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Le prime crociate




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Le prime crociate


Misto di spirito d'avventura e devozione, curiosità e avidità, le crociate non ebbero, come effetto principale, quello "di avvicinare Cristo all'uomo, ma di fondare in oriente l'impero commerciale di Venezia": così conclude questo suo scritto lo storico inglese Herbert Fisher (Londra 1865-1940). In effetti le crociate, di volta in volta glorificate e vituperate, furono un fenomeno molto complesso, e delle loro molteplici conseguenze si ha traccia, in qualche misura, anche negli avvenimenti contemporanei.


Verso la fine del decimo secolo un gruppo di predoni turchi, sotto la guida dei figli di un certo Selgiuc, partivano dalle steppe del Turkestan, armati di brevi archi e di curve scimitarre, a cercar fortuna con la guerra e la rapina. Abbracciando la religione islamica con ardore di neofiti e prosperando in tutte le loro imprese, i selgiucidi divennero ben presto una tribù e poi un popolo. La loro ascesa al potere fu così rapida che nel 1055 il loro capo, Togrul Beg, dopo aver conquistato il Khorassan e la Persia, era proclamato sultano di Bagdad e insignito dall'esausto califfo abassida di tutti i titoli e onori che, nel mondo mussulmano, accompagnano la supremazia secolare. La serie delle vittorie turche, così brillantemente iniziata da Togrul, continuò col suo successore Alp Arslan. La Siria e Gerusalemme vennero strappate ai deboli califfi Fatimiti d'Egitto, dopo di che gli invasori si precipitarono sull'ultima potenza temibile che ancor rimanesse nell'Asia e la sopraffecero con una clamorosa vittoria. Sul campo di Manzicerta (1071), a nord del lago Van, nell'Armenia, il fiore dell'esercito bizantino fu falciato dagli arcieri a cavallo di Alp Arslan, l'imperatore romano Diogene venne fatto prigioniero e tutta l'Asia Minore giacque prostrata dinanzi a un nemico spietato.


Molte sconfitte già avevan subito i bizantini dai barbari nemici, ma nessuna grave quanto quella di Manzicerta, poiché base della forza dell'impero era il dominio su quelle provincie asiatiche che una sola battaglia aveva ora posto nelle mani degl'infedeli. Le provincie dell'Anatolia e dell'Asia Minore avevan fornito all'imperatore i soldati più forti e i generali più brillanti, le coste asiatiche gli elementi migliori della sua marina da guerra. Impossibile trovare altrove uno spirito d'avventura vivo come quello che regnava sulle frontiere dei temi asiatici, o una tradizione di servizio imperiale più orgogliosa di quella dei grandi baroni dell'Asia Minore che col loro seguito bene armato e le loro grandi forze eran stati, quando non eran coinvolti in qualche ribellione, un potente elemento della difesa imperiale. Tutte queste sorgenti di forza eran state ora sbrigativamente soppresse dai sultani del Rum, che, stabilendosi a Nicea e poi a Iconium, coprirono di desolazione le più belle provincie dell'impero greco. A questo colpo tremendo Bisanzio non reagì immediatamente. Alla battaglia di Manzicerta, preceduta dalla lotta civile e da imprevidenti riduzioni militari, seguì un decennio di paralisi politica. Poi, nel 1081, una opportuna rivoluzione portò sul trono bizantino un uomo adatto, per le sue qualità, a salvare una situazione quasi disperata. Alessio Comneno, appartenente a una grande famiglia guerriera dell'Asia Minore, era intelligente oltreché colto e coraggioso. Il gusto della disquisizione teologica si univa in lui allo zelo del riformatore pedagogico, all'energia del generale e all'astuzia del diplomatico. Trovando lo stato in piena disorganizzazione, minacciato da un'invasione normanna a occidente e da rovinose incursioni di tribù barbariche a nord, questo giovane sovrano di carattere temperante e di grandi vedute portò ai difficili problemi esteri e interni che gli s'imponevano l'abilità necessaria a risolverli. Soltanto quando questi ostacoli preliminari furono superati, l'esercito e la flotta in parte ricostruiti, Roberto il Guiscardo espulso, con abili manovre, dalla Dalmazia e le orde dei nomadi ricacciate oltre il Danubio, Alessio poté volgere la propria attenzione alla grave minaccia rappresentata dai selgiucidi. Decise allora di chiamare l'occidente latino in aiuto dell'impero cristiano e delle pericolanti chiese d'oriente. Gerusalemme, Antiochia, Edessa erano già nelle mani degl'infedeli: un passo ancora e i nemici sarebbero a Costantinopoli. La lettera scritta in questo frangente al papa Urbano II provocò la prima crociata.


Ventun anni prima, il papa Gregorio VII, ugualmente pregato d'intervenire da un imperatore, d'oriente, aveva concepito l'impresa con l'energia e la passione che lo caratterizzavano. L'idea delle crociate non nacque dunque a Bisanzio, ma a Roma. Scopo di Alessio era ottenere soldati dall'occidente per la riconquista dei domini asiatici dell'impero bizantino. Principale interesse di Urbano II, tema del grande discorso da lui pronunciato al concilio di Clermont (1095), motivo dominante delle molte orazioni che rivolse poi ai vivaci compatrioti francesi, era invece la riconquista di Gerusalemme e dei luoghi santi. I due scopi non erano incompatibili, ma, poiché ciascuno di essi poteva essere perseguito separatamente, si manifestò sin dal principio il pericolo che la conquista dei luoghi santi, affascinando potentemente l'immaginazione dei cavalieri franchi, facesse dimenticar la difesa dell'impero bizantino.


Il pericolo era tanto più grave in quanto, diciotto anni prima di Manzicerta, la chiesa d'oriente e quella d'occidente avevano troncato i loro rapporti ufficiali. È caratteristico delle grandi contese storiche che le più profonde cause di discordia non sian mai quelle più apertamente manifeste. La scissione tra la chiesa greca e la romana era ostensibilmente teologica. Mentre entrambe le chiese accettavano i fondamenti della fede cristiana affermati dai concili ecumenici, i greci accusavano i latini di aggiungere al Credo parole che definivano lo Spirito Santo come procedente sia dal Padre sia dal Figlio, di usare pane azzimo, di digiunare al sabato, e di costringere i loro sacerdoti a radersi la barba. Ma oltre a queste cause di dissenso, già di per se stesse fomentatrici di discussioni interminabili, altre cause radicate nell'ambizione politica ed ecclesiastica, e anche in circostanze di temperamento e carattere nazionale, tendevano a esacerbare il dissidio e a frustrare i ben trenta diversi sforzi fatti per comporlo. Al disprezzo dei latini - antico quanto Giovenale, e sopravvissuto alla conquista barbarica dell'occidente -, i greci rispondevano col disdegno del virtuoso verso il filisteo, del legittimista verso il parvenu. I bizantini si consideravano eredi non soltanto dell'antica Ellade, ma anche di Roma imperiale. Franchi, normanni, germani apparivan loro forze barbariche e l'impero occidentale di Carlomagno un'impertinente usurpazione che i papi di Roma avevano inopportunamente sostenuta con la loro autorità. Non che negassero un certo primato alla sede di san Pietro: i legati romani eran ricevuti a Costantinopoli, e il giudizio della curia romana invocato di quando in quando; ma nessun patriarca di Costantinopoli ammetteva minimamente la pretesa di Roma all'obbedienza e all'esercizio di una giurisdizione disciplinare sulla chiesa. E ben si comprende. Il nono e il decimo secolo che videro la decadenza del papato romano furono invece un periodo di splendore negli annali della chiesa greca. Due missionari greci, Cirillo e Metodio, tradussero le scritture in lingua slava giovandosi dei caratteri glagolitici, la chiesa greca si organizzò in Russia e i bulgari si liberarono dall'invadente rituale latino. Per centocinquant'anni i patriarchi di Costantinopoli si giovarono delle brillanti conquiste degl'imperatori macedoni. Sacerdoti e monaci greci seguirono la marcia vittoriosa degli eserciti greci nella Puglia, nella Cilicia, negli altipiani armeni, sino al Danubio e, anche quando la dinastia macedone ebbe termine, e seguì un periodo di confusione e di disastri politici, l'orgoglioso spirito dell'impero sopravvisse ancora nei patriarchi di Costantinopoli. Contro Leone IX, che esprimeva lo spirito autocratico del risorto papato d'occidente, il patriarca Michele Cerulario riaffermò (1054) l'autonomia della sua chiesa e l'abominio in cui questa teneva le corrotte pratiche romane.


Il mondo latino considerava dunque Bisanzio sotto un doppio aspetto: se in un certo senso era una potenza cristiana minacciata da nemici infedeli e meritava perciò l'aiuto dei cristiani, appariva, d'altra parte, colpevole d'eresia, provocatrice in contumacia di Roma e nemica di tutte le imprese missionarie romane nell'Europa sud-orientale. Che lo scisma tra le due chiese fosse un guaio cui si doveva por termine, il clero greco e latino riconoscevano di buon grado, ma non avrebbero sacrificato per sanarlo né il più piccolo pregiudizio né un sol briciolo di orgoglio. Secondo i latini, due eran le vie per giungere all'unità teologica: la via dell'accordo, difficile, ma non impossibile sotto la pressione delle circostanze politiche; e la via della conquista. Specialmente i normanni dapprincipio pensavano che il metodo più rapido ed efficace di trattar coi greci fosse detronizzare l'imperatore, prendere Costantinopoli, e sottoporre con la forza l'impero greco al dominio latino. Fu questa la teoria di Roberto il Guiscardo, di suo figlio Boemondo, dei suoi congiunti Ruggero II e Guglielmo II di Sicilia, in breve di tutta questa razza di predoni nordici che, cacciati i greci dall'Italia meridionale, nulla temevano quanto una guerra di rappresaglia. Tale dottrina raccolse adesioni e reclute in molti luoghi, tra i mercanti di Venezia, che vedevano nell'impero greco occasioni incomparabili di commercio e di saccheggio, tra gli appassionati teologi latini come san Bernardo, tra gli statisti monaci come Suger. In certe occasioni (come ad esempio nel 1108 e nel 1281) il papa stesso parve disposto ad appoggiare la distruzione dell'impero cristiano di oriente.


Incalcolabili furono gli effetti disastrosi di questa profonda scissione tra le due metà del mondo cristiano. Non altrimenti si spiega il fallimento del tentativo dei crociati per riprendere ai mussulmani l'Asia anteriore. A quest'animosità inveterata, in cui il sentimento di razza e il sentimento religioso erano esasperati dall'ambizione politica e dall'avidità economica, si deve l'atto più disonorevole di tutta la storia medievale, e cioè la diversione della quarta crociata alla conquista di Costantinopoli e la mutilazione e il saccheggio del più ricco e civile stato europeo. Nel 1261, dopo circa cinquant'anni di dominio latino, i greci ritornarono a Costantinopoli. Se poco amavano i latini prima della conquista della loro capitale, è facile immaginare con quale furore considerassero ora gli autori della loro cocente umiliazione. Invano pietà e prudenza consigliavano l'unione delle forze cristiane contro la minacciosa avanzata dei turchi ottomani. Le proposte di alti dignitari nei concilii ecclesiastici, come a Lione nel 1274 e a Ferrara e Firenze nel 1438, furori violentemente respinte dai monaci e dal clero di Costantinopoli. Grandi vittorie riportate dai latini su un nemico comune avrebbero forse soffocato il secolare malinteso; ma era disposto altrimenti, e l'abisso scavato nel 1054 dalle


pretese rivali del papa e del patriarca rimase aperto sino alla fine. La scissione del mondo cristiano permise ai turchi di stabilirsi sul suolo europeo, di portar le armi sino al Danubio, di conquistare la Grecia e le sue isole e finalmente, nel maggio del 1453, d'impadronirsi della meta suprema delle loro ambizioni politiche, la stessa invincibile città di Costantinopoli, in cui oggi ancora regnano, a causa di queste stesse rivalità.


Ma quando, con tumultuosa esaltazione, si bandì la crociata, queste ombre non offuscavano la luce dell'eroico entusiasmo. Fu uno di quei rari momenti della storia in cui il sentimento di fratellanza cristiana fu più forte delle gelosie e degli odi da cui la chiesa di Cristo è così facilmente dilaniata. Nella brillante prospettiva dell'azione comune e del comune sacrificio a una causa considerata grande e sacra, si dimenticarono i vecchi rancori e si scacciarono i meschini sospetti. Che tale commossa esaltazione inspirasse i cavalieri dell'Europa occidentale che brandiron la croce in risposta all'appello del papa, è provato dai fatti e, comunque, profondamente verosimile. L'Europa, da tanto tempo esposta agli attacchi barbarici, poteva finalmente portar guerra nel campo nemico. I saraceni eran stati cacciati dalla Sicilia e da Creta; le flotte di Venezia, Genova e Pisa dominavano il Mediterraneo; la conversione degli ungheresi al cristianesimo e l'unione della Bulgaria allo stato bizantino avevano aperto la via di terra verso Costantinopoli. In Spagna i cristiani conquistavan Toledo, i normanni di Sicilia assalivano i saraceni d'Africa. E mentre il greve impeto dei germani respingeva verso oriente gli adoratori di Triglav e Svantovit, la Scandinavia, per tanto tempo incubo del continente, ma ormai svuotata dei suoi figli indomabili, si era ritirata nelle acque morte della storia, dove rimase inattiva finché Gustavo Adolfo non offrì alla causa protestante nella Germania la gloria della sua spada e del suo nome (1630-2).


Né si deve dimenticare che nella Francia, massima animatrice delle crociate, la chiesa era già riuscita a instillare nella casta militare alcunché del suo spirito e delle sue aspirazioni. L'istituzione della cavalleria, qual s'era venuta sviluppando alla fine dell'undicesimo secolo, ebbe il grande merito di accentuare le responsabilità che vanno unite al possesso della forza. Il giovane cavaliere era iniziato al suo stato con tutta la solennità dettata dalla pia immaginazione dell'epoca. Doveva sottoporsi a un bagno rituale, passar la notte in solitaria preghiera, confessare i suoi peccati e ricevere i sacramenti. I suoi doveri di cavaliere gli eran ripetuti in un sermone: doveva proteggere la chiesa, le vedove e gli orfani, i diseredati e gli oppressi. Pur non avendone il nome, era già di fatto un crociato.


La prima impresa militare dell'Europa unita si distinse per mancanza d'organizzazione. I crociati che, in un folle impeto d'entusiasmo, lasciarono la patria per l'oriente, ignoravano completamente ciò che meglio avrebbero dovuto conoscere: e cioè la configurazione geografica, il clima e la popolazione dei paesi attraverso i quali si proponevano di viaggiare. Privi di qualsiasi organizzazione amministrativa e seguiti da ingombranti folle di non combattenti, trascuravano ogni misura igienica e sdegnavano ogni disciplina. Queste grandi masse di entusiasti, reclutate nella Francia nord-orientale, nella Lorena e nella Germania, si precipitarono senza guida verso Costantinopoli, attirandosi con la loro impetuosa violenza un castigo terribile. Già decimati al passaggio per la Baviera e l'Ungheria, furono annientati dai selgiucidi non appena ebbero posto piede sulla costa asiatica.


Il complesso di forze del feudalismo occidentale, partito per Costantinopoli, seguendo quattro strade diverse, nell'agosto del 1096, presentava, sebbene in grado minore, le stesse deficienze.


Nessuna unità di comando; completa ignoranza geografica. Gli eserciti erano appesantiti da lunghi seguiti di non combattenti, e indeboliti da ribellioni e rapine. Esisteva tuttavia un nucleo di soldati esperti, fanti e cavalieri, sotto la guida di capitani abili e autorevoli come Goffredo di Buglione e suo fratello Baldovino, a capo dei lorenesi; Boemondo, figlio del Guiscardo, capitano dei normanni di Puglia, col brillante cugino Tancredi; e Raimondo di Tolosa, coi suoi provenzali, equipaggiati in modo perfetto. Si deve a questa circostanza il fatto sorprendente che la prima crociata riuscisse a raggiungere i suoi scopi, che i quattro eserciti, pur con perdite rilevanti, s'incontrassero veramente dinanzi a Costantinopoli, che, mandati oltre il Bosforo, potessero, con l'aiuto dei greci, conquistare la capitale mussulmana di Nicea e restituire all'impero greco non soltanto la costa, ma gran parte dell'interno dell'Asia minore; e che infine sebbene il nemico li molestasse, compissero con le loro giubbe di cuoio e le pesanti armature a maglia la lunga marcia arida e affocata da Iconio fino ad Antiochia, che assediassero e prendessero quella celebre città così saldamente fortificata e respingessero un tentativo formidabile di riconquista da parte del nemico, e che tali successi culminassero finalmente nella presa di Gerusalemme. In nessuna crociata vittoriosa si compirono mai imprese così memorabili. Gli eserciti di Goffredo e Boemondo fondarono i principati latini d'oriente che, sebbene estinti ormai da più di 650 anni, son richiamati alla memoria del lettore dal genio di Tasso e Walter Scott e ai viaggiatori dalle superbe rovine di molte fortezze gigantesche, ergentisi orgogliose e solitarie tra i rosei colli di Palestina.


Questi colpi successivi, inferti dai cavalieri franchi agli emiri mussulmani, permisero all'impero bizantino di sopravvivere per un periodo di trecento anni. Ma è raro che gli alleati uniti in una coalizione guerresca, quand'anche la guerra sia vittoriosa, siano inspirati, alla conclusione delle loro operazioni, da sentimenti di reciproca gratitudine per l'aiuto ricevuto o di soddisfazione per i risultati raggiunti. I latini dovevano molto ad Alessio. Senza l'aiuto dei convogli, delle provviste e della guida greca non avrebbero mai potuto compiere il difficile tragitto dai Balcani alla Siria. Ugualmente grande, se non maggiore, era il debito di Alessio verso l'esercito occidentale, che aveva cacciato i turchi da una capitale (Nicea) vicinissima a Costantinopoli e restituito al suo impero molte fiorenti provincie, dissipando così l'ossessionante terrore di una conquista della Tracia europea da parte dei selgiucidi. Ciononostante né l'uno né gli altri furono reciprocamente soddisfatti. I latini lamentavano che l'imperatore greco avesse approfittato del suo vantaggio, come reggitore di un governo facoltoso ed esperto, per esigere dai loro capi un giuramento di fedeltà. Lo accusavano di non aver dato loro l'aiuto militare pattuito e con qualche ragione affermavano che, se non fossero giunte in tempo per mare le provviste inviate dall'Europa, il loro esercito vittorioso sarebbe morto vergognosamente di fame dinanzi alle mura di Antiochia. Attribuivan tutte le vittorie al proprio valore, tutti i rovesci o i calcoli sbagliati alla perfidia dei greci. Era convinzione popolare, ampiamente diffusa in occidente e rafforzata da ogni successivo disastro degli eserciti crociati, che i greci, inspirati dalla paura e dall'odio che nutrivano per i latini, avessero deliberatamente cercato di render più che mai difficile e pericoloso il loro viaggio per terra. Ma anche Alessio da parte sua aveva buone ragioni di diffidenza e scontento. Appena salito al trono aveva volto le armi contro i normanni pugliesi che, occupata Durazzo, apertamente aspiravano a cacciarlo dal trono; ed era assai improbabile che il cuore di Boemondo, il fiero capo dei normanni, fosse veramente mutato. Dalla sua condotta, come da quella di molti suoi alleati si poteva arguire ch'essi pensavano assai più a conquistar principati per conto proprio che non territori all'impero. Era naturale perciò che Alessio cercasse di assicurarsi, per quanto sicuri si possa essere di giuramento o trattati, che i territori un tempo appartenenti all'impero greco e poi riconquistati dai crociati tornassero all'antico padrone. Si giurò con riluttanza, con riluttanza si firmò il trattato (poiché un trattato, a quanto pare vi fu veramente). Ma giuramenti e trattati furono ugualmente dimenticati quando Boemondo prese Antiochia per sé e Goffredo di Lorena fu insediato dai suoi seguaci a Gerusalemme come primo re dei latini. Per conservar questi stati latini non potevan certo contare sull'appoggio dei greci.


L'audace esperimento dei crociati che fondarono stati cristiani sotto il cielo di Siria, benché favorito in quel momento dalle discordie degli emiri mussulmani, sarebbe tuttavia immediatamente fallito, senza una circostanza favorevole. Le grandi repubbliche italiane avevano forte interesse all'estensione del loro commercio in Oriente. Flotte veneziane, genovesi e pisane collaborarono all'assedio delle città costiere della Siria contribuendo a provocarne la resa. E tuttavia la posizione degli stati cristiani era precaria. Gl'interessi degli italiani non andavano più in là dei porti della Siria, i pellegrini d'oltremare non si preoccupavano che di avere libero e sicuro accesso ai luoghi santi. Non s'intendeva probabilmente quanto fosse vitale strappare ai mussulmani l'intera Siria fino alle sue frontiere naturali e, dato l'esiguo numero di uomini su cui potevano contare i prìncipi franchi, tale conquista non poteva compiersi senza continui rinforzi dall'Europa. Ma i rinforzi non vennero. Per mancanza di uomini, i gagliardi re di Gerusalemme furono costretti a lasciar la frontiera orientale in mani nemiche, rimanendo così esposti a continui attacchi su quel fronte indifeso e impossibile a difendersi.


I cavalieri erranti che fondarono il regno di Gerusalemme, il principato di Antiochia e le contee minori di Edessa e Tripoli, organizzarono i nuovi stati secondo un sistema di feudalismo militare simile a quello francese, reso anche più rigido per ragioni particolari di vigilanza guerresca. Le Assise di Gerusalemme, raccolta di costumanze compilata da Giovanni di Ibelin, giureconsulto cipriota del tredicesimo secolo, descrivono una società dedita, come l'antica Sparta, quasi esclusivamente alla guerra. In nessun altro documento del medioevo troviamo una teoria della società feudale elaborata con tanta precisione, né i doveri del servizio militare così rigorosamente definiti. Ma a fondamento delle istituzioni sta lo spirito di coloro che le esercitano. Sotto il fascino del clima orientale, la rigidezza dei colonizzatori latini si venne insensibilmente rilassando. Ben presto le donne, i cibi, le forme di vita della Siria conquistarono i rozzi avventurieri d'occidente, mitigando il loro fanatismo. Nella Siria essi trovarono una società nuova per loro, in un certo senso sconcertante (poiché le donne mussulmane andavano velate), ma sotto molti aspetti più raffinata ed elevata della propria. Tra i capitani franchi e arabi si strinsero legami d'amicizia: e lo spettacolo del valore e della cortesia pagana attenuò la fiera intolleranza religiosa dei cristiani. Neanche gli ordini, tra militari e monastici, dei cavalieri ospitalieri e templari, espressamente creati per la protezione della terra santa, sfuggirono all'insidiosa seduzione dell'oriente. La curiosa autobiografia di Ousama, principe arabo, sul cui ambiente influirono fortemente i templari, dimostra quanto fosse profondo l'abisso che, verso la metà del dodicesimo secolo, divideva la raffinata e cinica tolleranza del residente stabile dal grezzo entusiasmo del pellegrino appena giunto dall'occidente.


Finché gli stati franchi furono circondati da una catena di piccoli emiri mussulmani indipendenti l'uno dall'altro poterono mantenersi in vita, malgrado le loro esili risorse di uomini e di denaro. Ma tale vantaggio non era stabile. Tre abili capi mussulmani alterarono successivamente, nel corso di mezzo secolo, l'equilibrio delle forze nel vicino oriente. Zanghi di Mosul conquistò Aleppo ed Edessa. Suo figlio Nureddin s'impadronì prima di Damasco e poi dell'Egitto, e finalmente, alla morte di Nureddin nel 1173, il curdo Saladino riuscì lentamente, con le sue facili e brillanti doti di capo, a sottomettere tutto l'oriente tra il Tigri e il Nilo.


La caduta di Edessa, nel 1144, primo passo in una rapida serie d'incombenti pericoli, produsse in Europa un'agitazione immensa. All'immaginazione del mondo cristiano Edessa appariva poco meno sacra della stessa Gerusalemme. Che questa culla dell'antico cristianesimo, primo stato latino creato dalle crociate e baluardo estremo della posizione latina nella Siria, fosse caduta nelle mani degl'infedeli, era cosa terribile in se stessa e anche più terribile come sintomo. In un'atmosfera di esaltazione diffusa, a cui contribuì grandemente l'infiammata eloquenza di san Bernardo, Corrado III di Germania e Luigi VII di Francia presero la croce e condussero i rispettivi eserciti, con un ingombrante seguito di non combattenti, in oriente per via di terra. Un modesto rinforzo di abili cavalieri, inviati oltre mare con le galere veneziane, sarebbe stato assai più efficace di questi eserciti imponenti guidati dai due principali sovrani d'occidente.


L'esercito tedesco, salvo una piccolissima parte, perì nell'Asia minore prima di giungere a destinazione. Dei francesi che imprudentemente proseguirono per la lunga e difficile strada costiera e furono gravemente battuti dai Turchi nella Frigia meridionale, soltanto i cavalieri, venuti per mare da Attalia, raggiunsero il luogo dell'azione. La seconda crociata fu un fallimento completo, in cui si assisté all'inutile sacrificio di due vigorosi eserciti e all'assedio di Damasco, intrapreso di malavoglia e interrotto dopo pochi giorni da Baldovino II di Gerusalemme, con grave delusione dei prìncipi d'occidente e infinito pregiudizio della causa cristiana.


Fallito clamorosamente l'occidente nei suoi sforzi per salvare la situazione in oriente, era naturale che, col tempo, il re di Gerusalemme chiedesse aiuto a Costantinopoli. Volendo, i greci avrebbero potuto col loro denaro, la loro flotta e il loro esercito assai migliorato, provvedere il supplemento di forze necessario a frenare la nascente potenza di Nureddin (1143-80). Ma Manuel, successore di Alessio, non desiderava affatto rassodare la posizione del regno latino di Gerusalemme. Pur di riconquistare Antiochia, fine principale della sua politica sudorientale, non gli dispiaceva affatto che il re di Gerusalemme, cui aveva dato in moglie una nipote, fosse tenuto quieto dal suo vicino arabo.

I latini residenti in oriente non furono forse mai così profondamente delusi come quando, nell'estate del 1159, questo pomposo e ambizioso imperatore greco fece passare un grande esercito attraverso la Siria, senza la più piccola scaramuccia col nemico. Che Manuel preferisse trattar con Nureddin piuttosto che combatterlo si spiega forse col fatto che Antiochia si era ormai sottomessa al suo dominio.


Ma l'alleanza bizantina era troppo preziosa perché si potesse respingerla con leggerezza. Amaury, successo nel 1163 al trono di Gerusalemme, anziché concentrare i suoi sforzi sulla conquista di Aleppo e Damasco, concepì l'ambiziosa idea di conquistare l'Egitto, e in una delle sue quattro spedizioni ebbe l'aiuto di una flotta imperiale. Il fallito assedio di Damietta nel 1169 rimase memorabile per due ragioni: come ultima impresa comune di greci e latini nelle crociate, e come primo trionfo del Saladino, nuovo visir dell'Egitto.


Nella battaglia di Hittin (1187), decisiva per il destino del breve regno franco di Gerusalemme, non si versò sangue greco. L'impero greco, a cui la dinastia dei Comneni aveva dato un secolo di prestigio, era di nuovo in piena decadenza: sconfitto il suo esercito principale, con gravi perdite, dal sultano di Iconio (1174); tesi sino alla rottura i suoi rapporti con Venezia. Per di più, nutrendo fieri sospetti contro Maria di Antiochia, vedova di Manuele e imperatrice reggente, si era abbassato a bandire un pogrom contro la colonia francese e italiana di Costantinopoli; e quando passò sulla Siria la travolgente ventata dei bellicoso Saladino, si trovò esposto a un mortale attacco dei normanni, tuttora fedeli alla loro tesi primitiva che, cioè, soltanto una potenza latina con centro a Costantinopoli potesse dominare una volta per sempre il mondo mussulmano. Nessun greco dunque sul campo di Hittin. Soltanto 1300 cavalieri franchi e circa 15.000 fanti s'opposero al grande esercito di cavalleggeri del Saladino. A nulla valse, contro l'eccedenza del numero, il più luminoso coraggio. I latini furono annientati, la santa croce catturata e il santo sepolcro, sogno di secoli e prima grande conquista del cristianesimo unito, cadde di nuovo nelle mani dei pagani (1187), ove rimase per 731 anni.


Alla notizia di tal tremendo disastro una nuova crociata venne organizzata, non più dal papa, questa volta, ma dai tre principali sovrani d'occidente: Federico Barbarossa di Germania, Filippo Augusto di Francia e Riccardo Cuor di Leone d'Inghilterra. Ma questi preparativi regali, elaborati colla progredita conoscenza e tecnica di un secolo di lotta con l'oriente, non ebbero altro risultato che la presa di Acri e un armistizio col Saladino che concedeva ai pellegrini cristiani libero accesso al santo sepolcro di Gerusalemme: vergognosa conclusione a un ambizioso preludio e rovinoso commento all'incapacità dell'ideale cristiano a fondere le energie del cristianesimo d'occidente dirigendole a un fine comune. È vero che la terza crociata fu danneggiata gravemente dalla morte del Barbarossa, annegato in un fiume della Cilicia. Se il grande capitano tedesco, primo soldato d'occidente, che aveva guidato il suo esercito attraverso l'Asia minore con abilità notevole e assoluta mancanza di perdite, in felice contrasto con quel ch'era accaduto agli eserciti precedenti, fosse riuscito a incrociar la spada col Saladino, forse il risultato sarebbe stato diverso. Invece la crociata rivelò soltanto le gelosie nazionali tra Francia e Inghilterra, l'animosità tra Genova e Pisa, e gl'intrighi e controintrighi di Corrado di Monferrato e Guido di Lusignano, pretendenti rivali al fantastico trono di Gerusalemme. Su questo fondo oscuro di dispetti rovinosi e meschini, il valor militare e la generosa natura di Riccardo Cuor di Leone splendono di inutile gloria.


Di tutte le conquiste della prima crociata rimase ai cristiani soltanto una linea di porti della Siria, tra cui Acri era il principale, e che i forti interessi materiali del commercio italiano bastarono a conservare per un secolo. Quando Marco Polo partì per il suo famoso viaggio verso la Cina, il marinaio italiano, costeggiando la Palestina, poté vedere ancora la bandiera crociata sventolar sulla cittadella del suo porto predestinato e udire, attraverso le acque, il familiare saluto delle campane cristiane.


Se i crociati avessero conosciuto e assorbito il meglio della civiltà asiatica, la poesia persiana di Omar Khayyam, il più alto genio dell'undicesimo secolo, sarebbe entrata a far parte del patrimonio intellettuale europeo molto prima di Edward Fitzgerald. Ma i crociati non penetrarono mai fino ai popoli migliori e più colti dell'oriente: non conobbero affatto i persiani, i cinesi, gli indiani. Non ebbero rapporti che coi figli delle steppe e dei deserti, coi turchi o i saraceni, e coi popoli del levante infiacchiti dal governo turco o saraceno. E tuttavia, le crociate arricchirono enormemente l'esperienza e il benessere materiale dell'occidente. Arti e mestieri orientali, ricchi, complicati e costosi, terre e paesi nuovi divennero familiari a una società limitata e imbarbarita da una lunga serie di calamità pubbliche e appena risorgente dal dominio dell'anarchia e della paura. La nuova ricchezza dell'oriente, affluendo nelle città italiane e di là distribuendosi nell'Europa settentrionale, diede nuova forza e importanza alla vita cittadina. Né mancarono notevoli vantaggi spirituali, quali il senso dell'unità religiosa del mondo cristiano mai più scomparso completamente dopo d'allora, il ravvivarsi del motivo romantico nella letteratura in volgare, qualche po' di medicina, chimica e contabilità arabe, e un concetto del mondo non cristiano più ampio ed esatto di quello sino allora dominante. La scienza geografica ebbe un incremento notevole, vuoi come risultato diretto delle crociate, vuoi indirettamente per via dei viaggi missionari in oriente cui le crociate diedero inizio. Anche il compito dei governi fu facilitato dal volgersi di molti spiriti turbolenti a questa impresa remota. E la religione cristiana? Bisogna riconoscere che effetto principale di questo vasto movimento contesto di spirito d'avventura e devozione, curiosità e avidità, non fu di avvicinare Cristo all'uomo, ma di fondare in oriente l'impero commerciale di Venezia.


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