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LATINO. Nerone e la follia del potere
Il potere ha, nei secoli, sempre rappresentato sé stesso in modi diversissimi, ma con l'unico intendimento di consolidare la propria forza: i sistemi di potere hanno teso a proiettare di sé un'immagine nell'insieme forte e rassicurante. Nelle epoche antiche alla solidità si è associata, come prima virtù del potere stesso, la sacralità: il re assoluto faceva discendere la propria investitura dalla divinità, attraverso una serie di gesti e simboli legittimanti. Nella Roma più antica la classe senatoria aveva delegato la sacralità ai simboli repubblicani: le aquile delle legioni, i fasci littori, il monogramma S.P.Q.R. erano sufficienti a incutere rispetto e timore ai cittadini, agli alleati e ai nemici. In epoca più moderna si sono ripresi alcuni simboli (il fascio littorio sotto il fascismo) o inventati ex novo altri (la svastica nazista) con la stessa funzione. Ma a parte la simbologia spesso retorica, enfatica e pretestuosa, il potere è rappresentato adeguatamente da altre manifestazioni di prestigio, ricchezza, potenza, superiorità, che esercitano su coloro che lo subiscono un'azione distorsiva ed alienante che finisce per convincerli a sostenere il potere stesso e a giustificarlo. Ma inevitabilmente il potere aliena, prima di tutto, chi lo esercita, stravolgendone il senso comune e deteriorandone la morale, isolando il "tiranno" nella solitudine e costringendolo ad andare sempre più a fondo, nell'abiezione e perfino nella follia.
I passi che seguono, tratti dagli Annales di Tacito e dal De vita Caesarum di Svetonio, si propongono di delineare le caratteristiche che assunse il potere nelle mani di Nerone, considerato unanimemente il prototipo del tiranno che esercita il potere in modo assoluto e lo circonda di una ritualità al limite della follia.
Notizie storiche
Nerone (Anzio 37 - Roma 68 d.C., imperatore dal 54 al 68 d.C.), ultimo appartenente alla gens Giulio-Claudia. Figlio di Gneo Domizio Enobarbo e di Agrippina Minore, cambiò il suo nome (Lucio Domizio Enobarbo) in Nerone Claudio Cesare dopo essere stato adottato dall'imperatore Claudio, che sua madre aveva sposato in seconde nozze. Sposò la figlia di Claudio, Ottavia. Alla morte di Claudio i pretoriani, guidati dal loro prefetto Sesto Afranio Burro, lo proclamarono imperatore. Sotto la guida di Burro, precettore militare, del filosofo Seneca, addetto alla sua formazione politica e culturale, e della madre, Nerone si mostrò inizialmente deferente nei confronti del senato, restituendogli competenze e funzioni che gli erano state tolte dai suoi predecessori. Entrato in contrasto con la madre, che si opponeva alla sua relazione con Poppea Sabina e che intendeva esercitare sempre maggiore influenza sul governo, Nerone fece uccidere Britannico - figlio di Claudio e di Messalina - considerato un possibile pretendente al trono, e allontanò la madre da Roma, facendo poi uccidere anche lei.
Dopo l'assassinio della madre, la morte di Burro e il ritiro forzato dalla vita pubblica di Seneca, ormai inascoltato consigliere, Nerone modificò radicalmente la propria politica. Divenuto ostile al senato, iniziò a favorire i ceti popolari e i militari e ad esercitare un potere sempre più dispotico. Cercò il consenso popolare con l'indire delle guerre nonché dei ludi e pubbliche sovvenzioni per il popolo, il che gli fece dissipare la ricchezza dell'erario e lo obbligò a imporre pesantissime tassazioni e addirittura a svalutare la moneta. Quando Roma fu distrutta da un incendio l'imperatore ne fu ritenuto responsabile; invano cercò di incolpare dell'accaduto i cristiani, che furono oggetto di feroci persecuzioni. In seguito si fece costruire una nuova residenza imperiale, la Domus Aurea. Fortissima fu l'opposizione senatoria all'imperatore, permeata dei valori della filosofia stoica, altrettanto dura furono però le repressioni ordite da Nerone. L'aristocratico Caio Calpurnio Pisone ordì una congiura ai danni dell'imperatore, che tuttavia la scoprì e fece uccidere tra gli altri Seneca e i letterati Lucano e Petronio un tempo suoi amici, accusati di aver preso parte alla cospirazione. Dichiarato nemico pubblico dal senato Nerone si suicidò facendosi pugnalare da un servo, dando così inizio alla guerra civile degli anni 68-69 che vide dopo di lui alternarsi sul trono di Roma Galba, Otone, Vitellio e Vespasiano.
Caio Svetonio Tranquillo
Erudito e biografo, rivestì sotto Traiano e Adriano le cariche di archivista e segretario per la corrispondenza dell'imperatore: ciò gli permise di consultare gli atti ufficiali, i memoriali e i documenti riservati da cui attinse per la redazione della sua opera principale, De vita Caesarum. Scrisse numerose opere, tutte nel solco di una traduzione erudita. Del De viris illustribus, opera complessiva sui letterati, rimane solo il libro dedicato ai grammatici e ai retori, i cui brevi profili biografici illustrano più gli uomini che gli studiosi. Più che storico vero e proprio, Svetonio è un erudito curioso di aneddoti, pettegolezzi ed eventi privati, spesso scabrosi; tuttavia il fatto che i protagonisti vengano presentati in una dimensione meno ufficiale e solenne, assieme alla prosa semplice ed energica, rende piacevoli le pagine di Svetonio. Esse d'altra parte costituiscono una fonte essenziale per la ricostruzione delle vicende storiche della prima età imperiale, poiché trattano dei periodi la cui corrispondente descrizione di Tacito è andata perduta.
26. La sua impudenza, libidine, lussuria, cupidigia e crudeltà si manifestarono da principio gradualmente e in forma clandestina, come una follia di gioventù, ma anche allora nessuno ebbe dubbi che si trattasse di vizi di natura e non dovuti all'età. Dopo il crepuscolo, penetrava nelle taverne, vagabondava per i diversi quartieri facendo follie nel picchiare la gente che ritornava da cena, nel ferirla e immergerla nelle fogne se opponeva resistenza, come pure nel rompere e scardinare le porte delle botteghe;installò nel suo palazzo una cantina dove si prendeva il frutto del bottino diviso e messo all'asta. Spesso nelle risse di questo genere, rischiò di perdere la vita. Per questo non si avventurò più in città a quell'ora senza essere discretamente seguito, alla distanza, da alcuni tribuni. Un giorno che si era venuti alle mani e che si battagliava a colpi di pietra e di pezzi di sgabelli, anche lui gettò sulla folla un bel po' di proiettili e perfino ferì gravemente un pretore alla testa.
27. Ma a poco a poco, ingigantendosi i suoi vizi, rinunciò alle scappatelle e ai misteri, si gettò apertamente nei più grandi eccessi. Faceva durare i suoi banchetti da mezzogiorno a mezzanotte. Arrivava anche a cenare in pubblico, sia nella naumachia chiusa, sia nel Campo di Marte, sia nel Circo Massimo, e si faceva servire da tutti i cortigiani e da tutte le baiadere di Roma. Egli si invitava anche a cena dai suoi amici: uno di loro spese così quattro milioni di sesterzi per adornarlo.
28. Oltre alle sregolatezze con giovani ragazzi e alle sue relazioni con donne sposate, fece violenza anche alla vestale Rubria. Poco mancò che prendesse come legittima sposa la sua liberta Acte e aveva assoldato alcuni ex consoli perché certificassero con un falso giuramento che essa era di origine regale. Avrebbe voluto avere rapporti carnali persino con sua madre, ma ne fu dissuaso dai nemici di Agrippina che non volevano il predominio di questa donna odiosa e tirannica grazie a questo nuovo genere di favore; nessuno dubitò mai di questa sua passione, soprattutto quando ammise nel numero delle sue concubine una prostituta che si diceva somigliante in modo impressionante ad Agrippina. Si assicura anche che in passato, ogni volta che andava in lettiga con sua madre, si abbandonava alla sua passione incestuosa e che veniva tradito dalle macchie del suo vestito.
Cornelio Tacito
Storico, il maggiore dell'età postaugustea. Dopo aver ricoperto numerose cariche politiche sotto gli imperatori Flavi e poi sotto Nerva e Traiano, negli ultimi anni della sua vita si dedicò principalmente alla redazione di opere storiche, che si sono conservate solo in parte. Viene quasi concordemente attribuito a Tacito il Dialogus de oratoribus, prezioso documento sull'eloquenza passata e contemporanea, scritto in uno stile fluido ed armonioso, decisamente diverso da quello rapido e incisivo delle altre sue opere. Uscirono le due monografie Agricola e Germania: la prima è una biografia del suocero, Gneo Giulio Agricola, celebre generale ed esperto uomo politico; la seconda è un trattato sui costumi dei germani, la cui civiltà incontaminata, paragonata alla corruzione e ai vizi dell'impero, aveva suscitato la profonda ammirazione dell'autore. I suoi due capolavori, le Historiae e gli Annales, non ci sono purtroppo giunti integralmente. Tacito vi svolge un'analisi spietata del funzionamento della macchina imperiale romana, del contrasto tra l'arbitrio dei principi e la libertà, del servilismo dell'aristocrazia e dei delitti efferati compiuti in nome della ragion di stato. In queste opere emergono i tratti più tipici dell'arte tacitiani: il severo moralismo, la nostalgia per la repubblica, il fosco pessimismo sui destini di Roma, il penetrante interesse psicologico e lo stile inconfondibile.
La grandezza di Tacito come storico sta nelle sue analisi psicologiche e nella vividezza dei personaggi descritti. L'autore rappresenta forse il momento davvero più importante della storiografia romana: è storico "contemporaneo", sia nel senso preciso del vocabolo, sia perché ha saputo rendere contemporanea anche l'età che non aveva vissuto. Anche il suo stile - volutamente controllato, rapido e conciso - è un aspetto fondante di questa sua concezione della storia. Tacito individua il "peccato originale" della decadenza di Roma nella svolta anticostituzionale operata da Augusto dietro una formale facciata repubblicana, e denuncia le conseguenze nefaste del sistema dinastico, pur senza rifiutare totalmente l'istituzione - oramai necessaria per l'unità, l'ordine e la pace dell'impero - del "principato" stesso.
38. Si verificò un disastro, non si sa se accidentale o se per volere del principe - gli storici infatti tramandano due versioni - comunque il più grave e spaventoso toccato alla città a causa di un incendio. Iniziò nella parte del circo contigua ai colli Palatino e Celio, dove il fuoco, scoppiato nelle botteghe piene di merci infiammabili, subito divampò, alimentato dal vento. L'incendio invase dapprima il piano, poi risalì sulle alture, superando qualsiasi soccorso per la fulmineità del flagello e perché vi si prestavano la città e i vicoli stretti di cui era fatta la vecchia Roma. Si aggiungano le grida di donne atterrite, i vecchi smarriti e i bambini. Nell'impossibilità di sapere da cosa fuggire e dove muovere, si riversavano per le vie e si buttavano sfinite nei campi. Alcuni, per avere perso tutti i beni, senza più nulla per campare neanche un giorno, altri, per amore dei loro cari rimasti intrappolati nel fuoco, pur potendo salvarsi preferirono morire. Nessuno osava lottare contro le fiamme per le ripetute minacce di molti che impedivano di spegnerle, e perché altri appiccavano apertamente il fuoco, gridando che questo era l'ordine ricevuto, sia per poter rapinare con maggiore libertà, sia che quell'ordine fosse reale.
39. Nerone rientrò a Roma solo quando il fuoco si stava avvicinando alla residenza. Non si poté peraltro impedire che fossero inghiottiti dal fuoco il Palazzo, la residenza e quanto la circondava. Per dare una via di fuga al popolo, che vagava senza più una dimora, aprì il Campo di Marte, i monumenti di Agrippa e i suoi giardini, e fece sorgere baracche provvisorie. Da Ostia e dai comuni vicini vennero beni di prima necessità e il prezzo del frumento fu abbassato. Provvedimenti che non ebbero l'effetto voluto, perché era circolata la voce che, nel momento in cui Roma era in preda alle fiamme, Nerone fosse salito sul palcoscenico del Palazzo a cantare la caduta Troia, raffigurando in quell'antica sciagura il disastro attuale.
40. Al sesto giorno finalmente l'incendio fu domato dopo aver abbattuto tutti gli edifici; ma di nuovo il fuoco divampò in luoghi della città più aperti; ciò determinò un numero di vittime inferiore, ma più vasto fu il crollo di templi degli dei e di porticati destinati allo svago. Questo secondo incendio provocò commenti ancora più aspri, perché si aveva la sensazione che Nerone cercasse la gloria di fondare una nuova città e di darle il suo nome. Infatti dei quattordici quartieri in cui era divisa Roma, ne rimanevano intatti quattro.
42. Sfruttò Nerone la rovina della patria per costruirsi un palazzo, in cui destassero meraviglia prati e laghetti e da una parte boschi, dall'altra vedute panoramiche.
43. sulle aree della città che dopo la costruzione della reggia restavano libere si costruì calcolando l'allineamento delle vie e la carreggiata ampia delle strade, ponendo limiti d altezza agli edifici, con vasti cortili e con l'aggiunta di portici, per proteggere le facciate degli isolati. Nerone assegnò dei premi, secondo il ceto e le disponibilità economiche di ciascuno.
44. Le misure adottate dalla provvidenza degli uomini: subito dopo si ricorse a riti espiatori rivolti agli dei e vennero consultati i libri sibillini, su indicazioni dei quali si tenero pubbliche preghiere. Ma non le risorse umane, non i contributi del principe, non le pratiche religiose di propiziazione potevano far tacere i sospetti che qualcuno avesse voluto l'incendio. Allora per soffocare ogni diceria Nerone spacciò per colpevoli e condannò a pene di crudeltà particolarmente ricercata quelli che il volgo, detestandoli per le loro infamie, chiamava cristiani. Furono dunque dapprima arrestati quanti si professavano cristiani; poi, su loro denuncia, vene condannata una quantità enorme di altri, non tanto per l'incendio, quanto per il loro odio contro il genere umano. Quanti andavano a morire subivano anche oltraggi, come venire coperti di pelli di animali selvatici ed essere sbranati dai cani, oppure crocefissi ed arsi vivi come torce, per servire, al calar della sera, da illuminazione notturna. Per tali spettacoli Nerone offriva giochi nel circo e benché si trattasse di colpevoli, che avevano meritato punizioni cosi particolari, nasceva nei loro confronti anche la pietà, perché le vittime erano sacrificate non al pubblico bensì alla crudeltà di uno solo.
45. Intanto per accumulare denaro, fu saccheggiata da cima a fondo l'Italia e vennero spremute le provincie, gli alleati del popolo e le città che si dicevano libere. Furono fatti oggetto di tali ruberie anche gli dei: Roma vide i suoi templi spogliati e confiscato l'oro, che in ogni età il popolo romano, in seguito a vittorie o nei momenti di pericolo, aveva loro consacrato coi trionfi e con le sue preghiere.
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