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Le interpretazioni del fascismo
All'interno della vastissima letteratura sul fascismo, facendo riferimento alla «tipologia» delle interpretazioni proposta da De Felice - indubbiamente lo storico che più si è impegnato nello studio del fenomeno nel dopoguerra - possiamo individuare tre tesi fondamentali: quella di matrice liberale e crociana, che considera il fascismo come malattia morale, alla quale spesso, ma non sempre, si associa il concetto di fascismo come parentesi; quella di matrice democratico - radicale, che definisce il fascismo come prodotto logico ed inevitabile dello sviluppo storico di alcuni paesi; quella di tradizione marxista, che considera il fascismo come prodotto della società capitalistica e della reazione antiproletaria.
Queste tre tesi delineano il quadro interpretativo del paradigma storiografico antifascista: la rappresentazione del fascismo come reazione si accompagna costantemente alla denuncia della sua inconsistenza ideologica, dei suoi caratteri classisti, della sua antimodernità. Pur combinando opzioni ideali e chiavi di lettura assai differenziate, la costruzione del paradigma trova il suo punto di sintesi nel convincimento comune a tutte e tre le interpretazioni che il fascismo, proprio in virtù delle sue specifiche carenze, non poteva essere iscritto nel novero dei fenomeni sociali e politici prodotti dalle dinamiche della società novecentesca, ma apparteneva a quello assai più modesto, ancorché tragico, delle aberrazioni e dei lugubri strumenti creati da consolidati potentati per arrestare l'avanzata del progresso.
L'interpretazione del fascismo come malattia morale fu espressamente formulata in Italia da B. Croce piuttosto tardi, nel novembre del 1943, in un articolo sul New York Times e poi ripresa dallo stesso autore nel discorso tenuto nel gennaio del 1944 a Bari al I Congresso dei Comitati di Liberazione Nazionale e in un'intervista del marzo del 1947. Bisogna però sottolineare che l'atteggiamento antifascista del filosofo si delineò sin dal 1925, anno di pubblicazione del Manifesto degli intellettuali antifascisti. La tesi crociana - che è del resto connessa con il carattere peculiare della sua filosofia, inevitabilmente ottimistica e «giustificatrice» della realtà - ebbe nell'immediato dopoguerra grande fortuna non solo in Italia, ma anche in Germania, dove fu ripresa fra l'altro da Meinecke nel testo La catastrofe della Germania
Secondo Croce il «fascismo non fu escogitato né voluto da alcuna singola classe sociale, né da una singola di queste sostenuto»: esso fu piuttosto «uno smarrimento di coscienza, una depressione civile e una ubriacatura prodotta dalla guerra»; inoltre, «come tendenza, conato, aspirazione, aspettazione», fu un fenomeno non esclusivamente italiano, ma investì gran parte d'Europa. Il fascismo era considerato dunque una parentesi nel cammino 'indefessamente' progressivo di quell'Italia liberale che aveva trovato il suo momento più alto nel compromesso giolittiano, considerato da Croce un autentico capolavoro politico.
Tale analisi fu per molti aspetti all'origine di una tradizione storiografica feconda che diede in Italia frutti rilevanti, come la pubblicazione da parte di F. Chabod di alcuni saggi interpretativi sul fenomeno fascista: in essi però, dalla formula crociana il cui valore è da individuarsi soprattutto nella reazione morale che seppe suscitare negli intellettuali vicini al filosofo, si passa ad una analisi storica più attenta.
«Che il fascismo sia stato una semplice "avventura", inserita d'improvviso nella storia d'Italia, quasi dall'esterno, nessuno potrebbe più sostenere; che in esso siano apparsi in piena luce motivi e atteggiamenti di vita italiana già latenti da tempo, a cominciare dallo spirito nazionalistico che non fu puramente imitazione di cose straniere.mi sembra non più discutibile..Soltanto - e questo è invece il punto in cui Croce ha pienamente ragione - questi germi non traevano affatto di necessità al fascismo.Ora nelle origini del fascismo, e vale a dire nella crisi del ceto dirigente italiano fra il 1919 e il 1922, certe disposizioni, atteggiamenti che nel periodo 1870-1914 erano stati presenti sì, ma in posizione di secondo piano, divengono elementi di peso decisivo; ma questo.per le colpe e gli errori degli uomini di allora e non di quelli del 1860 e del 1880. Colpe ed errori che risalgono innanzitutto alla classe di governo liberale del 1919, erede del Risorgimento; ma.in non minor misura anche a quei gruppi politici, socialisti e cattolici, che, comunque, non si ricollegavano, sicuramente all'esperienza risorgimentale e postunitaria e che in un certo senso rappresentavano e volevano rappresentare l'antirisorgimento».
L. Salvatorelli e G. Mira aprirono la stagione dello studio analitico del fenomeno fascista. La loro Storia d'ltalia nel periodo fascista, pubblicata nel 1952, superando la fase delle «interpretazioni - caratterizzazioni» (De Felice), mostra notevoli punti di contatto con un'altra tradizione storiografica: quella democratico-radicale che ora esamineremo. «Il fascismo fu movimento impregnato di violenza pura e volontà d'imposizione.Nelle campagne e nei centri rurali formanti il tessuto connettivo economico-sociale di quelle regioni (Emilia e più genericamente Valle Padana), l'affiatamento fra proprietari e polizia (a cominciare dai carabinieri) era un dato permanente, un fenomeno naturale. Il fenomeno fu intensificato all'estremo dall'incontro della forza fisica e intraprendenza audace dei Fasci agrari con la stanchezza e l'esasperazione dei 'tutori dell'ordine', impegnati da anni in una lotta impari con l'attività sovversiva - la quale non è una leggenda fascista. Lotta che non solo costava a quelli sacrifici che potevano giungere fino alla perdita del posto e della vita, ma li avevano abbeverati di umiliazione.Questi uomini colpiti nel loro fondamentale istinto al comando, erano dei refoulés, dei 'repressi', che potevano finalmente, grazie ai Fasci, sfogarsi, scattare.»
La seconda tesi interpretativa di grande importanza, affermatasi già negli anni della dittatura, ricollega il fascismo allo sviluppo storico, e ne fa un prodotto logico ed inevitabile di esso; tale tesi è stata sostenuta dalla tendenza che De Felice definisce di «cultura radicale», quella dell'antifascismo democratico.
Matrice ideologica degli appartenenti all'antifascismo democratico può essere considerato il pensiero di P. Gobetti: differenziandosi da Croce, questi aveva spiegato l'insorgere del fascismo non in un'ottica etica, come una aberrazione e una ubriacatura, ma in termini strettamente storici. Il fascismo è per Gobetti, e per coloro che si rifecero al suo insegnamento, la logica conseguenza del particolare sviluppo storico dell'Italia, del suo ritardo nel raggiungimento dell'unificazione nazionale, del suo «scorretto» sviluppo economico, basato su una debole classe borghese, che è ricorsa prevalentemente all'alleanza con i conservatori per affermare il proprio potere, anziché a quella con le masse popolari. Nell'opera La rivoluzione liberale, Gobetti giunge pertanto a definire il fascismo quale «autobiografia della nazione».
In quest'ottica, la dittatura di Mussolini diventava l'esito di una rivoluzione liberale mancata e l'espressione di un paese arretrato e incolto, che non aveva mai conosciuto istituzioni politiche effettivamente democratiche, ma aveva subito sistemi di governo nei quali si erano combinati paternalismo, clientelismo, trasformismo e autoritarismo. «Noi» scrisse Gobetti su 'La Rivoluzione liberale' nel 1924 «combattiamo in Mussolini, ingigantito, il vizio storico che rese possibile in Italia i fenomeni Depretis e Giolitti». Il fascismo si configurava pertanto come un 'disvelamento' delle contraddizioni e delle aporie della storia nazionale, e doveva essere collocato in una linea di continuità rispetto a un'Italia liberale che significativamente non aveva saputo opporsi alla dittatura e ne era stata poi travolta. Anche in questo caso il fascismo risulta però fondamentalmente una 'reazione': la reazione della 'vecchia Italia', che non ha esitato a scegliere la tirannide, facendo leva sul 'vizio storico' del paese, pur di impedire l'affermazione delle aspirazioni e dei valori dell' altra Italia', quella democratica e modernizzatrice.
Dalle considerazioni gobettiane ha preso corpo, soprattutto tra gli intellettuali antifascisti aderenti al movimento Giustizia e libertà - da Salvemini, ai fratelli Rosselli, a Nicola Chiaromonte - un'interpretazione del fascismo nella quale l'accento principale è stato posto sul ruolo fondamentale svolto dalle tradizionali burocrazie pubbliche nel favorire prima l'affermazione e poi la stabilizzazione del regime. Il fascismo sarebbe l'espressione di un'inedita alleanza tra ceti proprietari e grandi apparati burocratici, le cui élite formavano I'oligarchia nelle cui mani era racchiuso il potere reale. «L' oligarchia della quale Mussolini è il capo supremo» scriveva Gaetano Salvemini nel 1935 «non è formata da capitalisti soltanto, ma anche da altri gruppi che possono chiamarsi capitalisti solo con un uso arbitrario di questo termine. I capitalisti veri e propri [] in Italia non sarebbero in grado di sopravvivere se le masse delle classi medie, medio-inferiori e lavoratrici non fossero costrette all'obbedienza da non meno di tre burocrazie: gli ufficiali dell'esercito regolare, i pubblici impiegati e i funzionari del partito fascista».
Il fascismo poggiava dunque su apparati di potere ereditati dalla vecchia Italia liberale che, animati da una cultura reazionaria e da spinte autoritarie, sostennero il progetto reazionario di cui era portatore. Di nuovo, veniva posto in evidenza un elemento di continuità tra l'Italia prefascista e quella della dittatura, che sarebbe proseguito anche in quella postfascista.
Sempre in tale ottica, per C. Rosselli, in Socialismo liberale, il fascismo può essere considerato il «risultato più passivo della storia d' Italia» «Fazioni, spirito d'avventura, gusto romantico, idealismo piccolo-borghese, retorica nazionalista, reazione sentimentale della guerra, desiderio irrequieto di un nuovo purchessia.il fascismo affonda le sue radici nel sottosuolo italiano; esso esprime i vizi profondi, le debolezze latenti, le miserie del nostro popolo, di tutto il nostro popolo. Non bisogna credere che Mussolini abbia trionfato soltanto con la forza bruta. Se ha vinto, è perché egli ha saputo abilmente toccare certi tasti a cui la psicologia degli italiani era straordinariamente sensibile. Il fascismo è stato, in certa misura, l'autobiografia di una nazione che rinuncia alla lotta politica, che ha il culto dell'unanimità, che rifugge dall'eresia, che sogna il trionfo della facilità, della fiducia e dell'entusiasmo».
Le indicazioni di Gobetti e Rosselli sono alla base di quell'esigenza sentita soprattutto dalla storiografia italiana e inglese di un'analisi attenta del fascismo entro il contesto storico nazionale. Tale linea interpretativa si è espressa anche negli anni più recenti, sebbene non siano mancati gli spunti polemici: ad esempio a motivo della tesi di Mack Smith, secondo cui «nella storia d'Italia dal 1861 in poi tutto conduce al fascismo».
Norberto Bobbio, che più di ogni altro rappresenta la tradizione dell' antifascismo laico e democratico, nel suo ormai classico Profilo ideologico del Novecento, negò l'esistenza di una cultura fascista, cioè un corpus dottrinario dotato di una sua intima coerenza e di una sua originalità, in grado di collocare il fascismo tra i sistemi del pensiero politico novecentesco; e ribadì questo concetto nel più compiuto saggio storico che dedicò a questo argomento, pubblicato nel 1975 come Quaderno della Fiap, una delle associazioni del partigianato italiano, affermando «che il fascismo, più che antiideologia, come amò fin dal principio presentarsi, sia stato portatore di una ideologia negativa e distruttiva, dove spiccavano più gli odi che gli amori, dove abbondavano più le negazioni che le affermazioni». Il fascismo, dunque come «distruzione della ragione», utilizzando il titolo di una delle più note opere i del filosofo ungherese G. Lukàcs.
La terza tradizione di pensiero, che si è peraltro sviluppata con un notevole margine di autonomia rispetto alle precedenti, è quella di ispirazione marxista. Essa ha origine sin dagli anni venti, è quindi quella cronologicamente più antica e trova esponenti di spicco fra cui Tasca, Gramsci, Togliatti per giungere sino al secondo dopoguerra con Dobb e Sweezy. Già nel 1923 Matteotti, rispondendo nell'aula parlamentare al deputato liberale Sarrocchi, aveva denunciato il fascismo come 'strumento politico e militare degli agrari padani intenzionati a contrastare con la forza l'ascesa sociale del proletariato rurale. «l'agraria organizza la violenza», disse «provoca la violenza, la più sfacciata violenza, perché essa è costituita dalla più arretrata parte della borghesia, quella che per salvare la sua borsa, sarebbe anche contenta di lasciare perire lo stato, perché nulla le importa al di fuori di quella che è il suo profitto, e il suo guadagno immediato».
Il fascismo viene interpretato entro la struttura socio-politica della società capitalistica del primo dopoguerra, caratterizzata da gravi contraddizioni di cui esso sarebbe, per molti aspetti, la manifestazione più chiara. Il fascismo costituirebbe così la reazione del capitalismo alla forza acquisita dal movimento rivoluzionario europeo. La prima opera sistematica sul fascismo italiano venne pubblicata a Parigi già nel 1938 da A. Tasca con il titolo Nascita e avvento del fascismo: la sua analisi è incentrata sulla crisi economica capitalistica e sull'utilizzazione del fascismo da parte delle classi dominanti. Certamente però la maggiore influenza che tale tradizione di pensiero poté esercitare nella riflessione storiografica del dopoguerra deve essere attribuita all'opera di A. Gramsci, per il quale il fenomeno fascista rientra nella peculiarità della storia italiana. Già nel 1921 egli afferma che «contro l'avanzata della classe operaia avverrà la coalizione di tutti gli elementi reazionari, dai fascisti ai popolari ai socialisti» e che «il fascismo è l'ultima incarnazione politica della piccola borghesia serva del capitalismo e della proprietà terriera». «Che cosa è il fascismo italiano? Esso è l'insurrezione dell'infimo strato della borghesia italiana, lo strato dei fannulloni, degli ignoranti, degli avventurieri, cui la guerra ha dato l'illusione di essere buoni a qualcosa e di dovere per qualche cosa contare, che il decadimento politico e morale ha portato avanti, cui la diffusa viltà ha dato fama di coraggio. Questa classe politica, favorita dalle circostanze, e tra di esse soprattutto dal fatto che lo Stato italiano dalla fine della guerra si presenta privo di volontà e di forza, come facile preda di ogni banda che gli dia l'assalto, tenta la conquista dello stato. La protezione che ne danno i padroni reazionari dà una forma apparentemente organica e un contenuto in apparenza politico a questo tentativo.»
M.H. Dobb ha segnato il punto d'arrivo della tradizione interpretativa marxista sul fenomeno fascista: l'accento viene ora posto sul «ridimensionamento» del rapporto tra fascismo e capitalismo: «il fascismo fu definito un figlio della crisi. E in un certo senso è tale; ma il giudizio è troppo semplicistico. Esso è figlio di un tipo speciale di crisi: cioè una crisi del capitalismo monopolistico, traente la sua gravità dal fatto che il sistema si trova la strada sbarrata, sia per lo sviluppo estensivo, che uno sviluppo più intensivo del campo di sfruttamento.Se si dovessero riassumere in breve i presupposti storici del fascismo, si potrebbe parlare di tre fattori dominanti: la sfiducia del capitale di trovare una soluzione normale per le difficoltà create dalla limitazione del campo di investimento; una considerevole e disagiate "classe media" ovvero elementi declassati che, in assenza di un altro punto di orientamento, sono maturi per essere conquistati al credo fascista; e una classe lavoratrice.disunita e priva di coscienza di classe (almeno nella sua direzione politica) per essere politicamente forte nel resistere all'attacco».
Reazione o rivoluzione?
R. De Felice, in un'intervista rilasciata al giornalista americano Ledeen, evidenziando l'inevitabile insoddisfazione che si ricava dalle diverse interpretazioni del fascismo, esprime la convinzione, ripresa da Tasca, che definire il fascismo sia anzitutto scriverne la storia ed indica quelli che a suo modo di vedere sono gli elementi «che si debbono tenere presenti per comprendere storicamente il fenomeno fascista. Il primo è di tipo geografico-cronologico: il fascismo è stato un fenomeno europeo che si è sviluppato nell'arco di tempo racchiuso tra le due guerre mondiali.Il secondo è quello relativo alla sua base sociale.il fascismo ha trovato i suoi più ardenti fautori nella piccola borghesia. Il rapporto fascismo-piccola borghesia e, più in genere fascismo-ceti medi è infatti uno dei nodi essenziali del problema storico del fascismo». Nell' Intervista sul fascismo, De Felice utilizza la distinzione tra «fascismo-movimento» e «fascismo-regime», attribuendo al primo i caratteri di un fenomeno rivoluzionario promosso dalla piccola borghesia: il fascismo, cioè, come una rivoluzione dei ceti medi, forte di una sua autonomia ideale e politica rispetto alla borghesia industriale e proprietaria, con cui quei gruppi sociali hanno dovuto rinegoziare costantemente i termini di quell'alleanza su cui si è basata la stabilità del regime e il potere personale di Mussolini. La spinta rivoluzionaria non venne completamente meno neppure negli anni di consolidamento del regime, rimanendo attiva nella forma di una tensione ideale antiborghese, di un disagio anticonformista e di un mito ideologico, che animarono l'impegno e la militanza di non poche componenti del fascismo. "Il regime fascista ha come elemento che lo distingue dai regimi reazionari e conservatori, la mobilitazione e la partecipazione delle masse.Un altro elemento rivoluzionario è che il fascismosi pone un compito, quello di trasformare la società e l'individuo in una direzione che non era mai stata sperimentata né realizzata».
«Il fascismo-movimento» asseriva De Felice «è stato l'idealizzazione, la velleità di un certo tipo di ceto medio emergente.Questi ceti medi si pongono come una classe che tende ad affermarsi in quanto tale, e ad affermare la propria funzione, la propria cultura e il proprio potere politico contro la borghesia e contro il proletariato. Insomma tendono a fare una rivoluzione. Il fascismo fu quindi il tentativo del ceto medio, della piccola borghesia ascendente - non in crisi - di porsi come classe, come nuova forza».
Il fascismo-movimento fu espressione dei ceti medi emergenti, e non solo dei ceti medi declassati che si proletarizzano, caratterizzato da «quel tanto di velleità rinnovatrice» «quel tanto di "rivoluzionarismo" che c'è nel fascismo» («componente essenziale per capire il consenso: ne è la componente morale a fianco di quella materiale (quella della sicurezza)».
Il «fascismo regime» fu, invece, il frutto del compromesso operato da Mussolini con la classe dirigente tradizionale.
Per Alberto Aquarone (L'organizzazione dello stato totalitario) all'interno del gruppo di comando del fascismo si misurano per tutto il ventennio diverse tendenze e diverse componenti animate da visioni politiche molto distanti tra di loro. A fianco dei fascisti radicali, che puntavano a realizzare le implicazioni rivoluzionarie dell'ideologia fascista, e a costruire concretamente una nuova civiltà alternativa al liberalismo e al bolscevismo, vi erano le frange conservatrici che puntavano invece a utilizzare il consenso delle classi medie attorno al duce per dare vita sostanzialmente a un regime autoritario: uno stato di polizia antioperaio a difesa dei poteri consolidati della vecchia Italia liberale. Tra queste due tendenze opposte stava il fascismo dei «mediatori», per usare la definizione utilizzata da Bobbio: dietro questi ultimi erano le folle della piccola borghesia perbenista, che aspirava a una società senza conflitti ed era affascinata dai grandi miti nazionalisti e populisti evocati dal regime.
Il primo illustre antesignano di questa teoria era stato lo storico e studioso del pensiero politico, Luigi Salvatorelli che, nel 1923, aveva pubblicato il suo studio sul fascismo, con il lungimirante titolo di Nazionalsocialismo. In Salvatorelli vi era dunque la percezione che il fascismo non era stato soltanto un movimento di reazione al servizio di consolidati interessi di classe, né una semplice superfetazione delle debolezze dell'identità italiana, ma un fenomeno nuovo di mobilitazione delle classi medie, interessate da accentuati fenomeni di massificazione e attraversate da processi tanto di proletarizzazione che di ascesa sociale. A differenza della borghesia e del proletariato, le classi medie stavano progressivamente smarrendo le già scarse connotazioni di classe ereditate dall'Ottocento, ed erano sospinte dai processi strutturali verso una collocazione sociale ambigua, nella quale a talune possibilità individuali di miglioramento di status si contrapponeva un processo di generale massificazione e 'anonimizzazione'.
Le masse, di cui i ceti intermedi erano diventati parte integrante, dunque, come un magma di 'uomini senza qualità', oscillante in permanenza tra l'integrazione passiva e una mobilitazione comunque non intercettata e non intercettabile dai partiti politici formatisi nell'Ottocento attorno al grande scontro tra borghesia e proletariato. Questo «popolo delle scimmie», per usare la ben nota definizione di Antonio Gramsci - nel caso italiano non soltanto in bilico tra ascesa e proletarizzazione, ma tra estraneità/esclusione e asfittica 'nazionalizzazione' - dopo essere stato messo in movimento soprattutto dalla Grande guerra, irruppe sulla scena politica, con nuove domande di identità, di integrazione e di valorizzazione sociale; il fascismo riuscì a rappresentarlo e a integrarlo in un progetto politico che era 'rivoluzionario' nella misura in cui presupponeva il superamento del parlamentarismo e la disintegrazione di un sistema politico liberale, rivelatosi incapace di allargare proprio a queste nuove classi medie la sua constituency e di favorire un ricambio della classe dirigente.
Secondo De Felice, nonostante l'estraneità alla tradizione del razionalismo progressista di ascendenza illuminista che aveva costituito il tessuto culturale e ideale comune del liberalismo e del socialismo, il fascismo, con i suoi nuovi miti politici intessuti di attivismo, di spiritualismo antimaterialista, di fanatismo nazionalista e di esaltazione della forza, non rappresentava un ritorno al passato, ma una modalità di declinazione della modernità del tutto imprevista fino alla fine del XIX secolo.
In questa chiave l'ideologia del fascismo non si configurava come orpello posticcio e strumentale di un movimento e di un regime asserviti al grande capitale, ma rappresentava l'orizzonte ideale all'interno del quale il nuovo soggetto sociale costituito dalle classi medie definiva se stesso in alternativa alle altre classi e modellava la sua autorappresentazione. Socialismo e liberalismo erano insieme respinti perché giudicati espressioni, sia pure diverse, di una concezione materialistica e conflittuale della storia e del mondo, a cui la piccola borghesia contrapponeva «il mito della nazione astratta e trascendente», per dirla con Salvatorelli «credendo di affermare così, di contro alle odiate classi produttrici, una sua superiorità morale»
La direttrice di ricerca sopra esaminata è stata ripresa soprattutto da Emilio Gentile, il quale, in un lavoro pionieristico del 1974, ha ricostruito la complessa trama delle correnti ideali che hanno contribuito alla formazione dell'ideologia fascista. Essa infatti si venne formando in parte dalla fusione, operatasi nel fuoco della battaglia interventista e nell'esperienza della guerra, tra nazionalismo e correnti del socialismo sindacalista antimarxista, dall'incontro, cioè, tra Corradini e Rocco, da un lato, e Leone, Michels e Labriola, dall'altro. Questo incontro si cementò intorno a quattro idee forza: l'antiparlamentarlsmo, l'antiindividualismo, il militarismo e il mito del capo. Dietro tali idee forza si intrecciavano la critica della democrazia rappresentativa e pluralista ritenuta fonte di scissione sociale e di corruzione trasformista, perché basata sul primato degli interessi di gruppo o di classe; la contrapposizione all'astratto della comunità nazionale, da cui si sprigionava un campo di idee e di forze capace di realizzare l'unità tra il popolo e lo stato-nazione e l'identificazione tra rivoluzione e nazione; l'esaltazione della gioventù contro il vecchio mondo liberale e socialdemocratico, come mito identitario e come leva potente per cambiare la società; il mito del capo carismatico, capace di interpretare le aspirazioni più profonde del popolo e di fondare una nuova sovranità in relazione vivificatrice con la società di massa.
Un'altra potente idea forza venne poi dalla coniugazione del nazionalismo con le ideologie della modernità presenti nella cultura italiana del primo Novecento. La conquista della modernità, i miti industrialisti, l'esaltazione della velocità, la fiducia nella tecnica, la passione per il nuovo - che avevano costituito la cifra ideale più riconoscibile dei movimenti modernisti italiani, dal vocianesimo al futurismo - rappresentando elementi rilevanti della cultura nazionalista, si trasferirono integralmente nell'ideologia fascista.
«Il fascismo ebbe l'ambizione» ha scritto Gentile «di portar a compimento la conquista della modernità attraverso la rivoluzione totalitaria, che come la rivoluzione spirituale delle avanguardie, voleva essere rivoluzione totale, cioè investire tutti gli aspetti della vita individuale e collettiva, del costume e del carattere, rigenerare la nazione, forgiare l' 'italiano nuovo', costruire una nuova civiltà. Lo stato totalitario e la 'sacralizzazione della politica', con l'integrazione delle masse nella nazione attraverso la fede, i riti e i simboli della religione fascista, erano i fondamenti della 'modernità fascista'.che imponeva agli individui e alle masse la rinuncia alla libertà e alla ricerca della felicità in nome del primato assoluto della collettività nazionale organizzata nello stato totalitario, per conseguire fini di grandezza e di potenza». La nazione assumeva i caratteri di un luogo simbolico dove si sintetlzzava la costituzione di una società organica, nella quale la forza dello stato era in grado di superare, annullandoli, i due elementi disgregatori prodotti dal capitalismo moderno e dal socialismo: la concorrenza e la lotta di classe. Statalismo autarchico e corporatlvismo costituivano gli strumenti fondamentali per mezzo dei quali veniva creata una società non conflittuale, pacificata, nella quale l'autonomia dei soggetti sociali era trasfigurata nella rappresentanza istituzionalizzata degli interessi, sotto l'egida di uno stato 'etico', depositario e promotore dei 'fini superiori' della nazione: una nazione, a sua volta, in armi, protesa ad affermarsi come potenza nella lotta incessante tra i popoli e gli stati, che aveva avuto il suo atto di nascita nell'esperienza della Grande guerra. Il nuovo ordine non aveva nulla a che vedere con la società tradizionaie premoderna, perché assumeva come irreversibile la massificazione della società e si proponeva, attraverso una sorta di razionalizzazione autoritaria, di fornire una risposta originale a quella domanda di integrazione sociale dei nuovi ceti sociali prodotti dall'industrializzazione e dalla modernizzazione, che costituiva il problema cruciale del mondo contemporaneo e di cui pluralismo democratico e modello sovietico costituivano le alternative.
Com'è noto, le tesi di De Felice hanno provocato da parte di alcuni storici una forte reazione, con la ripresa della polemica sul fascismo. N. Tranfaglia, nella Storia d'Italia, sintetizza i principali motivi di queste reazioni: « De Felice insiste soprattutto sulla capacità di Mussolini e del gruppo dirigente fascista di creare intorno al regime un vasto consenso e di mobilitare le masse attraverso gli strumenti di comunicazione di massa, di delineare una politica economica favorevole ai ceti medi, di promuovere infine la diffusione di un'ideologia tendenzialmente anticapitalistica (la terza via tra capitalismo e bolscevismo, di cui a lungo si favoleggiò). L'apparato repressivo, certo, era necessario per la sopravvivenza della dittatura ma dopo il plebiscito, "almeno formalmente passava in secondo piano e il suo impiego diventava una questione riguardante solo gli avversari del regime e dei suoi ordinamenti".Le implicazioni di tale interpretazione sono evidentemente significative: non solo il regime fascista non è l'espressione del capitale finanziario, ma non è neppure quel volto moderno della reazione fatto di repressione e demagogia populista, su cui convergono studiosi di diversa provenienza ideologica e storiografica a partire dagli anni trenta. Il fascismo diventa invece la rivoluzione dei ceti emergenti che si sostituiscono all'aristocrazia e alla grande borghesia e hanno la meglio sul proletariato urbano e contadino. A queste tesi ha reagito energicamente una parte della storiografia che si richiama o alle tesi 'radicali' di Salvemini, Rosselli, Trentin o a quelle d'indirizzo marxista (soprattutto a Togliatti) o a entrambe. Le obiezioni a quanto afferma nelle sue opere De Felice possono riassumersi nel modo seguente, pur con i rischi di ogni schematizzazione: 1. Metodo ed uso delle fonti appaiono discutibili.Da più parti si è fatto notare che De Felice privilegia di gran lunga le carte della polizia e della segreteria particolare del duce, e in generale i documenti di elaborazione fascista e che del tutto inutilizzate, e comunque trascurate, sono sia le documentazioni costruite ed elaborate durante il fascismo dall'opposizione sia i risultati della storiografia antifascista. 2. Corporativismo e politica economica del regime non possono essere interpretate, nella loro effettive realizzazione, come espressione delle esigenze dei ceti medi bensì come espressione coerente della grande borghesia e del capitale monopolistico con la copertura dell'intervento statale e dell'assistenzialismo demagogico che favoriscono i ceti medi rispetto al proletariato. 3. Non è possibile parlare, come fa De Felice, di un consenso che investe masse sempre più larghe della popolazione e che relega in secondo piano l'uso dell'apparato repressivo quando «è la natura stessa della programmazione degli strumenti per ottenere il consenso e il carattere dell'uso quotidiano di questi strumenti, comunque la si esamini, a denunciare l'alto grado di coercizione, al quale corrisponde, non si dice certo una diffusa resistenza, ma una passiva e spesso rassegnata accettazione. Non c'è vero consenso, dunque, perché non c'è partecipazione».
I brani della presente sintesi sono tratti dai seguenti testi:
A cura di A. De Bernardi e S. Guarracino, Il fascismo, Bruno Mondadori, Milano, 1998.
G. Gentile, L. Ronga, A. Salassa, Prospettive storiche, Editrice La Scuola, Brescia 1994.
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