmiare manodopera agricola e utilizzarla nelle industrie cittadine: dal 1926 al 1939 circa 24 milioni di contadini si trasformarono in operai, trasferendosi nelle città e cambiando modo di vita e mentalità.
L'industrializzazione procedeva a ritmi accelerati, rispondendo rigidamente a piani di sviluppo quinquennali stabiliti dallo Stato. Il massimo sforzo era concentrato nell'industria pesante, cioè nella costruzione di macchinari per l'industria e nella produzione di armi. I beni di consumo erano invece limitati allo stretto necessario, e i salari mantenuti a livelli molto bassi, per risparmiare capitali da investire in nuove imprese. Per incentivare la produzione, le paghe erano proporzionali alla quantità di lavoro svolto; gli operai più produttivi venivano nominati "eroi", e additati ad esempio.
Nel 1939 l'U.R.S.S. era ormai una forte potenza industriale. Ma questo risultato era stato ottenuto a un prezzo altissimo: la dittatura del Partito comunista era diventata rigidissima. In particolare, tra il 1936 e il 1938 ebbero luogo terribili epurazioni, le cosiddette "purghe", per mezzo delle quali Stalin eliminò milioni di oppositori. Molti di questi venivano deportati in Siberia, dove erano stati organizzati dei campi di concentramento; altri erano destinati ai lavori forzati; altri uccisi. Ma i comunisti, all'interno e all'esterno della Russia, non erano al corrente dei crimini di Stalin e lo "stalinismo" si reggeva sul culto della sua personalità, poiché egli era considerato un capo infallibile.
Mentre in alcuni Paesi europei si affermavano regimi totalitari, in Germania prevalse una dittatura di destra: il nazismo. Dopo la guerra, soffocato il tentativo di rivoluzione comunista, nel gennaio del 1919 i Tedeschi elessero con suffragio universale maschile e femminile un' assemblea che in pochi mesi elaborò una costituzione per la nuova repubblica. Poiché questa assemblea si riunì nella città di Weimar, la prima repubblica della storia tedesca è nota come Repubblica di Weimar. Si trattava di una Costituzione democratica basata sull'elezione a suffragio universale del Parlamento (il Reichstag), e anche del Presidente della Repubblica; quest'ultimo però, deteneva un potere molto forte: egli nominava il Cancelliere (=capo del governo) e poteva sottoporre a referendum tutte le leggi. Con la libertà politica contrastava però una difficilissima crisi sociale. Nel 1921-1923 si era scatenata un'inflazione senza precedenti.. Il marco, la moneta tedesca, valeva ogni giorno meno: si arrivò al punto che per acquistare un dollaro americano occorrevano 4.200 miliardi di marchi!
Questa disastrosa situazione modificò profondamente la società tedesca. I piccoli borghesi, e specialmente i dipendenti statali e i risparmiatori, si impoverirono d'un colpo, perché i loro soldi non bastavano più per acquistare lo stretto necessario.
Coloro la cui ricchezza non era costituita da denaro, ma da altri beni, si trovarono invece più ricchi. In particolare, si rafforzarono gli industriali. Essi utilizzavano un gran numero di operai, i quali perciò risentivano della crisi meno degli operai.
La frustrazione della piccola borghesia, che era portata ad attribuire la responsabilità del suo malessere alle eccessive pretese della classe operaia, spiega almeno in parte la progressiva crescita delle organizzazioni di destra, nonostante la presenza di un forte Partito socialdemocratico.
Dopo alcuni tentativi per risanare la situazione economica, tra cui il governo "di salute nazionale di Stresemann, nel 1925 fu eletto presidente Hindenburg, un militare noto per le sue tendenze autoritarie. Egli fu molto bene accolto dagli alti ufficiali dell'esercito e dai grandi burocrati dello Stato, che covavano un nostalgico rimpianto per i tempi del vecchio impero. Anche gli industriali rafforzarono il loro peso, perché dagli Stati Uniti giunsero prestiti di capitali.
Ma proprio dall'America arrivò anche l'ondata di crisi che avrebbe spinto i Tedeschi ad appoggiare la destra più estrema.
Nel 1929 infatti gli Stati Uniti furono colpiti dal più grave crollo economico di tutta la storia del capitalismo, che portò gli Stati Uniti a ritirare i capitali che avevano investito in Europa e in particolare in Germania. Le imprese tedesche licenziarono gli operai. Fu la disoccupazione di massa.
Della situazione approfittò Adolf Hitler, capo del Partito nazionalsocialista (da cui il termine «nazionalsocialismo» o «nazismo»). Con un'abile propaganda egli seppe presentarsi come salvatore della patria.
Se nelle elezioni del 1928 il Partito nazista aveva riportato appena il 2% dei voti, nel 1930 balzava al 18% (al secondo posto dopo quello socialdemocratico, che aveva il 24%); e nel 1932 diventava il partito di maggioranza col 37% dei voti, pari a 13.700.000 elettori. Dopo questa vittoria, nel gennaio del 1933 Hindenburg nominava Hitler cancelliere.
A differenza del fascismo, il nazismo giungeva al potere per vie legali. Nel 1919 Hitler era uno dei tanti sbandati usciti, pieni di risentimento, dall'esperienza della prima guerra mondiale. Nel 1920 egli aveva partecipato alla fondazione del Partito nazionalsocialista. Il nome non inganni: era un partito violentemente antisocialista, ma che cercava di conquistare le simpatie dei lavoratori utilizzando le espressioni tipiche della tradizione socialista e proclamandosi contro il capitale.
Ammiratore del fascismo italiano, nel 1921 Hitler aveva organizzato le SA (iniziali delle parole tedesche che significano «reparti d'assalto»), formazioni paramilitari del partito che, come le camicie nere fasciste, avevano la funzione di intimorire con la violenza i militanti dei partiti di sinistra.
Nel 1923 Hitler cercò di imitare i fascisti italiani organizzando un colpo di Stato (il putsch) a Monaco; ma fallì nel suo intento e finì per due anni in prigione, dove scrisse il suo programma politico col titolo di Mein Kampf ("La mia battaglia").
Hitler era convinto che esistesse una razza superiore a tutte le altre: la razza ariana. A questa razza, in realtà inesistente, sarebbero appartenuti i Tedeschi. Dopo le umiliazioni della guerra, essi dovevano finalmente realizzate il loro compito storico: il dominio sulle razze inferiori.
A farne le spese sarebbe stata in primo luogo la razza slava (cioè i Russi), che sottraeva ai Tedeschi l'indispensabile "spazio vitale" (territorialmente identificato con le pianure a oriente dell'Elba). Ma se gli Slavi dovevano diventare servi degli Ariani, gli Ebrei dovevano addirittura essere annientati. Essi erano responsabili infatti, secondo Hitler, di tutto il male del mondo: del comunismo, perché ebree erano molte personalità comuniste, come Marx e Trotzkij; e del capitalismo, perché ebrei erano molti importanti banchieri.
Per pazzesche che possano sembrare, queste farneticazioni riuscirono a conquistare molta gente, disorientata da una crisi che non riusciva a comprendere con la ragione. Se non altro, il nazismo offriva dei capri espiatori contro cui sfogare la propria rabbia. Inoltre, Hitler era un abilissimo oratore, un vero maestro nell'arte di trascinare le folle.
Infine, il movimento nazista era appoggiato dai grandi industriali, che lo vedevano come un efficace strumento di repressione della crescente protesta operaia.
II programma di Hitler non era particolarmente originale, ma proprio questo ne facilitò il successo. Era il condensato di tutti i pregiudizi e i luoghi comuni in cui credevano gli uomini della destra più estrema, che aveva il suo punto di forza nella contestazione del trattato di Versailles imposto alla Germania dopo la guerra.
Appena giunto al potere, Hitler diede prova di un'assoluta mancanza di scrupoli: fece incendiare il Reichstag e ne attribuì la responsabilità ai comunisti, creando un pretesto per metterli fuori legge.
In meno di un anno, il Partito nazista era diventato l'unico ammesso; sciolti anche i sindacati, lavoratori e industriali furono costretti ad "accordarsi" nel Fronte del lavoro. Vennero abolite le libertà di stampa e di riunione; fu istituita la pena di morte. Nel 1934, alla morte di Hindenburg, Hitler assunse tutti i poteri col titolo di Fuhrer (= condottiero, equivalente dell'italiano "Duce").
Sempre in quell'anno Hitler infranse le disposizioni di Versailles: procedette al riarmo della nazione; all'annessione della zona smilitarizzata della Renania e del bacino della Ruhr tramite un referendum; alla conquista dell'Austria dopo l'assassinio di Dollfuss (il cancelliere austriaco contrario all'unione con la Germania).
Ma Mussolini si oppose a quest'ultima iniziativa e così Hitler rinunciò all'invasione. Intanto, nel 1935 Italia, Francia e Inghilterra si ritrovarono a Stresa per ammonire Hitler, senza però prendere provvedimenti concreti.
Per gli oppositori fu aperto un campo di concentramento a Dachau, il primo di una lunga serie.
Iniziarono anche le persecuzioni contro gli Ebrei: dapprima (1933) fu loro proibito di svolgere le libere professioni; poi (1935) fu negata loro la cittadinanza, e vietato il matrimonio con gli ariani. Dei 680.000 Ebrei tedeschi, 170.000 abbandonarono la Germania. Nella notte fra l'8 e il 9 novembre 1938 Hitler scatenò in tutta la Germania azioni violente contro gli Ebrei: fu la "notte dei cristalli", così detta a causa delle vetrine di negozi infrante. Centinaia di Ebrei furono uccisi nei linciaggi, migliaia furono chiusi in campi di concentramento.
Le sinagoghe furono date alle fiamme, e gli Ebrei stessi costretti a completarne la demolizione con le proprie mani.
Queste azioni barbariche si svolsero nell'indifferenza generale. Hitler era riuscito a fanatizzare il popolo e a far tacere i pochi oppositori. La soluzione finale, cioè la distruzione totale del popolo ebraico, era ora possibile.
La violenza su cui si basava il regime hitleriano si avvaleva di efficaci strumenti repressivi. Il braccio armato del nazismo erano le SS (iniziali delle parole tedesche che significano «squadre di protezione»), una polizia speciale che nel 1934 si affiancò alle già ricordate SA: sorte come guardia del corpo di Hitler, divennero presto potenti e tristemente famose (nella "notte dei lunghi coltelli" le SS trucidarono le SA, perché pretendevano di essere il vero esercito tedesco). Grande importanza aveva inoltre la Gestapo, polizia segreta di Stato che agiva al di fuori di ogni legalità per individuare gli oppositori del regime e gli Ebrei.
Tuttavia per costruire lo Stato totalitario nazista la violenza non era sufficiente. Come tutti gli Stati totalitari, ma in maniera più sistematica e senza eccezioni, il regime nazista pretendeva di controllare le coscienze degli individui, modificarne il modo di pensare e regolamentarne tutti gli aspetti della vita.
Le scuole furono "nazificate", e la gioventù irreggimentata in organizzazioni di tipo militare, affinché tutti imparassero a obbedire ciecamente al Fuhrer e alla dottrina nazista. Gli scrittori e i pittori non nazisti, considerati esponenti di un'"arte degenerata", furono perseguitati, e le loro opere distrutte. Giornali e radio, posti direttamente sotto il controllo del Ministero della propaganda, furono costretti a ripetere in maniera martellante le parole d'ordine del regime. Persino le Chiese, sia cattolica sia protestante, furono indotte a sostenere le idee del nazismo. Tutti gli strumenti erano insomma utilizzati per effettuare un colossale lavaggio del cervello: e ciò spiega, unitamente all'uso della violenza, perché il nazismo e le sue folli dottrine ottennero il consenso delle masse, e l'opposizione al regime fu, in Germania, relativamente debole.
II consenso al nazismo fu anche favorito dai successi economici conseguiti dal regime. Distrutte le organizzazioni operaie, il nazismo diede subito tutto il suo appoggio al grande capitale monopolistico: promosse anzi la concentrazione del capitale, rendendo obbligatori i trust, perché le industrie tedesche non si facessero inutilmente concorrenza. Analoghi provvedimenti favorirono la concentrazione della proprietà terriera nelle mani di pochi grandi proprietari. Questi provvedimenti consentirono l'instaurazione di un'economia pianificata, i cui fini erano stabiliti dallo Stato. E il fine principale del nazismo era essenzialmente la preparazione della guerra, per mezzo della quale la Germania contava di distruggere i suoi nemici e costruirsi un vasto impero. Nel 1939 lo Stato nazista dedicava il 58% del suo bilancio alle spese militari. Poiché l'industria pesante lavorava a pieno ritmo, il nazismo sconfisse la disoccupazione, che aveva costituito uno dei maggiori problemi sociali della Germania del dopoguerra. I lavoratori erano sostanzialmente militarizzati: non potevano scegliersi l'impiego, ma dovevano andare dove venivano chiamati.
La prima guerra mondiale fu economicamente vantaggiosa per gli Stati Uniti, che diventarono la prima potenza industriale e finanziaria del mondo. Cessata la guerra, dopo un breve periodo di difficoltà e incertezza, gli USA tornarono a occuparsi principalmente della loro prosperità.
Questa era favorita da un'agricoltura fiorente che si avvaleva di trattori e macchine agricole; da una grande abbondanza di materie prime, e in particolare di petrolio, sempre più importante per il diffondersi del motore a scoppio; da una tecnologia avanzata che consentiva uno sviluppo incessante delle industrie.
Per alcuni anni, la classe dirigente americana ritenne di avere trovato una via sicura per garantire agli USA la prosperità. Era ancora, come nell'Ottocento, la via dell'iniziativa individuale: chi aveva capacità e intraprendenza, si diceva, poteva diventare ricco. La vita economica era quindi caratterizzata da un'accanita concorrenza tra industriali, finanzieri, uomini d'affari. Allo Stato si chiedeva soltanto di non occuparsi di economia, se non imponendo alte tariffe doganali per proteggere il mercato interno.
Occupati ad accumulare ricchezze, gli USA sembravano non voler spartire le loro prosperità con nessuno. Nel 1921 e nel 1924 furono approvate leggi che limitavano fortemente l'immigrazione europea. Gli stranieri erano visti con sospetto, anche perché si temeva che portassero in America le idee sovversive che stavano sconvolgendo l'Europa. Sorsero movimenti xenofobi (cioè basati sull'odio contro gli stranieri) e razzisti. Basti dire che la famigerata associazione segreta del Ku Klux Klan raggiunse in questo periodo i 4 milioni di aderenti.
Anche la legge che proibiva la fabbricazione e il commercio degli alcolici (1919-1933), nel periodo del cosiddetto "proibizionismo", era diretta specialmente contro la gente di colore e contro gli immigrati, accusati di "contaminare" la nazione americana con l'abuso di bevande. Quelli furono gli anni del più violento gangsterismo.
II regime di libera concorrenza che vigeva nel Paese favorì specialmente i grandi monopoli, che diventarono sempre più potenti, assorbendo o facendo sparire dal mercato molte piccole industrie. Poiché il settore di massima espansione era quello degli autoveicoli (nel 1930 le vetture circolanti negli USA erano già 20 milioni), i trust più importanti erano quelli automobilistici (la General Motors e la Ford) e dei petrolieri (controllati dal gruppo Rockefeller).
Complessivamente, la produzione industriale aumentò, dal 1922 al 1929, del 64%: un ritmo senza precedenti, anzi addirittura eccessivo. Perché un'industria possa arricchirsi, occorre infatti non soltanto che la sua produzione aumenti, ma anche che aumenti la vendita dei prodotti. E perché si espandano le vendite, occorre che vi siano molte persone con disponibilità di denaro disposte all'acquisto, cioè che abbiano un certo potere d'acquisto. Fu proprio questo l'elemento che venne meno negli USA di quegli anni, e che col tempo tramutò l'entusiasmante sviluppo in una catastrofica crisi.
Proprio perché il regime di libera concorrenza favoriva la concentrazione delle ricchezze, l'economia americana produceva gravi squilibri nella società; grande restava il numero dei disoccupati e dei miserabili, e anche chi lavorava aveva salari molto bassi. Il potere d'acquisto andava diminuendo.
In un primo tempo, l'opinione pubblica americana non si accorse che molte industrie non riuscivano più a vendere ciò che producevano. I capitali a disposizione degli industriali non cessavano di aumentare, perché chi aveva dei risparmi comprava azioni in Borsa, convinto di continuare a guadagnare, come era avvenuto negli anni passati. In effetti il valore delle azioni cresceva ancora, perché i grandi speculatori avevano interesse a tenerlo alto, anche se sapevano che l'industria era in crisi. Ma una situazione così rischiosa non poteva durare a lungo. Infatti, improvvisamente, si diffuse la paura. Tutti vollero disfarsi delle azioni nel timore che il loro valore crollasse. A Wall Street, la Borsa di New York, il 24 ottobre 1929 (il famoso "giovedì nero") furono messe in vendita d'un colpo 13 milioni di azioni. Il loro valore si ridusse di dieci volte. Il clamoroso crollo di quella che era sembrata la più prospera Borsa del mondo segnò una svolta nella storia contemporanea..
II crollo in Borsa non fu che il primo atto di una rovinosa crisi economica, detta anche Grande depressione. Risparmiatori rovinati, banche fallite, industrie che chiudevano una dopo l'altra perché non riuscivano a vendere i loro prodotti, disoccupati ridotti alla fame e sempre più numerosi, fino a raggiungere la cifra record di 14 milioni. Fu un processo a catena inarrestabile, che continuò di male in peggio fino al 1932.
La crisi si trasmise all'Europa, dove favorì direttamente l'affermazione del nazismo e il rafforzamento del fascismo. Ma anche negli Stati Uniti provocò un profondo mutamento politico e sociale. Grande artefice di questa trasformazione Franklin Delano Roosevelt, eletto presidente nel 1932 per il Partito democratico Aiutato da un gruppo di tecnici e intellettuali, Roosevelt riuscì a imporre all'economia e alla politica americana un nuovo orientamento, passò alla storia come <<New Deal>> (nuovo corso). Si trattava di un progetto semplice e complicato nello stesso tempo. Semplice nel suo obiettivo di fondo: rilanciare la produzione incrementando i consumi. Complicato nella sua realizzazione, perché si trattava addirittura di cambiare il ruolo dello Stato nella vita economica e sociale.
Fino alla vigilia della crisi, il governo federale si era comportato come uno Stato liberale l'Ottocento: la sua unica funzione era quella di garantire che industriali, finanzieri e lavoratori potessero liberamente agire nella competizione economica. Il New Deal chiedeva invece allo Stato di intervenire direttamente nella vita economica: le banche erano controllate più da vicino dal governo, che le induceva ad aiutare certi settori industriali limitando lo sviluppo di altri. Ciò serviva a regolamentare l'economia in modo da evitare altre crisi.
Questa nuova politica era difficile da accettare per la mentalità di molti imprenditori statunitensi, abituati a credere che la ricchezza del Paese dipendesse unicamente dal successo individuale dei suoi uomini d'affari. Essa invece incontrava più facilmente l'appoggio dei ceti poveri, perché regolamentare l'economia significava tra l'altro combattere la miseria e instaurare una maggiore giustizia sociale, utile anche alla ripresa industriale. Roosevelt infatti comprese che le industrie americane non avrebbero rilanciato la loro produzione finché vi fossero stati milioni di disoccupati che non potevano acquistare beni di consumo.
Per combattere la disoccupazione, l'amministrazione di Roosevelt promosse quindi grandi lavori pubblici: strade, ponti, dighe, bonifiche di intere regioni, ospedali e scuole. Lo Stato trovò così lavoro per 8 milioni di persone. Non importava se l'amministrazione statale spendeva più di quanto intascava con le tasse, e andava in deficit. L'importante era che la gente potesse di nuovo fare acquisti, che i prezzi tornassero a crescere e le industrie a produrre e a guadagnare.
Mentre aumentavano le tasse per i più ricchi, migliorava l'assistenza statale nei confronti dei più poveri: fu garantita l'assistenza sanitaria ai bambini e la pensione agli anziani. Anche il lavoro intellettuale e la ricerca scientifica furono facilitati con finanziamenti pubblici.
Il successo del New Deal fu anche un successo personale di Roosevelt: rieletto presidente tre volte (caso unico nella storia degli Stati Uniti), rimase in carica fino alla morte, nel 1945. Grazie a un'abile propaganda, nelle sue mani il potere esecutivo si rafforzò enormemente.
LE DEMOCRAZIE EUROPEE DI FRONTE ALLA GUERRA DI SPAGNA
In Europa, i Paesi capitalistici che, mantenuto il sistema parlamentare, non avevano ceduto alla dittatura di un partito unico, erano rimasti pochi. Dittature di destra erano sorte in conseguenza della crisi provocata dalla prima guerra mondiale. Altri regimi autoritari nacquero sull'onda della grande crisi economica del 1929. La conclusione è che l'area "democratica" andava facendosi sempre più piccola. Francia e Inghilterra rimanevano gli Stati parlamentari più importanti, mentre la democrazia si sviluppava anche in Svezia e Norvegia con governi socialdemocratici.
L'Inghilterra era uscita dalla prima guerra mondiale economicamente molto provata, a causa dell'enorme sforzo bellico sostenuto. Molte delle industrie che avevano in passato accresciuto la prosperità della nazione, come quelle del cotone e del carbone, ora erano in crisi e licenziavano più di un terzo della manodopera. La concorrenza americana si faceva sentire, e solo le industrie più grandi riuscivano a sopravvivere e a rafforzarsi.
Eppure l'impero coloniale britannico rimaneva immenso: anzi, si era ulteriormente ingrandito dopo la guerra, quando l'Inghilterra aveva ottenuto un mandato dalla Società delle Nazioni perché controllasse politicamente Palestina e Mesopotamia. Se a ciò si aggiunge il protettorato dell'Egitto (sanzionato nel 1914), si comprende come l'Inghilterra avesse la possibilità di far valere i suoi interessi economici e politici in gran parte del Medio Oriente, pur non possedendo in quella regione colonie vere e proprie.
Nell'ambito del vecchio impero britannico erano nel frattempo intervenuti mutamenti. Canada, Australia, Nuova Zelanda e Sud Africa, dove era presente una forte componente bianca, già prima della guerra erano stati trasformati da colonie in dominion: ciò significava che questi Paesi avevano un'amministrazione locale autonoma, pur rimanendo legati all'autorità della corona britannica. Una grave crisi nei confronti dell'Inghilterra si era invece sviluppata in India, la "perla dell'impero". Enorme era stato il suo contributo al successo britannico durante la guerra: 1.300.000 Indiani avevano combattuto in Europa, mentre il grano dell'India aveva consentito agli Inglesi di sopravvivere. Ma tali sacrifici avevano ulteriormente impoverito quello sterminato territorio.
La delusione alimentava dunque negli Indiani un forte desiderio di indipendenza politica, che un uomo di eccezione, Gandhi, seppe organizzare e guidare in forme di protesta non violenta. La strada che avrebbe condotto l'India all'indipendenza era comunque ancora lunga.
La situazione di emergenza provocata dalla crisi economica fu affrontata dalla Gran Bretagna utilizzando le risorse dell'impero. Questo fu riorganizzato, nel 1932, in un Commonwealth (letteralmente «repubblica»), una sorta di federazione di Stati sovrani uniti per reciproca volontà e direttamente dipendenti dalla corona britannica.
In cambio delle maggiori autonomie concesse, l'Inghilterra ottenne che i Paesi del Commonwealth adottassero un rigido protezionismo che ostacolava con forti dazi le merci provenienti da altri Paesi. Le industrie inglesi riuscirono così a vendere i loro prodotti all'interno del Commonwealth: il lavoro riprese a pieno ritmo, la disoccupazione diminuì, e nel 1936 la crisi economica era superata.
Il governo era guidato dai conservatori. Dal 1937 fu primo ministro Neville Chamberlain, ma tra loro già faceva spicco la personalità di Winston Churchill, che sarebbe diventato capo del governo nel 1940.
Diversa fu la situazione verificatasi in Francia dopo il '29. Guidata da governi di destra fino al 1932, in seguito alla crisi la Francia vide un rafforzamento sia dei movimenti filofascisti, sia dei partiti di sinistra: questi ultimi riportarono una forte vittoria elettorale nel 1936. Si formò allora un governo di Fronte popolare, presieduto dal socialista Léon Blum e appoggiato dai comunisti. Fu un momento di grande speranza per le classi popolari, che ottennero notevoli miglioramenti salariali e più ampi riconoscimenti dei diritti sindacali. Ma fu soltanto un momento: travolto dall'opposizione degli industriali, il Fronte popolare durò in carica soltanto un anno, al termine del quale dovette cedere nuovamente il potere alla destra.
Negli anni Trenta, la Spagna viveva un periodo di profonda crisi: non aveva partecipato alla prima guerra mondiale (come non parteciperà alla seconda), perché già spossata dalla guerra contro gli USA del 1898, che le era costata la perdita degli ultimi residui del vecchio impero coloniale.
Le sue risorse erano molto limitate. Ancora scarsamente industrializzato, il Paese era abitato in maggioranza da contadini poverissimi che non avevano proprietà; ma non mancava una combattiva minoranza di minatori e operai. Le terre erano per la maggior parte in mano ai latifondisti e alla Chiesa cattolica. Proprietari terrieri, Chiesa ed esercito di fatto controllavano lo Stato.
Dopo un periodo di dittatura militare, le elezioni del 1931 diedero la vittoria ai partiti che volevano porre fine alla monarchia e sostituirla con una repubblica. Il re Alfonso XIII abbandonò il Paese.
Le timide riforme del nuovo governo repubblicano allarmarono i proprietari terrieri e la Chiesa. Col loro aiuto, le destre riconquistarono il potere nelle elezioni del 1933, e subito smantellarono tutte le riforme in corso. Quello stesso anno veniva fondato un partito di ispirazione fascista, la Falange.
II forte malcontento determinò nel 1936 una nuova e più esaltante vittoria elettorale delle sinistre, unite nel Fronte popolare a cui partecipavano democratici borghesi, socialisti, comunisti e anarchici. Specialmente questi ultimi, molto forti nel Paese, pensarono che la vittoria fosse l'inizio di una rivoluzione sociale. L'odio per i proprietari terrieri esplose in gravi episodi di violenza, che spesso erano rivolti contro il clero. La Falange, a sua volta, scatenò un terrore di segno opposto.
Di questa situazione approfittò l'esercito, che attaccò il governo repubblicano, e sotto la guida di Francisco Franco, un generale che appoggiava la Falange, occupò la parte occidentale della Spagna, dando vita a un governo dittatoriale.
Il Paese era così diviso in due: tra la Spagna repubblicana e la Spagna falangista iniziò una guerra moderna, perché per la prima volta era mossa da cause puramente ideologiche, e civile sanguinosissima, che durò tre anni, dal 1936 al 1939.
Il governo repubblicano contava sull'appoggio della Francia, retta anch'essa da un Fronte popolare. Questo invece, nella speranza di evitare un sostegno massiccio dei ribelli spagnoli da parte degli Stati fascisti, propose alle potenze europee di non intervenire in Spagna. All'invito aderirono Inghilterra, Germania e Italia. Per la Spagna repubblicana l'accordo si rivelò tragico.
Mentre infatti Inghilterra e Francia non intervennero, Germania e Italia inviarono aerei, cannoni, armi e uomini a sostegno di Franco. Il solo Mussolini inviò oltre 50.000 uomini. Sul fronte repubblicano praticamente gli unici aiuti, ma di modesta entità e solo indiretti, vennero dal Messico e dall'Unione Sovietica. Questa favorì la formazione delle Brigate internazionali, che raccoglievano operai e intellettuali di molti Paesi, che si battevano perché il fascismo non si affermasse anche in Spagna. Gli Italiani furono numerosi: ricordiamo tra gli altri i fratelli Carlo e Nello Rosselli, Pietro Nenni, Luigi Longo.
La superiorità militare dei franchisti rimase però schiacciante, mentre nelle file repubblicane nascevano gravi contrasti politici. Le forze della Falange conquistarono così l'intero Paese: nel 1939 entravano vittoriose in Madrid.
Il risultato della guerra fu tragico: un milione di morti e un Paese distrutto sul quale la dittatura di Franco sarebbe durata fino al 1975 (anno della sua morte).
IL SECONDO CONFLITTO MONDIALE
Nel 1933 il Giappone e la Germania erano usciti dalla Società delle Nazioni, e nel 1937 altrettanto avrebbe fatto l'Italia: mentre la maggioranza degli Stati aveva interesse a risolvere i problemi internazionali con la diplomazia, le tre nazioni nominate non escludevano il ricorso alla guerra. Conoscendo la tendenza di fascismo e nazismo a esaltare la violenza, l'atteggiamento dell'Italia e della Germania non meraviglia. Quanto al Giappone, dal 1930 era in mano a un governo autoritario di destra: il giovane imperatore Hirohito infatti aveva favorito l'ascesa al potere dei militari, che avevano eliminato i partiti politici.
L'industria giapponese produceva a pieno ritmo, ma i militari erano convinti che solo il possesso di un impero coloniale avrebbe potuto conservare la prosperità del Paese. E a farne le spese fu la vicina e debole Cina: nel 1931-1932 i Giapponesi ne occuparono la vasta regione della Manciuria, e di fronte alle proteste della Società delle Nazioni si ritirarono da quell'organismo.
Il desiderio di costruirsi un impero, di espandersi a danno di altre nazioni, era la caratteristica comune di Giappone, Germania e Italia. Nella propaganda fascista e nazista, questo desiderio veniva presentato come una "giusta" rivendicazione delle nazioni proletarie nei confronti delle plutocrazie, termine spregiativo con il quale venivano designate le democrazie occidentali e che letteralmente significa «Paesi dove comandano i ricchi».
Tuttavia l'Italia possedeva domini coloniali, a differenza della Germania che ne era stata privata alla fine della prima guerra mondiale. Ma Libia, Eritrea e Somalia non le bastavano. Anche per far fronte alle crescenti difficoltà provocate dalla chiusura degli USA agli emigranti italiani, Mussolini ordinò nel 1935 di occupare l'Etiopia, assicurando che l'impresa avrebbe aperto nuove possibilità di lavoro ai disoccupati.
L'Italia aveva già effettuato un analogo tentativo nel 1896, ma era stata respinta. Questa volta, condotta con grande spiegamento di uomini e di mezzi contro un Paese di pastori e contadini poveri, la conquista del "posto al sole" fu assicurata, non senza gravi atrocità nei confronti degli indigeni. Vittorio Emanuele III assunse il titolo di imperatore di Etiopia.
Fu uno dei momenti in cui il fascismo ottenne maggiore consenso fra gli italiani.
La Società delle Nazioni, di cui faceva parte anche l'Etiopia, pensò di punire l'Italia con sanzioni economiche: i suoi membri non avrebbero più commerciato col Paese di Mussolini. Ma fu una risposta debole, che rimase in gran parte inapplicata.
La guerra d'Etiopia dimostrò a Hitler e Mussolini che avrebbero potuto impunemente proseguire le loro aggressioni.
Hitler, infatti, nel marzo 1936 invase militarmente la prospera Renania, che il Trattato di Versailles aveva dichiarato zona smilitarizzata.
La collaborazione tra Italia e Germania diveniva sempre più stretta. Nello stesso 1936 le due nazioni stabilivano un patto di alleanza contro il pericolo bolscevico (cioè contro l'URSS e i comunisti), il cosiddetto Asse Roma-Berlino.
L'anno successivo l'alleanza si estendeva al Giappone (Asse Roma-Berlino-Tokio): i Giapponesi si sentirono abbastanza forti da scatenare una guerra in Cina, dove nel frattempo il Partito comunista, guidato da Mao Tse-tung, era diventato la forza più organizzata.
Anche in Europa l'aggressione nazifascista si scatenò. Dichiarando di voler unificare sotto suo dominio tutti i tedeschi, nel marzo 1938 Hitler fece invadere l'Austria e ne proclamò l'annessione. Quindi dichiarò di voler invadere i Sudeti, una regione della Cecoslovacchia, col pretesto che la popolazione era di lingua tedesca.
La Cecoslovacchia preparò a resistere.
A questo punto intervenne Mussolini invitato da Chamberlain a fare da mediatore alla Conferenza di Monaco (settembre 1938) tra Francia, Inghilterra e Germania. Sfruttando la debolezza e il timore della guerra delle prime due, Mussolini fece loro accettare l'occupazione tedesca dei Sudeti, in cambio dell'impegno della Germania a non avanzare altre richieste.
Ma pochi mesi dopo i Tedeschi occupavano tutta la Cecoslovacchia, e gli Italiani sbarcarono in Albania, cacciandone il re e conferendone la corona a Vittorio Emanuele III. Mussolini e Hitler stringevano una nuova alleanza, il Patto d'acciaio (maggio 1939), che impegnava l'Italia a combattere a fianco della Germania in caso di guerra. Ma 1'Italia, come Mussolini ben sapeva non era pronta per affrontare un nuovo conflitto.
Intanto l'espansione nazista in Europa continuava: Hitler decise di occupare i territori polacchi intorno a Danzica, che separavano dal resto della Germania la Prussia orientale. Ma l'Inghilterra si oppose, e si alleò alla Polonia.
Hitler cercò di garantirsi la neutralità dell'URSS, sfruttando il suo risentimento nei confronti di Francia e Inghilterra per essere stata esclusa dalla Conferenza di Monaco. Stalin aveva sospettato che l'accordo di Monaco fosse rivolto contro l'URSS, e si sentiva accerchiato da potenze ostili.
Così nell'agosto del 1939 fu firmato un patto decennale, di non aggressione tra Germania e URSS, le cui clausole segrete prevedevano la spartizione della Polonia tra le due potenze.
Le tre nazioni che con i loro atti aggressivi prepararono la guerra (Germania, Giappone e Italia) erano assai più deboli dei Paesi che si sarebbero schierati sul fronte opposto (Inghilterra, Francia, URSS): minore era la loro ricchezza nazionale, meno numerosi la popolazione e l'esercito.
Hitler contava però su armi più moderne ,su soldati più disciplinati, e specialmente su una nuova tattica militare. L'uso combinato del carro armato e dell'aeroplano avrebbe dovuto rendere possibile quella guerra-lampo che i Tedeschi avevano già tentato di realizzare durante il primo conflitto mondiale, ma senza successo.
Inoltre, Hitler contava di sfruttare le diffidenze reciproche dei suoi nemici: da un lato giocava sui sentimenti antisovietici di Inghilterra e Francia; dall'altro sulla sfiducia mostrata dall'Unione Sovietica nei confronti delle potenze capitalistiche.
I piani nazisti si realizzarono completamente in Polonia. Varcato il confine il 1° settembre 1939, dopo sole due settimane i Tedeschi avevano occupato la parte occidentale del Paese, dando inizio alla seconda guerra mondiale. Il 3 settembre Inghilterra e Francia dichiararono guerra alla Germania.
A questo punto si mossero i Russi. In base all'accordo con la Germania essi invasero la parte orientale della Polonia. In seguito, per render più sicuri i loro confini, aggredirono anche altre regioni, compresa una parte della Finlandia (novembre 1939), dove stroncarono un'accanita resistenza.
Proseguendo nella sua espansione nell'aprile del 1940 la Germania occupò la Danimarca e la Norvegia, garantendosi l'accesso alle miniere di ferro svedesi (la Svezia era rimasta neutrale), di cui aveva assoluto bisogno per la fabbricazione delle armi.
Era giunto il momento di sferrare l'attacco alla Francia, il cui numerosissimo esercito era schierato alla frontiera tedesca lungo una imponente linea di fortificazioni chiamata Linea Maginot dal nome del generale francese che l'aveva ideata; senza prendere iniziative, i Francesi si apprestarono a una guerra di trincea come quella del primo conflitto mondiale. Di questo immobilismo approfittarono i Tedeschi per scatenare la "guerra-lampo".
Invasi l'Olanda, il Lussemburgo e il Belgio, Paesi neutrali (maggio 1940), con una rapida manovra le truppe naziste aggirarono la Linea Maginot e colsero alle spalle l' esercito francese sbaragliandolo (22 giugno 1940). Il mondo intero fu sorpreso e allarmato nel constatare che l'esercito tedesco poteva far crollare la Francia in poche settimane.
Un governo di militari comandato dal generale Pétain, formalmente libero ma di fatto sottomesso al potere nazista, si instaurò a Vichy, nel Sud della Francia. Il Nord, e la stessa Parigi, furono governati direttamente dai Tedeschi.
L'Inghilterra, che aveva schierato le sue truppe accanto a quelle francesi, e a stento era riuscita a ritirarle al di là della Manica, a questo punto dovette fronteggiare da sola tutto il peso dell'attacco tedesco. Progettando l'invasione dell'isola, Hitler si diede a bombardare sistematicamente le città inglesi, e specialmente Londra, nell'intento di distruggere le fabbriche e di demoralizzare la popolazione civile costringendola alla resa. Fu la terribile battaglia d'Inghilterra, durata tre mesi (agosto-ottobre 1940). Intere città, come Coventry e Birmingham, furono rase al suolo.
Per la prima volta, però, i progetti di Hitler fallirono. Il morale degli Inglesi fu tenuto alto dall'abile ed energica guida del nuovo primo ministro Winston Churchill.
La difesa antiaerea inglese, grazie anche all'uso del radar che i Tedeschi non conoscevano, inflisse al nemico gravi perdite.
Nonostante le dichiarazioni bellicose di Mussolini, l'Italia non era pronta per affrontare una nuova guerra, dopo essersi impegnata a fondo in Etiopia e in Spagna. Perciò il dittatore italiano cercò di guadagnare tempo dichiarando la "non belligeranza": per nove mesi l'alleato tedesco fu lasciato solo. Soltanto nel giugno il dittatore italiano decise l'intervento, benché l'Italia continuasse a vivere all'ombra dei successi hitleriani.
Una nuova alleanza con la Germania e il Giappone, il Patto tripartito (al quale aderivano anche altri Stati europei), impegnava i contraenti a costruire un "nuovo ordine" nel mondo che ponesse Germania e Italia al comando dell'Europa e sottomettesse l'Asia al Giappone. Ma poco dopo la stipulazione di questo patto, l'Italia subiva una grande i sconfitta da parte della Grecia, che Mussolini aveva ordinato di invadere (ottobre - dicembre1940). Ancora una volta furono i Tedeschi a portare a termine l'aggressione.
Nelle colonie italiane d'Africa le cose non andavano meglio per l'esercito italiano. Ne1 1941, dopo che Mussolini ebbe dato ordine di attaccare la Somalia britannica e l'Egitto, una potente controffensiva inglese fece crollare l'impero di Etiopia sorto nel 1936. Somalia ed Eritrea passarono sotto il controllo britannico.
Nell'Africa settentrionale, rimaneva agli Italiani la colonia della Libia. Di qui, Mussolini pensava di attaccare le forze inglesi radunate in Egitto. Ma già alla fine del 1940 l'esercito italiano fu posto in fuga da quello inglese, che occupò metà della Libia e fece prigionieri 120.000 italiani.
Soltanto l'arrivo di due divisioni motocorazzate tedesche salvò per il momento gli italiani dal disastro. Le comandava il generale Rommel, che per la sua abilità strategica fu detto «la volpe del deserto». Sotto la sua guida le truppe italo-tedesche riconquistarono i territori perduti e nel 1942 penetrarono in Egitto fino a 80 km da Alessandria.
Le spese di allestimento e mantenimento delle truppe tedesche furono però addebitate all'Italia, dove i nazisti requisirono armi e viveri inviandoli in Germania. II risultato della debolezza militare italiana fu dunque un sempre più passivo asservimento del Paese ai folli progetti di Hitler.
Al contrario dell'Italia, la Germania all'inizio del 1941 era ancora sulla cresta dell'onda; grazie alla sua immensa espansione territoriale e alla liquidazione della Francia, essa sapeva che l'Inghilterra, da sola, non avrebbe mai potuto sconfiggerla. Inebriato da questa sicurezza, il 22 giugno 1941 Hitler ordinò al suo esercito di invadere l'URSS. Senza saperlo, con quell'atto il dittatore tedesco aveva firmato la propria condanna: da quel momento i rapporti di forza sarebbero gradatamente cambiati a suo svantaggio.
Per alcuni mesi, tuttavia, i Tedeschi avanzarono vittoriosi. L'Unione Sovietica, pur consapevole che i rapporti con la Germania andavano peggiorando, non si attendeva un'aggressione in quel momento.. L'esercito tedesco, appoggiato da truppe alleate (anche italiane, circa 3 milioni di uomini in totale) penetrò a fondo in territorio russo, pose l'assedio a Leningrado e infine, in dicembre, a Mosca. Ma la capitale sovietica resistette, e con l'aiuto del rigido inverno russo l'invasione nazista fu arrestata. Il successo della guerra lampo era scongiurato: ora iniziava una durissima guerra d'usura.
Frattanto anche la terza potenza del Patto Tripartito, il Giappone, decise di scatenare l'aggressione, incoraggiata dai successi tedeschi. Con la parola d'ordine "l'Asia agli Asiatici" i giapponesi miravano alla costruzione di un grande impero continentale.
Tuttavia, prevedendo che gli Stati Uniti, che avevano forti interessi in Asia, si sarebbero opposti, decisero di attaccare di sorpresa la potenza rivale, distruggendo la flotta a Pearl Harbour, un porto delle isole Hawaii, il 7 dicembre 1941. Gli Stati Uniti entrarono allora in guerra contro le potenze dell'Asse.
In pochi mesi il Giappone riuscì a conquistarsi un immenso impero nell'Oceano Pacifico, dominando non meno di 450 milioni di uomini. La rapidità della conquista (che nel 1942 raggiunse la sua massima espansione) fu dovuta sia alla flotta ben preparata e alle truppe disciplinate, sia al favore di una larga parte delle popolazioni conquistate, che vedevano nei Giapponesi dei "liberatori" dai precedenti domini coloniali. Ben presto però divenne chiaro che la principale preoccupazione giapponese era garantirsi lo sfruttamento delle grandi riserve di materie prime di quelle regioni. Sorsero allora in Birmania, in Malesia e nelle Filippine importanti movimenti di resistenza antigiapponese.
Inizialmente, il Giappone riportò brillanti successi sugli USA. Questi infatti, anche se avevano rifornito di armi l'Inghilterra, non possedevano ancora una vera industria bellica: il loro esercito e la loro aviazione erano assai modesti in confronto a quelli delle potenze nemiche.
Ma l'attacco giapponese, coinvolgendo gli Stati Uniti in una guerra che a questo punto diventava veramente mondiale, ebbe anche l'effetto di metterne in moto la formidabile macchina industriale, che da allora in poi si sarebbe adoperata nella produzione di armamenti. E questo sforzo avrebbe dato presto i suoi frutti, contribuendo in modo decisivo a capovolgere le sorti del conflitto.
L'IMPERO NAZIFASCISTA E LA RESISTENZA
Nel 1942 le tre potenze nazifasciste raggiunsero la loro massima espansione.
Data la debolezza dell'Italia, l'Europa era diventata un impero tedesco. Una parte dei territori era sottoposta direttamente all'amministrazione militare tedesca; un'altra parte era costituita da Stati «satelliti», cioè fedeli a Hitler.
Ovunque (tranne in Polonia e in Russia) i Tedeschi trovarono l'appoggio di una parte della popolazione, per lo più di una minoranza (talvolta molto esigua), legata a movimenti di destra precedentemente esistenti.
Con l'aiuto di queste persone, chiamate "collaborazionisti", i Tedeschi imposero all'Europa un sistema di schiavitù politica e di sfruttamento economico. Nei territori controllati, essi organizzavano un'ossessiva e spesso efficace propaganda delle idee naziste, volta specialmente a convincere la gente della pericolosità dei comunisti, dei democratici e degli Ebrei. Ogni libertà politica era abolita, e ogni manifestazione di dissenso punita con pene che andavano dalla prigionia alla fucilazione.
La situazione peggiorò quando, a partire dal 1943, il compito di garantire l'ordine nei territori occupati fu affidato alle SS, l'organizzazione paramilitare del partito nazista. Il fanatismo delle SS si rese responsabile di torture, di fucilazioni in massa della popolazione civile, e specialmente di deportazioni nei campi di concentramento.
I campi di concentramento, che come sappiamo già esistevano in Germania e che negli anni della guerra furono da Hitler enormemente moltiplicati, costituirono il più grave crimine del nazismo. In essi i Tedeschi rinchiudevano i prigionieri politici e gli oppositori di ogni genere, gli zingari, gli omosessuali e gli Ebrei.
Se le condizioni di vita nei campi o Lager erano insopportabili per tutti, erano però particolarmente disumane per gli Ebrei. Hitler aveva deciso di cancellare questo popolo dalla faccia della Terra, e di commettere con fredda determinazione il più sistematico genocidio (= distruzione di un intero popolo) della storia. I più deboli venivano uccisi nelle camere a gas, a cominciare dalle donne e dai bambini. Sei milioni di Ebrei morirono così: il loro sterminio è dettai anche Olocausto. I campi di concentramento svolgevano anche una funzione economica. Impiegando quasi tutti i suoi uomini validi nell'esercito, la Germania aveva un estremo bisogno di manodopera. Ma il lavoro forzato nei Lager non era ancora sufficiente. I nazisti utilizzarono un numero sempre più grande di lavoratori stranieri, provenienti da tutta Europa. Solo in parte erano prigionieri di guerra: la maggioranza era costituita da civili prelevati dai loro Paesi e costretti a lavorare in Germania.
Questo era soltanto un aspetto dello sfruttamento economico imposto dai Tedeschi al resto d'Europa. Essi si riservarono il monopolio dell'industria pesante, da cui derivava la forza militare, costringendo gli altri Paesi a produrre materie prime e alimenti, come vere e proprie colonie. Inoltre il marco fu artificiosamente sopravvalutato, in modo da consentire ai soldati tedeschi di fare acquisti, nei Paesi occupati, a prezzi vantaggiosi.
Troppe erano le angherie che gli Europei dovevano sopportare per colpa dei nazifascisti, perché non si sviluppasse ovunque un'opposizione attiva che prese il nome di Resistenza.
Solo in Germania un vero movimento di resistenza non poté aver luogo: il solido consenso di massa al nazismo e il controllo poliziesco avevano stroncato ogni opposizione fin dai primi anni del regime. Tuttavia non mancarono episodi di lotta clandestina, sempre fallimentari per l'isolamento in cui maturarono. Il più importante fu organizzato da alti ufficiali dell'esercito, che il 20 luglio 1944 cercarono di uccidere Hitler con una bomba posta nel suo quartier generale a Rastenburg, nella Prussia orientale. Per una fatalità il dittatore sfuggì all'attentato, e una terribile repressione portò all'uccisione di 5.000 persone ritenute coinvolte nella congiura.
Ben diversa fu l'ampiezza del movimento popolare di resistenza nei Paesi occupati dai nazisti e dai fascisti. In Polonia i nazisti sterminarono 3.150.000 Ebrei. Ciò non avvenne senza eroici episodi di resistenza armata, come quello dei 40.000 Ebrei che nell'aprile del 1943 si opposero strenuamente, ma invano, alla distruzione del ghetto di Varsavia. Altri tre milioni di Polacchi morirono combattendo nelle file dei due eserciti (l'uno nazionalista e l'altro comunista) che, pur tra gravi contrasti e difficoltà, non cessarono di lottare contro l'invasore tedesco.
Quando le truppe di Hitler invasero l'URSS, anche qui si accese un vasto movimento partigiano che dalle retrovie combatteva all'unisono con l'esercito di Stalin. Analogo fenomeno avvenne in Iugoslavia invasa da Tedeschi e Italiani nel 1941. Il comandante partigiano Tito, comunista, prevalendo sui partigiani di ispirazione monarchica riuscì a sconfiggere gli occupanti, ma a un prezzo altissimo: i caduti furono 1 700.000, il 10% della popolazione. Il successo dei partigiani comunisti costò gravissime perdite anche in Albania.
Più sfortunata fu, in Grecia, la lotta del popolo contro i tre eserciti invasori (italiano, tedesco e bulgaro). Per quanto la maggiore organizzazione partigiana fosse comunista, una minoranza sostenuta dagli Inglesi ne ostacolò il successo. La Resistenza si trasformò così in una guerra civile, che si protrasse anche dopo la fine del conflitto mondiale.
In Francia Charles De Gaulle, un generale dell'esercito sconfitto dai Tedeschi che aveva trovato asilo in Inghilterra, opponendosi al regime collaborazionista del generale Pétain (a capo del governo di Vichy), aveva proclamato la necessità di resistere all'occupante nazista fin dal 1940. Un anno dopo, le formazioni clandestine erano attive specialmente nella zona direttamente occupata dal Tedeschi, e nel 1943 si formava un comande unificato della Resistenza sotto la direzione dello stesso De Grulle.
L'Italia, fino al 1943, non era un Paese occupato, ma aggressore. Per questo la Resistenza si sviluppò soltanto più tardi.
Pur nelle notevoli differenze, la Resistenza ebbe ovunque caratteri comuni. Fu una lotta di popolo, cui parteciparono tutti i ceti sociali, ma con netta prevalenza di operai e contadini. Fu innanzitutto una rivolta contro l'invasione straniera, ma assunse in molti Paesi anche il carattere di una guerra civile contro quella parte dei connazionali che collaborava con il regime di Hitler.
Espressione di una rivolta morale contro la barbarie nazista, la Resistenza vide collaborare uomini di tendenze politiche molto diverse: dai nazionalisti conservatori, come il generale De Gaulle, ai comunisti. Ma, quasi ovunque, i comunisti costituivano una maggioranza, e la parte più attiva dei combattenti. Per questa one il movimento partigiano assumeva a volte l'aspetto di una rivolta sociale che spingeva verso una rivoluzione di tipo sovietico. Inoltre, poiché i partigiani comunisti erano appoggiati dai Sovietici nell'Europa orientale, essi erano guardati con diffidenza dagli Alleati (cosi si chiamarono gli Anglo-americani) sul fronte occidentale.
La guerra di popolo venne così a combinarsi con gli interessi delle grandi potenze contendenti, senza il cui aiuto militare d'altronde difficilmente avrebbe potuto aver successo. Gli Alleati, pur proponendosi di sconfiggere il nazismo, cercavano in tutti i modi di non rafforzare l'Unione Sovietica, a cui i partigiani comunisti apparivano strettamente legati. E lo stesso calcolo, ma di segno opposto, faceva a sua volta Stalin.
Intanto l'entrata in guerra dell'URSS aveva rovesciato le sorti del conflitto. Le prime sconfitte della Germania e dei suoi alleati si verificarono tra la fine del 1942 e l'inizio del 1943. Tre importanti battaglie, in particolare, dimostrarono che i rapporti di forza si erano capovolti.
La prima in ordine e di tempo fu la lunga battaglia aeronavale ingaggiata dagli USA contro il Giappone per la conquista dell'isola di Guadalcanal (arcipelago delle Salomone), e il controllo del Pacifico. Tra l'agosto 1942 il febbraio 1943 gli Stati Uniti dimostrarono con una serie di vittorie di aver raggiunto la superiorità sul Giappone, specialmente grazie alle portaerei e ai sommergibili.
La seconda grande battaglia si svolse in Africa. Alla fine di ottobre del 1942 le truppe inglesi, guidate dal generale Montgomery, sconfissero a El Alamein, in Egitto, l'esercito italo-tedesco comandato da Rommel, costringendolo a ripiegare in Libia. Agli inizi di novembre le forze anglo-americane sbarcarono in Marocco, conquistarono l'Algeria, e insieme ai Francesi del generale De Gaulle costrinsero Tedeschi e Italiani ad abbandonare l'Africa (maggio 1943).
La terza battaglia fu quella che costò alla Germania le perdite maggiori. Si svolse in Russia, intorno alla città di Stalingrado, che i Tedeschi intendevano conquistare, tra il settembre 1942 e il febbraio 1943. La presa della città si rivelò per i Tedeschi una trappola mortale: essi si trovarono a loro volta accerchiati dai Sovietici, che li decimarono e li costrinsero alla resa, nonostante che Hitler avesse ordinato alle sue truppe la resistenza ad oltranza. Da quel momento, sarebbero stati i Sovietici, che pure avevano subìto perdite enormi, a incalzare i Tedeschi con le loro divisioni corazzate. La vittoria dell'URSS, che cacciava l'invasore dal suo suolo, poneva fine al sogno imperiale germanico.
Anche i soldati italiani dell'ARMIR (= Armata italiana in Russia), mandati da Mussolini a sostenere i Tedeschi, pagarono duramente la sconfitta. Male armati ed equipaggiati, non riuscirono a sostenere gli attacchi delle truppe sovietiche né i rigori dell'inverno russo. Dei 230.000 che erano partiti, circa 90.000 risultarono morti o dispersi; altri 40.000 feriti e assiderati.
La vittoria di Stalingrado fece sorgere nuovi problemi nelle relazioni tra l'URSS e gli Anglo-americani. Stalin si lamentava di essere lasciato solo a sopportare tutto il peso della guerra contro i Tedeschi. Gli Alleati, per parte loro, temevano che l'URSS vittoriosa potesse avanzare eccessive pretese. Così nel novembre 1943 Stalin, Churchill e Roosevelt si incontrarono a Teheran (Iran), e pur tra molte diffidenze reciproche decisero di comune accordo che gli Anglo-americani sarebbero sbarcati in Normandia, nel Nord della Francia.
Lo sbarco in Normandia iniziò nella notte tra i 5 e il 6 giugno 1944, in un mese fece affluire in Francia un milione e mezzo di uomini con decine di migliaia di mezzi corazzati, appoggiati da migliaia di aerei.
Questa forza immensa non poteva non vincere una Germania stremata, incalzata sul fronte orientale dall' Armata rossa sovietica. Tuttavia, la guerra durò ancora quasi un anno.
Quando gli Alleati già avevano occupato la parte occidentale della Germania, e i Sovietici quella orientale, due giorni prima che questi ultimi entrassero in Berlino, Hitler si suicidò (30 aprile 1945). Una settimana dopo, il 7 maggio 1945, la Germania si arrese senza condizioni. La guerra in Europa era finita.
Anche nel Pacifico le sorti erano ormai decise. Nel giugno del 1945 gli Americani avevano iniziato l'occupazione del Giappone insediandosi nell'isola di Okinawa. Ma l'impresa era costata migliaia di morti da entrambe le parti, e il Giappone non sembrava intenzionato ad arrendersi.
Fu allora che il nuovo presidente americano Harry Truman, succeduto a Roosevelt morto in aprile, prese una decisione che avrebbe aperto tragicamente una nuova era della storia: l'era atomica. La bomba atomica era stata messa a punto pochi giorni prima (luglio 1945). Il 6 agosto Truman la fece sganciare sulla città di Hiroshima, provocando 90.000 morti; altrettanti se ne ebbero tre giorni dopo, quando fu colpita Nagasaki. Il 2 novembre 1945 il Giappone si arrese.
La maggiore responsabilità delle vittime civili della guerra andava attribuita ai metodi adottati dai nazisti: lo sterminio sistematico degli Ebrei nei campi di concentramento ne fu l'aspetto più aberrante.
Per quest'ultima ragione, le potenze vincitrici (Stati Uniti, Gran Bretagna, Francia e Unione Sovietica) decisero alla fine del conflitto di istituire un processo contro i principali responsabili della condotta nazista.
Il processo si tenne nella città tedesca di Norimberga tra il novembre 1945 e l'ottobre 1946.
Le accuse rivolte ai dirigenti nazisti erano le seguenti: crimini contro la pace, per la sistematica preparazione di una guerra aggressiva; crimini di guerra, per le violenze contro la popolazione civile; crimini contro l'umanità, per il genocidio degli Ebrei. In questa occasione il mondo venne a conoscenza degli orrori dei Lager, che i nazisti avevano ovviamente tenuti nascosti.
Al processo di Norimberga erano presenti 23 imputati, tra cui il braccio destro di Hitler, Goring, e il ministro degli esteri tedesco Ribbentrop. Di essi, 12 furono condannati a morte, 8 a lunghe pene detentive, 3 furono assolti. Altri criminali di guerra nazisti riuscirono a fuggire (specialmente in Sud America).
II bilancio della seconda guerra mondiale fu terrificante: 55 milioni di morti di cui 40 nella sola Europa. Una cifra enorme, se si pensa che nel primo conflitto mondiale avevano perso la vita 8 milioni di uomini, e già era stata un'ecatombe senza pari nella storia dell'umanità.
La guerra che si concludeva nel 1945 aveva seminato la morte in maniera molto diseguale. Contro i 220.000 caduti statunitensi stavano per esempio i 21 milioni di morti e dispersi sovietici.
II bilancio si faceva ancor più tragico se a queste cifre spaventose si aggiungeva il fatto che più della metà delle vittime era costituita non da militari ma da semplici civili. Questa allarmante proporzione, che costituiva una nuova caratteristica della guerra, era in parte connessa all'adozione di nuove tecniche distruttive, soprattutto i bombardamenti aerei che colpivano indiscriminatamente obiettivi militari e civili; in parte al carattere di guerra partigiana e di rivolta politica e morale contro la barbarie nazista assunto dal conflitto
Le perdite umane furono certamente il più grave danno provocato dalla seconda guerra mondiale, ma non l'unico.
Ad esso bisogna aggiungere i danni materiali, che a loro volta provocarono nuove sofferenze alle popolazioni civili. Particolarmente grave fu il problema delle abitazioni, dato l'enorme numero di case distrutte dai bombardamenti. Nella sola Germania, sette milioni e mezzo di persone erano rimaste senza casa. Inoltre, intere regioni erano state private delle loro industrie e di ogni risorsa economica.
Soprattutto colpite erano la Polonia, l'Ucraina (URSS), la Germania e il Giappone, ma la fame era diffusa in molte altre zone del mondo, e particolarmente in Europa.
Dopo la distruzione, spettava ora agli uomini un immane compito: ricostruire.
L' ITALIA IN GUERRA
L'Italia entrò in guerra il 10 giugno 1940: quando vide che la Francia stava per crollare sotto l'attacco tedesco, Mussolini dichiarò guerra a Francia e Inghilterra per partecipare alla spartizione del bottino. Il Paese diede subito prova della sua immensa debolezza: un primo scontro con la Francia, allo scopo di annettersi la Savoia, si risolse in un insuccesso. Nei due anni successivi, l'esercito italiano fu sconfitto ripetutamente fuori dal territorio nazionale: in Grecia, in Africa, in Russia
Già nell'ottobre del '40 Mussolini aveva aggredito la Grecia, accusandola di dare ospitalità a truppe inglesi. Fu un drammatico errore: l'esercito, che aveva attaccato quel Paese inerme, si trovò ad affrontare prima di tutto un terreno montuoso e impervio; poi un clima imprevisto perché l'azione che, iniziata in autunno, avrebbe dovuto essere fulminea, si protrasse invece per mesi, in un inverno insolitamente rigido, tra il fango, la neve, la pioggia; infine l'eroica resistenza dei partigiani greci, che respinsero coraggiosamente gli attacchi dei soldati italiani.
Nella campagna di Grecia lo stato maggiore del nostro esercito diede una prima prova della propria inefficienza. Il Duce in persona, del tutto inesperto, guidava da lontano le operazioni e i militari, cui concretamente era affidata l'impresa, si erano trovati di fronte a una realtà inaspettata che non seppero fronteggiare: infatti l'occupazione della Grecia fu portata a termine dall'esercito tedesco.
Morti, 13.755; feriti, 50.874; uomini con arti congelati 12.368: ecco il tragico bilancio di quell'avventura. E non era che l'inizio.
Particolarmente tragico fu il destino dei 230.000 soldati italiani dell'ARMIR che dal giugno 1941 combattevano in Russia a fianco dei Tedeschi. Erano male armati ed equipaggiati in modo insufficiente: a molti di loro l'amministrazione aveva fornito scarpe di cartone, che alla prima pioggia si distrussero. La necessità di mimetizzarsi era ignorata, o almeno realizzata in modo casuale: sulle nevi russe finirono i carri armati gialli destinati alle campagne d'Africa.
Gli alpini avanzavano senza quasi scontrarsi con le truppe nemiche, poiché i Russi anche questa volta, come già con Napoleone, ricorsero alla ritirata strategica, per attirare Tedeschi e Italiani sempre più all'interno del Paese, in attesa del grande alleato: l'inverno.
E puntualmente ciò che doveva accadere accadde: nell'inverno tra il '42 e il '43 i soldati italiani si trovarono a compiere sfibranti marce a piedi, all'inseguimento dell'esercito sovietico, con una temperatura che raggiungeva i 50 °C sotto zero. Alle tre del pomeriggio, quando scendeva il buio, gli alpini dovevano trovare un rifugio o nelle isbe dei contadini, o scavando delle buche nella terra: durante la notte molti uomini morivano assiderati.
Il 14 gennaio 1943 le divisioni Julia, Cuneense, Tridentina subirono un attacco da parte sovietica: nonostante una difesa eroica, di fronte alla straordinaria superiorità numerica e di mezzi dei nemici, dovettero ritirarsi, lasciando sulla linea alcuni reparti di compagni votati al sacrificio per coprire la ritirata.
Ebbe inizio la marcia della morte. Feriti, disarmati, senza adeguati indumenti contro il freddo, gli alpinisti si sostenevano l'un l'altro cercando di evitare il peggior pericolo: il congelamento. Prima di raggiungere le retrovie italiane, dovettero ancora affrontare uno sbarramento russo. Animati dal coraggio della disperazione, partirono all'attacco quasi senza armi, rimanendo uccisi a migliaia. I superstiti impiegarono tredici giorni per raggiungere la salvezza.
Il 31 gennaio 1943 la tragedia era compiuta: circa 90.000 morti o dispersi; 40.000 feriti e assiderati furono il prezzo che l'Italia pagò in Russia alla folle politica di Mussolini.
Nel 1943, gli Alleati decisero di mettere l'Italia completamente fuori combattimento. Dopo averla sottoposta a pesantissimi bombardamenti, il 10 luglio sbarcarono in Sicilia e in un mese conquistarono l'isola.
Lo sbarco alleato ebbe immediata ripercussione sul governo. Gli stessi collaboratori di Mussolini lo misero in minoranza nel Gran consiglio del fascismo, e chiesero al re di intervenire. Vittorio Emanuele III destituì Mussolini e lo fece imprigionare, nominando capo del governo il maresciallo Badoglio. Era il 25 luglio 1943: questa data segna la fine della ventennale dittatura fascista.
Ma a questo punto la situazione diventava quanto mai ingarbugliata. Badoglio seguiva una politica poco chiara. Mentre dichiarava che la guerra continuava, preparava in segreto la resa agli Alleati.
L'8 settembre 1943 fu dichiarato, per volontà del comandante americano Eishenower pubblicamente l'armistizio, cioè la fine della guerra con gli Anglo-americani e dell'alleanza con la Germania. Sentendosi tradito dall'alleato italiano, Hitler ordinò al suo esercito di mettere in atto l'«Operazione Alarico»: l'occupazione di tutta la penisola. La parte meridionale era già in mano agli Alleati: là fuggirono Vittorio Emanuele III con la corte e Badoglio. Gli altri Italiani rimasero invece per molti mesi sotto l'occupazione tedesca.
Ai due milioni di soldati in armi non venne data nessuna istruzione: si trovarono improvvisamente senza comandanti, senza ordini, senza saper né ciò che era accaduto né ciò che dovevano fare. Molti, buttata la divisa per non farsi riconoscere come militari dai Tedeschi, cercarono di tornare a casa.
Mentre Badoglio e il re fuggivano a Brindisi, lasciando l'Italia del Nord senza guida, i Tedeschi liberavano Mussolini a Campo Imperatore, sul Gran Sasso, dove si trovava. Egli poteva così costituire la Repubblica Sociale Italiana, detta Repubblica di Salò dal nome di una cittadina sul Lago di Garda dove ebbe sede il governo fascista: in realtà era un governo fantoccio, che aveva il solo compito di aiutare i Tedeschi nella lotta contro i partigiani.
L'Italia era divisa. Il Sud venne via via liberato dalle truppe alleate, che dopo la durissima battaglia di Cassino superarono nel febbraio del 1944 un primo fronte tedesco, detto linea Gustav, entrando in Roma nel giugno dello stesso anno. Il Nord rimaneva occupato dai Tedeschi, attestati su un secondo fronte, la linea Gotica, poco a nord di Firenze.
Le formazioni partigiane che si erano costituite all'indomani dell'8 settembre, oltre ai vecchi e nuovi antifascisti raccoglievano i soldati che avevano scelto di combattere i Tedeschi. Esse dipendevano dal Comitato di Liberazione Nazionale (CLN), in cui confluivano tutti i partiti antifascisti che si erano ufficialmente ricostituiti. Nel 1944 questi partiti entrarono a far parte del governo presieduto dal liberale Bonomi, subentrato a Badoglio.
Nell'Italia settentrionale, i gruppi partigiani, che operavano nelle città e sulle montagne, riuscivano a far fronte alle truppe naziste e alle «Brigate nere» di Salò, creando anche delle repubbliche partigiane (cioè governando autonomamente alcune zone). Essi collaborarono con gli Alleati, che man mano si spingevano più a nord costringendo i Tedeschi alla ritirata, nella liberazione delle principali città (Napoli, Roma, Firenze, Bologna, Milano e Torino).
Il 25 aprile 1945 la guerra si concludeva con la sconfitta dei Tedeschi e dei fascisti.
Mussolini fu catturato dai partigiani mentre cercava di fuggire in Svizzera, e ucciso il 28 aprile dello stesso anno.
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