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L'emancipazione da Bisanzio: fonti documentarie, epigrafiche e
storiografiche.
L'origine dei quattro giudicati, Calari, Arborea, Torres o Logudoro, Gallura, in cui si trovò divisa la Sardegna dopo il Mille, è una delle questioni di più difficile decifrazione, poiché ci sono pervenuti documenti solo a partire dai primi anni del X secolo e, quindi, una delle più dibattute della storia sarda.
Mentre i Bizantini tentavano di riconquistare la Sicilia e l'Italia Meridionale, occupate dagli Arabi, la Sardegna fu abbandonata a se stessa, dovette provvedere da sola alla propria difesa e, diede inizio a quel processo di emancipazione politica che la renderà solo teoricamente subordinata a Bisanzio.1
La continuità dei rapporti tra la Sardegna e Bisanzio è confermata dai cenni presenti nelle opere dell'imperatore Costantino VII Porfirogenito (911-959) dedicati ai Sardi e alla Sardegna. In un passo del De Cerimoniis aulae bizantinae2 apprendiamo che durante la cerimonia per l'elezione dell'imperatore nel Sacro Palazzo, un gruppo delle guardie del corpo, composto esclusivamente da Sardi, cantava in greco un inno di acclamazione e di auguri all'imperatore (eufemia), i cui versetti venivano recitati per tre volte.
Sempre attraverso l'opera già citata sappiamo che l'imperatore nel secolo X concesse all'Ipatos o Arconte della Sardegna, che aveva pieni poteri e godeva di una larga autonomia, quale riconoscimento della sua carica, un diploma sigillato con una bolla d'oro di due soldi.4che aveva lo scopo di contraddistinguerlo fra i dignitari di più alto rango, anche se in realtà non era più soggetto all'autorità imperiale.
L'arconte ottenne anche il titolo di Protospatario, come << suo supremo fiduciario in contrade remote >>. Il titolo di Protospatario, nel VII secolo veniva attribuito ad un dignitario della corte e, nel X secolo, ad una persona di fiducia dell'imperatore in una provincia lontana, non comportava più obblighi o doveri per l'Arconte quale fiduciario dell'impero in Sardegna , infatti questi veniva enumerato tra i cosiddetti vassalli italici accanto al doge di Venezia, ai principi di Capua e di Salerno, al duca di Napoli, agli arconti di Amalfi e di Gaeta.
L'essere classificato tra i vassalli italici è un dato cronologicamente rilevante perché deve riferirsi, necessariamente, ad un periodo storico contemporaneo a quello dell'imperatore Costantino VII Porfirogenito (911-959), in tal modo si può fissare l'entità minima della testimonianza dell'imperatore, il X secolo, nella quale l'arconte sardo, come i suoi colleghi italiani, fosse soggetto più di nome che di fatto all'imperatore.8
Alcune epigrafi che, per i loro caratteri estrinseci ed intrinseci potrebbero risalire al X secolo, possono essere anch'esse utili dal punto di vista cronologico.
Un'epigrafe della chiesa di S. Giovanni di Assemini, incisa su di una fascia marmorea in caratteri greci, riporta il seguente testo: << O Signore, assisti il tuo servo Torchitorio, arconte di Sardegna e la tua serva Geti [] >>, la parte finale mancante fa supporre che il nome proprio femminile potrebbe essere Getilide o Getide oppure Getita, probabilmente era la moglie dell'arconte. La posizione della lastra marmorea, sita presso l'altare, fa supporre che l'arconte e sua moglie avessero promosso la costruzione della stessa chiesa.
Appartenenti allo stesso secolo altre due epigrafi rinvenute rispettivamente nella chiesa di S. Sofia di Villasor ed in quella di Sant'Antioco, nell'omonima isola, attestano la presenza di altri due arconti, chiamati rispettivamente, Torchitorio e Salusio.
Nella prima la lettura è la seguente: << O Signore, assisti i tuoi servi Torchitorio, imperiale protospatario, e Salusio, nobilissimi arconti. Così sia. Ricordati, o Signore, anche del tuo servo Orzocco. Così sia >>. Il titolo di protospatario che ebbe Torchitorio, essendo un titolo personale e non trasmissibile ereditariamente, fa supporre che ancora esistessero delle relazioni dirette tra il giudice e l'imperatore che concedeva tale titolo, attribuendo all'arconte sardo una dignità politica precedentemente concessa ai Dogi veneti e ad altre persone eminenti in Sicilia, Lombardia e Dalmazia.
Nella seconda, di difficile lettura, il testo dice: << O Signore, assisti i tuoi servi Torchitorio, protospatario, e Salusio arconte e ..Nispella >>. Nispella è stata identificata, nella vita di S. Gregorio di Suelli, attribuita all'ecclesiastico Paolo, con Sinispella, moglie di Torchitorio e figlia di Ocote; sia Torchitorio, contemporaneo del santo e vissuto alla fine del X secolo, che Sinispella donarono a S. Giorgio il villaggio di Suelli, sede vescovile, ed il centro di Simieri.
Il nome di Nispella, citato anche in un condaghe, appare inoltre in un'altra iscrizione marmorea collocata nella chiesa di S. Pietro di Assemini, le sue caratteristiche fanno risalire anch'essa alla fine del X secolo. Il testo ricorda la fondazione di una chiesa da parte di Nispella intitolata ai Santi del culto bizantino , fra i quali i più importanti erano gli Apostoli, San Giovanni Battista e la Vergine Barbara.
Nell'iscrizione di S. Sofia di Villasor, precedentemente citata, ai due arconti Torchitorio e Salusio, forse rispettivamente padre e figlio, venne riservato il titolo di << nobilissimi >> che nella gerarchia imperiale corrispondeva ad un titolo molto importante, per esempio chiunque ne fosse insignito avrebbe avuto la possibilità di accedere e sedere alla mensa dell'imperatore accanto ai dignitari di rango elevato. Inoltre, Torchitorio è definito anche << protospatario >>, dignità riconosciuta ai più alti strateghi, questo fatto ci fa supporre che all'epoca di Niceforo II Foca, che liberò Creta dall'occupazione musulmana, nel 968, secondo il Besta nel 965, fosse stato fatto un tentativo per ristabilire il controllo bizantino nella Sardegna rimasta per troppo tempo isolata.
Nonostante queste onoreficienze concesse dall'imperatore il processo evolutivo del governo della Sardegna non si arrestò benché rimanessero vivi i vincoli culturali e tradizionali che legavano gli Arconti a Bisanzio, ma gli obblighi veri e propri verso l'imperatore si erano attenuati anche se permaneva da parte degli Arconti, ormai Giudici indipendenti, un senso di rispetto verso l'impero.
La spedizione di Museto.
Dopo circa 80 anni di tregua i Musulmani, partiti dalla Baleari, attaccarono nuovamente la Sardegna, guidati da Mugahid Ibn Abd Allah Al-Amiri, principe di Denia.1; egli stesso organizzò e diresse le operazioni militari che avevano come scopo quello di rendere il Mediterraneo un mare musulmano.
Nel 1015 una flotta salpata dal porto di Denia, dopo un breve soggiorno nelle Baleari, si diresse nell'autunno dello stesso anno verso la Sardegna; la flotta che comprendeva 100 navi, numerosi fanti e circa 1000 cavalieri, sbarcò presso Caralis ed in breve l'armata musulmana occupò il Cagliaritano.
I Sardi opposero una strenua resistenza, ma vennero sconfitti e forse lo stesso giudice Salusio morì durante il combattimento; dal campidano i Musulmani estesero le loro conquiste fino a raggiungere le montagne della Sardegna centrale. Contemporaneamente alcune navi arabe, dopo essere partite dall'isola, compirono della scorrerie nelle coste toscane, evidenziando il pericolo derivato dalla presenza musulmana in Sardegna.
A causa di questi avvenimenti, le repubbliche marinare di Pisa e Genova, resesi conto che i loro traffici commerciali, che necessariamente passavano per i mari della Sardegna, erano in grande pericolo ed animate dallo stesso papa Bonifacio VIII e dall'Imperatore, unirono le proprie forze per attaccare e sconfiggere i Musulmani.3
Nel 1016, dopo una sanguinosa battaglia, combattuta in mare dalle forze alleate di Pisa e Genova e in terra dai valorosi Sardi, le truppe di Museto furono sconfitte ed i loro presidi distrutti.
Mughaid fu costretto ad abbandonare precipitosamente l'isola, ma un figlio, un fratello e la moglie prediletta furono fatti prigionieri; fece ritorno in Spagna e là morì tra il 18 luglio 1035 e il 20 luglio 1044, nell'anno 436 dell'Egira.
La nascita dei Giudicati.
Le fonti epigrafiche, documentarie e storiografiche non consentono di conoscere con certezza né il momento preciso e neppure la causa della loro origine: i documenti a noi pervenuti, che risalgono ai primi anni dell'XI secolo, presentano la Sardegna già organizzata in quattro giudicati autonomi.1La genesi dei giudicati fu probabilmente caratterizzata da un graduale processo di indipendenza dai Bizantini, causato dall'impellente necessità di un governo in grado di amministrare ed organizzare la difesa della Sardegna durante le numerose incursioni arabe.
Il primo passo verso l'indipendenza potrebbe essere stato il passaggio della carica di Arconte da temporanea a vitalizia, questo fatto avvenne intorno all'VIII secolo, secondo il confronto con le altre provincie soggette a Bisanzio. In seguito il titolo di Arconte diventò un privilegio di una famiglia possidente, in quanto la decadenza dell'economia sarda riduceva notevolmente il numero dei casati che avrebbero potuto ricoprire una tale carica che comportava anche oneri non indifferenti; tale fenomeno caratterizzò tutti i possedimenti bizantini in Italia durante il IX secolo, per esempio a Napoli con la famiglia del duca Sergio ed a Venezia con la famiglia Partecipazio.
Nel secolo IX, quindi, anche in Sardegna, mentre i Bizantini erano impiegati nella riconquista della Sicilia, l'arconte sardo governò la Sardegna esercitando pieni poteri civili e militari.
Attraverso l'opera dell'imperatore Costantino Porfirogenito (911-959), intitolata << De Cerimoniis aulae bizantinae >>, si può ipotizzare che tale riforma amministrativa fosse stata compiuta già nel X secolo, infatti l'Arconte sardo, citato nell'opera possedeva la stessa autorità e prestigio dei duchi di Venezia e di Napoli.3
Probabilmente i primi indizi dell'indipendenza sarda, possono risalire se non addirittura all'VIII (secondo il Solmi ed il Manno), almeno al IX secolo.
La più antica fonte che abbia tentato di spiegare l'origine dei Giudicati si desume dal commento dantesco di Jacopo della Lana, secondo il quale, furono i Pisani, dopo la vittoria su Museto, a dividere l'isola in quattro parti ed in ciascuna nominarono un governatore chiamandolo giudice; quindi secondo Jacopo della Lana, non solo sarebbero stati di origine pisana i giudicati, ma anche i giudici.
La stessa spiegazione sulla genesi dei giudicati, venne ripetuta da Benvenuto da Imola e da Francesco di Bartolo da Buti, e da numerosi altri cronisti nei secoli XIV e XV.
Queste tesi vennero accolte sia dal Fara4 che dal Pinna che datarono la quadripartizione dell'isola da parte pisana nella prima metà dell'XI secolo.
Queste notizie, sono però prive di fondamento, ebbero una grande fortuna solo perché i cronisti pisani, a partire dal'XII secolo, in esse trovarono una giustificazione per le pretese pisane sulla Sardegna ; devono essere rifiutate sia perché Pisa non esercitò mai una tale autorità sulla Sardegna, che perché è stato provato che i primi giudici, oltre che essere tutti sardi, provenivano da un ceppo comune, probabilmente quello dei Lacon.
Uno storico il Dove sostiene invece la tesi che la nascita dei giudicati, sarebbe stata opera della Chiesa, ma anche questa ipotesi non si è dimostrata credibile.
La tesi oramai accettata da tutti gli storici sardi, è che i quattro giudicati furono il risultato di mutamenti politici ed istituzionali indigeni e non furono affatto influenzati da altre potenze straniere oppure dalla stessa chiesa.
La nascita dei giudicati sardi avvenne, probabilmente nei primi anni dell'XI secolo; infatti nel 1073 il papa Gregorio VII, scrivendo ai quattro giudici isolani, ricordava i loro Antecessores e la Charitas che tra la chiesa e la Gens Eorum era interceduta antiquis temporibus8, testimoniando il lungo processo di emancipazione politica da Bisanzio ed i rapporti autonomi che intercorrevano, ormai da lungo tempo, fra i giudici e la Santa Sede.
Un altro indizio di notevole importanza riscontrabile nelle epigrafi precedentemente citate9, consiste nel fatto che Torchitorio, marito di Nispella e suo figlio Salusio, pur portando il titolo di Arconte, non venivano più citati come arconti della Sardegna.
L'omissione di tale titolo ci fa supporre che, fin dal X secolo, la famiglia dell'arconte, che regnava sulla Sardegna, si fosse suddivisa in vari casati regnanti nelle diverse circoscrizioni amministrative dell'isola, chiaramente tale suddivisione si poté attuare quando la giurisdizione dell'impero bizantino sulla Sardegna era ormai inesistente, ed anche i diversi logos dell'isola potrebbero essere stati il risultato di una precedente divisione territoriale bizantina.
Da questa suddivisione in quattro Mereie o luoghi, che venne operata in Sardegna per una migliore difesa e controllo del territorio, ebbero origine i quattro giudicati autonomi: quello di Calari, limitato alla mereia dell'arconte, quello d'Arborea, quello di Torres o Logudoro e quello di Gallura, chiamati in tal modo dal nome della città o della regione principale.
Poiché i primi giudici appartenevano ad una stessa famiglia, quella dei Lacon, è probabile ritenere che a governare sulle diverse mereie fossero stati designati dall'arconte di Cagliari, alcuni componenti della sua famiglia, con la carica di Lociservator resisi successivamente indipendenti.
Solo nell'XI secolo le antiche Mereie assunsero il titolo di Regna accanto a quello di Iudicatus, così l'isola venne divisa in quattro regni indipendenti (Calari, Torres, Arborea, Gallura) ognuno con un proprio territorio e, conseguentemente, con proprie frontiere segnalate da della forche dette scandula; i giudicati ebbero così una base sarda comune e, sempre in comune fra loro molte istituzioni giuridiche, economiche e sociali.11
I caratteri generali dei Giudicati.
I Giudicati furono dei veri e propri stati secondo l'accezione medioevale: erano Sovrani, perché non riconoscevano alcuna autorità superiore ("non recognoscens superiorem"), erano Perfetti, perché godevano della Summa Potestas, cioè la possibilità di stipulare trattati internazionali, erano anche Superindividuali, perché a differenza degli altri stati medioevali non erano patrimoniali (cioè non erano di proprietà del sovrano che, quindi, come se fossero stati dei beni privati li avrebbe potuti dividere fra i figli) ma appartenevano a tutta la popolazione la quale, attraverso il giuramento del Bannus-Consensus, che rappresentava la concessione del potere al giudice in cambio della promessa che questi avrebbe rispettato gli interessi del popolo, lo affidava al giudice attraverso La Corona de Logu.
Erano, inoltre, Democratici perché tutte le più importanti decisioni di carattere nazionale non erano di esclusiva pertinenza del giudice ma, dei rappresentanti del popolo riuniti in un'assemblea detta Corone de Logu.1
Le istituzioni giudicali.
A capo del giudicato, detto anche Rennu o Logu, vi era un Giudice, del quale non si conoscono quali siano stati il potere, le attribuzioni e le modalità per l'elezione durante i primi secoli di vita dei Giudicati.
Le notizie a noi pervenuteci si riferiscono ai secoli XII, XIII, XIV e perciò, nell'esame delle istituzioni giudicali tali fonti saranno le principali.
I Giudici erano i responsabili dell'amministrazione interna sia civile che penale, avevano il compito di rappresentare davanti agli altri regni o città il loro giudicato, erano i comandanti supremi dell'esercito e da essi derivava ogni iurisdictio.
Data la loro completa indipendenza definirono il loro governo non solo come un rennare ma anche come un potestare o imperare,2 infatti spesso si definirono come reges o, addirittura, come imperatores.
I Giudici, la cui denominazione prevalse sulle altre, anche per essere stata preferita dalla Chiesa, si definirono tali << Gratia Dei >>3 o << Divina Gratia >> oppure per << boluntade de Donnu Deu >> e qualcuno si definì anche << a Deo electus et coronatus >> .
Essi avevano il titolo di Donnu o Donna (al femminile), che veniva anche attribuito ai componenti della loro famiglia; ai figli veniva attribuito quello di Donnikellu o Donnikella.7
I Giudici risiedevano insieme alla propria famiglia nel capoluogo del Rennu in un palazzo che ospitava anche la loro corte.
Nella successione alla dignità di Giudice, si seguiva il cosiddetto << ius successionis >>, cioè il diritto ereditario, ammettendo alla successione anche le donne, almeno portatrici di titolo per i figli oppure per il marito, poiché come fece notare F. C. Casula, secondo le leggi giudicali le donne non potevano essere "regine" regnanti.
Il riguardo verso i vincoli di consanguineità è utile per spiegare come i giudici sardi sembrino tutti essere i discendenti, nei vari giudicati, di una stessa famiglia, quella dei Lacon e, come tutti i giudici venissero in seguito scelti da questa ricca dinastia.9
Per quanto riguarda il periodo precedente, di cui si hanno scarse fonti storiografiche, sono state trovate talvolta famiglie diverse che si succedevano nel giudicato, nonostante che per l'elezione del giudice, fosse sempre richiesto il consenso dell'assemblea dell'Alto Clero, dei Maiorales (i Maggiorenti) e dei liberi, senza il quale l'elezione era nulla.
Il giudice, quindi, veniva scelto dalla Corona de Logu (l'assemblea dello stato) secondo un sistema misto ereditario-elettivo che era regolato da precise leggi genealogiche: di norma si seguiva la linea diretta maschile e, secondariamente la linea femminile, come precedentemente evidenziato, con le donne solo governanti e portatrici di titolo, in questo caso avveniva il cambiamento di dinastia, quando si esauriva la linea diretta si passava alla linea collaterale maschile e, in mancanza di figure maschili, a quella collaterale femminile.
Poiché il principio dello << ius successionis >> non era dominante, i giudici ricorrevano spesso ad un consortium di derivazione bizantina, praticato anche fra i Dogi di Venezia e nel Ducati di Napoli, per assicurare la successione ad uno dei loro figli; solitamente il primogenito veniva associato al governo ed esercitava col giudice i suoi poteri; questa consuetudine costituiva una sorta di designazione, tale atto spesso richiedeva la conferma dell'Alto Clero e dei Maggiorenti (Maiorales), che si riunivano, come per la designazione del giudice, in una chiesa.
Quando la Corona de Logu (assemblea dello stato) stabiliva la designazione "laudatio", la cerimonia d'incoronazione avveniva in una chiesa alla presenza dell'alto clero, dei maggiorenti e di tutto il popolo e del vescovo metropolitano che consegnava al giudice uno scettro il Baculum Regale, chiamato anche Clava o Matzuca, che rappresentava il << signum comfirmationis in regnum >>, dopo aver ascoltato dal designato un giuramento solenne di non cedere alcun territorio o castello né di stringere alleanze senza il consenso generale. << Regnum non alienare neque minuere et castellum alicui aliquo titulo non donare, neque pactum aliquod aut societatem aliquam cum gente extranea inire aliquatenus aut facere sine consensu eorundem >>.13
I giudici si impegnavano anche ad ascoltare e seguire il parere dell'assemblea (la corona de logu) per tutte le decisioni importanti; l'assemblea, alla quale tutto il popolo aveva prestato un giuramento di fedeltà e di obbedienza, era rappresentata dalle classi più elevate e costituiva un conventus, un << consiliu de sus homines de sa terra >> che esprimeva una voluntas alla quale ogni giudice doveva sottostare.14
Al sovrano che non manteneva il giuramento veniva tolto il consensus e poteva essere ucciso, come accadde alcune volte nella storia giudicale15, secondo il diritto alla rivolta di chiara derivazione bizantina.
Durante la minore età del giudice, stabilita in alcuni giudicati in quattordici anni ed in altri in diciotto anni,16 o l'assenza del giudice, ne assumeva le funzioni un giudice di fatto (iudike de fattu) dal sardo infattu significante dopo-dietro e quindi vice, oppure da de factu (= in realtà), una sorta di vicario o sostituto, che quasi sempre era un parente di entrambi i sessi.
Alla sicurezza del giudice ed alla difesa del suo palazzo vigilava, nei giudicati di Torres ed in quello d'Arborea, la Kita de Buiakesos (nome dall'etimologia incerta)18, un corpo di guardie armate che corrispondono agli Hostiari dei re e duchi longobardi, al comando di un Maiore detto anche Maiore de Ianna.
Riguardo alle sue attribuzioni, si può affermare che il giudice esercitasse il potere legislativo, esecutivo, militare e giudiziario; nominava e controllava l'operato degli amministratori locali, deteneva e governava il patrimonio pubblico del fisco ( rennu ), separato dai suoi beni detti << de pegugiare o peculiares >>, riscuoteva attraverso i suoi amministratori il reddito a lui spettante dalle imposte dirette ed indirette.20
Egli però non era un sovrano assoluto, nemmeno in senso greco, in quanto nell'esercizio delle sue funzioni, almeno per gli affari che superavano l'ordinaria amministrazione, era assistito e consigliato dalla Corona de Logu, cioè dall'assemblea nella quale da tutto il giudicato intervenivano i Maiorales, l'Alto clero ed i liberi, e attraverso il consenso di quest'ultima si prendevano le decisioni; anche nei processi il giudice era assistito da un corona giudiziaria detta Corona de Judike.
Una caratteristica peculiare dei quattro giudicati fu quindi il principio della Collegialità applicato sia nella Corona de Logu che nelle Coronas de Curatorias ed anche nei tribunali civili e penali: Corona de Iudike e Corona de Curatore; anche in tutti gli uffici con una propria giurisdizione, esistevano varie assemblee dette Corone presso il Maiore de Villa, il Maiore de Portu, l'Armentariu21.
L'indipendenza recoproca dei giudici era piena, infatti per affermare la loro totale ed indipendente sovranità si fecero chiamare spesso Reges, e chiamarono i loro stati Regna.22
Le relazioni fra i governanti dei quattro giudicati furono frequenti, sia per unioni matrimoniali tra i membri delle famiglie regnanti, che per le convenzioni specifiche ed inoltre, per l'attestazione dei convegni collettivi tra loro23; queste relazioni non ebbero alcun segno di pubblica dipendenza e, furono perciò di carattere internazionale.
Non abbiamo testimonianze se si avesse uno speciale riguardo verso i sudditi di un altro giudicato, qualora si recassero presso un altro regno sardo. I documenti non accennano ad una situazione giuridica particolare anche se li consideravano come dei veri e propri stranieri, esitizos24, confermando quindi il principio della piena indipendenza sovrana dei quattro giudicati.
La corte ed i suoi funzionari.
L'economia di tipo curtense, estremamente chiusa, affermatasi in Sardegna a causa del lungo isolamento politico ed economico, diede un nuovo aspetto ed ordinamento all'amministrazione centrale di ogni giudicato poiché, gli antichi funzionari bizantini furono sostituiti da amministratori e funzionari legati all'economia di tipo agro-pastorale; per cui ogni giudice ebbe nella sua corte numerose persone incaricate della direzione delle attività curtensi.1
Non è possibile ricostruire in modo completo l'ordinamento e le cariche dei vari ufficiali del giudice perché le fonti documentarie sono frammentarie e, talvolta, si riferiscono ad un solo giudicato e, quindi non si può essere certi che nei quattro giudicati la corte ed i funzionari del giudice avessero stesse denominazioni ed incarichi.
Poiché il patrimonio del giudice era nettamente diviso da quello della corona, furono quindi divisi anche gli amministratori dei due patrimoni, che erano anche i funzionari di più alto grado e, quindi, i principali dell'amministrazione centrale.
Il patrimonio della corona era amministrato dall'Armentariu de Rennu o de Logu3, da non confondersi con gli Armentarios, preposti alle singole ville del giudice; amministrava il patrimonio fiscale dello stato (rennu), dirigeva e controllava l'esazione dei tributi e delle multe facendosene rendere conto dai vari Curatores e Maiores de Villa, talvolta sostituiva il giudice nelle sue funzioni.
Il patrimonio personale del giudice era invece curato dall'Armentariu de Pegugiare, dove pegugiare significa peculiare quindi privato.
La natura giuridica dell'Armentariu corrispondeva a quella degli Armentari delle chiese e dei privati, che amministravano grandi patrimoni fondiari; nettamente distinte erano anche le prestazioni di carattere patrimoniale dovute al peculiare del giudice, da quelle di carattere pubblico dovute al rennu.
Alla Camara o tesoro era poi preposto il Maiore de Camara7 (maggiordomo) che attendeva alla custodia ed alla disposizione del denaro così come l'Armentariu provvedeva all'incasso, gli veniva anche affidata la cura del palazzo regio e, forse, la giurisdizione sugli ufficiali inferiori; accanto alla camara le fonti documentarie arborensi citano anche una Corte de Spendiu e insieme al Maiore de Camara un Fiscalis, le cui funzioni sono però incerte.
Vi erano poi altri Maiores ai quali era affidato un compito particolare, ad esempio i Maiores de Caballos11 avevano il compito di curare la cavalleria e le torme equine dello stato; i Maiores de Canes avevano il compito di occuparsi dei canili giudicali; entrambi avevano l'incarico di organizzare le cacce collettive, silvas, con l'intervento obbligatorio dei sudditi, come avveniva nel continente europeo ed erano obbligati anche a rispondere dei disordini e dei danni provocati dalla loro incuria.
Le cacce collettive erano utili sia per mantenere gli uomini allenati nell'uso delle armi che per procacciare provviste di carne da conservare sotto sale.
Dai Maiores appena citati dipendevano vari funzionari minori che si occupavano della terre e del bestiame, come gli Armentari, addetti alla produzione agro-pastorale dei centri rurali,14 i Porcarios e i Berbecarios che si occupavano rispettivamente dell'allevamento dei maiali nei ghiandiferai e delle greggi, questi ultimi, probabilmente, erano di condizione servile e perciò addetti a funzioni umili e, quindi, non potevano essere annoverati tra i dignitari della corte giudicale.
Provenivano dalla medesima condizione sociale i Mandatarios de Rennu che erano destinati a recapitare ed eseguire i mandati del giudice, ed i Poriclos o Puericulos de Angaria arborensi.16
Infine ai Genithia (ginecei), nei quali si effettuava la lavorazione dei tessuti per la corte,17 sovrintendeva il Gennezzariu, una sorta di guardarobiere, e forse doveva anche riscuotere il genithu da coloro che pur svolgendo la propria attività in casa erano tenuti a fornire quella prestazione momentanea; l'ultima categoria dei funzionari minori era rappresentata dai Vestaritas, simili ai coevi camerieri di corte.
Alla sicurezza del giudice ed alla difesa del suo palazzo vigilava, nel Logudoro e nell'Arborea, la Kita de Buiakesos, comandata da un Maiore19, detto anche Maiore de Ianna, dove ianna ha il significato di porta, termine che in senso più ampio indicava l'intero palazzo.
La Kita designava un corpo di guardie armate che corrispondevano ai coevi Hostiari dei duchi longobardi.20
E' difficile stabilire invece perché gli armati si chiamassero Buiakesos, probabilmente perché si conservò nel nome un uso bizantino di un corpo di guardie formato da uomini provenienti esclusivamente dalla Puglia e, quindi, chiamati Puliakesos, oppure perché provenivano o erano tutti originari della villa di Busaque (oggi Busachi), dove probabilmente gli uomini erano molto esperti nell'uso della verruda, l'arma tipica di questo corpo di guardia.21
La cancelleria giudicale.
Una vera e propria cancelleria, sul modello di quelle degli altri stati, nei quattro giudicati si ebbe solo a partire dall'XI secolo.1
Inizialmente il prodotto diplomatistico era molto rozzo nei suoi caratteri estrinseci (taglio e qualità della pergamena, detta charta o carta, tipo di scrittura ed inchiostro) ed in quelli intrinseci (lingua e contenuto), rispetto alle altre cancellerie del tempo; i documenti erano redatti in volgare sardo per i sudditi ed in latino medioevale per gli atti internazionali, compilati dai vescovi nei casi più importanti, ed in quelli di minor rilievo dai sacerdoti.
Ogni atto, inoltre fu sempre corroborato da un sigillo pendente o bolla di piombo, perciò, tali prodotti diplomatistici furono chiamati in sardo cartas bullatas.2
Di solito nei primi periodi dell'attività cancelleresca, spesso il giudice si rivolgeva ad una persona di sua fiducia, anche se quest'ultimo non era un vero e proprio segretario; ad esempio nel giudicato d'Arborea vi furono preti locali o notai stranieri che compilavano gli atti sotto dettatura del giudice.
Dall'XI secolo in poi, attraverso la conoscenza delle tipologie delle cancellerie continentali (per esempio quelle pisane e genovesi), quelle che inizialmente furono delle scrivanie giudicali si trasformarono in vere e proprie cancellerie regie certificanti, infatti esse stesse garantivano la validità e l'autenticità del documento emanato.4
Nel giudicato d'Arborea, sotto il regno di Barisone, erano presenti nella cancelleria dei Notari Curiae5 e nel 1189 sotto il regno di Pietro d'Arborea vi era un cancelliere di professione, detto << Cancellariu >>, che si chiamava Pietro Pagano intorno al quale si organizzò una ordinata ed efficiente Camera Scribaniae, nella quale lo stesso Pietro Pagano coadiuvato da numerosi minori o pueri, attendeva alla stesura, al controllo ed all'archiviazione degli atti.
La società giudicale
Al vertice della società giudicale, accanto al Giudice, comparivano i parenti stretti della sua famiglia: i fratelli ed i figli che, chiaramente, a causa della loro posizione sociale, partecipavano alla vita ed alle decisioni più importanti riguardanti il giudicato; erano indicati col nome di Donnikellos1, ad essi venivano affidate le cariche più importanti del Rennu ed anche le terre più redditizie.
Dopo di essi venivano gli altri parenti o membri della famiglia giudicale, ai quali spettava il titolo più comune di Donnu e godevano, ugualmente, di numerosi privilegi.2
Immediatamente dopo i Donnu seguiva la vera e propria aristocrazia del giudicato, era costituita dagli alti funzionari ecclesiastici (l'Alto Clero), Vescovi e Abati, e dalle famiglie più ricche i cui membri erano detti Lieros Mannos, Liurus Maiorales ed in maniera più generale Maiorales3, l'importanza di queste due classi nella società era determinata principalmente dal censo, ed anche a queste due ultime venivano concesse le cariche pubbliche.
I vescovi rappresentavano, ovviamente, persone di alto spessore nel giudicato; infatti negli atti pubblici, subito dopo il nome del giudice e delle persone appartenenti alla famiglia reggente, apparivano i prelati ad assistere ai più importanti affari dello stato.
Vescovadi e monasteri figuravano anche come grandi possessori fondiari, possedevano intere ville con numerosi coloni a loro subordinati ed anche liberi e servi, soggetti all'autorità ed alla disciplina della chiesa, che godeva di larghe immunità finanziarie e giurisdizionali, chiaramente sempre entro certi limiti; avevano una peculiare organizzazione interna, molto simile a quella laica della corte; infatti nei documenti compaiono figure come quella dell'Armentariu, del Mandatore e dei minori ufficiali curtensi.
I monasteri, inoltre, per tutelare la loro entità giuridica avevano una sorta di patrono, Pupiddu, paragonabile all'Advocatus delle coeve chiese italiane, il quale, talvolta, assumeva la più importante funzione curtense, cioè l'ufficio dell'Armentariu, una sorta di economo; è degno di nota sottolineare il fatto che spesso tale ufficio era affidato ad un membro della famiglia giudicale, il quale, spesso, interveniva per autorizzare i negozi patrimoniali dell'ente.
La classe più numerosa era costituita dai Maiorales, essi accentravano nelle loro mani gran parte delle ricchezze fondiarie, ricoprivano le cariche più alte ed avevano una parte direttiva nella politica del giudicato, dominavano la vita economica, sociale, politica ed appartenevano ad una ristretta cerchia di famiglie che avevano le proprie diramazioni nei vari giudicati: nel Logudoro gli Athen e i Dethori, nel giudicato di Calari i De Unali, i Dezzori, i De Serra, i De Azzeni, negli altri giudicati i De Zori, i De Serra, i De Gunale, etc..
Queste famiglie nelle quali erano presenti anche rappresentanti dell'alto clero, facevano ricche donazioni alle chiese o agli ordini religiosi, spesso per spirito di pietà ed altre volte per dimostrare la loro ricchezza, patrocinavano e curavano le costruzioni degli edifici di culto dotandoli di ricche suppellettili.
All'interno di queste famiglie "dominanti" si sceglievano le spose dei giudici, dei principi, spesso anche di quelli continentali, e degli alti funzionari dello stato; il matrimonio tipico era detto a sa sardisca, un caratteristico istituto in forza del quale i coniugi avevano la comunione dei beni acquistati dopo le nozze oppure, secondo altri studiosi, ma questa tesi è meno probabile, di tutti i beni, anche di quelli posseduti prima delle nozze.
Accanto a queste famiglie ve ne erano delle altre, sempre dotate di ampi possedimenti fondiari; da queste, come dalle precedenti, si sceglievano i più importanti funzionari pubblici: i titolari degli uffici di corte, gli armentari locali, i curatori ed i maiori.
Queste famiglie erano anch'esse indicate col termine generico di Maiorales, e probabilmente rappresentavano i continuatori dell'antica classe dei Nobiles Possessores, che il possedimento fondiario aveva privilegiato e rese ricche.
A questa categoria di famiglie, appartenenti alla classe dei liberi, accedevano, talvolta, nuove famiglie, quando il possesso fondiario o l'esercizio di qualche pubblico ufficio riusciva a "distinguerle" dalle altre; quindi era una classe sociale in continua evoluzione all'interno della quale si creava una sorta di equilibrio fra le famiglie nobiliari, che impediva che qualcuna di esse si guadagnasse un'autorità tale da contrastare o superare quella della famiglia dei giudici.
Nella piramide sociale subito dopo i Maiorales, vi erano i Liberi (laici ed ecclesiastici), detti Liveros, Lieros, oppure Liurus, cioè coloro che godevano della completa libertà e della pienezza dei diritti civili, partecipavano alle assemblee più importanti, avevano funzioni giudicanti nelle coronas, partecipavano all'elezione del giudice nella corona de logu, e ricoprivano cariche pubbliche.
Questa classe sociale non era molto numerosa, rappresentava solamente 1/3 della popolazione globale, secondo le loro proprietà e ricchezze si potevano distinguere in: Liberos Mannos o Maiorales, precedentemente citati, Liberos Mediocres, di ceto medio, con piccoli possedimenti fondiari, armenti e servi, Liberos Minores, di ceto basso, spesso nullatenenti i quali, alcune volte per necessità si asservivano cambiando, quindi, la propria condizione sociale.
Il fatto che alla classe dei Liberi appartenesse solo 1/3 della popolazione è spiegabile attraverso alcune considerazioni che reputo degne di essere riportate.
La decadenza delle città ebbe come conseguenza la quasi completa scomparsa della classe media urbana, questa fu una caratteristica della società sarda e a causa di questa la Sardegna, insieme alla Corsica, si distinse da tutte le altre regioni italiane.
Un altro fattore da considerare è rappresentato dal fatto che i liberi, soprattutto i possessori di terre, tendevano, naturalmente, con l'appoggio degli alti funzionari, con l'esercizio delle cariche pubbliche oppure per mezzo delle parentele, ad entrare a far parte del ceto superiore dei Maiorales.
Il fatto poi che la prole seguisse la conditio deterior e che, pertanto quando un solo genitore era libero il figlio non era libero, non contribuì certo ad accrescerne il numero; inoltre non tutti i liberi erano ricchi, quelli nullatenenti o possessori di qualche piccolo appezzamento di terreno vivevano dei frutti di questo e della quota loro spettante delle terre comunali;8 perciò ad essi si alludeva, probabilmente, con l'espressione Donnos Paberos o Paperos, cioè coloro che traevano sostentamento o aiuto dal lavoro e dal godimento collettivo del paperile.
F. Artizzu, riguardo ai Donnos Paperos, fornisce una diversa interpretazione: essi erano dei liberi che, a causa di problemi economici, confluivano nella massa dei dipendenti, conservando, almeno per un certo tempo, il primitivo stato di libertà.10
La prof. B. Fois, in una pubblicazione riguardante i Donnos Paperos , evidenzia la presenza di questa locuzione in alcuni documenti riguardanti la Sardegna medioevale, soprattutto nel condaghe di San Pietro di Silki , per designare delle persone di rango elevato.
La collocazione sociale, politica ed economica dei Donnos Paperos ha creato una vera e propria diatriba fra gli studiosi, alcuni dei quali hanno fornito delle interpretazioni del termine quanto mai fantasiose ed azzardate.
Il punto di partenza per una corretta interpretazione della locuzione deve essere ricercato nell'etimo << paperos >> che deriva dal termine latino << pauper >>, cioè povero; inoltre questi << paperos >> erano definiti anche come << donnos >>, cioè come persone ricche appartenenti alle famiglie più altolocate, compresa quella del giudice. Quindi con la parola poveri << paperos >> si intendeva indicare una categoria particolare di ricchi e proprio questa contraddizione ha potato alla formulazione di ipotesi cervellotiche e scientificamente non provabili13.
La rilettura dei documenti ci permette di identificare, non con certezza assoluta, i << Donnos Paperos >> con i cosidetti "Cavalieri Poveri", figure note ed apprezzate nell'Europa medioevale fra l'XI e il XII secolo.
Per corroborare tale ipotesi la prof. Fois, nella sua pubblicazione, riporta l'opinione del Cardini14 secondo la quale questi cavalieri venivano definiti "poveri" in quanto accettavano il programma di austerità della Chiesa riformata e mettevano da parte la loro sete di gloria, di ricchezze e di avventura per consacrarsi a questo programma pur restando sia laici che guerrieri; il loro stile di vita era perciò simile a quello di molte confraternite laicali del tempo.
Questa interpretazione spiega pertanto il fatto che si tratti di persone ricche di grado sociale elevato, pur chiamandosi poveri, e il fatto che si tratti di una comunità di persone e non di singoli e che in quanto comunità posseggano terre, beni e servi16.
Quindi la conclusione più verosimile e storicamente plausibile è che i << Donnos Paperos >> erano l'equivalente sardo dei "Cavalieri Poveri" i quali si ispiravano al movimento francese dei cosiddetti "Chevaliers Pauvres", frutto della riforma della Chiesa precedentemente citata in nota.
Pertanto il termine sardo << donno >> era quello utilizzato per tradurre il termime "cavaliere" in quanto la Sardegna giudicale non conobbe il feudalesimo franco-germanico e quindi la figura del tipico cavaliere del mondo europeo, inserito in un rigido contesto feudale, in una rigida gerarchia sociale ed infine in una struttura militare.
Gli altri liberi, molto più numerosi, non erano riusciti a mantenere l'indipendenza economica, perciò si erano confusi nella categoria dei dipendenti.
Nelle ville vi erano sicuramente anche i liberi, dotati di piccoli possedimenti fondiari e di servi, ma non erano molto frequenti e spesso la loro condizione non si distingueva, in maniera precisa, da quella dei coloni e dei servi, che avevano guadagnato una parziale libertà; a questa classe, presumibilmente, dovettero appartenere i Terrales de fictu, citati spesso nei documenti sardi.
La loro collocazione sociale è incerta, la scheda 160 del condaghe di S. Pietro di Silki presenta come terrales il figlio di un servo, mentre in altre schede dello stesso condaghe le condizioni sociali dei terrales sono ben differenziate.
Lo stesso nome rivela che la ratio distinguendi, come affermò il Besta18, consisteva in uno, speciale rapporto col suolo oppure col proprietario della terra, il rapporto viene chiarito dalla specificazione de fictu presente nella scheda 229 e 337 dello stesso condaghe, quindi il terrales, probabilmente, versava un fictu, una sorta di affitto, probabilmente al donnu, come corrispettivo della terra concessagli in usufrutto.
Le fonti documentarie, presentano spesso la parola homines seguita da lieros et servos19 per indicare coloro che esercitavano i diritti sulle terre delle ville, anche di tipo collettivistico, evidenziando quasi una tendenza parificatrice tra i liberi ed i servi, che creava una certa confusione tra le classi inferiori della popolazione; oppure spesso le fonti documentarie presentano la parola libero seguita da un aggettivo o da un'espressione, forse, anche in questo caso non si trattava di persone completamente libere, ma di persone tenute ad una specifica prestazione allo stato.
Si può quindi affermare che tra le persone propriamente libere ed i servi vi fosse, inoltre, una classe intermedia di Semiliberi o Colliberti oppure Culvertos; alle persone appartenenti a questa classe intermedia non era pienamente negata la libertà, essa era limitata in varie porzioni da vincoli personali o reali verso determinate persone, quindi erano tenuti a prestare alcuni servigi20 ; perciò la loro condizione non differiva molto da quella dei servi.
Gli appartenenti alla classe dei semiliberi vennero variamente indicati col nome di Culvertos, Liveros Ispensionarios; Liveros de Paniliu, Liveros Muniarios, in generale vi appartenevano tutti coloro la cui qualifica di liberi fosse seguita, come ho fatto notare, da un qualsiasi appellativo; il Marongiu ritiene che fossero dei servi liberati uniti in varie associazioni.
Essi provenivano o dagli antichi servi, resi liberi dal proprietario, oppure venuti in possesso, attraverso varie circostanze, della libertà totale o parziale; oppure da persone originariamente libere cadute in uno stato di dipendenza economica, nella condizione del colonato e dell'artigianato curtense.
Perciò erano detti Colliberti o Liberti ed anche Ispensionarios, cioè pensionarii, in quanto erano tenuti verso il patrono a determinate pensioni,23 oppure Liberos de paniliu, ovvero liberi legati da un vincolo di comunanza e di dipendenza, determinato dalla consuetudine e tenuti ereditariamente a determinate forme di lavoro colonico o artigiano.
Il numero elevato e la particolare condizione di questa classe sociale si semiliberi, indusse l'organizzazione amministrativa dei vari giudicati a provvedere ad una speciale organizzazione, all'interno della quale la figura di spicco, in ambito amministrativo, era quella del Mandatore de Liveros.
Il Mandatore de Liveros, figura che compare spesso nei documenti logudoresi, era, probabilmente, un ufficiale, preposto dal pubblico potere, nelle singole ville, con l'incarico di reggere questi gruppi e di regolare le prestazioni dovute dai singoli ai vari padroni.
Forse veniva scelto nello stesso gruppo dei semiliberi dal curatore; questo fatto spiega come abbia potuto esercitare, all'interno dei colliberti, le funzioni di pacifico arbitrato, che lo fecero apparire a reggere, in casi eccezionali, una speciale corona: la Corona de Mandatore.
Lo stesso ruolo, probabilmente, svolsero sia il Mandatore de Rennu che il Mandatore de Clesia,26 perché sia il rennu (lo stato) che le chiese possedevano numerose ville popolate da una popolazione rurale costituita da servi e semiliberi; il mandatore regolava i servizi e le prestazioni dovute da questi dipendenti e veniva nominato e scelto dal proprietario nel gruppo dei servi o dei liberti.
Il Mandatore de rennu aveva il compito specifico di disporre e organizzare i servigi e le prestazioni dei servos de rennu e fungeva da nunthius del signore nell'ambito del governo domestico.
Il Mandatore de clesia regolava, analogamente, i servigi dei servos de clesia e prestava nei giudizi il giuramento richiesto a nome dell'ente.
Sulla figura sociale dei Culvertos e sui legami fra colliberti, legati ad uno stesso padrone, è molto importante ed esauriente lo studio eseguito da M. Bloch, per quanto riguarda i Colliberti o Culvertos della Sardegna le interpretazioni sulla loro figura in ambito sociale ed economico sono spesso in contrasto fra loro.
Il Tola e l'Amat credettero che costituissero la categoria dei servi, pensando che alla base della loro deterior conditio, ci potesse essere l'origine straniera del servo, accogliendo l'etimologia del Ducange, che fece derivare il termine culvertus da coopertus che indicava una persona la cui origine era ignota; tale ipotesi fu, però, contraddetta dai documenti, che attestano che culvertos rimanevano i figli dei culvertos, nonostante la loro nascita fosse avvenuta in Sardegna.
L'analisi delle fonti documentarie ha dimostrato che la parola culvertu29 attraverso la forma culivertu proviene da colivertu ed è da mettere in relazione con la parola latina collibertu; quindi i culvertos dovettero essere dei colliberti o dei liberti, in lingua sarda livertos o liveros, che vivevano secondo i rapporti tipici di un consorzio agricolo, precedentemente attestati dalle fonti epigrafiche e giuridiche latine. Come servi erano quindi legati da vincoli personali verso il manumissore o i suoi eredi e da vincoli reali verso il fondo nel quale svolgevano l'attività agricola, per la prestazione di quelle opere che il patronus si era riservato all'atto della manumissione (che faceva cessare lo stato di schiavitù), ma avevano, in ogni caso, la loro libertà personale, e se fossero stati ceduti insieme alla terra che coltivavano, dovevano continuare a servire << cum libertate quas habebant >>, e senza che il concessionario della terra potesse << eos imperare ultra eorum voluntatem >>; inoltre un legame tra culvertos è testimoniato dalla scheda di un condaghe per quanto riguarda l'assenso ai matrimoni e alle disposizioni sui beni personali di ciascuno.
Alcune volte venivano anche chiamati servi, ma non si trattava di una vera e propria servitù, ma di una sorta di servitù della gleba atipica, in quanto, una volta prestati i servigi consueti, non avevano alcuna limitazione alla loro libertà (libertas).
La fonti documentarie non rivelano grandi differenze tra i Culvertos ed i Liveros Ispensonarios di cui parla il condaghe di S. Pietro di Silki.34
Il significato della voce ispensionarios è di facile e certa interpretazione, perchè corrisponde perfettamente al latino pensionarii, e quindi possiamo affermare che fossero dei liberti verso cui i padroni conservavano il diritto a determinate pensiones.
Lo stesso discorso riguarda anche i Liveros Muniarios, che erano tenuti, in questo caso, alla prestazione di un determinato << munus >>, cioè un servizio personale.
I Liveros de paniliu, invece, compaiono solo nelle carte cagliaritane ed è quindi abbastanza difficile comprendere quale fosse la loro condizione sociale; avevano sicuramente degli obblighi consistenti in prestazioni d'opera, il cui frutto, ad esempio, fu ceduto dal giudice Torchitorio I di Calari, nel 1070-1080, all'arcivescovo di Calari; inoltre, uno storico spagnolo del'600 li definì come esclavos de paniliu.35
I condizionamenti a cui era sottoposta la loro libertà fa supporre che inizialmente non fossero liberi e dipendessero in tutto dal volere e dall'arbitrio del padrone; ottenuta successivamente la libertà rimasero legati alla terra a cui erano addetti e, seguendo le vicende del patrimonio dominicale, potevano essere venduti, donati, oppure addirittura pignorati insieme a quello.
Il documento che ci fornisce precise indicazioni sulla loro condizione, come precedentemente riportato, è la donazione che Torchitorio I fece all'arcivescovo cagliaritano; dalla lettura del documento risulta che erano dei liveros tenuti a fornire prestazioni personali verso lo stato e che queste prestazioni avevano un limite, infatti l'arcivescovo, ottenuta una settimana di lavoro ogni tre, non doveva richiedere nessun'altra prestazione, e che erano vincolati alla località in cui risiedevano. Questi oneri e prestazioni d'opera dipendevano dalle originarie condizioni della loro manumissione: erano, infatti, i discendenti dei liberti cum imposizione operarum.
Il Bonazzi vide nell'etimo della voce paniliu la trasformazione volgare della parola greca pan-eilh, che indicava un gruppo di persone, costituito da liberi e servi, tenuti a prestare dei servigi simili e legato ad una determinata località.36
I liveros de paniliu dovevano al proprio signore una parte della loro opera per la coltivazione dei campi di frumento, ma anche una serie di servizi tecnici come: << maistru in pedra et in calcina et in ludu et in linna >>, << magistros lapidum et lignarios et fabros et montarios et pistores et alios >>; quindi l'ufficio specifico di questi semi-liberi, raccolti in una collettività personale e territoriale, consisteva in attività agricole, industriali ed artigiane.
Si può giungere quindi alla conclusione che i liberos de paniliu delle ville cagliaritane rappresentavano una classe di persone legate alle attività, soprattutto, artigianali e tenute ad una sorta di dipendenza verso il pubblico potere rappresentato dai vari signori o da enti.
Questa soggezione delle attività artigianali verso il potere pubblico comportava un vincolo di servigi e di lavori, che obbligava questa categoria di semi-liberi a dedicare un'intera settimana di lavoro ogni tre al regno, e dopo la donazione del giudice, all'arcivescovado.
In seguito alla conquista pisana, si diffusero nelle ville e nelle città nuovi ordinamenti che interruppero definitivamente tali vincoli e portarono alla creazione, in tutte le città della Sardegna, dei nuovi gruppi associativi delle corporazioni medioevali, che sotto la dominazione aragonese presero il nome di Gremi.
La classe servile, che rappresentava i 2/3 della popolazione, era la più numerosa nell'organizzazione sociale giudicale.
Gli schiavi veri e propri, sottoposti al dominio del padrone in modo pieno ed assoluto e paragonabili agli schiavi del mondo antico, erano pochissimi e provenivano dal commercio degli schiavi musulmani.37
La servitù ebbe in Sardegna caratteristiche ben precise, il servo non era più considerato come una << res >>, infatti i padroni possedevano le prestazioni d'opera dei loro servi ma non le persone fisiche, cosicché un servo poteva dovere prestazioni d'opera anche a più padroni.38
La persona del servo manteneva però una propria fisionomia giuridica perché conservava il proprio cognome, poteva contrarre nozze legittime col consenso del padrone, aveva un proprio patrimonio, di cui disponeva liberamente, poteva affittare una proprietà, partecipava nella villa ai diritti sui beni comunali, e godeva insieme agli altri servi dei frutti del paperile, essendogli riconosciuta la libertà patrimoniale, egli poteva ricomprare, in tutto o in parte, la sua indipendenza; inoltre compariva in giudizio come imputato o testimone, e non era neppure del tutto privo dei diritti civili, poteva, infatti, far parte del basso clero e, secondo il Di Tucci, ricoprire la carica di juratu de giustizia nella corona de villa.39
Il servo viveva praticamente come un bracciante o un colono in quanto era vincolato nelle ore lavorative giornaliere: dalle sei del mattino ( l'ora prima ) alle sei della sera ( l'ora tredicesima o del vespro ); ma dedicava al lavoro personale il sabato, la domenica e i giorni festivi.40
In una settimana i giorni da dedicare alle prestazioni d'opera erano quattro.41
Se le prestazioni appartenevano ad un solo padrone il servo era detto Integru o De Cada Die oppure Peguliare;42 se erano divise fra due padroni il servo era detto Lateratu, se erano divise fra tre o quattro padroni era detto Pedatu , con latus si indicava infatti la metà del servo, e con pede il quarto, perché, secondo la tradizione greco-bizantina il servo era un quatrupedes. Si potevano possedere delle prestazioni anche per quote inferiori al piede ( cioè al quarto ), che erano calcolate in dies, da contarsi nell'arco di un mese e non più di una settimana , il cumulo di tali giornate, secondo qualche studioso, non superava le quattro settimane, secondo altri le tre; chiaramente nei casi in qui il servo non era, per il restante tempo, soggetto ad un altro padrone, poteva lavorare per se stesso.
Ciascun condomino poteva lasciare il servo libero per la propria quota, in conseguenza di questo fatto, i servi potevano lavorare << pro rata >>, lavorare per se e fare acquisti col proprio denaro, o partecipare nella villa agli stessi diritti dei liberi. Così si spiega come potevano esistere nelle ville servi che dovevano solo pochi gironi di lavoro ad un padrone, ed erano quasi simili, per quanto riguarda la condizione giuridica, a quella categoria di liberi che erano tenuti a fornire determinate prestazioni d'opera ai signori.
Le giornate lavorative di un servo potevano essere vendute, cedute, donate e permutate come attestano le schede del condaghe di San Nicola di Trullas, ad esempio nella scheda n° 40: << comporaili ad Yzzoccor de Carbiapede de Paganella fiia de Dorgotori Zizellu >>;47 nelle spartizioni dei servi fra padroni o negli scambi fra di essi non si faceva alcuna distinzione di sesso, infatti nel condaghe di San Pietro di Silki, nella scheda 67, si trova il caso di una serva pedata che viene scambiata con un servo laterato.
Nei vari centri, infatti, sia gli uomini che le donne, liberi o servi, avevano compiti ben precisi,50 ed il lavoro femminile era considerato alla pari di quello maschile; non era una circostanza sorprendente, se si considera che la società giudicale sarda permetteva alle donne di gestire il proprio patrimonio e che consentiva ai figli di prendere, indifferentemente, il cognome del padre o quello della madre; questo fenomeno è ampiamente documentato dalle fonti documentarie e riguardò tutte le classi sociali, compresa la famiglia del giudice; a volte i figli oltre al cognome paterno e materno prendevano anche altri cognomi, ma non si è ancora riusciti a stabilire secondo quali modalità e rapporti di parentela. Sul lavoro maschile, riguardante tutte le classi sociali, abbiamo la testimonianza di una differenziazione dei compiti, ad esempio nei condaghi appaiono, porcari, muratori, falegnami, banditori, scrivani, vinai, etc.; per quanto riguarda il lavoro femminile, invece, non sono quasi mai specificate le attribuzioni, le mansioni ed i mestieri, infatti nei documenti le donne vengono definite ancille, senza ulteriori specificazioni.
La testimonianza più importante è presente nel condaghe di Santa Maria di Bonarcado, nella scheda 131, dove vengono elencate le incombenze e le mansioni delle serve:53 curare "le faccende domestiche", fare le pulizie ed il bucato, preparare e cuocere il pane, eseguire la molitura del grano, dedicarsi ai lavori di filatura e tessitura, curare gli animali da cortile; inoltre, se fossero state libere dalle faccende di casa, dovevano aiutare gli uomini nei lavori agricoli, nelle operae, che consistevano nell'arare, messare, sradicare, e nel curare le vigne e le varie colture, oppure nell'accudire il bestiame.
Il lavoro agricolo, praticato almeno una volta alla settimana, il lunedì, veniva svolto dalle serve che non lavoravano nei ginecei del signore.
I ginecei, chiamati Genitia, nel Capitulare de Villis, nei quali i funzionari erano detti, secondo le Carte dell'Archivio Arcivescovile di Cagliari, Gennezzari, erano dei laboratori nei quali si tessevano le stoffe di lana, di lino ed i tappeti,54 che rappresentavano un prodotto importante sia per la corte giudicale che per l'esportazione
La testimonianza dell'importanza della produzione tessile, per ciò che riguarda l'esportazione, è testimoniata da un'epistola di papa Leone IV ( 847-855 ) nella quale il pontefice chiedeva al giudice l'invio di << lana marina >>, detta << pinnino >> o << bisso marino >>, la cui produzione era praticata nell'Italia meridionale a Taranto ed in Sicilia; ma, a causa della conquista della Sicilia da parte degli Arabi, i rapporti commerciali con la Santa Sede furono interrotti e perciò il papa si rivolse al giudice sardo.
Il pinnino era una stoffa tessuta dai fili serici della pinna marina, una conchiglia marina chiamata pinna nobilis, perciò la stoffa prodotta prese il nome di pinnino, la stoffa prodotta dalla pinna marina era molto bella e costosa e richiedeva per la lavorazione dei fusi di tipo particolare.
I servi furono sempre oggetto di negozio giuridico, di permute, di donazioni, di acquisti, nonostante fossero considerati come persone a tutti gli effetti, anche se, probabilmente, sulla base del colonato e del possesso fondiario, si creò una separazione fra i servi appartenenti ad un padrone ( servus integrus, o de cada die o peguliare ), che dovevano a quest'ultimo l'intera attività lavoratrice e che erano oggetto di compra-vendita, e gli altri che incaricati della coltivazione della terra, andavano sempre più avvicinandosi verso la classe dei liberi o dei coloni, infatti, come questi, erano soggetti alle prestazioni reali e personali dovute al regno. Essi pur rimanendo sotto la dipendenza di un padrone ( il donnu ), che era sia il proprietario della terra che dei servi, avevano una economia a parte come coloni e si succedevano di generazione in generazione in quel fondo55, ed erano tenuti, come ogni altro colono, al pagamento dei tributi, detti munia.
Il nome munia, dato ai tributi, fornisce la spiegazione sull'esistenza di una categoria di Servus Muniarius, una categoria di servi privilegiati, ricordati nei documenti della Sardegna meridionale,56 le loro prestazioni erano limitate ai munia a cui erano tenuti verso lo stato oppure il privato cittadino concessionario dei diritti dello stato.
La loro condizione trova un riscontro nella figura degli Angarii dei documenti della penisola; essi , come i servos muniarios, dovevano prestare al signore varie tipologie di servizi.
Oltre ai servi privati, laici ed ecclesiastici, vi erano anche i servi del regno o dello stato detti Servos de Rennu;57 le loro mansioni non sono molto chiare, appartenevano al fisco e, per esempio erano dislocati nei << vestari >> sotto la sorveglianza di un maiore, anch'egli di ceto servile; evidentemente dovevano prestazioni d'opera allo stato, probabilmente nei pascoli comuni e nelle terre della comunità.
I documenti attestano anche la presenza dei Servos de Peculiare, appartenenti al patrimonio delle chiese o dei ricchi proprietari terrieri, oppure al patrimonio privato del giudice; e dei Servos de Paperos58 o de Rennu, alcuni studiosi pensano che paperos fosse sinonimo di donnos e servisse ad indicare, quindi, i giudici, ma tale interpretazione è dubbia, questa categoria di servi non apparteneva infatti al patrimonio peculiare del giudice, anche se lo stesso giudice, come "tutore" di beni dei << pauperes >> esercitò, sicuramente, la giurisdizione ed il controllo sulla loro amministrazione.
Sevi si poteva diventare, ma di solito si nasceva, perché il figlio di un servo e di una serva era servo anch'egli fin dalla nascita; i servi e le serve si sposavano in tenera età, infatti, in alcune schede dei condaghi sono ricordate più generazioni di servi, fino ad otto,60 della stessa famiglia, ed in tempi talmente ristretti da far supporre che i matrimoni avvenissero in età molto giovane.
Se il matrimonio tra servi non era stato autorizzato dai rispettivi proprietari ma, era avvenuto per mezzo di un ratto o di un inganno << a fura et a larga >>, i figli nati da tale unione andavano tutti al proprietario della madre, se invece vi fosse stato un regolare matrimonio celebrato pubblicamente << a claru et a face >>, ed << in facie ecclesiae >> e autorizzato dai rispettivi proprietari, la prole sarebbe stata divisa in parti uguali fra i proprietari dei due servi.
Anche il matrimonio tra un libero ed una serva, o viceversa, generava servi, perché i nati da tali unioni erano obbligati a seguire il genitore di << deterior conditio >>.61
Le prestazioni d'opera dei genitori passavano ai figli, e se i genitori prestavano opera presso padroni diversi, venivano divisi fra questi ultimi;62 i padroni spesso per non perdere le prestazioni d'opera, si accordavano fra loro per accasare i propri servi e, successivamente, si spartivano i figli.
I figli dei servi, detti Nnatias,64 rimanevano presso la madre finché non fossero stati capaci << de tenner opus >> e venivano divisi solo quando << eran de servire >> , o in grado di poter già prestare qualche servizio, rimanendo anche allora indivisi o in comune con i pizzinnos . Se qualcuno dei figli fosse morto prima della divisione, senza dolo o negligenza di chi era responsabile della loro custodia, il danno veniva sopportato in comune dai condomini, ma se fosse stata accertata una negligenza o un dolo, il custode ne rispondeva al socio.
La divisione o parthitura68 veniva eseguita tra i condomini in proporzione dei diritti che essi avevano sui genitori; se il padre o la madre fossero stati servos integros dei rispettivi padroni la prole si divideva e metà, se la donna fosse stata serva integra di un solo proprietario e l'uomo fosse appartenuto a due condomini, il padrone della donna aveva diritto alla metà dei figli, gli altri proprietari singolarmente ad un quarto dei figli spettanti all'uno o all'altro padrone e si diceva che << intravan depus su patre o depus sa matre >>.
I servi, come precedentemente riportato, potevano avere beni di cui disponevano a loro piacimento, perché avevano tre giorni alla settimana per coltivare le proprie terre; in alcune donazioni si parla dei beni dei servi, di cui si cedevano le prestazioni d'opera, sulle quali non è chiaro che tipo di diritti avessero i padroni.
Servi e liberi, << secundu sa forza issoru >> erano tenuti a versare al fisco, al giudice e ai suoi funzionari per la pubblica amministrazione tributi di grano, di orzo, di vino e di bestiame. Questi tributi si chiamavano, dadu, cerga, collectu, rasoni, e venivano versati secondo il reddito annuale di ciascuno; inoltre erano poi tenuti, come riportato, a determinate prestazioni d'opera dette munia o arrobadie, nella proprietà del giudice, esse consistevano nell'arare, nel seminare, nel mietere, nel lavorare le vigne e nel trasportare vari prodotti con i carri.
Il potere di disporre dei servi, comunque, era regolato e limitato sia dall'influenza della Chiesa, che malgrado la sua dottrina approfittava largamente della manodopera servile, scambiando e cedendo ai vari enti i servi, partecipando alla divisione della prole, rivendicando in giudizio i servi che le appartenevano, sia dai diritti che godevano gli stessi servi.
Lo stato di servitù cessava per mezzo dell'istituto della manumissione, i servi venivano liberati attraverso un documento scritto e munito di sigilli, chiamato nei condaghi carta bullada73; qualora i servi avessero falsificato il documento sarebbero stati scorticati e messi alla forca . L'ex servo restava spesso, nonostante avesse acquisito la libertà, legato in qualche modo al vecchio padrone, sia che fosse un privato o lo stesso Stato, ed al gruppo di coloro i quali si trovavano nella sua stessa condizione sociale.
La condizione giuridica servile cessò in Sardegna nel XIV secolo, quando Mariano IV d'Arborea, nell'autunno del 1353, invitò tutti i sardi non liberi ad arruolarsi nel suo esercito per combattere le armate catalano-aragonesi in cambio dell'emancipazione personale.75
Gli ordini monastici.
I primi ordini monastici in Sardegna risalgono all'inizio del V secolo, ed i primi monasteri furono edificati ad opera dei monaci greci ed egiziani.1
Durante le persecuzioni vandaliche, si aggiunsero quelli sorti per impulso dei vescovi africani esiliati nell'isola, specialmente di S. Fulgenzio (478-533), vescovo di Ruspe, ed in seguito quelli dovuti all'opera catechizzatrice di papa Gregorio Magno (590-605).
Durante la dominazione bizantina ( 534-900 c.) rimase ininterrotto il rapporto tra monachesimo greco e monachesimo sardo, ed anzi quando, nel VII secolo, l'Africa Settentrionale era minacciata dall'espansione araba, si verificò in Sardegna un massiccio afflusso di monaci africani.
I monaci di rito greco, detti Basiliani da S. Basilio, di cui seguivano la regola, si diffusero in tutta la Sardegna, sia che vivessero in comunità, facendo quindi vita cenobitica, sia che vivessero isolati, col nome di Eremitas; nonostante fossero consacrati alla preghiera ed alla contemplazione, non mancarono di migliorare e curare i sistemi di lavorazione dei campi e di portare nell'isola nuovi tipi di frutta, in particolar modo di uva e di fichi.2
Dopo il Mille il papato fu l'autore della penetrazione nell'isola dei monaci Benedettini che ebbero il compito di sostituire al rito greco ed alle consuetudini religiose orientali il rito latino e tutte le caratteristiche del cattolicesimo romano.
Raggiunto un tale scopo sarebbe stato facile, sia per la Chiesa romana che per l'azione del pontefice Gregorio VII (1073-1080), rivendicare sulla base delle antiche tradizioni, l'appartenenza dell'isola al << patrimoniun beati Petri >>, con la conseguenza che il papato, nella persona del pontefice, avrebbe potuto affermare la sua sovranità sull'isola come un vero e proprio signore feudale.4
In base alla concezione teocratica ed accentratrice di Gregorio VII, si possono spiegare le successive pretese della Chiesa sull'isola e l'investitura che di essa fu fatta a Giacomo II il Giusto, re della corona d'Aragona, nel 1297, da parte del pontefice Bonifacio VIII (1294-1303).
Le prime donazioni furono fatte, quindi, ai monasteri Benedettini del continente in cambio di monaci che venissero in Sardegna affinché: << ..ordinent et lavorent et edificient et plantent >> oppure affinché arrivassero << cum codicibus et omnis argumentum ad monasterium facere et regere et gubernare >> .
Ai monaci, quindi, veniva richiesto non solo di costruire i monasteri, ma anche di riordinare il vasto patrimonio avuto in donazione dai giudici, attraverso la realizzazione degli edifici e delle strutture necessarie alla bonifica del territorio e alla sua messa a coltura.
Il Cherchi Paba sostiene che l'invito ai monaci Benedettini fosse da ricondurre allo scisma della chiesa greca e al successivo abbandono dei monasteri da parte dei monaci scismatici 8.
Il verbo << ordinent >>, secondo l'autore, sarebbe espressivo dello stato di abbandono e di disordine amministrativo in cui dovettero trovarsi le aziende agricole monastiche in seguito al successivo provvedimento della << charistikion >>, ossia la "secolarizzazione dei monasteri, consistente nella cessione di questi ai giudici" .
Il disordine amministrativo e quindi economico dovette essere tale da indurre gli stessi giudici, nell'interesse dell'economia generale, ad affidare la conduzione ed amministrazione delle terre ai monaci Benedettini.
I monaci, durante la loro permanenza in Sardegna, incamerarono vastissimi territori e, perciò, come afferma il Cherchi Paba << la storia dell'agricoltura del Medioevo giudicale si può ricostruire nei suoi aspetti molteplici attraverso i documenti contenuti nei Condaghi dei monasteri benedettini le cui aziende si estendevano in ogni contrada dell'isola..la superficie agro-pastorale posseduta dalle chiese sarde e dai monasteri non era inferiore, secondo un calcolo sommario, al 40% della superficie della Sardegna.>>.
Probabilmente, secondo l'opinione della prof. Fois, l'invito ai monaci Benedettini è da ricondurre anche ad un incremento demografico e, quindi, alla necessità di razionalizzare e migliorare l'arretrata economia agro-pastorale sarda.
Le esigenze dei giudici, a prescindere dalle varie ipotesi degli storici, erano comunque in perfetta armonia con la Regola di San Benedetto e la sua concezione di una comunità ordinata e disciplinata anche in campo economico e lavorativo.
Inoltre il lavoro, per la prima volta, venne considerato uno strumento di formazione intellettuale ed occupò un posto d'onore accanto agli altri esercizi della vita regolare, a tal punto da essere codificato anch'esso nella Regola .
La stessa Regola di San Benedetto ebbe perciò un ruolo fondamentale nella trasformazione dei lavori agricoli saltuari delle antiche colonie eremitiche, nelle quali si lavorava solo per assicurare un minimo per la sopravvivenza, in lavori perfettamente organizzati i quali, conseguentemente, favorirono la nascita di vere e proprie aziende agricole.
I monaci seppero attuare un felice connubio tra il lavoro manuale e la ricerca scientifica testimoniato dalla loro attività di bonifica e di dissodamento che trasformò numerose zone malsane e acquitrinose in fertili pianure e vallate disseminate di mulini e frantoi, determinando in tal modo l'accrescimento delle superfici coltivabili.
Le opere di bonifica, soprattutto dei monaci Vallombrosani, si diressero verso la selvicoltura e il rimboschimento, << con un'intensità e una durata che fanno di queste istituzioni i più efficaci strumenti della rinascita forestale nel pieno e tardo Medioevo >> .
La loro operosità dovette dunque distinguersi anche nella costruzione dei mulini e delle opere in muratura per regolare ed arginare il corso delle acque, che costituivano una perenne minaccia per le opere agricole e per gli stessi edifici conventuali.
L'attività scientifica vallombrosana venne codificata in apposite trattazioni e venne studiata e analizzata, anche in epoca moderna, da insigni studiosi 14.
Da un punto di vista amministrativo l'attività di bonifica benedettina si basava sulla divisione dei fondi in << terra dominica >> e in << terra tributaria >>.
Questa divisione costituiva l'unica maniera per ottenere il massimo rendimento dai fondi, anche quando i monaci diventavano insufficienti per la conduzione diretta.
L'abbazia, cioè la comunità base, rappresentava la << curtis >> principale, sede del potere giuridico e centro propulsore dell'economia monastica, mentre le << dipendenze >> e le << celle >> rappresentavano le diverse << curtes >> periferiche, nelle quali i monaci dirigevano il lavoro agricolo dei coloni e dei servi; in queste "sedi minori" si trovavano i mulini, i frantoi, le abitazioni, i depositi per le derrate alimentari e le << mansiones >> per il bestiame .
Per quanto riguarda i diversi tipi di colture praticate nelle proprietà monastiche, si può affermare che la parte << dominica >> fosse adibita alla coltura estensiva, mentre la parte << tributaria >> veniva coltivata intensivamente, con la predominanza soprattutto dei cereali 16.
Nelle aziende agricole monastiche erano in vigore vari tipi di contratto, i più frequenti erano << l'enfiteusi >>, il << livello >> e la << precaria >>, a cui andavano aggiunti il << pastinato >> e il << calcarium >>17; le varie tipologie di contratto presentavano un elemento comune e costante: l'usufrutto.
Sia per questa ragione che per l'esiguità del canone annuo e la mitezza del trattamento, tali contratti risultavano molto meno onerosi di quelli stipulati dai proprietari laici; veniva infatti favorita l'emancipazione dei servi ed il passaggio dei fondi alle famiglie dei coloni che li avevano ricevuti in amministrazione dai monaci18.
I monaci Cassinesi giunsero in Sardegna su invito del giudice del Logudoro, Barisone, intorno al 1063, si costituì così nel giudicato di Torres o Logudoro il primo cenobio benedettino che fu anche il primo centro di diffusione del monachesimo occidentale. Intorno al 1066 giunsero anche nel giudicato di Calari o Cagliari su invito del giudice Torchitorio, che cedette alla Badia di Montecassino numerose chiese site nel suo giudicato.
Accanto ai Benedettini, provenienti dalla Badia di Montecassino, giunsero in Sardegna i monaci Vittorini, anch'essi seguaci della regola di S. Benedetto, provenienti dalla congregazione che aveva sede nel monastero di San Vittore di Marsiglia20 che si insediarono prima nel giudicato di Calari e, dopo il 1079, anche nel giudicato di Gallura ed in particolare in quello di Torres.
Alle loro chiese erano annessi estesi latifondi coltivati da servi legati alla terra, mentre al monastero ed alla chiesa di San Saturno, a Cagliari, donata dal giudice Torchitorio ai Vittorini, appartenevano non solo terre ed altre chiese ma anche le ricche saline del golfo di Cagliari, che producevano un sale di ottima qualità.
Dopo i Cassinesi e i Vittorini, approdarono in Sardegna, dal 1128 in poi, anche i Vallombrosani23, ed in seguito i Camaldolesi, nella prima metà del XII secolo, ed infine i Cistercensi.
I monaci ottennero ampie donazioni di terre e servi, in cambio della colonizzazione di queste ultime, attraverso la costruzione di monasteri, case coloniche, stalle e tutti gli edifici necessari per la gestione di un'azienda agricola e per la bonifica e messa a coltura dei terreni che da queste dipendevano, i monasteri, quindi, divennero delle aziende agricole assai ricche.26
Ogni monastero aveva un registro delle variazioni patrimoniali o Condaghe (nome di derivazione greca dal termine kontàkion), formato da tante schede contenenti ciascuna donazioni, atti di compravendita, decisioni giudiziarie etc., erano documenti che servivano a comprovare il legittimo diritto del monastero sulle terre e sui beni posseduti.
Numerosi Condaghi andarono perduti, quelli a noi pervenuti si riferiscono a due soli giudicati: quello d'Arborea e quello di Torres o Logudoro.
L'attività monastica del Giudicato di Torres è documentata da quattro condaghi: quello di San Pietro di Silki (che ha la particolarità di essere l'unico registro di un monastero femminile dell'ordine benedettino del quale, però, non si conosce la regola), quello di San Nicola di Trullas, quello di San Michele di Salvenor (pervenutoci attraverso una trascrizione in castigliano del'600) e il Codice (quattrocentesco) di San Pietro di Sorres.
Per il giudicato d'Arborea, il condaghe più importante è sicuramente quello di Santa Maria di Bonarcado (probabilmente il monastero fu affiliato all'ordine camaldolese), gli altri condaghi "minori"( poiché più tardi e riferibili alla sola città di Oristano) a noi pervenutici sono: Il Condaxi Cabrevadu, quello di S. Martino di Oristano (entrambi del XV-XVI secolo), ed infine il Condaghe di Santa Chiara (databile alla fine del XVI secolo).
Le ricchezze dei monasteri costituite da terre, bestiame e servi erano cospicue ed in continuo aumento, sia per le donazioni dei giudici e dei privati che per la saggia amministrazione degli Abati che governavano le comunità indipendenti sia dalle interferenze del potere temporale, infatti, i monasteri godevano di numerose franchigie, che dal potere spirituale dei vescovi.28
La prosperità degli ordini religiosi si mantenne per tutto il periodo della preponderanza pisana e genovese, di cui essi seguivano ed appoggiavano la politica, ma decadde rapidamente quando i re aragonesi, subito dopo la conquista dell'isola, intrapresa a partire dal 1323, pensarono di sostituirli con i Francescani, i Domenicani e i Mercedari, più fedeli alla corona o almeno non "simpatizzanti" delle repubbliche marinare italiane.
Elenco degli ordini monastici e dei luoghi dove sorsero i principali monasteri.
Cassinesi: Tergu (presso Castelsardo), Nurchi (presso Sassari), Montesanto (presso Siligo), Soliu (nella diocesi di Ampurias), Gurgo e San Martino (presso Oristano), Flumentepido (presso l'odierna Carbonia).29
Vittorini: S. Saturno ( a Cagliari), Posada, Guzule (presso Sassari).
Vallombrosani: Plaiano (presso Sassari), Salvenor (presso Ploaghe), Thamis (presso Terralba).
Camaldolesi: Scano e Saccargia (presso Codrongianus), Trullas (presso Semestene), Orrea (presso Chiaramonti), Bonarcado.
Cistercensi: Sindia, Bosa, Ittiri, Acqua Formosa e S. Maria di Arderello (presso la diocesi di Castro).33
Vengono anche ricordati monasteri femminili a Bosa, Ploaghe, Codrongianus, Tissi,etc.34
COSTANTINO PORFIROGENITO, De Cerimoniis aulae bizantinae, in Migne,<< Patrologiae cursus completus, Series greca >>, Parigi, 1884, II. 43.
C. BELLIENI, La Sardegna e i Sardi nella civiltà dell'alto medioevo, Cagliari, 1975, p. 900.
G. PAULIS, Lingua e cultura nella Sardegna bizantina, Sassari, 1983, p. 176.
Cfr. G. SPANO, in << Bullettino Archeologico Sardo >>, VII, f. 138; A. SOLMI, Le carte volgari dell'Archivio arcivescovile di Cagliari, Firenze, 1905.
N. SANNA, Il Cammino dei Sardi: Storia, Economia, Letteratura ed Arte in Sardegna, Cagliari, 1986, vol. II, p. 159.
P. TOLA, Codex Diplomaticus Sardiniae, Torino, 1861, vol. I, sec. XI, doc. 10, p. 156 ( per esigenze di brevità il Codex Diplomaticus Sardiniae sarà abbreviato in: CDS ).
CDS, vol. I, sec. XI (a. 1089), doc. 17, p. 164; vol. I, sec. XII (a. 1103), doc. 1, p. 177; vol. I, sec. XII, doc. 39, p. 206.
CDS, vol. I, sec. XII, doc. 3, pp. 178-179; doc. 6, pp. 181-182; doc. 8, p. 183; doc. 35, p. 204; doc. 40, pp. 206-207.
A. OLIVA, La successione dinastica femminile nei giudicati sardi, in << Miscellanea di studi medioevali sardo-catalani >>, C.N.R, Cagliari, 1981, p. 9 e ss.; A. BOSCOLO, La Sardegna dei Giudicati, Cagliari, 1979, p. 157.
Sulla morte violenta di Barisone III di Torres : E. BESTA, La Sardegna medioevale,cit., vol. I, p. 199.; D. SCANO, Ricordi di Sardegna nella << Divina Commedia >>, Milano, 1986.
Un esempio di convenzione tra il giudicato di Cagliari e quello d'Arborea è presente nel trattato del 1206, in << Archivio Storico Sardo >>, vol. IV, p. 194 e ss.
Un esempio di << collectu >> tra i quattro giudici, per la consacrazione di S. Maria di Bonarcado, nel 1146, è citata in: E. BESTA, La Sardegna medioevale, cit., vol. II, p. 105.
E. BESTA, La Sardegna medioevale, cit., vol. II, p. 61; F. C. CASULA, La Storia di Sardegna, cit., p. 172.; A. SOLMI, Studi storici sulle istituzioni della Sardegna nel Medioevo, cit., p. 72.
N. SANNA, Il cammino dei Sardi: Storia, Economia, Letteratura ed Arte in Sardegna, cit., vol. II, p. 180.; A. BOSCOLO, La Sardegna bizantine e alto-giudicale, cit., p. 159.; G. BONAZZI, Il condaghe di S. Pietro di Silki, Sassari, sch. 166.(per esigenze di brevità sarà abbreviato in: CSPS); A. SOLMI, Carte volgari dell'Archivio arcivescovile di Cagliari, Firenze, 1905, doc. IV, 3; doc. XVI, 3; doc. XIII, 10.
A.SOLMI, Carte volgari dell'Archivio arcivescovile di Cagliari, cit., doc. XVII, 2; doc. XIX, 3; doc. XXI, 3.
CDS, vol. I, sec. XIV, doc. 4, p. 506: << Ughtusde Serra maior camere >>; vol. I, sec. XIV, doc. 48, pp. 701-708: << Giudo de Zori >>; vol. I, sec. XIV (a. 1388), doc. 150, p. 817 e ss.: << Tomaso da Serra >>.
E. BESTA, La Sardegna medioevale, cit., vol. II, p. 63.; F.C. CASULA, La Storia di Sardegna, cit., p. 172.
CDS, vol. I, sec. XI, doc. 22, pp. 165-166; inoltre cfr. B. FOIS, Alcune osservazioni sui << Poriclos de Angaria >>, Cagliari, 1979.
Cfr. B. FOIS, Il lavoro femminile nei Condaghi sardi dell'età giuducale (secc. XI-XIII), Pisa, 1990, p. 7.; CDS, vol. I, sec. XII, doc. 21, pp. 317-318.
G. BONAZZI, Il condaghe di S. Pietro di Silki, cit., p. 147.; E. BESTA, La Sardegna medioevale, cit., vol. II, pp. 63-64.; CDS, vol. I, sec. XII, docc. 13-15-16-28-30-38-45-80, etc.
A. BOSCOLO, La Sardegna bizantina e alto-giudicale, cit., p. 60.; tale ipotesi è stata respinta da B. FOIS nell'opera: Territorio e paesaggio agrario nella Sardegna medioevale, Pisa, 1990, p. 111, nota n°96.
CDS, vol. I, sec. XII (a. 1131), doc. 41, pp. 207-208: << Ego Bonuisihoannes notarius rogatu Comite iudicis arborensis scripsi >>; CDS, vol. I, sec. XII (a. 1150), doc. 22, pp. 194-195: << Et ego Petru Bitezu Mariani de Nuracinigellu scrisi custa carta atitandomi su donnu meu cum buca sua Aristanis >>; CDS, vol. I, sec. XII, doc. 123, pp. 260-261: << Pantaleus domini Friderici romanorum imperatoris iudex ordinarius eiusdemque notarius a suprascripto iudice Petro arboree rogatus hanc cartam scripsi >>.
CDS, vol. I sec. XII, doc. 80, p. 232: << Petrus Sporlanus sacerdos et notarius curiae domini Barisoni iudicis arborensis >>.
CDS, vol. I, sec. XII (a. 1189), doc. 133, p. 268: << Ego Petrus Paganus kancellarius domini
Petri rex et iudex arboreo >>; CDS, vol. I, sec. XII (a. 1195), doc. 143 << Arborensis curie cancellarius >>.
CDS, vol. I, sec. XII, doc. 21, pp. 192-193-194; vol. I, sec. XI, doc. 8-21, pp. 154-155; vol. I, sec. XII, doc. 40, pp. 206-207.
CSPS, sch. 62, p. 19; sch. 96, pp. 26-27; sch. 146, p. 37; CSMB, sch. 14, p. 214; sch. 206, pp. 198-199; sch. 208, pp. 200-201; CSNT, sch. 257, p. 86; sch. 299, p. 97.
A. MARONGIU, Il matrimonio alla sardesca, in << Archivio Storico Sardo >>, vol. IV, p. 16.; vol. VII, p. 85.; A. MARONGIU, Aspetti della vita giuridica sarda nei condaghi di Trullas e Bonarcado, in << Saggi di storia giuridica e politica sarda >>, Padova, 1975, p. 27.; E. MURA, Sulla natura giuridica e sulle origini della comunione dei beni tra i coniugi della Sardegna medioevale, in << Archivio Storico Sardo >>, vol. II. p. 143.; vol. V, p. 125.
Per una diversa interpretazione di Donnos Paberos, cioè persone ragguardevoli, anche economicamente, ma provenienti dall'elemento indigeno anziché bizantino, cfr. G. PAULIS, Lingua e cultura nella Sardegna bizantina, cit., p. 99 e ss.; p. 108.
F. ARTIZZU, LaSardegna pisana e genovese, cit., p. 67.; A. BOSCOLO, Aspetti della vita curtense in Sardegna nel periodo alto-giudicale, in << Fra il passato e l'avvenire, saggi sull'agricoltura sarda in onore di Antonio Segni >>, Padova, 1965, p. 49 e ss.
CSPS, sch. 25, p. 10; sch. 34, pp. 12-13; sch. 37, p. 13; sch. 38, pp. 13-14; sch. 43, p. 15; sch. 65, p. 19; sch. 297, p. 69; sch. 300, p. 70; sch. 303, p. 70; sch. 304, p. 71; sch. 339, p. 80; sch. 342, p. 81.
F. CARDINI, Il guerriero e il cavaliere, in << L'uomo medioevale >> a cura di J. Le Goff, Bari, 1993, p. 93.
La riforma della Chiesa è quella del monastero di Cluny, avvenuta nell'XI secolo, che mutò i rapporti fra il potere politico ( laico ) e la chiesa e coinvolse ogni classe sociale, anche attraverso modelli comportamentali alternativi: un esempio significativo fu la modificazione operata sulla figura del cavaliere con la nascita del movimento dei cosiddetti << Chevaliers Pauvres >>.
CSMB, sch. 70, p. 146: << Iohanne Pistore terrale de fictu >>; CSPS, sch. 229, p. 55: << terrale de fittu >>; sch. 337.; CSNT, sch. 137, p. 62: << terrale femina >>, che attesta, in maniera inequivocabile, come anche le donne delle classi subalterne potessero essere affittuarie di terreni.
CSPS, sch. 96, pp. 26-27; mentre il traduttore spagnolo del'600 nel condaghe di San Michele di Salvenor utilizzò il termine << vasallo >> nelle schede 107 e 256.
F. C. CASULA, Il periodo alto-giudicale, in << La società in Sardegna nei secoli >>, Torino, 1967, p. 115.
CSPS, sch. 203, p. 49. Cfr. inoltre: B. FOIS, Introduzione alla problematica sul centro medioevale di Santa Igia ( o Gilla, o Gilia, o Cecilia ), in << S. Igia capitale giudicale >>, a cura di B. FOIS, Pisa, 1986, p. 215, nota n° 2.
CSPS, sch. 27, p. 10; sch. 28, p. 11; sch. 42, pp. 14-15; sch. 46, p. 16; sch. 98, p. 27; sch. 111, p. 31; nelle schede 27 e 28 il mandatore de clesia viene definito come << nonthu >>; CSMS, sch. 207-241.
Cfr. P. AMAT DI SANFILIPPO, Della servitù e del servaggio in Sardegna, Torino, 1894; R. CARTA RASPI, Le classi sociali nella Sardegna medioevale. I Servi, Cagliari, 1938.
T. MOMMSEN, Corpus Iscriptionum Latinarum. Iscriptiones Bruttiorum Lucaniae Campaniae Siciliae Sardiniae Latinae, vol. X, in 2 tomi, Berlino, 1883, vedi indice.
CSNT, sch. 122, p. 58: << comporaili a Costantine Corsu, cum boluntade sua bona et de colibertos suos, sa terra sua>>.
B. FOIS, Introduzione alla problematica sul centro medioevale di Santa Igia ( o Gilla, o Gilia, o Cecilia), in << S. Igia capitale giudicale >> a cura di B. Fois, Pisa, 1986, p. 215, nota n° 2.
Lo storico spagnolo ne parla nel suo volume manoscritto, conservato nella Biblioteca Universitaria di Cagliari, intitolato: Successos generales de la isla y reyno de Serdena, Caller, 1684, vol. II, p. 295 e ss.; A. SANNA, << I liberos de paniliu >> nella Sardegna medioevale, in << Annali delle Facoltà di Lettere, Filosofia e Magistero dell'Università di Cagliari >>, vol. XXXV (1927), p. 227 e ss.
G. BONAZZI, Il condaghe di S. Pietro di Silki, Sassari, 1900, p. 156.; E. BESTA, La Sardegna medioevale, vol. II, p. 53 e ss.
F. LODDO CANEPA, La Sardegna dal 1460 al 1478, corso universitario dattiloscritto, anno 1946-1947, p. 169.
A. BOSCOLO, Aspetti della vita curtense in Sardegna nel periodo alto-giudicale, Padova, 1963, p. 60.; C. MANCA, Aspetti dell'economia monastica vittorina in Sardegna nel medioevo, in << Studi sui Vittorini in Sardegna >>, Padova, 1963, pp. 72-73.; A. MARONGIU, Aspetti della vita giuridica sarda nei Condaghi di Trullas e Bonarcado, in << Saggi di storia giuridica e politica sarda >>, Padova, 1975.
R. DI TUCCI, Il diritto pubblico nella Sardegna del Medioevo, in << Archivio Storico Sardo >>, fasc. 3-4, pp. 84 e 96.
G. BORGHINI, Le prestazioni di manodopera dei servi nei condaghi sardi, in << Le prestazioni d'opera nelle campagne italiane del Medio Evo >>, Bologna, 1986, p. 160.; cfr. inoltre R. CARTA RASPI, Le classi sociali nella Sardegna Medioevale. I Servi,cit..
CSNT, sch. 30, p. 40 << posit ince Furatu Furca latus de Gostantine Gazurra et issa fiia integra Bosinida>>; sch. 144, p. 57 << et isse deitimilu a Barisone integru et assa fiia Maria integra et a Maria Murtina integra et deit anbos sos fiios de Iusta Bacca, a Elene e ad Andria, integros, et issu saltu de Mularia et a Iorgi de Siloce integru.>>, se ne deduce quindi che anche i beni immobili potessero essere integri, laterari e pedati; CSPS, sch. 30, p. 11; sch. 316, pp. 75-76.
G. BORGHINI, Le prestazioni di manodopera dei servi nei Condaghi sardi, in << Le prestazioni d'opera nelle campagne italiane del Medioevo >>, cit., p. 160.
CSMB, sch. 220, p. 205 << Ego Gregorius, priore de Bonarcado, partivi cum iudice de Galluluclesia levait a Cipari et iudice levait a Iusta>>; sch. 86, p. 151 << partivi homines cum donnu Petru Capai. Iudice levait a Cipari et a Gavini et a Janne; et levait clesia a Maria e a Giorgia et a Nastasia plangendos a pare>>.
CSPS, sch. 67, p. 20 << positine iudike Mariane a scu. Petru de Silki latus de Gavini Lelle, pro su pede de Nastasia sa sorre >>.
Cfr. A. ERA, Sulla capacità giuridica della donna maritata nella storia del diritto in Sardegna, Sassari, 1932; E. CORTESE, Appunti di storia giuridica sarda, Milano, 1964.; A. MARONGIU, Aspetti della vita giuridica sarda nei condaghi di Trullas e di Bonarcado, cit.,; R. J. ROWLAND, Donne proprietarie terriere nella Sardegna medioevale, in << Quaderni Bolotanesi >>, n. 12, pp. 132.137.
B. FOIS, Il lavoro femminile nei condaghi sardi dell'età giudicale ( secc. XI-XIII ), Pisa, 1990, p. 4.
CSMB, sch. 131, p. 166: <<.et mulieres moiant et cogant et purguent et sabunent et filent et tessant et, in tempus de mersare, mersent omnia lunis, sas ki non ant aere genezu donnigu >>.
CSPS, sch. 32, p. 12.; la scheda testimonia un accordo fra padroni per la spartizione di cinque figli: quattro femmine e un maschio, secondo la quale andarono due femmine a testa ed il maschio << ca fuit semu..>> rimase in comune, perché considerato scemo.
Ibidem, sch. 15, p. 7; sch. 16, p. 7; sch. 17, p. 7; sch. 18, p. 8; sch. 21, p. 9; sch. 24, p. 10; sch. 26, p. 10; sch. 32, p. 12; sch. 35, p. 13; sch. 36, p. 13, etc..
O. SCHENA, Note sulla presenza e sulla cultura dei Basiliani in Sardegna, in << Archivio Storico Sardo >>, vol. XXX, p. 77 e ss.
N. SANNA, Il cammino dei Sardi: Storia, Economia, Letteratura ed Arte di Sardegna, cit., vol. II, p. 193.
E. BESTA, La Sardegna medioevale, cit., vol. I, p. 75 e ss.; B. R. MOTZO, << Studi Cagliaritani di storia e filosofia >>, Napoli, 1927, p. 161 e ss.
F. CHERCHI PABA, Evoluzione storica dell'attività industriale, agricola, caccia e pesca in Sardegna, cit., vol. II, pp. 102-103.
Ibidem, p. 90. Si vedano inoltre le argomentazioni del Cherchi Paba sulla probabile avvenuta della << charistikion >> nelle pp. 90-100.
F. CHERCHI PABA, Evoluzione storica dell'attività industriale agricola caccia e pesca in Sardegna, Cagliari, 1974, vol. II (dedicato al medioevo), p. 89 e ss.
SANCTUS BENEDICTUS, Regula, a cura di G. PENCO, Firenze, 1958, 48, 1. p. 134, nella quale si prescrive che i monaci attendano al lavoro manuale quotidianamente.
G. PENCO, Estensione e diffusione della bonifica benedettina, in AA. VV., La bonifica benedettina, Roma, 1963, p. 75.
G. PENCO, Estensione e diffusione della bonifica benedettina, in AA. VV., La bonifica benedettina, cit., p. 61.
G. LUZZATO, Storia economica d'Italia. L'antichità e il Medioevo, Roma, 1949, vol. I, pp. 185-186; G. VOLPE, Aziende agricole medioevali, in AA. VV., Storia dell'economia italiana, Torino, 1959, vol. I, pp. 29-50.
Per un approfondimento dell'argomento si veda: S. PIVANO, I contratti agrari in Italia nell'Alto Medioevo, Torino, 1904.
G. ZUCCHETTI, Liber largitorius vel notarius monasterii Pharphensis, in << Bullettino dell'Istituto Storico Italiano >>, n° 44, 1927, pp. 35-144.
Cfr. A. SABA, Montecassino e la Sardegna Medioevale, note storiche e codice diplomatico sardo-cassinese, Badia di Montecassino, 1927.
Sulla penetrazione nell'isola dei monaci di San Vittore di Marsiglia, cfr. A. BOSCOLO, L'abbazia di San Vittore, Pisa e la Sardegna, Padova, 1958; ed inoltre il volume di AA. VV., Studi sui Vittorini in Sardegna, Padova, 1963.
Ibidem; inoltre sulle decime in favore della chiesa di San Saturno cfr. A. BOSCOLO, L'abbazia di San Vittore, Pisa e la Sardegna, cit., pp. 37, 53.
Cfr. G. ZANETTI, I Cistercensi in Sardegna, in << Rendiconti dell'Istituto Lombardo di Scienze e Lettere >>, a. 93, Milano, 1959.
A. BOSCOLO, L'abbazia di S. Vittore, Pisa e la Sardegna, cit., pp. 135-142.; inoltre cfr. AA. VV., Studi sui Vittorini in Sardegna, cit., 1963.
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