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Il periodo di tempo che intercorre tra lo scoppio della Rivoluzione francese e la fine dell'Età Napoleonica (1789-1815) è caratterizzato, nel nostro paese, da profondi rivolgimenti di natura politica, dalla crisi dell'ideologia illuminista, dalla coesistenza di orientamenti culturali diversi, da un lento e faticoso rinnovamento in campo sociale.
Inizialmente gli avvenimenti d'oltr'alpe suscitarono una generale ostilità negli Stati italiani, vincolati alle Case regnanti di Francia e d'Austria, oppure arroccati nella difesa dei loro antichi privilegi (Genova e Venezia); la discesa di Napoleone al comando dell'esercito d'Italia ed i rilevanti successi da lui ottenuti favorirono, in un secondo momento, la nascita di numerose Repubbliche democratiche, a cominciare da quella Cispadana, proclamata dai patrioti emiliani a Ferrara nel 1796, a quella Transpadana sorta nelle province lombarde nel medesimo anno, a quella Cisalpina del 1798 e risultante dalla fusione delle prime due, alla Repubblica ligure ed alla Repubblica romana, entrambe del 1798, alla Repubblica napoletana del gennaio 1799.
La reazione susseguente alla momentanea assenza di Napoleone dall'Italia, impegnato nella campagna d'Egitto, segnò però ben presto la loro fine, ed in qualche caso, come a Napoli, in modo cruento.
Con il ritorno di Napoleone nel 1800 e con la vittoria sugli Austriaci a Marengo, la carta politica italiana mutò di nuovo radicalmente e si avviò ad un processo di notevole semplificazione. Dopo la ricostituzione della Repubblica Cisalpina e la sua trasformazione in Repubblica italiana, prima, e poi in Regno d'Italia il 17 marzo del 1805 (la corona ereditaria venne logicamente affidata a Napoleone, divenuto nel frattempo imperatore), la penisola si trovò suddivisa in tre grandi parti:
il Regno d'Italia, che comprendeva la Lombardia, le province venete, il Trentino, l'Emilia e le Marche; i territori annessi direttamente alla Francia, cioè Piemonte, Liguria, Toscana, Lazio ed Umbria;
il Regno di Napoli.
La Sardegna rimase ai Savoia, e la Sicilia ai Borboni.
Tale stato di cose rimase immutato fino alla caduta di Napoleone (1815), cui fece seguito il ritorno degli Austriaci e la «restaurazione » dei precedenti sovrani.
Alle vicende storiche si accompagna la crisi degli ideali illuministi paradossalmente essi avevano originato, in Francia, il Terrore ed una nuova servitù, invece che l'agognata libertà, e, in Europa, una grande delusione per il tradimento degli ideali rivoluzionari nei quali essa aveva ciecamente creduto, nonché una profonda avversione a quegli stessi princìpi che, nella patria d'origine, avevano sottoposto milioni di uomini ad un efferato bagno di sangue, nella prospettiva di un progresso e di una felicità che si dimostravano, almeno per allora, praticamente irraggiungibili.
L'ambizioso proposito illuministico di raggiungere la completa autonomia della ragione si rivelò illusorio: quello stesso uomo che aveva creduto di poter riunire in sé ogni perfezione e di poter disporre a suo piacimento della realtà esterna, che aveva giudicato superstiziosi preconcetti molte delle conquiste spirituali dei suoi predecessori, e che le aveva tenacemente combattute in nome di una dottrina che negava ogni valore alla trascendenza, si ritrovava, sgomento, dinanzi al medesimo problema che si era illuso di aver risolto razionalmente.
La visione della felicità futura offerta dai pensatori illuministi era di carattere collettivo, perché oggetto dell'auspicato progresso era la società, e non il singolo uomo: finché questi fu animato dall'entusiasmo che solitamente circonda tali visioni, non ebbe modo di avvertire l'inevitabile annullamento di se stesso come persona, come individuo, nella prospettiva di un benessere comune che gli avrebbe arrecato vantaggi personali.
Non appena questo euforico entusiasmo venne affievolendosi, si impose nuovamente, ed in maniera più forte, il riconoscimento dei valori individuali (vedi Alfieri): l'uomo tornò a difendere gelosamente la propria personalità, sentì il bisogno di studiare prima se stesso che il mondo esterno, si trovò smarrito in una immensa solitudine interiore a cui la ragione non riusciva più da sola a fornire soluzioni. Se gli uomini sono tutti uguali per la ragione sono però diversi individualmente per sentimenti, passioni e per tutto quello che caratterizza il proprio mondo interiore. La ragione aveva in qualche modo fornito una soluzione relativamente al dominio delle passioni, dei sentimenti e degli istinti che essa stessa era deputata a controllare e soffocare; alla sfiducia nella ragione consegue quindi anche il riemergere di tali aspetti dell'interiorità dell'uomo, che ora si trova solo e senza strumenti che gli permettano di controllarli. Di qui il senso di smarrimento e solitudine.
Ora, in sintesi, si percepisce cha la ragione da sola è insufficiente a risolvere tutti i problemi; l'uomo che aveva aderito con entusiasmo all'impegno finalizzato al progresso della collettività, pur restando (a volte) ancora convinto della validità di tali ideali, venuto meno l'entusiasmo, inizia ad interrogarsi sul proprio destino individuale, sullo scopo della propria esistenza, oltre all'impegno per il progresso della società, a cui l'Illuminismo, con il suo materialismo, non forniva risposte soddisfacenti.
NOTA:
Occorre chiarire infatti che, il periodo che stiamo considerando, è un periodo di transizione, questo implica ancora un'adesione agli ideali e alla cultura del periodo precedente, anche se se ne avvertono i limiti e si anticipano elementi che poi caratterizzeranno la cultura del periodo successivo (nel caso specifico quella romantica).
Sarebbe sbagliato pensare, quindi, che gli ideali illuministici vengano del tutto abbandonati, al contrario: sono ancora condivisi ma con minore entusiasmo, cosa che porta gli intellettuali ad avvertirne i limiti ed a cercare soluzioni complementari, senza però staccarsene del tutto.
Gli atteggiamenti assunti dagli uomini di cultura furono, di conseguenza, principalmente due:
da un canto ci si volse al passato per apprendere a quali soluzioni, le passioni che sentiva urgere in sé, avevano condotto quelli che l'avevano preceduto (Neoclassicismo
dall'altro si fu istintivamente portati a cercare una divinità in grado di additare al suo agire terreno, più e meglio di quanto avesse saputo fare la dea Ragione, una finalità etica e spirituale (Preromanticismo
Conseguenze dirette di questo nuovo stato d'animo e di questo risorto individualismo, del quale si era avuto da noi una prima ed manifestazione con la poesia alfieriana, sono:
in campo letterario, l'evoluzione del gusto verso forme di perfezione e di armonia, che alimenta la poetica neoclassica, ed il vago anelito ad un mondo di valori infiniti ed assoluti, che costituisce la premessa della civiltà romantica:
in campo politico, il concetto di nazione, in un risorto e generalizzato amor di patria, porta alla formazione ed al consolidamento delle grandi entità nazionali del secolo XIX.
Tutti questi fermenti (residui illuministici, gusto classicheggiante, tendenze preromantiche), nessuno dei quali sopravanza per ora in maniera decisa sugli altri, e con gli altri si trova anzi non infrequentemente a coesistere in uno stesso poeta o scrittore, contribuiscono a dare, di questo periodo, un quadro culturale composito e non facilmente definibile: unica «costante » della vita letteraria nell'età napoleonica è la caratterizzazione politica che essa assume, « costante » a sua volta composita per la compresenza, in essa, di spiriti nazionalistici, di esaltazione della libertà in senso alfieriano, di ricupero della nostra tradizione di pensiero storico e filosofico, con particolare riguardo a quello del Vico.
Quind,i elementi comuni alle diverse tendenze, in questo periodo di transizione, sono:
individualismo
storicismo
nazionalismo
Il quadro culturale fu determinato da una classe intellettuale di formazione aristocratica, più che di estrazione, ora in sintonia, più spesso in contrasto con il potere politico al governo, ed ancorata alle posizioni democratico-riformatrici del periodo illuministico: sarà essa ad assumere importanza ai fini dell'orientamento delle successive generazioni. Unico ceto a rimanere estraneo all'azione di rinnovamento del paese fu quello della plebe, sia per le condizioni economiche arretrate in cui continuava a trovarsi, specie nelle regioni meno industrializzate (soprattutto nel Mezzogiorno), sia per l'insufficienza di concreti programmi sociali da parte delle classi dirigenti, sia ancora per il carattere intellettualistico ed astratto dell'azione promossa dai ceti più evoluti in ordine alla libertà ed indipendenza della penisola (vedi le sette segrete massoniche): questa frattura, pressoché incolmabile fra la plebe, rappresentata quasi esclusivamente da contadini, e le altre classi sociali, si protrarrà per quasi tutto il nostro Risorgimento, e ne costituirà una remora non facilmente superabile.
Astraendo dalle complicazioni politiche originate dalle conquiste napoleoniche la crisi dell'ideologia illuminista si risolve in una positiva evoluzione ed in una accentuazione del carattere nazionale della nostra cultura: facendo tesoro della critica operata in precedenza all'astrattismo di ideologia, e della maggiore concretezza che, per contro, presentava il pensiero dei vari Giannone, Filangieri, Verri, Beccarla, Parini; rifacendosi alle opere degli scrittori che da Machiavelli a Vico avevano fermato la loro attenzione sui problemi politici che interessavano il nostro paese, furono in molti a rendersi allora conto che nessun popolo può maturare il diritto alla libera convivenza con gli altri popoli senza ricercare in sé, nella propria storia, nella propria tradizione, quanto concorre ad alimentare le forze indispensabili all'indipendenza di pensiero e d'azione.
Venne così delineandosi nella coscienza delle classi culturalmente più elevate il concetto di patria e di nazione: somma preoccupazione di molti scrittori fu quella di eliminare le sopravvivenze dei vecchi regionalismi e municipalismi; dalle cattedre e dai quotidiani si rivalsero esortazioni a riesaminare sotto nuova luce le fasi più gloriose del nostro passato prossimo e lontano; editori coraggiosi raccolsero e divulgarono le opere più importanti della nostra letteratura e dei nostri maggiori filosofi ed economisti (la Biblioteca dei classici italiani, edita in Milano dal 1804 al 1814, risultò composta di ben duecentocinquanta volumi).
In ordine all'orientamento della pubblica opinione verso i problemi fondamentali della libertà nazionale, fu la storiografia ad esercitare un'azione di notevole importanza, tanto che, con una di quelle definizioni che peccano in rigidità e schematicità, il secolo XIX fu spesso denominato il secolo della storia. Determinante, in questo campo, è la riscoperta del concetto vichiano della storia stessa, intesa come perenne svolgimento di età e periodi storici, ragione per cui, a proposito della vita dei popoli, non si può parlare di fasi ascendenti o discendenti, felici od infelici, ma di un continuo movimento accrescitivo.
La storiografia in Italia e in Europa assume un nuovo indirizzo strettamente storicistico (serietà d'indagine e rigorosità di metodo); iniziatore di tale indirizzo su in Italia Vincenzo Cuoco (1770 - 1823), esule meridionale a Milano (divenuto il maggior centro dell'attività intellettuale italiana).
Tra le opere di Cuoco ricordiamo Saggio storico sulla rivoluzione napoletana del 1799, opera in cui egli attua una serrata analisi delle cause del fallimento della rivoluzione che egli individua in due fondamentali:
l'aver voluto rifarsi al modello francese, ignorando la struttura economica, sociale e politica ben diversa del Napoletano;
il fatto che la rivoluzione sia stata imposta al popolo dagli intellettuali, da un gruppo ristretto di patrioti.
Il risveglio della coscienza nazionale, motivo comune alla storiografia di questo periodo, agisce positivamente in due direzioni:
suscita una sempre più accentuata nostalgia del passato, in funzione di un informe vagheggia mento del futuro;
favorisce la tendenza ad evadere dal presente, per ritrovare in un mondo di serena bellezza l'acquetamento delle inquietudini e delle ansie suscitate dalla caduta degli ideali illuministici.
I preromantici si trasferirono con il pensiero all'età medievale, ed in genere a quelle età in cui l'uomo poteva ancora vivere felice nella contemplazione della bellezza di una natura vergine e selvaggia
altri si volsero al mondo dell'Ellade come ad un mitico regno di giovinezza eterna, tutto armonia, tutto grazia, tutto decoro, nel quale la bellezza, innalzata a supremo ideale, aveva avuto la sua migliore ed intramontabile espressione. Furono questi ultimi a dar vita al movimento che prese il nome di Neoclassicismo e che informò di sé la letteratura, l'architettura, le arti figurative, e le cosiddette arti minori.
Di classicismo si è già avuto modo di parlare nei secoli precedenti, soprattutto allorché ci si era trovati di fronte alla religiosa passione rinascimentale per il mondo antico, od alla reazione classica, in funzione antibarocca, del Settecento (Arcadia, Parini): ora ci si trova innanzi ad una nuova interpretazione della classicità, in quanto si tende ad estrinsecare in forma misurata ed armonica, in vaghezza di immagini ed in equilibrato rapporto di proporzioni, la ricchezza interiore dei sentimenti: «su dei pensieri nuovi facciamo dei versi antichi », aveva ammonito il giovane poeta Andrea Chenier, che non pensava di aver in tal modo sintetizzato l'aspirazione della nuova corrente artistico-letteraria (si ricordi anche l'Accademia dei Trasformati, cui aveva aderito Parini, e il suo programma consistente in: Stile classico + contenuti moderni).
Tale interpretazione è da collegarsi con la scoperta dell'arte greca, scoperta in gran parte determinata dai rinvenimenti archeologici di Ercolano e Pompei, di tutta una serie di antiche sculture e pitture destinate, con la incomparabile grazia della loro linea, ad agire profondamente sul gusto europeo. Si moltiplicarono stampe e disegni riproducenti gli antichi capolavori venuti alla luce (si pensi alle incisioni in rame del Piranesi).
Fondamentale, per la delineazione del gusto neoclassico, è la Storia dell'arte dell'Antichità di Johann Joachim Winckelmann (1717-1768), un tedesco che aveva nutrito, fin dalla giovinezza, un vivissimo interesse per il mondo antico, e che trascorse parecchi anni a Roma per studiare da vicino monumenti e memorie di ciò che per lui era diventato un mito.
Attribuito un valore esemplare all'arte greca, Winckelmann definì la bellezza "uno dei misteri cui vediamo e sentiamo l'effetto, ma i cui non è riuscito ad alcuno dare un'idea ben determinata".
A Winckelmann pertanto si deve l'elaborazione di una teoria estetica (= filosofia dell'arte) volta alla definizione del concetto di bellezza con particolare riferimento all'arte.
Egli afferma che il concetto che noi abbiamo di bellezza, che è quindi impossibile definire in maniera univoca, è tanto più perfetto quanto più è conforme e concordante con "l'essere supremo".
Cosa vuol dire? Vuol dire che lo studioso dà una definizione di bellezza in senso mistico e pirituale, coincidente con l'ideale.
E siccome gli attributi di questo essere supremo sono l'unità e la semplicità, egli conclude che l'arte, per rispettare i canoni di bellezza, dovrà tendere ad una "calma grandezza" e ad una "nobile semplicità".
Da questo concetto e dal presupposto che l'arte greca fosse caratterizzata dalla "serenità", Winckelmann dedusse il canone dell'Impassibilità
ogni opera desiderosa di avvicinarsi alla perfezione artistica della statuaria greca, deve avere come requisito la compostezza (valga per tutte l'immagine del dio Apollo che dal cielo scende « tremendo e sereno»).
Egli additò nella statuaria greca del periodo Classico proprio tutti i requisiti teorizzati.
I greci avevano scoperto il dominio delle passioni, bisognava quindi seguire il loro esempio.
Tale concetto di bellezza quindi è da intendersi in senso ideale, la bellezza così descritta non è quindi terrena, ma spirituale (insomma l'arte si distacca dal realismo)
Da qui deriva anche il concetto di bellezza rasserenatrice (vedi Foscolo): osservando la bellezza l'animo umano si rasserena e domina le passioni ("e mentre io guardo la tua pace, dorme/ quello spirito guerrier ch'entro mi rugge" Foscolo, "Alla sera")
In molti dei poeti, pittori, scultori, architetti che ne seguirono le orme, questa «serenità » finì per tradursi in una cristallizzazione di immagini, di colori, di linee, ed in una strumentalizzazione, per lo più politica, degli antichi miti, per cui personaggi ed avvenimenti della vita contemporanea furono travestiti mitologicamente con esiti artistici di dubbio esiti artistici di dubbio valore decorativo e coreografico.
Questa strumentalizzazione raggiunse il suo apice nel periodo dell'Impero, quando Napoleone veniva dipinto nelle vesti di Giove olimpico o di Cesare, o rappresentato scultoreamente come un eroe dell'antica e mitica Ellade, o gli venivano innalzati archi di trionfo, o rievocava egli stesso il tempo antico assumendo l'appellativo di «console», attribuendo al figlio il titolo di Re di Roma, inserendo sui labari delle legioni i simboli delle aquile imperiali.
E' questo il Neoclassicismo in senso stretto: moda, gusto, imitazione pedissequa degli antichi, priva di contenuti nuovi; un'arte disimpegnata, cortigiana e al servizio del potere.
In altri letterati, tuttavia, pochi invero, la serenità greca rappresentò il poetico affinamento degli impulsi sentimentali, e diede vita a mirabili creazioni nelle quali le passioni umane si addolciscono in una armonica euritmia di atteggiamenti che sembrano disegnare, su uno sfondo di ellenistica eleganza, figure evocate dal sogno, e queste acquistano la compostezza religiosa di un rito.
In questi pochi il Neoclassicismo espresse il meglio di se stesso, da elemento decorativo si trasformò in profonda ragione di poesia (Foscolo), acquistò vigoria di espressione e nitidità di disegno nelle arti figurative (Canova), e non si esaurì con la scomparsa delle cause contingenti che ne avevano favorito, se non il sorgere, la notevole diffusione.
In questi pochi esponenti il Neoclassicismo diventa mezzo per rivestire, in forme antiche, contenuti nuovi, di carattere politico o sentimentale; diventa arte impegnata e non a caso assume punti in comune con il preromanticismo, corrente parallela che era sorta dalla stessa crisi spirituale, pur scegliendo soluzioni diverse.
L'artista neoclassico (Foscolo ad esempio) che non si isola dalla realtà, dal mondo, non può che vedere ed essere toccato dalle stesse problematiche che appassionano i suoi colleghi preromantici: di qui le affinità, le tangenze ed interferenze da un punto di vista tematico, tra le due correnti di questo periodo di transizione, denominato Età Napoleonica.
Uno dei primi effetti del Neoclassicismo e del rinato nazionalismo letterario fu quello manifestatosi nell'ambito del campo linguistico. La seconda metà del Settecento aveva visto fiorire la schiera dei novatori illuministi, i quali, mossi dal desiderio di diffondere tra il popolo le loro ideologie, non si erano preoccupati di accogliere un linguaggio irto di neologismi e di barbarismi, che nei migliori si era saputo mantenere in termini di saggio equilibrio, negli altri era degenerato in licenza ed in sciatteria. All'anarchia linguistica instaurata da questi ultimi reagisce, nel periodo napoleonico, un numero sempre maggiore di letterati, che propugnavano un'espressione più elaborata, più decorosa e più consona alle patrie tradizioni. Alla concordanza di propositi non corrispose però una uguale concordanza dei mezzi da impiegare per raggiungere lo scopo desiderato.
Il padre ANTONIO CÈSARI (1760-1828), veronese, sostenne che la perfetta lingua italiana si potesse ritrovare soltanto negli scrittori toscani del Trecento, specialmente in quelli che, per il carattere popolare o spontaneo delle loro opere, avevano saputo accogliere la viva parlata contemporanea. Questa tesi fu fatta propria dalla scuola dei cosiddetti « puristi », alla quale aderirono, lungo tutto il secolo, letterati di non oscura fama, come Pietro Giordani e Basilio Puoti, che ebbe come illustre scolaro il De Sanctis: leggendo le pagine dedicate al maestro dal critico napoletano (Giovinezza), non è difficile valutare l'influenza esercitata da questa scuola sulle giovani generazioni, perché il ritorno allo studio degli scrittori trecenteschi da essa promosso equivaleva al monito di un ritorno alle nostre tradizioni storiche e culturali.
Errore di Cèsari però fu quello di ignorare quattro secoli di letteratura italiana, Machiavelli, Ariosto, Guicciardini ed altri illustri scrittori fino a Parini.
Di questo si resero conto Vincenzo Monti e Giulio Perticari, suo genero, che proposero di ampliare il vocabolario dell'Accademia della Crusca, guardando oltre la fiorentinità e il Trecento (Proposta di alcune correzioni e nuove aggiunte al Vocabolario della Crusca).
Di fatto la situazione linguistica italiana, pur avendo raggiunto un'unità, non era ancora prossima alla soluzione: la lingua d'arte era accademica, non rispondente alla lingua viva, quindi cristallizzata. E così resterà fino a Manzoni.
Vincenzo Monti nacque nel alle Alfonsine presso Fusignano: studiò prima nel seminario di Faenza, poi all'Università di. Ferrara. Entrò, diciannovenne appena, in Arcadia, e compose la Visione di Ezechiello una composizione in terza rima che piacque al cardinale legato Scipione Borghese, il quale lo condusse con sé a Roma: era allora papa Pio VI, amante del fasto e protettore delle arti e delle lettere, e gli ambienti culturali erano dominati da un eclettico cosmopolitismo, con accentuata simpatia per la corrente neoclassica.
Quivi il Monti divenne segretario del conte Luigi Braschi, nipote del pontefice, é sposò Teresa Pickler, la bella figlia di un celebre incisore, ma soprattutto esercitò l'ufficio di poeta della corte pontificia e della società galante in mezzo alla quale trascorse, acclamato, il fortunato ventennio del suo soggiorno romano (primo periodo di Monti = periodo romano)
L'avvento della rivoluzione francese, con le conseguenti stragi del Terrore, sconvolsero l'opinione pubblica, ed egli se ne fece interprete componendo la Bassvilliana: nel suo animo, tuttavia, si insinuarono gradualmente i princìpi rivoluzionari, tanto che quando i Francesi giunsero nella capitale, Monti l'abbandonò e si trasferi a Milano (I periodo milanese: periodo repubblicano) dove, per vincere la diffidenza e l'avversione di cui si sentì circondato, rinnegò la Bassvilliana, scrisse tre cantiche nelle quali inneggiava alla libertà ed imprecava contro la tirannide pontificia. Nell'anniversario della decapitazione di Luigi XVI dettò i versi di un inno cantato alla Scala (« Il tiranno è caduto. /Sorgete, genti oppresse: /Natura respira »).
La vittoria degli Austro-Russi ed il conseguente crollo della Cisalpina consigliarono il poeta, compromesso ufficialmente con il regime napoleonico, ad abbandonare Milano ed a rifugiarsi in Savoia, e poi a Parigi, ma la vittoria di Marengo gli riaprì le porte d'Italia. Fu nominato professore di eloquenza nell' Università di Pavia, poi « poeta del governo italiano», e nel 1806 «storiografo del Regno». Numerosi i componimenti da lui realizzati in questi anni, in gran parte inneggianti a Napoleone, garante, a suo giudizio, dell'ordine e della legge, e prosecutore dei più nobili ideali rivoluzionari (libertà, uguaglianza, fraternità).
Il graduale declino delle fortune politiche e militari del Bonaparte attenuò però via via l'ammirazione incondizionata nei suoi confronti: alla caduta dell'Impero ed al ritorno degli Austriaci a Milano, tentò di ingraziarsi ancora una volta i nuovi dominatori (III periodo, filoaustriaco), ma la vecchiaia avanzata, le ristrettezze economiche, il fallimento del matrimonio della figlia Costanza con Giulio Perticari lo condussero all'allontanamento dalla scena politica e ad un isolamento in cui trasse conforto soltanto dagli studi eruditi e linguistici. Portò a compimento la Feroniade, scrisse il Sermone sopra la mitologia, e si spense nell'ottobre del 1828.
La produzione letteraria montiana del soggiorno romano è caratterizzata dall'accoglimento dei vari indirizzi artistici del tempo, con prevalenza di quelli classicheggianti. Ricordiamo solo le opere principali:
Canzonetta di gusto arcadico e (vi sovrasta, su ogni altro, il motivo encomiastico) è la Prosopopea di Pericle, ispirata dal ritrovamento di un busto in cui si credette raffigurato il grande statista ateniese: questi parla in prima persona, e celebra lo splendore della Roma di Pio VI.
Di intonazione prettamente neoclassica, e «momento » isolato della evocazione montiana di miti antichi, è l'ode Al Signor di Montgolfier: il «gran prodigio» dell'ascensione aerea richiama al Monti il ricordo della favolosa impresa di Giasone.
Il soggiorno romano si conchiude con la cantica in morte di Ugo Bassville, uno dei più noti componimenti del Monti e da lui stesso chiamato poi semplicemente la Bassvilliana: prendendo lo spunto dall'uccisione del segretario della legazione francese di Napoli, uccisione avvenuta a Roma il 13 gennaio ad opera di una folla inferocita per la sua propaganda repubblicana, Monti immagina che l'anima di Ugo sia condotta da un angelo in Francia a contemplare, in espiazione delle sue colpe, gli orrori prodotti dalla Rivoluzione, culminati nella decapitazione di Luigi XVI. La cantica, che ha la struttura della «visione » ed è scritta in terzine (imitazione dantesca che gli fece attribuire l'appellativo di « Dante redivivo »), si risolve in una ideologica condanna del regime rivoluzionario francese, e dovette la sua fortuna - un centinaio di edizioni in pochi anni - all'interpretazione del desiderio, comune a molti, di mantenere inalterato un ormai decrepito stato politico di cose di fronte all'incalzare dei nuovi eventi. Le parti migliori di questo poemetto, considerato il « capolavoro della letteratura reazionaria antifrancese » (P. Hazard), sono da ricercare nelle parti descrittive: il commosso addio dell'anima di Ugo al corpo, il villanello che si è visto involare le messi dai soldati e rimane impietrito sulla soglia del misero abituro a contemplare tanta desolazione, lo smarrimento del volto di Ugo di fronte allo spettacolo di morte.
Il periodo repubblicano del soggiorno milanese si apre con il Prometeo, poemetto dedicato a Napoleone e rimasto interrotto, che conferma il mutamento di pensiero operatosi nel Monti e l'istintiva sua inclinazione a trasfigurare in mito la realtà presente.
La realtà era rappresentata dalla progressiva ascesa e dal trionfo dell'astro napoleonico, ed il Monti ne divenne il cantore ufficiale (Bella Italia, amate sponde, La spada di Federico II, Il bardo della selva nera).
Tra le opere principali di questo periodo troviamo:
la Mascheroniana, poemetto celebrativo scritto in terzine ed in forma di «visione » al pari della Bassvilliana: vi si immagina che l'anima del poeta e scienziato Lorenzo Mascheroni, giunta ai Campi Elisi, consoli il Parini, prima, e poi il Beccaria e Pietro Verri, dei mali che affliggono l'Italia annunziando loro che « unNume entro le chiome i le man le pose, e lei dal fango ha tolto » (il Nume, naturalmente, è Napoleone): macchinosa ne è la cornice, retoriche le frequenti invettive contro i corruttori della libertà nella Repubblica Cisalpina; unico elemento interessante è la creazione del mito del Parini, mito che si arricchirà presto di umana e poetica forza nei versi e nella prosa foscoliana.
Nonostante l'abbondanza dei versi celebrativi, era però sempre la poesia classica ad esercitare un profondo influsso sull'animo del Monti: è di questo periodo la traduzione dell'Iliade (1810), che ne può essere considerato il capolavoro. Non occorreva, per tale traduzione, una profonda conoscenza della lingua (è noto il pungente epigramma del Foscolo, nel quale il Monti era additato « traduttor dei traduttor d'Omero»); occorrevano invece la convinzione che nel poema omerico fosse rappresentata la «bella» letteratura dell'antichità (mitologia, immaginazione, eloquenza) e la tempra di un artista che questo impareggiabile mondo di bellezza letteraria sapesse tradurre e rivestire di canora musicalità. Monti neoclassico ebbe l'una e l'altra, con in più alcune punte romantiche (si veda la scena dell'incontro di Ettore con Andromaca), inimmaginabili nell'età di Omero. È questa la ragione precipua per cui «passano gli anni e su tutto il secolare esercizio di traduzione della cultura italiana la sua Iliade sovrasta con una fascinosa presenza monumentale, da cui sapremmo liberarci solo quando nascesse un altro capolavoro » (Muscetta).
La caduta di Napoleone e l'avvento della Restaurazione ci presentano l'ultimo Monti, stanco e sfiduciato, pervaso da un indefinito bisogno di pace e di raccoglimento meditativo. Invano cercò di uscire dall'isolamento politico scrivendo Il mistico omaggio, cantata eseguita alla Scala alla presenza dell'arciduca austriaco, giunto a Milano per ricevere il «giuramento dei sudditi del Regno Lombardo-Veneto; l'Invito a Pallade, altra cantata in omaggio dell'imperatore Francesco I; il Ritorno d'Astrea, azione drammatica volta a celebrare la Restaurazione. Affiora in tutte il declino della vena celebrativa e retorica.
Si dedicò allora agli studi eruditi, dai quali ebbe origine quella Proposta di cui già si è parlato; ricercò un qualche conforto negli affetti familiari, che gli ispirarono le ultime liriche, le quali sono da annoverare, per la immediatezza d'espressione e la sincerità di sentimento, tra le sue cose migliori, in particolare:
la canzone Pel giorno onomastico della mia donna; si rifugiò soprattutto in quel mondo dei miti nel quale solo la sua anima di poeta neoclassico poteva trovare riposo: ad esso dedicò gli ultimi accenti della sua Musa.
La Feroniade, cominciata a Roma per esaltare il risanamento delle Paludi Pontine, continuata a diverse riprese e pubblicata postuma, fornì il punto d'arrivo della sua innata capacità di rifacimento dei modi classici: vi si cantano le vicende di Feronia, ninfa del Lazio amata da Giove, ma perseguitata, per gelosia, da Giunone, la quale ne trasforma il regno, per vendetta, in malsana palude. Il poemetto si chiude con la profezia di Giove a Feronia che un giorno, là dove ora regnano miasmi e miseria, tutto tornerà rigoglioso, ed "è forse il capolavoro del gusto neoclassico, quando s'intenda per gusto neoclassico la tendenza a vedere e rappresentare cose e persone attraverso il velo della mitologia e dei ricordi letterari, e, inversamente, a disciogliere i ricordi e le figurazioni mitologiche in una serie di minuti particolari descrittivi, squisitamente armonizzati nei colori e nei temi" (M. Puppo).
nel Sermone sulla mitologia (1825) il Monti stilò, con cui prende parte alla disputa tra classicisti e romantici (vedi in seguito, Romanticismo) per così dire, il suo testamento letterario ripudiando polemicamente la sostituzione dei miti classici con i miti nordici fatta dai romantici e condannando apertamente la predisposizione di questi per l'orrido ed il leggendario, in questo poemetto, incompiuto nella parte finale (che sarebbe dovuta essere encomiastica nei confronti di Pio VI), operò la migliore e personale difesa del « bel regno ideal », dal quale aveva tratto tanta parte della sua poesia: non a caso il Foscolo l'antepose ad ogni altra opera montiana.
In conclusione, Monti è un poeta che grande successo ottenne in vita ma fu pressoché dimenticato successivamente: egli incarna pienamente il Neoclassicismo, inteso come tendenza di gusto, arte cortigiana, imitazione pedissequa dei classici.
Si tratta dell'ultimo poeta cortigiano, già Alfieri e Parini avevano teorizzato quell'arte libera che diventerà punto fondamentale della poetica di Foscolo, per affermarsi definitivamente con il Romanticismo.
Se la cultura dell'Età Moderna era stata caratterizzata dal mecenatismo, con l'Età contemporanea infatti si affermerà una nuova visione dell'arte e della letteratura, come espressione assolutamente libera
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