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L'agricoltura, l'allevamento, gli attrezzi agricoli, i carri, le mole granarie e i mulini ad acqua nella Sardegna medioevale




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L'agricoltura, l'allevamento, gli attrezzi agricoli, i carri, le mole granarie e i mulini ad acqua nella Sardegna medioevale.



1 L'agricoltura.



La produzione agricola più importante, praticata su scala estensiva, fu la coltivazione dei cereali, sia per il fabbisogno delle comunità che per l'esportazione.

Le terre destinate alla cerealicoltura venivano definite << terre de argile >> e venivano coltivate con una sorta di rotazione triennale: infatti per due o tre anni venivano coltivate a grano e, successivamente, per altri tre anni venivano utilizzate come pascolo oppure venivano lasciate a riposo; quindi nelle terre << de argile >> non veniva praticata la tipica rotazione "sarda", che consisteva nel coltivare la terra per due anni a grano e per uno a fave, perché il << favariu >>1, cioè il campo dove si coltivavano le fave, e la loro stessa coltivazione, secondo le testimonianze dei condaghi, rappresentava una coltura e se stante, quindi praticata al di fuori delle << terre de argile >>.

Il grano, detto << triticu >>, oppure << labore o laore >> veniva conservato nelle << ariolas >>, cioè le aie, e i campi nei quali veniva coltivato, oltre al nome già citato di << terre de argile >>, avevano anche il nome specifico di << laores o labores >>.

Grande importanza ebbe anche la coltivazione dell'orzo, detto << ordeu >>3, che venne utilizzato per la panificazione da parte del popolo sino al XVI secolo, i campi coltivati ad orzo venivano chiamati << oriina >> .

In aree molto ristrette veniva invece coltivata l'avena, detta << orzu de cavallos >>5, in quanto utilizzata come alimento dei cavalli pregiati, che venivano tenuti nelle stalle, mentre gli altri equini venivano tenuti a pascolo brado.

Spesso alla coltura dei cereali si accompagnava quella dei legumi come i ceci, le lenticchie, i piselli e soprattutto i fagioli, detti << olbezas >>6 e, le fave.

La coltivazione dei cereali era di tipo estensivo sia per la mancanza di una razionale concimazione, infatti una volta terminato il raccolto si ricorreva alla bruciatura delle stoppie, che per l'imperfezione degli attrezzi agricoli che dovettero essere assai scarsi a giudicare dal loro costo e dalla rara menzione che di essi troviamo nei documenti.

La coltivazione dei cereali rappresentò, però, l'attività più importante della popolazione tanto che essa era indicata come il lavoro per antonomasia << laore >>.

Non è possibile stabilire a quanto potesse ammontare la produzione di cereali, ma certamente dovette essere notevole se i Pisani e i Genovesi trovarono la possibilità di esportarne in quantità non indifferenti. Il commercio dei cereali e del grano era assai fiorente, oltre ai grandi scambi ed alle principali rotte del commercio, alimentava anche la circolazione di una serie di arterie commerciali meno conosciute.

I cereali venivano coltivati nelle terre aperte adiacenti alla villa, una parte delle quali era di proprietà comune degli abitanti della villa, queste terre venivano assegnate con un sistema di rotazione, che non ci è chiaro, agli abitanti della villa per un periodo di tempo determinato.

Le terre chiuse erano, generalmente, adibite alla coltivazione della vite, della quale successivamente parlerò più diffusamente, degli alberi da frutto e dell'olivo, anche se quest'ultimo era poco coltivato in quanto l'olio d'oliva non era usato come commestibile, infatti nell'economia domestica certamente i grassi animali dovettero avere il sopravvento sugli olii vegetali, ma veniva impiegato, come la cera, nella liturgia.

Inoltre anche gli orti erano recintati, come i terreni nei quali si praticava la frutticoltura che, generalmente si accompagnava alla coltivazione della vite, infatti i documenti spesso riportano la citazione << vinia et pumu >>.

Le terre situate nelle zone umide, e perciò particolarmente fertili, le cosiddette << isclas >>, venivano utilizzate per colture particolari, per esempio per la coltivazione delle cipolle << ortu de cipulla >> o dei meloni << ortu de meloni >>.

Ritengo interessante evidenziare il fatto che il valore delle terre coltivate ad orto o a frutteto a confronto delle altre, vendute ad un prezzo bassissimo, era assai alto.8

I frutteti, come gli orti, erano ben recintati e quindi chiusi, utilizzando siepi o palizzate oppure muretti a secco 9, secondo la zona e il materiale presente in loco, per impedire lo sconfinamento del bestiame. Perciò in sardo vennero chiamati << cungiaus >> , cioè chiusi, e per traslato la parola << cungiadu >> indicò le terre messe a coltura, che venivano rigorosamente recintate.

Nei frutteti venivano piantati vari tipi di alberi da frutto, infatti di quelli nei quali si praticava la coltura promiscua, definiti << cum omnia pumu >>, si hanno diverse citazioni; spesso la coltura mista avveniva nella vigna-frutteto oppure nell'orto-frutteto, oppure si praticava la monocoltura nei frutteti come testimoniato nel condaghe di S. Pietro di Silki: << coniatu de mela >> , oppure nel condaghe di S. Michele di Salvenor: << coniatu dessa pruna >> , quindi frutteti dove si producevano prugne domestiche e non selvatiche, che venivano indicate col vocabolo << prunazonca >> .

La coltivazione dei fichi era una delle più praticate , essendosi diffusa durante la dominazione bizantina per opera dei monaci greci; del resto i fichi sono, ancora oggi, diffusi in tutto il bacino del Mediterraneo e l'onomastica e la toponomastica dei condaghi riportano un'infinita varietà di toponimi e cognomi ispirati al fico .

I fichi venivano consumati secchi durante i periodi della penitenza dai monaci e da tutta la popolazione, nei condaghi e nelle carte volgari ne vengono elencati diversi tipi, alcuni dei quali vengono ancora coltivati in Sardegna: nei documenti vengono citati i fichi bianchi , neri , rossi e grigi da seccare.

I fichi venivano consumati sia freschi che essiccati al sole o al forno e potevano essere conservati o infilzati l'uno all'altro e appesi oppure in un oricolo compressi tra foglie di alloro.

Anche i peri erano molto diffusi così come i perastri21, come i fichi, anche le pere venivano conservate per l'inverno mediante l'essiccazione. Venivano spaccate e essiccate al sole o al forno e poi messe in un orcio e compresse, così da formare la cosiddetta << pilarda >>, che viene ancora oggi prodotta in alcune località sarde.

I meli sono regolarmente citati nei documenti e venivano piantati nelle vigne o negli orti, come gli altri alberi da frutto, ma, nel Sassarese, si sviluppò una coltura specializzata confermata dalle parole << coniatu de mela >>22; nei documenti, inoltre, in particolar modo viene ricordata la mela cotogna o << citonia >> , che nell'isola si consumava cotta al forno, seguendo una consuetudine assai diffusa nel Medioevo e soprattutto in epoca bizantina.

Nell'isola ebbero grande diffusione anche gli alberi di noci, castagne, nocciole, mandorle24 e ciliegie .

Nel XIII secolo risulta già diffusa la pianta dattilifera, perché ne fa cenno il condaghe di S. Nicola di Trullas, nella scheda 278, dove si dice che nella << domo de Sorso >>, donata al monastero da Jorgia D'Athen, vi erano << canna e palmas >>.

La coltura degli agrumi in Sardegna era limitata alle seguenti specie: cedro26, limone, arancio amaro e arancio agro .

Nell'isola l'agrumicoltura fu limitata a poche << domos >>, perché era una coltura estesa e specializzata; chiaramente negli orti e nei giardini dei monasteri, laddove le condizioni climatiche lo permettevano, non mancarono alberi di cedro e di limoni nei punti più riparati e favorevoli alla loro vegetazione.

Gli alberi da frutto non venivano piantati in grande quantità perché il loro valore era assai elevato, una pianta di fichi, ad esempio, era valutata due soldi nel Logudoro28, nel Cagliaritano due alberi di noci erano scambiati con una << bargala >> e una << mandrii de porcu >> ; il terreno su cui crescevano era considerato come una loro pertinenza e formava il cosiddetto << cortaticu >>.

L'olivastro ebbe una maggiore diffusione rispetto all'olivo innestato31, perché anziché innestarlo, si preferiva lasciarlo come nutrimento per i bovini; infatti gli uliveti raramente compaiono nelle fonti documentarie fra le pertinenze di una << domu >> o << domo >> , anche se il toponimo Olìa, Solìa, Monti Olìa era diffusissimo in tutta la Sardegna, ad esempio la curatoria di Dolìa, nel giudicato Cagliaritano, la curatoria di Ogliastra, sempre nello stesso giudicato, ed il paese di Dolianova.

In Sardegna molti degli ulivi presenti vengono chiamati, ancora oggi, << ulivi dei Pisani >>33, l'olio era infatti una delle merci più spesso importate nell'isola dai Pisani che risiedevano in Sardegna.

Molto diffusi furono anche gli orti35 i quali, solitamente, anziché essere recintati venivano limitati da un fossato; spesso vi erano numerosi orti situati non molto lontano dai centri abitati in prossimità dei corsi d'acqua o delle fontane, ma più diffusa era la consuetudine di avere l'orto nelle vicinanze della "casa rustica", detta << domo >>.

Gli orti insieme ai boschi erano i luoghi dove venivano prodotte le principali risorse alimentari.

Negli << ortales >> venivano principalmente coltivati i legumi come le fave36, i fagioli , i ceci ed anche i meloni e numerose piante tra cui gli << odori >> come il prezzemolo e le cipolle .

Negli orti, come riportato, si trovavano anche alberi da frutto ( peri, meli, ciliegi, mandorli, melograni e principalmente alberi di fico ) cui si accompagnava spesso l'allevamento delle api nei << bughi >> di sughero.

L'apicoltura era molto diffusa nell'isola, tanto che il nome << ortu >> venne dato anche ai recinti dove vi erano gli alveari40, gli allevamenti delle api, specialmente se appartenenti al fisco o al giudice, prendevano il nome di << ortu de abis >>, cioè orti delle api, e gli apicoltori venivano indicati col nome di << apiaresos >>.

Negli alveari oltre al miele, la sostanza dolcificante per eccellenza, si produceva la cera, che rappresentava il prodotto più importante, perché impiegata per gli usi liturgici e per l'illuminazione delle chiese, in quanto per quella domestica veniva utilizzato soprattutto l'olio di lentischio oppure il grasso animale bruciato in piccole lampade.

Nei terreni facenti parte le << domos >>, soprattutto nelle pianure irrigue e nei fondi delle valli, vi erano anche pascoli41, prati per i cavalli << pratu de caballos >> e i prati coltivati a fieno o << fenarios >> che venivano falciati più volte l'anno.

Questi terreni erano di estensione limitata in confronto a quella dei terreni << bacantes >>44, degli << agarrutos >> e dei << saltus >>, nei quali erano frequenti le << mattas >> , cioè la macchia mediterranea dove vivevano daini, caprioli, cinghiali e mufloni.

Dai << saltus >>, cioè i boschi47, provenivano il finocchietto selvatico, gli asparagi, la cicoria, le fragole, le more, i pinoli, le castagne, i perastri e i meli da innestare, i funghi e piccoli animali commestibili come le lumache, i ricci e varie specie di uccelli, catturati con l'utilizzo dei lacci e, le ghiande utilizzate come cibo per i maiali ; infatti i << suerios >> e i << kerketos >> , utilissimi per produrre cibo per i maiali, ebbero una valutazione economica molto alta.

Durante le cacce collettive venivano catturati nei boschi cinghiali, cervi, mufloni e pernici; generalmente i ricavati delle << silvae >> andavano alle persone importanti per cui erano state organizzate, così si ebbero le << silvae de iudike, de curatore e de maiore >>.

Nelle << isclas >> o << iskras >>, cioè dei siti acquitrinosi presenti nelle valli paludose e fertili, utilizzati solo da maggio ad ottobre e poi adibiti a pascolo, si coltivavano i meloni, le angurie, i cetrioli e i legumi, spesso la << iscla >> veniva anche chiamata << ortu a melone >>51; la produzione dei meloni nelle << isclas >> ebbe un ruolo molto importante, infatti nel giudicato d'Arborea, nel secolo XIV, lo stesso giudice Mariano IV si preoccupò di citare e proteggere questa tipologia di terreni nel << Codice Rurale >> da lui stesso emanato.

La viticoltura.



In età romana la diffusione della vite e la produzione del vino furono assai limitate probabilmente a causa della politica della monocoltura cerealicola, adottata prima dai punici e poi continuata in età romana, come testimoniato da una notevole documentazione archeologica ed epigrafica5

Nell'Alto-Medioevo la presenza dei monaci greci favorì lo sviluppo della viticoltura54, anche attraverso l'introduzione di nuovi vitigni come la << malvasia >>, detta ancora oggi "uva greca ", o la << monica >> , per l'uso liturgico che se ne fece inizialmente da parte dei monaci Basiliani e, successivamente, da parte dei monaci Benedettini .

La viticoltura rappresentò uno dei fattori economici più importanti nell'agricoltura sarda nei secoli XI-XII-XIII-XIV, l'importanza di tale coltura è testimoniata dal fatto che su 1315 schede che compongono i condaghi57 di Bonarcado, Trullas, Silki e Salvenor, ben 260 di esse trattano della compra-vendita e delle donazioni di vigne; nessun'altra coltura, nei condaghi, assume una tale importanza, ad eccezione di quella della cerealicoltura che rappresentava la coltura base.

Non esiste infatti una sola donazione, nelle fonti documentarie, di terre o di << domos >> che non contempli, fra le pertinenze, i vigneti << terre et binias >>58, donati a filari << ordines >> oppure a porzioni << parsones >> ; inoltre impiantare una vigna appariva come uno dei primi atti da compiersi mettendo su casa: << Constantine Stapavenit ad Bonarcatu et fegit sibi domum et plantavit vinea >> , oppure: << Guantine Formiga, ka benit ipse assa billa de Miili Pikinnu et fraigait domu et ortu et binnias et arbores >> .

Attraverso i monaci Benedettini vennero introdotte nell'isola nuove varietà di viti come il << monica >>, il cui nome monastico farebbe pensare ad un tributo d'onore da parte dei monaci alle loro sorelle religiose.

Questo vitigno, secondo il giudizio di numerosi ampelografi, sarebbe il << canaiolo toscano >>61, invece il << pascale >>, vitigno molto diffuso nel Sassarese, sarebbe originario della Provenza, dove veniva chiamato << pascal >> o << pasceau >>, quindi un vitigno importato nell'isola, probabilmente, dai monaci Vittorini.

Secondo il Cherchi Paba oltre ai vitigni introdotti in periodo bizantino, dai monaci greci, come la << malvasia >> e il << moscato >>, e quelle appena citate, si coltivavano anche la << vernaccia >>, il << girò >>, detto anche << vargiu >>, che significa << vaio >>, e << l'albu mannu >> il cui nome è chiaramente di origine sardo-latina.62

Ai vasti vigneti corrispose anche una produzione di vini in grado di soddisfare tutte le esigenze "interne" e le richieste del mercato, infatti nell'isola venivano prodotti sia vini comuni che pregiati come la malvasia e la vernaccia e, vini liquorosi come il moscato e la monica, che producevano ricchi introiti alle cantine dei giudici, dei donnicelli e dei monasteri.

La vernaccia, infatti, dovette essere un prodotto di alto pregio commerciale, richiesto nelle mense del patriziato italiano e nelle corti italiane ed europee, perché nelle cronache, nei registri e nei documenti medoevali dei secoli XII-XIII-XIV, questa qualità di vino viene esaltata e posta fra i vini più pregiati in commercio.

Dalle uve nere non tipicizzate si ricavava, inoltre, il << vino sardesco >>63, citato dal Breve di Villa di Chiesa, documento di "ispirazione" non sarda, e da altri documenti , poichè è escluso che fosse vernaccia o malvasia, già citati insieme negli stessi documenti, doveva essere un vino nero, spesso chiamato oggi nel Campidano in maniera popolare << tintera >> o << nieddera >>, perché tinge il bicchiere in quanto prodotto con uve nere indistintamente pigiate e vinificate insieme.

Tra le uve da appassire e da appendere si coltivava l'<< appesorgia >>, detta anche << tricla >> o << triga >>, perché si adattava alla pergola; quindi il nome deriverebbe dal vocabolo << catrigla >> che, nel medioevo, significava anche pergolato65, ed il << galoppo >>, un'altra specie molto indicata per l'appassimento.

Le cantine erano costruite con mattoni crudi o con pietre e fango e, contenevano al loro interno botti di castagno, solitamente cerchiate in ferro e raramente con cerchi di legno. I torchi per l'uva avevano base e castello di quercia e vite di olivastro; la pratica cantiniera si basava sulle solfature col << lucchitu >>, cioè con lo zolfo enologico, parola sarda che deriva dal greco << leukitos >>.

Sempre nelle cantine si praticavano i travasi e la chiarificazione con l'albume montato di uova fresche per i vini bianchi, particolarmente per la vernaccia; questo metodo era molto diffuso nel Medioevo, come quello di utilizzare il miele nella chiarificazine dei vini dolci, secondo il sistema dei romani.

Alla direzione delle cantine erano preposti i << Maiores de binu >>66, che avevano alle loro dipendenze i << Binarios >> e le << Ancille >>, nel condaghe di S. Maria di Bonarcado si ricorda anche che << Miale Pasi >>, servo del monastero, sposò << Castula Nonagla ancilla de iudice apus binarios >>, e che per la ripartizione dei figli il giudice inviò presso il monastero << Tadori Paganu maiore de vino >> .

La giurisdizione del << maiore >> doveva essere pari all'importanza economica della produzione vinaria che doveva dirigere, per cui aveva alle sue dipendenze servi specializzati e serve per la pulizia delle cantine che, dovevano essere molto ampie per avere bisogno di molto personale.

Il vino fu anche utilizzato come merce di scambio perché si trova ceduto, in quantità non precisata, per l'acquisto di un terzo del << saltus >> di Monte Calvosu da parte dell'abate di Trullas68; inoltre alimentava sicuramente il mercato interno, perché l'articolo 126 della Carta de Logu prevedeva che il carrettiere potesse annacquare e vendere per conto proprio , lungo il suo tragitto, il vino che trasportava e, il capitolo 105 della stessa Carta de Logu trattava delle misure per il vino, stabilite dalla Corona e, quindi fatte rispettare dai curatori.

Attraverso il condaghe di Santa Maria di Bonarcado apprendiamo, quindi, dell'esistenza di funzionari addetti alla vinificazione, detti << binarios de iudice >>69, altri << binarios de iudice >> compaiono in una seconda scheda, la 202, come testimoni di una donazione proprio di una vigna oltre che della parte di una tenuta; è degno di nota il fatto che nel condaghe si trovi solo questa formula, intendendo << de iudice >> col significato << dello Stato >>.

Altre due schede del condaghe ricordano questi funzionari: nella scheda 89, infatti, si parla del matrimonio fra il servo di S. Maria, Miale Pasi, con l'ancella del giudice Castula Novagla, che lavora << apus binarios >> e, perciò che riguarderà la successiva spartizione dei loro figli a rappresentare gli interessi del giudice e, quindi, dello Stato, sarà incaricato un << maiore de vinu >>, chiamato << Troodori Paganu >>70.

Dai << binarios >>, o capi-vignaioli, perché sovraintendevano a tutte le fasi della vinificazione, fra cui anche quelle dell'imbottamento e della conservazione, che presupponevano la presenza di personale specializzato come artigiani, bottai, imbottatori, acetieri, trasportatori e carrettieri, dipendevano, senza però esercitare su di loro poteri padronali, servi e ancelle addetti, probabilmente, alla vendemmia, alla selezione e alla pigiatura dell'uva.

I << binarios >>, infine, erano posti sotto la giurisdizione di un << maiore de binu >>; entrambe le categorie erano quindi le responsabili della direzione tecnica ed economica della vigna.

Esisteva perciò una sorta di << ministero >> o di << dipartimento >> addetto alla produzione e forse al commercio del vino, nel quale lavoravano servi e ancelle, coordinati da funzionari, i << binarios >>, che a loro volta dipendevano da un << maiore >>, cioè un funzionario statale di grado elevato, responsabile del settore, che doveva essere molto importante perché faceva << dicastero >> a sé e non era accorpato ad altri settori, o posto sotto la giurisdizione di funzionari locali come << curatori >> o << maiori de villa >>.

Le vigne spesso, data la capacità di adattarsi a varie tipologie di terreno, venivano piantate anche al di fuori delle << domestiae >>, come attestato dal condaghe di S. Maria di Bonarcado che cita infatti delle << binias de monte >>71, cioè vigne impiantate in zone boschive.

I vigneti venivano impiantati ad << alberello >> e, sicuramente, anche a << spalliera >>, infatti nelle donazioni si trovano anche i << virgariis >>72, cioè i vivai di giovani piante usate come sostegni per le viti, nel << Codice rurale >> di Mariano IV e, nel condaghe di S. Pietro di Silki, sono citati anche i << radicarii >> ; nei documenti arborensi si parla infine anche dei << cannabarii >> , cioè i vivai dove si allevavano le canne.

Le vigne qualche volta venivano impiantate come pergolati, detti << catriclas >>75, quando si trattava di allestire viti di particolare pregio da consumare fresche o appassite, oppure negli orti o nei frutteti; ma più spesso erano piantate a filari, detti << ordines >> o << jualis >>, come testimoniato dalla scheda 71 del condaghe di S. M. di Bonarcado: << yo le di VIII ordines o jualis de vinia >>, separati da uno spazio detto << plazza, prazza, platea >>.

I filari erano composti da un determinato numero di ceppi, per cui era facile valutarne subito l'entità, una volta calcolato il numero dei filari, per noi è impossibile valutare l'entità delle vigne annotate nei documenti perché non sappiamo di quanti ceppi fosse tradizionalmente composto un filare; i singoli piedi dei filari erano sorretti da canne, prodotte nei canneti, spesso appositamente piantati.77

Le viti non erano tenute basse a cespuglio, ma venivano fatte arrampicare su appositi sostegni, infatti nel capitolo 145 del << Codice rurale >> si proibiva di asportare dalle vigne << rayglas segadas nen sanas >>, dove << rayglas >> significa in latino << palo fatto di legno di quercia o di castagno >>78, che rappresentava il miglior tipo di sostegno fra quelli citati da Varrone .

Spesso le viti si facevano arrampicare sugli alberi, come ricordato dal condaghe di S. M. di Bonarcado: << publiana II cum bide >>80, cioè un pioppeto con viti e spesso, nello stesso documento, si parla anche di frutteti con viti: << binias et pumu >> , secondo la tecnica dell'<< arbustum >>, cioè della vite sposata agli alberi, assai diffusa sia in età romana che medioevale, che consisteva nel fare attorcigliare la vite sugli alberi da frutto, soprattutto sui fichi.

Una fonte documentaria di notevole importanza sulla quale mi baserò nel proseguo della trattazione sulla viticoltura nel XIV secolo è rappresentata dal << Codice rurale >> di Mariano IV, giudice d'Arborea.

E' un codice che contiene una serie di disposizioni di diritto agrario, il cui testo è contenuto nelle redazioni a stampa della Carta de Logu d'Arborea, fra i capitoli 132 e 159 83, nel << Codice rurale >> ben 15 capitoli su 26 sono proprio dedicati alla viticoltura .

Nel XIV secolo l'abolizione della schiavitù, la fine dei cenobi benedettini, cui si sostituirono l'ordine francescano e quello dei mendicanti, la guerra contro gli Aragonesi, determinarono un vero e proprio cambiamento del paesaggio agrario.

Secondo l'Imberciadori il motivo fondamentale dei profondi sconvolgimenti sociali ed economici è da attribuirsi all'introduzione del feudalesimo catalano in Sardegna che, in campo agrario e commerciale, avrebbe provocato una recessione dell'agricoltura e della viticoltura. << Col diminuire dell'agricoltura, diminuisce la viticoltura, che dava genere di qualità pregiate e denaro contante, proprio nel momento in cui i debiti o spese di guerra o spesa di attrezzi, salarii di truppa e esigenze di governo locale e centrale spesso esigono denaro, premendo sui contribuenti impoveriti>>85.

Gli effetti di tale crisi economica vennero riportati dallo stesso Mariano IV nel suo << Codice rurale >>. << Nos Marianus pro issa gracia de Deus juyghi de Arboree, compte de Gociano et bisconti de Basso, considerando sos multos lamentos continuamente sunt istados et sunt per issas terras nostras de Arboree et Loghudore prossas vignas ortos et lauores que si disfaghint et consumant perissa pocha guardia et cura qui si dat a su bestiamen cusso de qui est et quillu at in guardia, prossa quali causa multas vignas et ortos sunt eremados et multas personas si moranent de lauorare, qui lauorariant pro dibidu qui ant de non perdere cusso quillo aut fagheri>>86.

L'intento di Mariano IV non fu soltanto quello di garantire la vigilanza dei campi coltivati, dei vigneti, degli orti, ma quello di mutare l'indirizzo economico del giudicato verso il commercio per abbandonare l'autoconsumo, anche attraverso la creazione di un catasto agrario e di una programmazione territoriale delle colture, soprattutto di quella della vite.

Gli esempi sono numerosi perché 15 capitoli del Codice, come precedentemente rilevato, riguardano la viticoltura; ad esempio nel capitolo 141: << De lavorari sas vignas in su tempus >>, in italiano: << Di lavorare le vigne quando è tempo >>87- << Vogliamo e ordiniamo che coloro i quali hanno delle vigne, o che le avranno per il futuro, le debbano lavorare ogni anno; e se ci fosse qualche vigna che non viene lavorata nel periodo stabilito dai Capitoli della Carta de Logu di Arborea venga tolta e data alla Corte . E se la Corte non le lavorasse o facesse lavorare da quel momento in poi per i tempi stabiliti, né le vendesse a persona che fosse in grado di lavorarle, se è una vigna in un << castigu >> resti tale e sia di coloro che hanno altre vigne nello stesso << castigu >> e che sono confinanti e vicini, secondo quanto è detto nel capitolo precedente. E questa disposizione valga anche per le vigne della Corte e delle Chiese, come per tutte le altre >>.

Il termine << castigu >> ha un duplice significato: nel latino classico, infatti il verbo << castigare >> ha il significato di "contenere, racchiudere", mentre in sardo il verbo: << kastiare >> o << kastigare >> significa anche "guardare, custodire, conservare"; dunque il << castigu >> era un luogo ben custodito e veniva scelto esclusivamente per la coltura della vite.

I << castigus >>89 rappresentano perciò dei veri e propri consorzi agrari specializzati nella viticoltura e testimoniano quindi la volontà di una programmazione territoriale delle colture.

Il possessore di un appezzamento in un << castigu >> non poteva lasciarlo incolto, ma doveva necessariamente impiantarvi una vigna, nell'arco di un anno, oppure vendere la terra o darla in affitto a chi era in grado di impiantarla, se fosse scaduto l'anno gli sarebbe stata confiscata; inoltre era obbligato a contribuire alle spese di recinzione per la parte a lui spettante90, anche in questo caso aveva un limite di tempo ( un mese ) per reperire il denaro, altrimenti avrebbe dovuto vendere la sua parte. Se non avesse trovato acquirenti, la stessa terra sarebbe stata divisa fra i proprietari limitrofi che, ovviamente, dovevano sottostare agli stessi obblighi, infatti la legge precisava che queste disposizioni erano valide anche per le terre della Corona e della Chiesa.

Il Cortese ha notato che le disposizioni legislative che regolavano il << castigu >> facevano supporre un'iniziativa da parte del potere pubblico che, concedendo attraverso lo sfruttamento della << secatura de rennu >> terre demaniali ai privati affinché le coltivassero, dimostrava l'interesse del legislatore per l'incremento della viticoltura91, sottintendendo un tentativo di modificare la vecchia agricoltura secondo criteri di intensività e non più di estensività.

Le recinzioni, di cui parla il << Codice rurale >>, utilizzate nelle vigne erano di tre tipi: <<de fossu o de nuru o de clausura >>92, venivano erette solo lungo il perimetro esterno del << castigu >> e non all'interno, quindi, senza alcuna separazione delle vigne, seppure appartenenti a proprietari diversi; si riproponeva in tal modo il modello del << viddazzoni >> e, perciò, viene ancora una volta confermata la vocazione alla proprietà ed allo sfruttamento comune delle terre, che ho precedentemente evidenziato parlando dell'ordinamento fondiario giudicale.

Le ronde agresti avevano il compito di controllare lo stato delle recinzioni e di fare mettere in regola chi ancora non lo fosse93 e di annotare su di un registro, compilato annualmente, le recinzioni visitate, il tipo usato e lo stato più o meno efficiente in cui versavano.

Altre disposizioni ufficiali riguardavano la prevenzione dei danni o furti nelle vigne95, oppure il divieto di vendere uva non di proprietà oppure acerba, detta << agresta >>, ed anche il divieto rivolto al vignaiolo di portare nella sua casa, o di permettere che ciò venga fatto da altri, uva del suo padrone senza il permesso di quest'ultimo.

Le stesse pene riguardavano anche coloro i quali venivano pagati per vendemmiare, qualora si fossero appropriati dell'uva97 oppure dei ceppi o delle stesse viti.

Il << Codice rurale >> rappresenta una fonte di notevole importanza anche per ciò che riguarda la vendemmia, infatti attraverso il capitolo 146 apprendiamo che prima della vendemmia chiunque avesse una vigna in un << castigu >>, oppure per conto proprio, doveva assumere uno o più guardiani, probabilmente entro lo spazio di tre giorni dal giorno di S. Quirico, pena il doppio della multa prevista, affinchè impedissero agli estranei di entrare e saccheggiare le viti.

Gli stessi guardiani sarebbero stati multati qualora, disertando il posto di lavoro, avessero facilitato il saccheggio da parte dei ladri; i guardiani, detti << castiadores >>99, non erano servi, ma uomini liberi che dovevano essere pagati prima della vendemmia; quindi esisteva una categoria di lavoratori stagionali che usufruivano di una sorta di vero e proprio contratto di lavoro, ed erano anche tutelati legalmente, ovviamente il loro numero variava in base all'estensione della vigna.

Il << Codice rurale >> prevedeva multe anche per chi asportasse da una vigna uva e << agresto >>, cioè quell'uva selvatica che, non raggiungendo mai la maturazione, veniva utlizzata per l'aceto, ma anche per la confezione di liquori e di condimenti.100

Durante la vendemmia i grappoli venivano raccolti in tini di sughero, detti << baione >>, o di legno, detti << tina, tinedda o tineddu >>, nelle zone interne i grappoli venivano pigiati in un tino in muratura, detto << laccu >>, mentre nel Sud dell'isola si usavano quelli di legno; nei documenti sardi per indicare la pigiatura dell'uva compaiono i verbi: << kalcari, karcari, kraccai >>.

Un elenco degli attrezzi utilizzati durante la vendemmia, all'epoca di Ugone III d'Arborea, figlio di Mariano IV, è presente nei capitoli aggiuntivi, detti << addende >>, agli Statuti Sassaresi, nei quali si danno disposizioni dettagliate sui vari prezzi di ogni singolo manufatto.101

Nel capitolo LXIII102, intitolato: << Ordinatione fata supra sos fabros, quiddepiam leare dessa manu sua >> ( Ordinazioni fatte sui fabbri e di quanto debbano prendere in cambio del proprio lavoro manuale ), si trova un lungo elenco di attrezzi agricoli: aratri, sarchi, picchi, scuri, vanghe, pale, falci, roncole e falcetti, potatoi, roncole per potare, dette << pudaiolu >>

Il Wagner afferma che per potare, come per tagliare i grappoli, veniva utilizzata la << pudatha >> nel Nuorese, la << pudazza >> nel Campidanese e la << pudaiola >> nel Logudoro, termini dialettali sardi che derivano dal verdo << pudare >>104.

Nell'elenco appena citato compare insieme al << pudaiolu mannu >>, cioè il potaiolo grande, anche l'<< isquiradorgiu >> o << cirradorza >>, cioè una piccola roncola con un manico lungo, utilizzata per sfrondare gli alberi; il termine deriva da << kirra o cirra >> che significa "tagliare le cime delle viti"; quindi poiché << cirrai >> significa tagliare le cime delle viti e la << cirradorza >> è una piccola roncola con manico lungo, significa che le viti non erano basse, ma venivano impiantate a << spalliera >>.


L'allevamento.



Il patrimonio zootecnico in Sardegna era molto ricco, ogni donazione comprendeva infatti anche << sinnu grussu e minudu >>105, cioè animali di taglia grande o piccola; alcune donazioni parlano di circa 14.000 capi di bestiame come maiali, capre, pecore ed anche buoi e cavalli ; dato il loro numero elevato il << Codice rurale >> di Mariano IV prevedeva che gli animali che avessero sconfinato nei coltivi sarebbero stati macellati sul posto.

L'allevamento si praticava soprattutto nelle terre incolte in pianura o nei boschi ( saltus ), che venivano in parte disboscati e nei quali si insediavano stabilmente, in alcuni casi, i pastori, i servi pastori e gli allevatori che vivevano in capanne o in piccole case, quasi sempre costruite con mattoni di fango e di paglia o con pietre sovrapposte, dedicandosi alla produzione del formaggio e dei suoi derivati. In tal modo i pastori con le loro famiglie formavano il primo nucleo di quella che successivamente sarebbe potuta diventare una villa.

Generalmente il bestiame era tenuto all'aperto nei vasti pascoli ed allevato allo stato brado perché in quel tempo non esistevano le fattorie, vi erano solamente dei recinti o stabbi, detti << masonis >> o << cortes >>108; poiché nei pascoli il bestiame non aveva alcun riparo dalle intemperie erano molto frequenti le morie, non solo per malattia, ma spesso anche per la mancanza di pastura, poiché la difficoltà dell'irrigazione, che non era pienamente efficiente, limitava la produzione di fieno e così, se il pascolo o a causa della siccità oppure a causa della neve veniva a mancare, la fame decimava il bestiame.

Al calar della sera il bestiame veniva condotto nei << gulvares >>109 o nei << camadorios >> , vicino ai quali, di solito, vi erano gli abbeveratoi; addetti alla custodia del bestiame erano i << berbegarios >> ( pastori ), gli << armentarios >> ( bovari ) e i << porcarios >> ( porcari ).

Il bestiame minuto come ovini, caprini e suini era di maggior numero rispetto al bestiame di grande stazza come i buoi e cavalli, il quale richiedeva maggiori capitali e dava utili meni immediati; gli animali di grande stazza venivano anche domati ed usati per il lavoro ma, essenzialmente, da questi si ricavavano le carni e i cuoi.

Nei << saltus >> venivano allevate allo stato brado mandrie di bovini quasi selvatici e di piccole dimensioni, dal peso di circa 90-100 kg., le vacche scelte ed allevate con maggior cura erano molto meno e da esse si ricavava il latte e, dopo un'adeguata lavorazione, i latticini114; torme di cavalli selvaggi o domiti erano libere di scorrazzare nei << padrus >>, i prati, e nei fondi delle valli.

I suini pascolavano in branchi nelle macchie e nei querceti o nei ghiandiferai, nutrendosi di ghiande e corbezzoli, oppure in numero più limitato, uno o due per famiglia, venivano ingrassati negli stabbi a loro riservati in prossimità delle abitazioni115; il suino allevato per gli usi più direttamente familiari, per le carni e per gli insaccati, veniva indicato col nome di << porcu mannu >> o anche con quello di << mannali >>.

Gli ovini e i caprini, ma soprattutto gli ovini, rappresentavano una vera e propria ricchezza per la Sardegna, le immense greggi di ovini fornivano ai loro allevatori carne, latte e formaggi, pelli e lana; l'attività industriale a carattere "familiare" provvedeva a trasformare il latte in formaggio e la lana in stoffe rozze ( orbace ) con le quali le donne confezionavano abiti maschili e femminili e oggetti d'uso ; a soddisfare l'esigenza, nella biancheria, di stoffe più fini dell'orbace provvedeva la coltivazione del lino.

Le greggi risultavano divise in raggruppamenti più piccoli, detti << game >>, e gli animali, come avviene ancora oggi, venivano marchiati con segni particolari atti ad indicarne il proprietario.

La salagione, con lo scopo di conservare le carni di maiale ed anche di altri animali come i vitelli, era molto praticata ed in tempi di carestia tali carni potevano anche essere scambiate o vendute, raggiungendo anche prezzi elevati.

Attraverso alcune schede del condaghe di San Nicola di Trullas è possibile rilevare che il << bacone >>, così veniva chiamata la carne salata di maiale o di vitello, serviva come merce di scambio per l'acquisto di terre oppure per l'acquisto o la permuta di schiavi.

Completavano il fabbisogno dei centri agricoli le saline e le peschiere, che potevano essere private o di proprietà di chiese e monasteri116, oppure far parte del patrimonio del << rennu >>; il prodotto delle saline trovava largo impiego nella confezione del pane, nella conservazione del cibo, soprattutto nella salagione delle carni e dei formaggi; oltre a quelle dei Vittorini nel Cagliaritano, sappiamo che anche i monasteri del Logudoro, tra i loro possedimenti, annoveravano le saline.






















La pesca



Negli stagni e nelle << paludes >> veniva praticata la pesca, spesso il permesso di pescare in mare senza pagare tasse rappresentava una concessione economicamente rilevante per i monasteri118; la grande abbondanza d'acqua veniva sfruttata anche dai numerosi mulini impiantati intorno ai monasteri.

Nelle << piskinas >>, cioè nelle piscine, vasche d'acqua naturali o ricavate attraverso la chusura delle anse dei fiumi, si allevavano i pesci, insieme alle sanguisughe, spesso utilizzate dalla medicina medioevale per ogni tipo di malattia.120

Il prodotto delle peschiere veniva consumato soprattutto nei giorni di "magro", nei quali la chiesa vietava di mangiare carne, il pesce era quindi il cibo che si alternava alla carne o ai prodotti agricoli.

Le peschere, oltre al nome di << pisqueras >>, dovettero avere anche il nome di << cirras o chirras >> al quale è stato dato dal Solmi il significato di "dintorni" o di "cergas", cioè i tributi. Infatti per alcune << isclas >>, fra le quali << una ki est inter aquas >>, donate dalla giudicessa Benedetta al vescovo di Sulci, veniva concessa ai vescovi la facoltà di << pasquiri cum peguliu issoru, arari, fayri illoy silva ho fayri chirras ho piscari >>, secondo il loro volere; poiché le terre situate in prossimità del mare o degli stagni, venivano concesse << cum aliquis dulchis et cum aliquis salsis >>, la frase della giudicessa Benedetta può essere interpretata nel senso che ai vescovi veniva concessa la possibilità di pascolare il bestiame, di arare, di esercitare i diritti di caccia, di impiantare peschiere, oppure di pescare nei fiumi o in mare aperto.

Lo stesso significato deve avere il termine << chirras >> presente nella cessione di alcune << vignas in chirras >> insieme ad un gruppo di servi, eseguita nel 1222, dal giudice Torbeno d'Arborea al cugino Costantino; queste << vignas in chirras d'Aristani o in Ponte de Sinis >> dovevano essere delle peschiere, come si può dedurre da una successiva donazione fatta dal giudice Ugone d'Arborea ai monaci di Bonarcado e confermata successivamente dal figlio Pietro II.

Attraverso questa donazione, come precedentemente riportato, i monaci potevano infatti << piscare in mare de Ponte cum duas barcas et in mare vivu >>, quindi usufruivano, senza versare alcuna tassa al << rennu >>, di quanto veniva da loro pescato in una << ajina qui hat in Ponte de Sini >>.121

I pescatori appartenevano alla classe sociale dei << liberos de paniliu >>, gli artigiani, che con la loro attività soddisfacevano le necessità dei vari centri, che non erano compresi nel sistema economico agro-pastorale, come la costruzione degli attrezzi agricoli e degli edifici.

Le attività artigianali non impedivano a questi liberi il lavoro agricolo in alcuni periodi e, seppure residenti in determinate ville, i << liberos de paniliu >> potevano spostarsi nei vari centri per esplicare le loro attività; così sia la << villa >> che la << domu >> avevano un'econimia aperta.122

Le "industrie" in Sardegna durante il periodo giudicale non ebbero la stessa fioritura dell'agricoltura e della pastorizia, gli accenni presenti nelle fonti documentarie al << genithiu >> e ai << gennezzarios >> fanno supporre che le industrie tessili fossero impiantate anche nell'isola ma, probabilmente, la loro produzione non eccedette i bisogni locali.

In ciascun centro, a completamento di questa vita e attività di tipo curtense, vi erano i mulini, sempre posti accanto ai fiumi, perché mossi dalla forza dell'acqua123, i magazzini, detti << kellarius >>, sia pubblici che privati, per la conservazione dei cereali, del vino e di molti altri prodotti; all'interno dei magazzini, i << kellarius >>, vi erano degli speciali recinti per il grano e per il vino, chiamati rispettivamente: << orrios >> e << cupa >> .

I prodotti sardi principalmente esportati erano: carni, formaggi, tra i quali godettero di un credito speciale i formaggi bianchi come il cacio-cavallo gallurese125, vini, lane, fili e tessuti ; nei documenti sardi figura il << sagu de paperile >> , mentre in quelli pisani e genovesi il << sacrum sardinee >> e << l'albace o orbace >> , inoltre un' << argenthola >>, ricordata nel condaghe di San Pietro di Silki , ci fa supporre che in Sardegna si lavorasse anche il lino .

Inoltre la Sardegna esportava cuoi, pelli e pellicce di animali domestici e selvatici131, i sui mari fornivano pesci e, dalle sue scogliere veniva ricavato il corallo, una merce che garantiva un guadagno anche ai piccoli commercianti.

Il centro principale dove avveniva la commercializzazione del corallo era la città di Alghero, ma la sua ricerca si estendeva anche lungo gli altri litorali sardi; il corallo era particolarmente apprezzato dai Provenzali che, infatti, si recavano << in Sardinia pro corallo >>13

I pastori e gli agricoltori ebbero un grande vantaggio dalla vendita dei prodotti superflui, perciò si verificò un progressivo incremento delle terre coltivate in tutte le località della Sardegna, ad esempio furono messi a coltura i terreni di numerose << villae heremas >>, o deserte, precedentemente non sfruttate; inoltre la cessione di numerose campagne agli "stranieri", volontaria o coatta a causa dei debiti, si trasformò quasi in una sorta di colonizzazione che incoraggiava la produzione e aumentava il benessere nelle campagne e la floridezza delle città, dove risiedevano i mercanti stranieri.

Ebbe quindi inizio il trapasso dalla chiusa economia di sussistenza, propria dell'Alto Medioevo, detta << curtense >>, ad un'economia nuova, aperta e commerciale134.

L'esempio dei commercianti pisani e genovesi, infatti, stimolò i << maiorales >> ed i ricchi proprietari terrieri, desiderosi di rapidi arricchimenti, ad emularne l'attività dedicandosi al commercio; dall'inizio del XIII secolo non furono pochi i Sardi che si trasformarono da proprietari terrieri in mercanti135, infatti non soltanto a Pisa e Genova ebbero rappresentanti e fondachi propri, ma si spinsero anche nei mercati della Francia, della Sciampagna e della Fiandra .

Poter stabilire in maniera approssimativa i prezzi e le loro oscillazioni è molto difficile poiché spesso in Sardegna mutava il corso delle monete; nell'alto-medioevo venivano usate le monete bizantine, successivamente a causa dei rapporti con le popolazioni franche, italiche ed arabe furono usate le monete carolingie, più tardi furono utilizzate le monete di Lucca137, di Pisa e di Genova, i Marini , i Malechini , i Barbagini , i Massamutini , conteggiati ancora per Bisanti oppure per Perperi o ancora per Tremissi .

Attraverso la documentazione reperita nel condaghe di San Pietro di Silki e nelle altre fonti documentarie, è stato possibile stabilire i prezzi riguardanti gli schiavi, gli animali e le terre.

Gli schiavi potevano essere venduti per una lira d'argento145, oppure la liberazione di una schiava poteva avvenire attraverso il pagamento di quattro lire d'argento , altri schiavi venivano pagati cinque lire e un soldo .

Cavalli << attrasatos >> venivano venduti per mezza lira d'argento148, puledri dell'età di un anno venduti per due soldi ; buoi venduti per quattro soldi e quattro denari , vacche vendute per tre soldi e mezzo o per quattro , vitelli venduti per un soldo e tre denari , maiali alienati per due soldi, oppure per un soldo e un denaro , o per un soldo e quattro denari .

Nel condaghe di San Pietro di Silki troviamo << saltus >> o porzioni di salto, vendute per mezza lira156, per una lira d'argento lavorata , per due o per tre, oppure per mezza lira e un bue domato , per mezza lira un cavallo e un bue , per due vacche, per due << pethas de pesentinu >> e tre soldi << de pannu >> , per dieci << thiriccas >> di cacio , oppure per un << novellu >> .

Le vigne erano vendute per sei163, sette , dodici, quindici, ventitre o venticinque soldi, oppure per mezza lira d'argento e venticinque pecore , per una lira d'argento e un << varrellu >> , ed anche per una << farga >> e una servitù di passaggio , ed infine delle << plazzas o cirras de plazzas >> vendute per venticinque bisanti.

Gli orti potevano essere venduti per due vacche e un bue169, per quattro << vardones de petha porkina >> , per due << vardones de petha porkina >> e due moggi di grano e una << petha berbekina >> .

Queste fonti testimoniano come fosse scarsa la circolazione del denaro e, quindi, come prevalessero i pagamenti in natura; mentre il rapporto tra le dimensioni della terra ed il suo prezzo non sono a noi note, poiché le unità di misura non ci sono precisamente note.

Infatti nel condaghe di San Piatro di Silki, nelle schede 141-142-143-144, risulta che una << fusta de virga >> di << fenariu >>, veniva valutata un soldo, ma non sappiamo qual'era la dimensione metrica della << fusta >> ed in che rapporto si trovasse con il << cubitu >>172 o con la << fune >>

La valutazione della terra era assai bassa durante gli << annos de sa fame >> o quando imperversavano le carestie ma, quando si riavviava l'economia isolana, si verificava ovviamente un incremento di tutti i prezzi, compreso quello della terra.


































Gli attrezzi agricoli, i carri, le mole granarie e i mulini ad acqua nella Sardegna giudicale.



La storia agraria medioevale sarda è caratterizzata dalla scarsità della documentazione a noi pervenuta. Infatti per quanto riguarda gli attrezzi agricoli ci è pervenuto un nudo elenco presente in un documento del XII secolo1 e, per ciò che riguarda il XIV secolo, il periodo nel quale visse Ugone III, figlio di Mariano IV e fratello della giudicessa Eleonora d'Arborea, ci sono pervenuti dei capitoli aggiuntivi agli Statuti Sassaresi, in uno dei quali ( cap. LXIII ) si danno disposizioni dettagliate sui vari prezzi di ogni singolo attrezzo agricolo e manufatto.

Il Besta esaminando i manoscritti degli Statuti Sassaresi, emanati intorno al 1316, trovò fra le << addizioni >> o << addende >> alcuni ordinamenti in più punti abrasi e cancellati, i quali, dopo un attento esame, rivelarono il nome del legislatore.

Queste << addizioni >> erano già state precedentemente pubblicate da P. Tola nel volume primo del Codex Diplomaticus Sardiniae in aggiunta agli Statuti Sassaresi, ma il Tola dando scarso rilievo alle cancellature incomplete non tentò di decifrarle e si limitò ad indicare con dei puntini le parole mancanti, attribuendo la paternità di queste leggi ed ordinanze agli Aragonesi.

Come appena detto il Besta riuscì a decifrare quelle parole quasi illegibili, certificando che il legislatote era Ugone III d'Arborea e che le ordinanze riguardanti la città di Sassari erano state emanate tra il 1381 e il 138

Le parole "illegibili" delle leggi e ordinanze di Ugone III sono le seguenti:

nel capitolo LVII: << Nos Hugo per gratia de Deo iudiche de Arborea visconte de Bassu signore de Sardinia >>.

Nel capitolo LXI e LXII alla fine del testo si legge: << Datum in Arestanis a dies XXVII de sanctu sadurru sub sigillo nostro secreto >>; e in seguito nel testo era preposta la scritta: << Nos Hugo..>>.

Nel capitolo LXXV: << Nos Hugo per issa gratia de deo iudiche de Arborea et Logodorij, vischonti de Basso, segnore de Sardingia >>.

Nel capitolo LXXVII, alla fine del testo: << A dies XIII se sanctu Gaini de MCCCLXXXI >>.

Nel capitolo LXXIX, in principio: << Nos Hugo Dei gratia judex Arboreae et dominus Sardiniae >>; alla fine del testo: << Datum in Arestanis a dies ij de lampadas de MCCCLXXXIII >>

Il legislatore, Ugone III, dettò delle norme che avevano come scopo il miglioramento dell'ordinamento amministrativo delle sue terre e la repressione dei reati i quali, con l'imperversare della guerra, erano diventati più frequenti.4

L'imposizione dei tributi, multe e tasse non è un fatto anomalo perché era tipico delle legislazioni concernenti tutti i giudicati; invece le maggiori percentuali richieste, rispetto alla legislazione precedente, possono essere spiegate se si considera il fatto che qualunque governo, in tempo di guerra, inasprì sempre l'imposizione ai contribuenti per sopperire alle maggiori spese del momento.

Molto probabilmente altre leggi ed ordinanze furono emanate anche per le altre città, terre e ville delle quali era in possesso; questa legislazione fu considerata talmente utile e confacente alle popolazioni per la quale venne emanata, che fu mantenuta in vigore anche sotto la dominazione aragonese.

Il capitolo che successivamente riporterò con allegata la traduzione in italiano corrente è il numero LXIII5 intitolato << Ordinatione fata supra sos fabros, quiddepian leare dessa manu sua >>, in italiano: << Ordinazioni fatte sui fabbri e di quanto debbono prendere in cambio del proprio lavoro manuale >>, nel quale sono presenti disposizioni dettagliate sui vari prezzi di ogni singolo manufatto.

Gli utensili agricoli in Sardegna non furono sicuramente molto evoluti perché ad esempio il Sabatino Lopez osservò che << .il più colto agricoltore di nobile famiglia dell'XI e del XII secolo raramente ne sapeva di più, o meglio, del suo collega greco o romano >>6; oppure il Le Lannou, attraverso la comparazione delle attrezzature in uso in Sardegna tra il 1930 e il 1940 con quelle descritte da Virgilio e da Varrone, affermò che << nel campo dell'attrezzatura e delle tecnichei Sardi sono ai tempi di Virgilio e di Varrone >> .

E' utile quindi analizzare le fonti letterarie degli agronomi latini, che potrebbero riguardare anche la Sardegna, per verificarne la veridicità attraverso gli utensili rinvenuti negli scavi archeologici e confrontarli con gli elenchi di attrezzi presenti nei documenti medioevali precedentemente citati.

Una fonte letteraria di notevole importanza è rappresentata dall'opera << Opus Agriculturae >>8, nella quale compare un elenco di attrezzi agricoli che, secondo l'autore, non sarebbero mai dovuti mancare in una villa; quindi verosimilmente anche gli << Honorati >> sardi, poiché possessori di ville, furono a conoscenza dell'esistenza di questi attrezzi agricoli e li possedettero.

Il testo latino è il seguente: << Instrumenta vero haec, quae ruri necessaria sunt, paremus: aratra semplicia vel, si plana regio permittit, aurita, quibus possit contra stationes umoris hiberni sata celsior sulcus adtollere, bidentes, dolabras, falces putatorias, quibus in arbore utamur et vite; item messorias vel fenarias, ligones, lupos, id est serrulas manubriatas minores maioresque ad mensuram cubiti, quibus facile est, quod per serram fieri non potest, resecando trunco arboris aut vitis interseri, acus per quas in pastinis sarmenta merguntur, falces a tergo acutas atque lunatas, cultellos item curvos minores, per quos novellis arboris surculi aridi aut extantes facilis amputentur; item falciculas brevissimas tribulatas, quibus filicem solemus abscindere, serrulas minores, vangas, runcones quibus vepreta persequimur, secures simplices vel dolabratas, serculos vel simplices vel bicornes vel ascias in aversa parte referentes rastros; item cauteres, castratoria ferramenta atque tonsoria vel quae ad animalium solent pertinere medicinam; tunicas vero pellicias cum cucullis et ocreas manicasque de pellibus, quae vel in silvis vel in vepribus rustico operi et venetorio possit esse communes >>.

In questo elenco compaiono quindi numerosi attrezzi agricoli come l'aratro semplice o laddove la regione piana lo consenta, il tipo << aurita >>, cioè a forma di orecchio oppure con le orecchie; falci di vario tipo << falces putatorias >>, cioè roncole utilizzate per gli alberi o per le viti; << falces messorias vel fenarias >>, cioè falci per mietere le messi e tagliare il fieno; falci lunate, cioè falci ricurve di notevoli dimensioni e le falci dentate di piccole dimensioni << falculas brevissimas tribulatas >>, utilizzate per tagliare le felci.

Palladio cita anche vari tipi di seghe; << lupos id est serrulas manubriatas minores maioresque >>, cioè piccole seghe di varie misure, munite di manico in legno; oppure << serrulas minores >>, piccole seghe che si differenziano dalle precedenti forse per la lunghezza dei denti della sega o per la fattura.

Nell'elenco compaiono poi strumenti a lama: i ronconi, le ronche, utilizzate per tagliare i roveti; coltelli << cultellos >>, piccoli rasoi curvi usati per tagliare i rami secchi degli alberi. Vengono elencati anche strumenti a lama con manico: asce << dolabras >> e le scuri semplici o doppie << secures simplices o dolabratas >>; e strumenti più comuni come il sarchio, semplice o bicorne, o ad ascia, con i rastri nei due sensi << sarculas vel semplices vel bocornes vel ascias >>; marre biforcute con due denti, zappe << ligones >>, vanghe << vangas >> ed anche gli << acus >>, cioè i paletti utilizzati per tenere immersi nella terra i tralci delle viti.

In ambito zootecnico Palladio enumera i << cauteres >>, cioè i marchi a fuoco, i << castratoria ferramenta >> e i << tonsoria ferramenta >>, cioè gli attrezzi usati per castrare il bestiame, ed infine i farri utilizzati per operare le bestie malate.

Verificare la presenza di questi utensili in Sardegna attraverso gli scavi ci è di notevole aiuto, anche se è opportuno specificare che le campagne archeologiche, fino ad ora, non hanno riguardato siti archeologici databili in età giudicale; i ritrovamenti che mi accingo a citare riguardano, pertanto, i secolo V-VI-VII-VIII.

Gli scavi presso la villa di S'Angiargia, vicino ad Arbus, hanno riportato alla luce solo alcuni chiodi di bronzo e di ferro, probabilmente facenti parte di utensili agricoli 9; altri chiodi sono stati ritrovati a Bruncu Espis, in località Arbus, in un insediamento romano di età imperiale ; ed infine chiodi di bronzo sono stati ritrovati a S'Ungroni in un insediamento popolato sia in età romana che alto-medioevale.

Da uno scavo, condotto dal prof. Lilliu, provengono diversi << elementi e oggetti d'uso in ferro, molto consunti ma qualcuno riconoscibile, come vari chiodi e la parte inferiore di un succhiello >>12, ed anche diversi coti per l'affilatura degli attrezzi a lama, che chiaramente presuppongono l'esistenza degli stessi nell'insediamento.

Un'ascia, detta << dolabra fossoria >>, proviene da una tomba di Baressa, il località Santa Maria , la quale può essere rapportata al mestiere del defunto, oppure ad un amuleto contro i potenziali violatori del sepolcro.

Le testimonianze archeologiche riguardanti le macchine semplici , nella fattispecie le macine granarie, sono invece molto numerose: una mola e la porzione di un << catillus >>, cioè la parte superiore della macina, è stata ritrovata presso Meana Sardo ; a Serramanna, nel villaggio di Muntonali, è stata ritrovata una macina in trachite ; nell'Oristanese è stata segnalata la presenza di un << catillus >> pertinente ad una macina, mentre un'altra macina è stata segnalata presso Matta Isteni .

Il Lilliu, infine, segnalò presso Ortola due << metae >>, cioè due perni molitori di mola granaria in trachite e, presso Mitza Mendua, nei pressi di Arbus, altre due mole granarie 17.

Il primo documento di età medioevale nel quale vengono citati gli attrezzi agricoli, datato 1113 e riguardante il giudicato di Torres , consiste in una donazione fatta da Furatu de Gitil e da sua moglie Susanna Dezzori al monastero di S. Nicolò di Soliu .

Nel testo del documento oltre alle terre, ai servi, al bestiame, ai mobili e agli arredi, sono citati anche alcuni utensili: IIII concas de aramen ( quattro paioli di rame ), VII distrales ( sette scuri ), II serras ( due seghe ), II ascias ( due asce ), VI berrinas ( sei succhielli ), X sarclos ( dieci sarchi ) e VI arclas ( sei falci, chiamate in tal modo perché arquate ).

L'elenco, pur non citando l'aratro, è molto simile a quello del Palladio; inoltre una testimonianza indiretta della diffusione delle mole ci viene fornita dal condaghe di Santa Maria di Bonarcado , quando elencando i compiti delle donne si dice: << et mulieres moiant et cogant et purgent et sabunen et filent et tessant >>, dove il verbo << moiant >> significa "molire il grano": quindi dovevano essere molto diffuse fin dall'epoca romana le piccole mole a mano di pietra, attraverso le quali le donne frantumavano il grano con l'aiuto di un pestello per l'uso familiare .

Il secondo documento22 inserito tra le << addende >> degli Statuti Sassaresi ed emanato, come ho riportato precedentemente, da Ugone III tra il 1381 e il 1383, nel quale il legislatote forniva dettagliate disposizioni sui vari prezzi di ogni singolo attrezzo agricolo e di ogni singola prestazione di un fabbro, è intitolato << Ordinazione fata supra sos fabros, quiddepian leare dessa manu sua >>.

It. pro faguer una alvada de ferru beziu soldos V.

It. pro faguer una alvada de ferru nou soldos IIII. Et si faguet de ferru sestadu, over de ispiaga soldos III.

It. pro calziare una albada soldos III et pro aescarela soldos II, et pro apuntarela dinaris VI.

It. pro faguer sarchiu, pichu, distrale, o mazia, o similes cosas, apiat pro ziascuna soldos V.

It. pro faguer zapa, pala, vanga, o similes cosas, paguet pro zascaduna soldos VIII.

It. pro faguer falche, cafana, o runcilgu, o similes cosas, pro ziascuna soldos IIII.

It. pro faguer pudaiolu mannu, o isquiradorgia, o similes cosas, pro zascuna soldos III.

It. pro chalzare zapa, pala, vanga, o similes cosas, pro zascuna soldos V. Et pro aescharelas, over azargarelas soldos III. Et pro acuzarelas pro ciascuna soldu I.

It. pro calciare sarchiu, pichu, distrale soldos III, et pro azargarelu soldos II, et pro acuzarelu dinaris VI.

It. pro faguer zapita, sarchiedu, distragione, apat sa mesidade, et simile sa mesidade pro calzare, et acuzare.

It. pro faguer meusatorogia nova soldos V, et pro aspiarela dae nou dinaris VI.

It. pro faguer maniga nova ad falche, o ad pudaiola soldu I, et si esseret secada adaiungerla soldu I.

It. pro faguer unu ferru nou cum claos de VIII istampas, apat dinaris VI.

It. pro faguer clavos de cavallu, o bulitas, over similes cosas, apat pro centinaiu soldos II.

It. pro faguer chiavone, cancharos, over ogni ateru lauru mezanu, apat dessa libra soldu I.

It. pro faguer ferramenta de carros over ateru lauru grossu de grande pesu, dessa libra dinaris VI.

It. pro faguer una virga noa soldos II, et pro faguer unu dolu nou de virga soldu I.

It. pro faguer unu ochiu de frenu soldu I.

It. pro miter unu ferru ad cavallu dinaris II, et pro sagnare cavallu dinaris II.

It. de ogni lauru qui fazat de ferru sestadu, depiat leare minus su terzu, over su quartu.

It. si su frau fagueret alcunu lauru qui non si poderet avener cum su popidu, siat in electione dessos consolos.

It. qui zaschunu frau depiat levare su ferru e pesu, et bender su lauru a pesu, et iscontare su manchamentu, secundu su lauru.

It. qui zascunu frau qui ad bender ferramenta de taglu, over atera cosa qui bisongiet azargiu, non la depiat bender sensa azargiada.



Traduzione letterale



Cap. LXIII. Ordinazioni fatte sui fabbri e di quanto debbano prendere in cambio del proprio lavoro manuale.


It. per fare un vomere ( quindi un aratro ) di ferro vecchio soldi V.

It. per fare un vomere di ferro nuovo soldi IIII. E se lo si facesse con un pezzo di ferro tagliato, ovvero aggiustato soldi III.

It. per calzare un vomere soldi III e per fissarlo soldi II, e per saldarlo denari VI.

It. per fare sarchi, picchi, scuri, o mazze ( martelli ), o simili cose, abbia ( il fabbro ) per ciascuna soldi V.

It. per fare ( una ) zappa, pala, vanga, o simili cose, si paghi per ciascuna soldi VIII.

It. per fare ( una ) falce, roncola, o falcetto, o simili cose, per ciascuna soldi IIII.

It. per fare un potatoio grande, o << isquiradorgia >> ( cioè una piccola roncola con manico lungo utilizzata per sfrondare gli alberi ), o simili cose, per ciascuna soldi III.

It. per calzare ( una ) zappa, pala, vanga, o simili cose, per ciascuna soldi V. E per incastrarle, ovvero inserirle ( nel manico ) soldi III. E per affilarle per ciascuna soldi I.

It. per forgiare sarchi, picchi, scuri soldi III, e per inserirli ( nell'impugnatura di legno ) soldi II, e per affilarli denari VI.

It. per fare una picccola zappa, un piccolo sarco, una piccola scure, abbia la metà, e ugualmente la metà per inserirle, ed affilarle.

It. per fare una falce nuova soldi V, e per affilarla di nuovo denari VI.

It. per fare un manico nuovo ad una falce, o ad un potatoio soldi I, e se fosse rotto per aggiungerlo soldi I.

It. per fare un ferro nuovo con chiodi da ( o di ) VIII buchi ( o fori ), prenda denari VI.

It. per fare chiodi per cavalli, o << bulitas >>, ovvero simili cose, riceva per ( farne ) un centinaio soldi II.

It. per fare un chiodo ( oppure il complesso delle chiodature di uno scafo di legno ), cardini, ovvero ogni altro lavoro mediocre, abbia come compenso per ogni libra ( di metallo lavorato ) soldi I.

It. per fare oggetti di ferro per i carri ovvero ogni altro lavoro grosso di grande peso, abbia come compenso per ogni libra ( di metallo lavorato ) denari VI.

It. per fare una verga ( cioè un'arma a punta da lanciare ) nuova soldi II, e per fare una cresta ( o estremità ) nuova della verga soldi I.

It. per fare un'estremità metallica di un freno soldi I.

It. per mettere un ferro ad un cavallo denari II, e per marchiare un cavallo denari II.

It. di ogni lavoro che faccia con un ferro aggiustato ( non nuovo ), deve ricevere in cambio meno del terzo, ovvero il quarto.

It. se il fabbro facesse qualche lavoro che non potrebbe essere verificato dal padrone, sia verificato dai consoli.

It. che ciascun fabbro debba prendere il ferro a peso, e vendere il lavoro a peso, e scontare la parte mancante secondo il lavoro.

It. che ciascun fabbro il quale ( voglia ) vendere arnesi di ferro, ovvero ogni cosa che ha bisogno dell'acciaio ( o della forgiatura ), non la debba vendere senza ( averla prima ) forgiata con l'acciaio.


Nel documento vengono citati quindi sia vari attrezzi agricoli come aratri, sarchi, picchi, scuri, vanghe, pale, falci, roncole e falcetti, potatoi e roncole per potare dette << pudaiolus >>, che il costo per la loro lavorazione, realizzazione e manutenzione.

Le prime tre ordinazioni riguardano la realizzazione del vomere, cioè la parte metallica dell'aratro. In Sardegna vengono utilizzati quattro tipi di aratro : un aratro molto antico costituito da un solo pezzo di legno di olmo o di elce con un lungo timone diritto ed una punta ricurva, senza alcuna parte in ferro, che il Wagner considerò come il diretto discendente dell' << aratrum simplex >> dei romani; questo aratro viene impiegato soltanto in pianura nei terreni soffici.

Ne esisteva un altro un pò più perfezionato, col vomere in ferro, il manubrio e la stiva, nel quale la bure ( cioè la parte dell'aratro a forma di stanga che si attacca al giogo e porta le due stive e l'orecchio ), sempre curva, era formata da un unico pezzo di legno, oppure da due o tre pezzi.

Nelle zone montuose veniva e viene utilizzato un aratro senza bure curva, con un timone diritto quadrangolare, la cui caratteristica principale è costituita dalla presenza di due orecchie, questo tipo rappresentava l' << aratrum auritum >> dell'età romana. Questo tipo di aratro si divide a sua volta in due varietà: una diffusa nel Nuorese, col dentale indiviso, e un'altra usata nel Logudoro col dentale diviso, come l'aratro descritto da Virgilio nelle Georgiche.

Gli svantaggi dell'aratro sardo sono numerosi: quello primitivo in legno, formato da un solo pezzo, scalfisce soltanto la terra senza penetrare in profondità; gli altri tipi più perfezionati tracciano soltanto i solchi senza rompere contemporaneamente le zolle e senza rigettarle di lato.

Inoltre la stiva con il manubrio sono impiantati verticalmente anzichè in senzo obliquo, perciò l'aratro è molto difficile da guidare. Questa caratteristica era presente anche nell'aratro romano, infatti, Columella insegnava che per arare bisognava impiegare persone di alta statura << quia in arando stivae pene rectus innitur >> .

Per arare si impiegavano in Sardegna i buoi e raramente i cavalli, una coppia di buoi veniva attaccata all'aratro per mezzo del giogo. Il giogo era ed è costituito da una trave pesante a sezione quadrata di legno duro e resistente ( solitamante di olmo o d'acero o di frassino ), che ha nella parte inferiore due intaccature semicircolari che vanno a poggiare sulla collottola dei buoi; inoltre sia sopra che sotto presenta alcune incisioni smussate negli angoli per le corregge che legano le corna degli animali al giogo stesso.

Nella parte centrale della trave sono ricavati due fori semicircolari, attraverso i quali si fa passare l'anello di cuoio al quale è fissato il timone del carro o dell'aratro. Il giogo viene fissato alle corna per mezzo di corregge lunghe di pelle di bue non conciate che si incrociano sulla fronte dell'animale. Il timone dell'aratro oppure del carro si infila nell'anello di cuoio ed è unito al giogo da una cavicchia.

I buoi vengono guidati con funi fatte di canapa o di palma o di giunchi intrecciati; un capo della fune viene attaccato al corno esterno del bue, corre sopra la fronte e con un nodo scorsoio si lega all'orecchio interno, il conducente tiene in mano l'altro capo o lo lega al manubrio della stiva dell'aratro che, secondo un'usanza antichissima, viene riportato a casa dal contadino rovesciato e fissato diritto al giogo.

Il contadino per stimolare le bestie usa un pungolo, un estremo del quale termina con una punta, l'altro presenta una paletta di ferro tagliente con cui l'aratore taglia le radici, spezza le zolle e pulisce il vomere dalla terra che vi si attacca; questa paletta veniva chiamata in latino << rallum >>, mentre il pungolo era detto << punctorium >> o << stimulus >>26.

La mietitura del grano viene compiuta nell'isola, secondo l'altitudine, in giugno o in luglio e il grano viene tagliato con una falce dentata; il cereale viene falciato pressapoco a metà dello stelo, detto << culmo >>, solo il grano "marzuolo", chiamato così perché seminato in marzo, viene tagliato rasente al suolo.

La roncola, che ha una fattura differente, viene invece utilizzata per tagliare i rami e può essere occasionalmente impegnata anche per la mietitura del grano.

Il grano dopo la mietitura viene portato col carro, se è in grande quantità, nell'aia, questa è costituita da un terreno piano esposto ai venti, appartenete alla comunità ed utilizzato da tutti gli abitanti; nell'isola non esistono aie coperte perché sarebbero inutili a causa del clima estivo arido e secco. Prima che venga depositato il grano l'aia viene accuratamente pulita con una scopetta di frasche e si provvede contemporaneamente ad estirpare le erbacce.

Il mese della trebbiatura è propriamente luglio, la trebbiatura avviene all'antica spingendo sopra il grano una o più coppie di buoi che solitamente trascinano anche una pesante pietra piatta o un rullo di pietra ( il trebbio di petra ).

In alcune località del Logudoro e del Campidano la trebbiatura avviene con il sistema della << trita >>, cioè attraverso il pestio delle cavalle; le cavalle vengono allineate una accanto all'altra, solitamente quattro o sei cavalle, mentre nelle aie di maggiori dimensioni anche dieci, quindici o venti cavalle che, vengono legate con una catena.

Nel centro dell'aia vi è un palo di legno nel quale vengono attaccate le cavalle che corrono intorno a quest'ultimo. Durante la trebbiatura il grano viene continuamente rivoltato con una forca di legno a tre rebbi, in sardo << trauzzu >>; mentre per trebbiare rapidamente in casa quantità piccole di grano si utilizza il sistema della << battitura >> nel quale si impiegano come strumenti due bastoni tenuti insieme da una legatura di cuoio.

Il grano trebbiato viene ammucchiato e, quando soffia la brezza, viene ventilato, cioè gettato in alto, con una pala di castagno, l'antica << pala lignea >>, in sardo << pala, paia >>, utilizzata al posto del romano << ventilabrum >>, per separare la pula dal grano; se si tratta di piccole quantità di grano viene usato un canestrino in modo che gettando il cereale verso l'alto la pula voli via e i semi ricadano nel recipiente.

Il grano viene quindi nuovamente ripulito nell'aia dalle pietruzze con dei canestri di forma grande rotonda e piatta di paglia o di steli di asfodelo intrecciati tra loro.

Il grano ripulito viene messo dentro dei sacchi e trasportato nei villaggi con i cavalli o col carro; poiché ogni contadino coltiva solo il grano che gli serve non esistono veri e propri granai. Il grano viene ammucchiato in un angolo qualunque, dopo che la terra è stata imbevuta d'aceto per tenere lontani gli insetti nocivi, soprattutto il gorgoglione o punteruolo del grano, conosciuto col nome scientifico di calandra granaria o curculio granarius.

Le quantità più grandi di grano vengono conservate nelle bùgnole, contenitori cilindrici fatti con canne intrecciate e, talvolta, soprattutto nel Campidano, anche con stuoie di giunchi. Questi contenitori, essendo aperti nel fondo, poggiano sulla terra ben pulita e imbevuta d'aceto o su una base di legno o su un coperchio rovesciato; nei contenitori, a qualche palmo dal fondo, è incisa un'apertura quadrangolare che permette di levare comodamente il grano, quando questo non scende più da solo.

La paglia rimasta nelle aie viene anch'essa raccolta e conservata nelle case in appositi ambienti e viene utilizzata principalmente come foraggio per il bestiame.

Nelle campagne sarde inoltre è molto diffusa la zappa, una zappa corta, usata fin dall'epoca antica. La zappa ha una lama di ferro molto larga che forma un angolo retto con un manico molto corto, perciò il contadino è costretto a curvarsi per lavorare benché, la zappa penetri nel terreno solo per 8-10 cm.e sia perciò del tutto inadatta a scavare fosse più profonde .

Il carro agricolo, un carro pesante a ruote piene ed asse fisso28, viene costruito utilizzando vari tipi di legno: l'elce o la quercia viene utilizzata per il telaio, l'olivastro per le fiancate e l'olmo per il fondo e le ruote .

Questo tipo di carro, il quale viene attaccato al giogo per mezzo di un timone, è il più primitivo; le ruote piene presentano un foro quadrato in cui è infisso l'asse, insieme al quale girano; queste constano di tre parti: una mediana e due laterali semicircolari.

Questo carro pesante con le ruote piene è simile in tutto al << plaustrum >> antico con i suoi << tympana >>, cioè le ruote piene senza raggi, come viene descritto da Publio Virgilio Marone e, con quello antico condivide la cartteristica di produrre, a causa dello sfregamento dell'asse, uno scricchiolio udibile anche da lontano.

Durante il trasporto della paglia, dei cereali o dell'uva, che potrebbero cadere dalle aperture dei ripari laterali di legno, al loro posto o dentro di essi si dispone una stuoia in canne o di paglia, che forma una sorta di cesta avente per fondo il letto del carro.

Un altro tipo di veicolo è rappresentato dalla treggia, una sorta di cesta rigida costituita da rami di salcio intrecciati, che viene attaccata all'estremità posteriore del carro e viene utilizzata per trasportare pietre, ceppi, etc.; spesso, per lo stesso scopo, viene utilizzato un tronco scavato, anch'esso trainato dal carro.


Per quanto riguarda le macchine semplici un cenno particolare merita la macina casalinga, diffusissima in tutta l'isola.

Nella maggior parte della Sardegna, oltre ai mulini ad acqua dei quali parlerò successivamente, per macinare il grano si usava la macina casalinga azionata da un asino, del tutto simile alla << mola asinaria >> degli antichi romani.31

La mola granaria appartiene alle suppellettili che non mancavano in nessuna casa; le macina sarde sono costruite con pietra vulcanica, per lo più un tufo nericcio e poroso, abbondante nell'antica regione vulcanica tra il Monte Ferru ( Santulussurgiu ) e i monti a nord di Bonorva.

La pietra superiore è concava, quella inferiore è convessa; il grano viene versato in una tramoggia di legno quadrangolare che, per mezzo di quattro ruote, è fissata ad una tavola di legno o ad una stanga, sostenuta da una travatura, assicurata in qualche modo al soffitto o alla parete. Spesso anche un'armatura di legno autonoma può servire a questo scopo; questo congegno consente di abbassare o sollevare la tramoggia a seconda delle necessità.

Il grano dalla tramoggia scende lentamente nell'apertura conica superiore della mola concava, apertura che è ristretta spesso da un bicchiere di legno o da una piccola coppa imbutiforme di cuoio, in modo tale che il grano cada lentamente tra le due pietre.

La mola inferiore poggia di solito su quattro travi, fissate in un supporto di legno che, può avere la forma di una cassa quadrata o di un barile rotondo, spesso può avere anche forma ottogonale; nelle macine antiche anche questa parte era realizzata con tufo vulcanico.

La farina cade dalla mola in questo recipiente che ha uno sportello, attraverso il quale essa può essere tirata fuori.

La mola superiore ha due sporgenze di pietra perforata che permettono di fissare con due piuoli la stanga biforcata a cui si attacca l'asino.

Questa stanga poggia sulla nuca dell'asino e ad essa sono assicurati due bastoni che trattengono la testa dell'animale; le parti inferiori di questi due pezzi di legno sono legate con una corda sotto la testa, questo è il modo più comune e, certamente il più antico, di attaccare l'asino.

Un altro sistema per attaccare l'asino alla macina consiste nel fissare la stanga ad un cavalletto di legno che poggia sul dorso dell'animale a mo'di sella, così venivano eliminati i due bastoni che sicuramente davano fastidio all'asino perché gli procuravano escoriazioni.

L'asino macina con gli occhi bendati, infatti, gli si lega una maschera consistente in un pezzo di stoffa vecchia o in uno straccio; l'animale in Sardegna viene chiamato con una denominazione che riflette la sua antichissima e principale attività, viene chiamato infatti << molente-i >> .


In età medioevale erano molto diffusi anche i mulini ad acqua, la cui istallazione in ogni villa era caldamente consigliata anche da Palladio.33

Il mulino ad acqua, inventato in Oriente ma conosciuto in Occidente fin dall'epoca romana, si diffuse in Europa lentamente, raggiungendo il più alto livello di diffusione fra il IX e il XII secolo e, probabilmente, in quegli stessi anni si diffuse anche in Sardegna; il Cherchi Paba, invece, afferma che il mulino si diffuse molto prima nell'isola e venne introdotto dai monaci bizantini.

Le prime notizie riguardanti la presenza dei mulini ad acqua in Sardegna risalgono al XII secolo e riguardano due giudicati in particolare: quello d'Arborea e, soprattutto, quello di Torres.

Il condaghe di San Pietro di Silki presenta una segnalazione, nella scheda 31135, che riguarda la definizione dei confini di un << saltus >> di Teclata, in agro di Cossine, nel quale si trovava un mulino posseduto da un certo << donnu Petru de Serra >>; quindi il mulino citato si trovava inizialmente in una proprietà laica entrata successivamente in possesso del monastero di San Pietro di Silki.

La maggior parte delle segnalazioni di mulini ad acqua nel giudicato di Torres provengono dal fondo dell'Archivio di Stato di Pisa, chiamato << San Lorenzo alle Rivolte >>, nel quale fra i circa venti documenti riguardanti la Sardegna, sei di questi contengono nidicazioni sull'esistenza di mulini ad acqua, in un arco di tempo compreso fra il 1321 e il 1362.36

Il documento datato Sassari 31 marzo 1321 riguarda la contesa per la proprietà di un mulino fra i frati dell'Ospedale di S. Lorenzo di Stagno e alcune persone, le quali illegalmente possedevano un mulino, un acquedotto ed altri beni che sarebbero dovuti appartenere all'Ospedale.

Il documento oltre al mulino cita anche un acquedotto, quindi una struttura utilizzata per portare l'acqua fino al mulino, o a distribuirla per i campi, attraverso il movimento del mulino.

In un altro documento, datato 31 ottobre 1250, il rettore della Chiesa e dell'Ospedale di San Lorenzo di Bosue, per pagare il censo annuale della chiesa di S. Gregorio di Oleastro all'arcivescovo di Torres, vendette ad un certo Guantino Arrivache e ai suoi eredi tutta l'acqua che apperteneva a S. Lorenzo di Bosue dal mulino di Donnicella a quello di Piscireca.

Probabilmente quando fu stipulato questo contratto i due mulini non erano più in funzione, poiché veniva venduta anche l'acqua che faceva muovere entrambi, la quale veniva riutilizzata per l'irrigazione degli orti oppure per essere convogliata verso altri mulini; chiaramente la vendita dell'acqua presupponeva l'interruzione dell'utilizzo dei mulini.

Infatti una disposizione degli Satuti Sassaresi, del secolo XIV, prevedeva che l'acqua che alimentava i mulini doveva essere utilizzata per l'irrigazione degli orti solo dal mattino del sabato al lunedì, e i mugnai, inoltre, dovevano giurare di non cedere ad altri la stessa acqua.

Inoltre gli ortolani nel Sassarese eleggevano tre << partitores d'abba >>, che dovevano giurare a loro volta di dividere l'acqua in maniera corretta e giusta; quindi non poteva sicuramente coincidere l'uso della stessa acqua per l'irrigazione e per la molitura, ma era obbligatoriamente alternato.

Nel documento, datato Anagni 28 marzo 1259, il papa Alessandro VI ordinò al vescovo di Torres di restituire alle monache del monastero di Tutti i Santi di Riva d'Arno, appartenente all'ordine di S. Damiano, due mulini e tutte le loro pertinenze, che appartenevano al loro Ospedale di S. Lorenzo di Bosue.

Altri due documenti, rispettivamente datati nel 1262 e nel 1263, riguardano due mulini che utilizzavano l'acqua dello stesso fiume, uno appartenente all'Opera di Santa Maria di Pisa e l'altro alla chiesa di San Pietro.

L'ultimo documento appartenente al fondo di S. Lorenzo, datato Pisa 31 dicembre 1363, riguarda la concessone in locazione, da parte della badessa del monastero di Tutti i Santi, di tutte le cose, le terre e i mulini di San Lorenzo di Bosue e di S. Giorgio di Oleastro, attraverso il pagamento di 30 fiorini annui e per un periodo di cinque anni; quindi i mulini nonostante appartenessero alla chiesa, potevano essere ceduti in locazione ai privati.37

Altre notizie più antiche, perché comprese fra gli anni 1131 e 1178, concernenti i mulini nel Logudoro ci vengono fornite dal Codex Diplomaticus Sardiniae: il documento più antico38 riguarda la donazione, fatta dal giudice Gonnario II, di due corti alla chiesa di Santa Maria di Pisa, la prima sita nella Nurra, fra le cui pertinenze vi era un <<saltu de mulinu et cum flumen de Flume Sancto>> e, la seconda sita a Bosue dove non si parla di mulini, ma per ciò che riguarda le sue pertinenze il testo riporta: << et aquis et ripis aquarum et piscationibus>>; tutte e due le corti erano quindi ricche di corsi d'acqua e perciò si poteva praticare la pesca, impiantare vivai e piscine ed anche mulini, perché le acque contenute nelle piscine si potevano far fuoriuscire dai loro siti ed essere quindi utilizzate per far muovere le ruote dei mulini.

Un altro documento , datato 1147, riguarda la conferma, da parte del giudice Gonnario II, delle donazioni fatte dai suoi predecessori all'abbazia di Montecassino e, l'aggiunta di una nuova e ricca donazione di << ecclesie >> e << domos >> con << servis et ancillis, terris et vineis, cultis et incultis, silvis et pasculis, plantiis, montibus et vallibus, molendinis acquis aquarumque decursibus >>; inoltre il documento informa che tutte le tenute o la maggior parte avevano un mulino fra le loro pertinenze.

Un'altra indicazione, sempre riguardante il Logudoro, ci viene fornita dal condaghe di San Nicola di Trullas40 e riguarda la zona di Semestene, sita nella curatoria di Costavalle.

Le fonti documentarie ci forniscono quindi quattordici segnalazioni, nelle quali il numero dei mulini è imprecisato come d'altronde anche le varie tipologie di utilizzazione ( pigiatura dell'uva o macinazione dei cereali ), comprese in un arco di tempo fra il 1131 e il 1362, riguardanti diverse curatorie: tre segnalazioni nell'Anglona, una nel Campulongu, una per Capudabbas, una per Costavalle, una per Meilogu, due per la Nurra, tre per la Romangia e due non identificate.

Le notizie sulla diffusione e utilizzazione dei mulini ad acqua nel giudicato d'Arborea sono invece più numerose e, sono contenute nelle schede 9-146-163-195-196-203 del condaghe di Santa Maria di Bonarcado, mentre invece nessuna notizia ci è pervenuta sul giudicato di Gallura.

La prima scheda 41, databile intorno al 1205, riguarda un lascito a favore del convento di Santa Maria di Bonarcado da parte di Guantine d'Orru; fra i lasciti vi era anche << su cantu de sa terra cun molinu, qui servit a su conventu de Sancta Maria de Bonarcadu, qui est suta su palude de Sancta Maria>>.

La scheda successiva , databile nel 1147, riguarda la curatoria di Milis come la precedente, nel testo si parla di un mulino menzionato insieme ad un termine tipico delle fonti documentarie sarde il << giradorgiu >> o << giradoriu >>, cioè la ruota del mulino; infatti elencando i confini di un << saltus >> riporta: << daue su vadu dessu giradoriu dessu mulinu in co collat su flumen usque a bau de canales >>

Lo stesso termine << giradoriu >> compare nella scheda 163 44: <<..pedivili assu donnu meu iudice Barusone sa die ki mi daret asoltura de fager molinos in Bonarcadu et in Calcaria ei in Miile pikinnu et in ipse daitimi adsoltura a levare s'aba et de fager giradoriu et pro molinos et pro ortos et pro binia et de no mi'lla levare s'aba nen de die nen de nocte>>

Il << giradoriu >>, cioè la ruota del mulino, veniva utilizzata non solo per il mulino ma anche per l'orto e la vigna, quindi il << giradoriu >> non è altro che la noria, la quale con le sue pale a forma di cucchiaio, mosse dalla corrente dell'acqua, può far muovere i meccanismi meccanici del mulino, ma può anche versare, negli appositi canali, l'acqua utilizzata per l'irrigazione dei campi.

Un'altra osservazione degna di nota consiste nel fatto che il priore oppure un laico per poter impiantare dei mulini aveva necessariamente bisogno del permesso del giudice, forse perché l'acqua era considerata come un bene demaniale.

Un'altra testimonianza ci è pervenuta tramite il Codex Diplomaticus Sardiniae46, si tratta di una donazione, fatta dal giudice Pietro I d'Arborea, della Corte di Solio, nella curatoria di Milis, alla chiesa di Santa Maria di Pisa: <<et loca et aquas, sive aque cursus vel aquedunis pro facendis et habendis molendinus ad opus eiusdem opere>>.

Le altre schede del condaghe di Santa Maria di Bonarcado testimoniano anch'esse l'esistenza di altri mulini nel giudicato Arborense: le schede 195 e 196 47, che rappresentano la doppia registrazione della stessa permuta, databili intorno al 1261, riguardano una transazione di terre in cui, come riferimento per un confine, viene citato un mulino; infine la scheda 203, databile intorno al 1260, riguarda una donazione nelle cui pertinenze viene citato un mulino.

Nel giudicato d'Arborea abbiamo quindi sei segnalazioni di mulini, tutti impiantati nella curatoria di Milis; questo fatto fa supporre che i mulini fossero impiantati anche nelle restanti curatorie, altrimenti questa concentrazione in un solo distretto territoriale non sarebbe logicamente spiegabile.

Inoltre si può ipotizzare, non con certezza assoluta, che le acque, dolci o salate, come precedentemente riportato, potessero essere considerate come un bene demaniale48, infatti spesso si trovano testimonianze di concessioni per la pesca sia nei corsi d'acqua che nel mare lungo la costa; inoltre nelle donazioni fra le pertinenze viene sempre specificata anche l'acqua, come se fosse considerato un bene a sé stante soggetto a regole e ordinamenti precisi.

Nel giudicato di Cagliari spesso le fonti documentarie presentano oltre alla formula canonica <<et casis et ortis et aquis>> anche il termine << aqueduccio >>, col significato di opere compiute dall'uomo per convogliare l'acqua; la funzione di tali opere viene specificata in un altro documento nel quale si dice <<aqueduccio pro facendis et habendis molendinus>>.

La diffusione del mulino ad acqua è quindi documentata in tutta la Sardegna giudicale, tranne che per il giudicato di Gallura; il mulino non dovette avere una struttura molto complicata: era formato infatti da una ruota ad asse orizzontale, il << giradorgiu >> che veniva mossa dalla forza della corrente dell'acqua; la ruota, detta anche noria, muoveva a sua volta, tramite un sistema di ingranaggi, la mola del mulino che poteva indifferentemente, secondo le necessità, triturare i cereali, pigiare l'uva o follare i panni. Per la realizzazione dei mulini e delle gualchiere, cioè le macchine mosse idraulicamente per lavorare, sgrassare e rassodare i panni, battendoli con appositi magli, era molto usato il legno di quercia o di elce, nonché il ginepro per le parti a contatto con l'acqua.

Quando il mulino non veniva utilizzato per queste operazioni, le pale munite di cucchiai venivano impiegate per versare l'acqua nei canaletti per irrigare i campi.












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CSPS, sch. 259, p. 60; sch. 401, p. 98; sch. 403, pp. 98-99.

Il grano viene definito << labore o laore >> nel CSNT, sch. 1, p. 35; sch. 17, p. 38; sch. 47, pp. 43-44; sch. 48, p. 44; sch. 54, p. 45; sch. 130, p. 60; nel CSPS, sch. 44, pp. 15-16; sch. 141, p. 36; sch. 196, p. 47; sch. 224, p. 54; viene definito << triticu >> nel CSNT, sch. 74, pp. 49-50; sch. 90, p. 52; sch. 93, p. 53; sch. 94, p. 53; sch. 97, p. 54, etc.; e nel CSPS, sch. 167, p. 41; sch. 220, pp. 53-54.

A. SOLMI, Carte volgari.., cit., doc. XVII, 10; doc. XVII, 2.

Ibidem, doc. II, 2; doc. XII, 2; doc. XIII, 5; doc. XV, 3-4.

A. SOLMI, Carte volgari dell'Archivio arcivescovile di Cagliari, cit., doc. XVIII.

Ibidem, doc. XVI, 2.

CSNT, sch.1, p. 35; CSPS, sch. 259, p. 60: << favariu >>.

F. CHERCHI PABA, Evoluzione storica dell'attività industriale agricola caccia e pesca in Sardegna, Cagliari, 1974, vol. II, p. 141 e ss.; F. C. Casula, Il periodo alto-giudicale, in << La società in Sardegna nei secoli >>, cit., p. 118.

Le tipologie di chiusura erano fondamentalmente quattro già in epoca romana, come affermò M. T. Varrone nel De Re Rustica, in << Opere da Marco Terenzio Varrone >>, a cura di A. Traglia, Torino, 1974, I, 14: << Earum tutelarum genera IIII, unum naturale, alterum agreste, tertium militare, quartum fabrile >>.

CSNT, sch. 101, p. 54; sch. 121, p. 58; CSMB, sch. 105, p. 158: << comperei ad Sissi Cabru sa parzone sua dessu cuniadu cun bina et cun pumu>>.

CSPS, sch. 117, p. 32; sch. 295, p. 69; sch. 325, p. 78, dove compare la definizione << pumu >>.

CSPS, sch. 290, pp. 67-68.

CSMS, sch. 169-170-305-306.

A. SABA, Montecassino e la Sardegna medioevale, note storiche e codice sardo-cassinese, Badia di Montecassino, 1927, p. 104.

E' degno di nota il fatto che a partire dal 1234 i Catalani importavano fichi dalla Sardegna. Cfr. L. D'ARIENZO, Una nota sui consolati Catalani in Sardegna nel secolo XIV, in << Annali delle Facoltà di Scienze Politiche >>, A.A.1977-78, Milano, 1979, p. 65.; CSNT, sch. 147, p. 64: <<et corte et ficu>>; sch. 193, p. 74: <<et dessa ficu de III sa una>>, etc..

B. FOIS, Territorio e paesaggio agrario nella Sardegna medioevale, cit., p. 98, nota n° 28.

CSMB, sch. 1, pp. 115-118; sch. 207, pp. 199-200: << a bau de sinas u'est sa figu alba>>; CSMS, sch. 109.

F. CHERCHI PABA, Evoluzione storica dell'attività industriale agricola caccia e pesca in Sardegna, cit., vol. II, p. 143: << figu calaridana >>, conosciuta ancora oggi come << figu niedda >> o << de Pula >>; CSPS, sch. 96, pp. 26-27: << figu nigella >>; CSMB, sch. 199, p. 195: << est issa figu calaridana >>.

A. SOLMI, Carte volgari dell'Archivio arcivescovile di Cagliari, cit., doc. XIV, p. 9: << ..sa domu sua de figu orrubia..>>.

CSMB, sch. 189, p. 193: << ..sa parzone sua.. dessa figu canasturza>>; sch. 190, p. 193: <<sa figu canasturza>>, << canasturza >> proviene forse dal latino << callistutia, ae >>, una specie di fico << gradito alle passere >>, da cui la denominazione di << ficus passeraria >>, di colore grigio, solitamente conservato secco. Sui fichi grigi e sulla specie << chia >>, Cfr. G. PAULIS, << Ficus chia >> in Sardegna, in << Annali della facoltà di Lettere e Filosofia dell'Università di Cagliarti >>, N.S. VI (XLIII), 1985, << Sudi in memoria di Vincenzo Loi >>, vol. I, Univ. di Cagliari, 1987, pp. 241-246.

CSMB, sch. 154, pp. 177-178: << terra de sa pira >>; sch. 185, p. 192: << de monte de pira domestica >>.

CSPS, sch. 290, pp. 67-68; CSNT, sch. 50, p. 44: << et issa mela che hi superclait deindeli bide antesica >>.

CSNT, sch. 251, p. 85: << vadu de kitonia >>, è degno di nota il fatto che la citazione più comune che riguarda gli alberi da frutta << pumu >> o << pomu >> non specifica la specie.

CSMB, sch. 196, pp. 194-195; sch. 197, p. 195; sch. 203, p. 196: << ortu de sa castania >>, quindi alberi di castagno negli orti; sch. 19, p. 127: << ..in balle de nuce>>, riguardo alle noci; sch. 105, p. 158: << ..ube sa nuce>>; CSPS, sch. 220, pp. 53-54; sch. 229, p. 55; A. SOLMI, Carte volgari dell'Archivio arcivescovile di Cagliari, cit., doc. XVII, 11, p. 42: << ..s'arburis de nugi e de kidru>>; riguardo alle nocciole: doc. XVII, 4, p. 41: << nuella>>.

CSNT, sch. 193, p. 74: << pro sa corte de kerasa >>.

I cedri o forse i limoni sono citati nel CSMB, sch. 134, pp. 169-170: << comporei fundamentu in sanctu Iorgi de Calcaria et posi ad ortu de cedru et de omnia pumu >>.

A. SOLMI, Carte volgari dell'Archivio arcivescovile di Cagliari, cit., doc. XVII, 11.

CSPS, sch. 219, p. 5

A. SOLMI, Carte volgari dell'Archivio arcivescovile di Cagliari, cit., doc. XVII, 11.

CSPS, sch. 220, pp. 53-54.

CSPS, sch. 190, p. 45: << oiastros >>.

CSPS, sch. 355, p. 86: << e binia e ficu e pira et oliva>>.

F. CHERCHI PABA, Lineamenti storici dell'agricoltura sarda nel secolo XIII, in << Studi storici in onore di F. Loddo Canepa >>, cit., vol. II, p. 154.

A. BOSCOLO, Documenti inediti relativi ai rapporti economici tra la Sardegna e Pisa nel Medioevo, Padova, 1962, vol. II, p. 22.

CSPS, sch. 78, p. 22, dove compare il termine << ortu >> oppure << ortales >>; inoltre sch. 131, p. 34; sch. 132, p. 34; sch. 147, p. 37; sch. 178, p. 42, etc..

CSNT, sch. 1b, p. 35; CSPS, sch. 259, p. 60; sch. 401, p. 98; sch. 403, pp. 98-99: << favariu >>.

A. SOLMI, Carte volgari dell'Archivio arcivescovile di Cagliari, cit., doc. XVI, 2: << olbezas >>.

CSMB, sch. 199, p. 195: << et terra de ponne ad ortu de gibulla>>.

B. FOIS, Territorio e paesaggio agrario nella Sardegna medioevale, cit., p. 94 e ss.

A. SOLMI, Carte volgari dell'Archivio arcivescovile di Cagliari, cit., doc. VI, p. 19.

CSPS, sch. 191, pp. 45-46; sch. 311, pp. 72-73; A.SOLMI, Carte volgari dell'Archivio arcivescovile di Cagliari, cit., doc. XI, 4: << paboru >>.

CSPS, sch. 311, p. 72.

Ibidem, sch. 78, p. 22; sch. 87, p. 25; sch. 141, p. 36; sch. 326, p. 8

Ibidem, sch. 40, p. 14; sch. 248, p. 58; sch. 325, p. 78; sch. 347, p. 8

CDS; vol. I, sec. XI, doc. XXI, pp. 164-165.

CSPS, sch. 19, p. 8; sch. 54, p. 17; sch. 197, p. 47.

A. SOLMI, Carte volgari dell'Archivio arcivescovile di Cagliari, cit., doc. XX, 2: << silva >>.

CSMB, sch. 1, pp. 115-118: <<pro glande pro pastu>>.

A.SOLMI, Carte volgari dell'Archivio arcivescovile di Cagliari, cit., doc. XI, 14; doc., XX, 5; doc. XVII, 6; CSPS, sch. 311, pp. 72-7

CSPS, sch. 205, pp. 50-51: << kercu >>; sch. 62, p. 19: << ulmos >>; sch. 10, pp. 5-6: << frassos >>; sch. 19, p. 8: << lauros >>.

F. CHERCHI PABA, Evoluzione storica dell'attività industriale caccia e pesca in Sardegna, cit., vol. II, p. 140.

B. FOIS, Sul<< Codice Rurale di Mariano IV d'Arborea >>, in << Medioevo. Saggi e Rassegne >>, n° 8, Pisa, 1983, pp. 41-70.

C. TRONCHETTI, Intervento sulla relazione Meloni, in << La ricerca storica sulla Sardegna >>, vol. XXXIII, in << Archivio Storico Sardo >>, Cagliari, 1982, pp. 122-123; e l'articolo di G. STEFANI, I cippi a botte della provincia Sardinia, in << Nuovo Bollettino Archeologico Sardo >>, vol. II, 1982.

F. CHERCHI PABA, Evoluzione storica dell'attività industriale agricola caccia e pesca in Sardegna, Cagliari, 1974, vol. II, cap. II, p. 38 e ss.

Ibidem.

A. I. PINI, Il vino nella civiltà italiana, in << Il vino nell'economia e nella società italiana Medioevale e Moderna >>, Firenze, 1988, pp. 1-12.

G. BONAZZI, Il condaghe di S. Pietro di Silki, Sassari, 1900; E. BESTA, I condaghi di S. Nicola di Trullas e S. Maria di Bonarcado, Spoleto, 1937; R. DI TUCCI, Il condaghe di S. Michele di Salvenor, in << Archivio Storico Sardo >>, vol. VIII, Cagliari, 1912; gli altri condaghi: quello di S. Pietro di Sorres, pubblicato da A. SANNA, e il Condaxi Cabrevadu, pubblicato da M. T. ATZORI, sono più tardi, poiché risalgono ai secoli XV e XVI.

CSMB, sch. 1, pp. 115-118; le dieci donazioni del giudice Costantino riportano tutte la formula <<..et terras et binias..>>; P. TOLA, Codex Diplomaticus Sardiniae, Torino, 1861, (ristampa anastatica a cura di F. C. CASULA, Sassari, 1984), doc. LXIV ( a. 1157 ); doc. CX ( a. 1182 ), p. 252; doc. CXIII ( a. 1185 ), p. 254; doc. XCIII, sec. XIV, p. 762, riguardante la fondazione di un nuovo borgo presso il castello di Goceano, voluto da Mariano IV, dove fra le terre di pertinenza ci dovevano essere anche quelle << pro vingias >>.

CSMB, sch. 77, p. 148; sch. 192, p. 194: << ordines >>; sch. 38, p. 141: << parsones >>.


CSMB, sch. 131, p. 166.

CSMB, sch. 24, p. 129.

S. CETTOLINI, Trattato di viticoltura moderna, Catania, 1927, vol. I, pp. 227-228.

F. CHERCHI PABA, Evoluzione storica dell'attività industriale agricola caccia e pesca nella Sardegna, cit., vol. II, p. 50.

F. CHERCHI PABA, Lineamenti storici dell'agricoltura sarda nel secolo XIII, in << Studi Storici in onore di F. Loddo Canepa >>, cit., vol. II, pp. 119-216.

Il testo del Breve di Villa di Chiesa si trova nel Codice Diplomatico di Villa di Chiesa in Sardegna, a cura di C. BAUDI DI VESME, Torino, 1877, cap. 46, libro II, col. 107; inoltre si veda: M. PINNA, Ordinazioni dei consiglkieri del Castello di Cagliari nel secolo XIV, in << Archivio Storico Sardo >>, Cagliari, 1929, lib. II, cap. 29, relativo alla Cagliari aragonese.

CSPS, sch. 424, pp. 104-105; Cfr. il Glossario del BONAZZI alla voce: << tricla >>.

B. FOIS, La vite e il vino nell'Arborea giudicale ( secc. XI-XIV ), estratto da << Rivista di Storia dell'Agricoltura >>, n° 1, Firenze, giugno, 1992, p. 4; CSMB, sch. 85, pp. 150-151.

CSMB, sch. 85, pp. 150-151.

CSNT, sch. 286, p. 9

CSMB, sch. 89, p. 152, dove apprendiamo che sia una serva che i suoi figli, che spettano allo stato, lavoreranno nel settore della vinificazione.

Ibidem, sch. 39, p. 141.

CSMB, sch. 198, p. 195.

CDS, vol. I, sec. XII, doc. LXIV, p. 220; CSMB, sch. 96, p. 54.

CSPS, sch. 290, pp. 67-68: << vinia de uadu de tracla cun radicariu suo>>, perché la vigna veniva donata con il suo vivaio di piante per reggere le viti.

CSMB, sch. 135, p. 170.

CSMB, sch. 124, p. 164; nel Medioevo il pergolato veniva chiamato anche << triclae >> o << triclia >>.

Ibidem, sch. 132, pp. 167-168; CSNT, sch. 37, p. 41; sch. 38, p. 41; sch. 40, p. 42; sch. 44, p. 43; sch. 179, p. 72; CSMB, sch. 73, p. 147; sch. 192, p. 194.

A. SOLMI, Carte volgari dell'Archivio arcivescovile di Cagliari, cit., doc. XVII,8.

B. FOIS, Tempi e modi della vendemmia attraverso il Codice rurale di Mariano IV d'Arborea, in << La vite e il vino nella storia e nel diritto ( secoli XI-XIX ) >>, Atti del convegno di Alghero, 28-31 ottobre 1998, in corso di stampa, p. 17

M. T. VARRONE, De Re Rustica, in << Opere da Marco Terenzio Varrone >>, a cura di A. TRAGLIA, Torino, 1974, p. 615; gli altri tipi di sostegno erano: un ramo d'albero piantato in terra che doveva essere capovolto qualora fosse marcita l'estremità piantata, la canna e l'albero, sul quale si poteva fare arrampicare la vite.

CSMB, sch. 184, p. 192.

Ibidem, sch. 101, p. 157; sch. 197, p. 195; sch. 198, p. 195; CSPS, sch. 117, p. 32; sch. 153, p. 38; sch. 222, p. 54; sch. 295, p. 69; sch. 311, pp. 72-7

P. V. MARONE, Le Bucoliche. Le Georgiche, a cura di A. RICHELMY, Torino, 1981, libro I delle Georgiche, p. 93: << ulmisque adiungere vitis conveniat >>.

B. FOIS, Nota storco introduttiva alla Carta de Logu.Prefazione all'edizione anastatica della Carta de Logu del MAMELI DE' MANNELLI, Cagliari, 1986; si veda inoltre della stessa A. Sulla datazione della Carta de Logu, in << Medioevo. Saggi e Rassegne >>, n° 19, Pisa, 1984, pp. 133-148.

I capitoli dedicati alle vigne sono i seguenti: CXXXIII-CXXXIV-CXXXV-CXXXVI-CXXXVII-CXXXVIII-CXXXIX-CXL-CXLI-CXLII-CXLIII-CXLIV-CXLV-CXLVI-CXLVII.

I. IMBERCIADORI, I prodotti agricolo-pastorali nel Medioevo e nell'Età Moderna, in << Studi Storici in onore di A. Segni >>, Padova, 1965, pp. 183-184.

B. FOIS, Sul << Codice rurale >> di Mariano IV d'Arborea, in << Medioevo. Saggi e Rassegne >>, n° 8, pp. 41-49. Il testo citato si trova a p. 57. Il << Codice rurale >> è inserito nella Carta de Logu: capp: 133-159 delle edizioni a stampa, mentre manca del tutto nell'unico manoscritto pervenutoci e pubblicato da E. BESTA e P. E. GUARNIERO, in << Studi Sassaresi >>, Sassari, 1905.

Nella trattazione utilizzerò la traduzione, in italiano corrente, eseguita dalla prof. B. FOIS nell'opera: Territorio e paesaggio agrario nella Sardegna medioevale, cit., p. 182 e ss.

Questa affermazione dimostra che le due raccolte di leggi furono concepite separatamente e che solo in un secondo tempo, probabilmente fortuitamente, furono pubblicate insieme.

Dei << castigus >> si parla nei capp. 138-140-141-142-146.

Codice Rurale, capp. 138-140.

E. CORTESE, Appunti di storia giuridica sarda, Milano, 1964, pp. 52-59.

Codice Rurale, cap. 13

Codice Rurale, cap. 13

Codice Rurale, cap. 134.

Codice Rurale, cap. 142.

Codice Rurale, capp. 143-147.

Codice Rurale, cap. 144.

Codice Rurale, cap. 145.

Codice Rurale, cap. 146.

M. L. WAGNER, Dizionario Etimologico Sardo, voci: << agrattsu >> e << agreste >>.

E. BESTA, Alcune leggi e ordinanze di Ugone IV d'Arborea, Sassari, 1904; R. CARTA RASPI, Ugone III d'Arborea e le due ambasciate di Luigi I d'Anjou, Cagliari, 1930, p. 275 e ss. ( cap. Leggi e ordinanze di Ugone III d'Arborea ).

R. CARTA RASPI, Ugone III d'Arborea e le due ambasciate di Luigi I d' Anjou, cit., pp. 281-282.

B. FOIS, Tempi e modi della vendemmia attraverso il codice rurale di Mariano IV d'Arborea, in << La vite e il vino nella storia e nel diritto ( secoli XI-XIX ) >>, Atti del convegno di Alghero, 28-31 ottobre 1998, in corso di stampa, p. 178.

M. L. WAGNER, La vita rustica nella Sardegna rispecchiata dalla sua lingua, Cagliari, 1928, p. 67.

CSMB, sch. 1, pp. 115-118.

CDS, vol. I, sec. XIII, doc. V, p. 307 e ss.; vol. I, sec. XII ( a. 1113 ), doc. XVI, p. 88, dove si parla di circa 1.700 capi di bestiame; CSMB, sch. 32; E. SERENI, Storia del paesaggio agrario italiano, Bari, 1974, p. 117.

B. FOIS, Sul << Codice rurale di Mariano IV d'Arborea >>, in << Medioevo. Saggi e Rassegne >>, cit., capp. 137-153-154-155.

A. SOLMI, Carte volgari dell'Archivio arcivescovile di Cagliari, cit., doc. VII, p. 19.

CSPS, sch. 11, p. 6; sch. 62, p. 19; sch. 140, pp. 35-36; sch. 187, p. 44; sch. 189, p. 45., etc.; A. SOLMI, Carte volgari dell'Archivio arcivescovile di Cagliari, cit., doc. XX, 6: << corongiu de maialis >>.

A. SOLMI, Carte volgari dell'Archivio arcivescovile di Cagliari, cit., doc. XVII, 8: << camadoriu de boes >>.

CDS, vol. I, sec. XI, doc. 21, pp. 164-165.

A. SOLMI, Carte volgari., cit., doc. II, 2.

Ibidem, doc. I,

F. CHERCHI PABA, Evoluzione dell'attività industriale agricola caccia e pesca in Sardegna, cit., vol. II, p. 180 e ss.

A. BOSCOLO, La Sardegna bizantina e alto-giudicale, cit., p. 185.

A. BOSCOLO, L'abbazzia di San Vittore, Pisa e la Sardegna, cit., p. 39.

L. OFFEDDU, Storia della villa e delle saline turritane di Genano, in << Miscellanea di studi medioevali sardo-catalani >>, Sassari, 1981, pp. 119-151.


CDS, vol. I, sec. XIII, doc. 62, p. 349, nel quale Pietro II d'Arborea conferma la donazione a Santa Maria di Bonarcado e concede la libertà di pescare a mare Ponti: << ..pro piscare in mare Ponti cum duas barcas et in mare vivu>>; CSPS, sch. 64, p. 19: <<prossu istaniu>>, per lo stagno; la scheda 285, pp. 65-66 riguarda le paludi; CSNT, sch. 121, p. 58; nel CSPS, sch. 229, p. 55 è citata anche una << via dessa abba >>, cioè una strada dell'acqua; i termini << badu, uadu, bau >>, cioè guado, sono molto frequenti nei condaghi, per es. nel CSPS, sch. 311, p. 72: << badu maiore de vite >>; CSNT, sch. 91, p. 52; sch. 120, p. 58; sch. 191, p. 74, etc.; CSMB, sch. 19, p. 127; sch. 32, pp. 134-135; sch. 37, pp. 140-141, etc..

B. FOIS, Diffusione e utilizzazione del mulino ad acqua nella Sardegna medioevale, in << Medioevo. Saggi e Rassegne >>, n° 10, Pisa, 1985, pp. 9-28.

Il termine << piskina >> è presente nel CSMB, sch. 44, p. 142; sch. 87, p. 151; CSPS, sch. 257, p. 60; nelle schede 207, p. 52; sch. 220, pp. 53-54 compare il termine << piskinale >>; CSPS, sch. 11, p. 6: << pischina de sambisuga >>.

A. SOLMI, Carte volgari dell'Archivio arcivescovile di Cagliari, doc. XX, p. 46 e ss.; A. SOLMI, Studi storici sulle istituzioni della Sardegna nel Medioevo, cit., p. 411, doc. II.

A. SANNA, I << Liberos de paniliu >> nella Sardegna medioevale, in << Annali delle Facoltà di Lettere, Filosofia e Magistero dell'Università di Cagliari >>, cit., vol. XXXV, p. 227 e ss.

CSMB, sch. 163, p. 182; CSNT, sch. 282, p. 92.

CSPS, sch. 44, pp. 15-16; A. SOLMI, Carte volgari dell'Archivio arcivescovile di Cagliari, cit., doc. XX, p. 47.

M. BLANCHARD, Documents inedits sur le commerce de Marseille au m. a., Marseille, 1884-89, vol. II, doc. 167.

Ibidem, vol. IV, docc. 42-59-62.

CDS, vol. I, sec. XI, doc. 13, pp. 158-159.

F. BONAINI, Statuti inediti della città di Pisa dal XII al XIV secolo, 3 voll., Firenze, 1854-70, vol. I, doc. 72.

CSPS, sch. 148, p. 37; nella scheda 40, p. 14 viene citato il << linthu >>.

Ibidem, sch. 40, p. 14: << linthu >>.

Ibidem, sch. 18, p. 8: << pelle livastrina >>; sch. 220, pp. 53-54.

F. BONAINI, Statuti inediti della città di Pisa dal XII al XIV secolo, cit., vol. I, doc. 72: << tonnine e sorre >>.

M. BLANCHARD, Documents inedits sur le commerce de Marseille au m. a., cit., vol. IV, docc. 9-62-71.

F. ARTIZZU, Agricoltura e pastorizia nella Sardegna pisana, in << Tra passato e avvenire >>, Padova, 1961, p. 72.

A. C. DELIPERI, Note storiche sul movimento commerciale della Sardegna nella seconda metà del XIII secolo, in << Archivio Storico Sardo >>, vol. XX, fasc. 3-4, p. 61.

M. BLANCHARD, Documents inedits sur le commerce de Marseille au m. a. , cit., vol. II, doc. 214.

CDS, vol. I, sec. XII, doc. 18, p. 191; doc. 22, pp. 194-195; doc. 27, pp. 199; doc. 51, pp. 213-214; doc. 64, pp. 220-221.

Ibidem, vol. I, sec. XIII, doc. 51, p. 34

Ibidem, vol. I, sec. XII, doc. 72, pp. 225-226; doc. 78, p. 231.

Ibidem.

Ibidem.

Ibidem, vol. I, sec. XII, doc. 142, p. 278.

CSPS, sch. 406, p. 99; sch. 420, p. 103; sch. 428, p. 106; sch. 429, p. 106, etc..

Ibidem ,sch. 329, p. 78; sch. 330, p. 78; sch. 331, p. 78.

Ibidem, sch. 83, p. 24; sch. 282, pp. 64-65.

Ibidem, sch. 184, p. 4

Ibidem, sch. 115, p. 32.

Ibidem. sch. 151, p. 38.

Ibidem, sch. 248, p. 58; sch. 251, p. 58.

Ibidem, sch. 325, p. 78.

Ibidem, sch. 224, p. 54.

CDS, vol. I, sec. XI, doc. 13, p. 158.

Ibidem.

CSPS, sch. 282, pp. 64-65.

Ibidem.

CSPS, sch. 5, p. 4; sch. 207, p. 52.

Ibidem, sch. 187, p. 44.

Ibidem, sch. 189, p. 45.

Ibidem, sch. 188, pp. 44-45.

CSPS, sch. 313, p. 7

Ibidem, sch. 334, p. 79.

Ibidem, sch. 327, p. 78; nella scheda 432, p. 107, << novellu >> veniva chiamato il toro ancora giovane.

CSPS, sch. 13, p. 6.

Ibidem, sch. 150, p. 38.

Ibidem, sch. 159, p. 39.

Ibidem, sch. 146, p. 37; nella scheda 138, p. 35, forse il termine << varrellu >> indicava il montone.

La << farga >> era un utensile domestico, valutato un soldo nella scheda 250, p. 58 del CSPS.

CSPS, sch. 150, p. 38.

Ibidem, sch. 246, p. 58.

Ibidem, sch. 208, p. 52.

Ibidem, sch. 212, pp. 52-5

CDS, vol. I, sec. XI, doc. 13, p. 158.

CSPS, sch. 221, p. 54.

CDS, vol. I, sec. XII, doc. XVI, p. 188.

R. CARTA RASPI, Ugone III e le due ambasciate di Luigi I d'Anjou, Cagliari, 1930, p. 281 e ss.

Ibidem.

R. CARTA RASPI, Ugone III d'Arborea e le due ambasciate di Luigi I d'Anjou, cit., pp. 281-282.

R. SABATINO LOPEZ, La rivoluzione commerciale nel Medioevo, Torino, 1975, p. 55.

M. LE LANNOU, Patres et Paysans de la Sardaigne, Cagliari, 1979, p. 275.

PALLADIO RUTILIO TAURO EMILIANO, Opus Agricolturae, a cura di R. Martin, Parigi, 1976, libro I, cap. XLII << De instrumentis agrestium >>, p. 52.

R. ZUCCA, Neapolis, Oristano, 1989, p. 120.

Ibidem, p. 117.

Ibidem, p. 116.

G. LILLIU, Barumini. Necropoli, Pagi, Ville rustiche romane, in << Sardinia >>, vol. II ( 1903-1968 ), a. 1939, p. 587 e ss.

Scavi NISSARDI, in << Sardinia >>, vol. I, 1904, p. 564.

Scavi VIVANET-NISSARDI, in << Sardinia >>, a. 1878, vol. I, p.66.

A. DIANA, Esplorazione archeologica nel Campidano ( Decimoputzu, Samassi, Serramanna, Serrenti, Villasor ), in << Studi Sardi >>, vol. XVI, a. 1958-59, Cagliari-Sassari, 1960.

G. TORE - A. STIGLITZ, Ricerche archeologiche, cit., p. 652.

G. LILLIU, Scoperte e scavi in Sardegna durante gli anni 1948-49, in << Studi Sardi >>, vol. IX, Sassari, 1950.

CDS; vol. I, sec. XII, doc. XVI, p. 188.

Ibidem, << C discos e IIII concas de aramen e VII distrales e II serras e II ascias, e VI berrinas, e X sarclos e VI arclas.>>.

CSMB, sch. 131, p. 166-167.

ROGER GRAND - RAYMOND DELATOUCHE, Storia agraria del Medioevo, Milano, 1968, cap. VII, p. 605.

R. CARTA RASPI, Ugone III d'Arborea e le due ambasciate di Luigi I d'Anjou, cit., cap. LXIII, pp. 281-282.

M. L. WAGNER, La vita rustica della Sardegna riflessa nella sua lingua, Nuoro, 1996, p. 90 e ss.

F. CHERCHI PABA, Evoluzione storica dell'attività industriale agricola caccia e pesca in Sardegna, cit., vol. II, p. 156.

LUCIO GIUGNO MODERATO COLUMELLA, L'arte dell'agricoltura, a cura di C. Carena, traduzione di R. Calzecchi Onesti, Torino, 1977, I, 9.

G. PLINIO SECONDO, Storia Naturale, a cura di AA. VV., Torino, 1984, 18, 179; L.G. M. COLUMELLA, L'arte dell'agricoltura, cit., 12, 18, 5.

I. ZEDDA MACCIO', Unità aziendali, tecniche agrarie e popolamento rurale nella Sardegna medioevale, in << Atti del Simposium on historical changes in spatial organisation and its experience in the mediterranean world >>, Rome, 6/10 Semptember, 1982, p. 317.

Ibidem.

F. CHERCHI PABA, Evoluzione storica dell'attività industriale agricola caccia e pesca in Sardegna, cit., vol. II, p. 156.

PUBLIO VIRGILIO MARONE, Le Bucoliche, le Georgiche, versione italiana di A. Richelmy, Torino, 1981, nelle Georgiche III, 536: riguardo al rumore prodotto dalle ruote << stridentia >>; I, 163: << volventia >> riferito all'avanzare lento del carro.

MARCO PORCIO CATONE, Liber de Agricoltura, a cura di A. Calzecchi-Onesti, Roma, 1964, 10, 4; 11, 4.

A. SOLMI, Carte volgari dell'Archivio arcivescovile di Cagliari, c. XIV, 15.

B. FOIS, Diffusione ed utilizzazione del mulino ad acqua nella Sardegna medioevale, in << Mdioevo. Saggi e Rassegne >>, n° 10, Pisa, 1985, pp. 9-28.

F. CHERCHI PABA, Evoluzione storica dell'attività industriale agricola caccia e pesca in Sardegna, cit., vol. II, pp. 74-75.

CSPS, sch. 311, pp. 72-73: databile fra la fine del XII e l'inizio del secolo XIII.

B. FOIS, Territorio e paesaggio agrario nella Sardegna medioevale, cit., p. 12

A. S. P., Fondo di S. Lorenzo alle Rivolte, pergamena del 31 dicembre 136

CDS, vol. I, sec. XII, doc. XL, p. 206.

CDS, vol. I, sec. XII, doc. LVI, p. 216.

CSNT, sch. 282, p. 92; sch. 315, p. 101; sostanzialmente sono due copie dello stesso documento, dove nella seconda viene meglio specificata la località: << Andronice >>.

CSMB, sch. 9, p. 122.

Ibidem, sch. 146, p. 17

In italiano: << dal guado della ruota del mulino nel quale sale il fiume fino al guado del canale>>.

CSMB, sch. 163, p. 182.

La traduzione in italiano del seguente brano è presente in B. FOIS, Territorio e paesaggio agrario nella Sardegna medioevale, cit., p. 128: <<..Chiesi al mio signore giudice Barisone quel giorno che mi desse il permesso di impiantare mulini in Bonarcado e in Calcaria e in Milis pikinnu e nel contempo mi desse il permesso a stornare l'acqua e per alimentare le norie e per i mulini e per gli orti e per le vigne e che non me la togliesse né di giorno né di notte >>.

CDS, vol. I, sec. XII ( a. 1187 ), doc. CXXIII, p. 260.

CSMB, sch. 195-196, p. 194.

B. FOIS, Territorio e paesaggio agrario nella Sardegna medioevale, cit., p. 129.

CDS, vol. I, sec. XIII, doc. LXII, p. 349; citato precedentemente perché riguardante il permesso concesso ai monaci di pescare in mare.



A. SOLMI, Carte volgari dell'Archivio arcivescovile di Cagliari, cit., c. I, p. 13; c. VI, p. 18; c. X, p. 23; c. XII, p. 27; CDS, vol. I, sec. XII, doc. III, p. 178; doc. VII, p. 182.

CDS, vol. I, sec. XII, doc. CXXIII, p. 260.

F. CHERCHI PABA, Evoluzione storica dell'attività industriale agricola caccia e pesca in Sardegna. II, p. 156.


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