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Leggi anche appunti:ClandestiniClandestini tema svolto Traccia: Il fenomeno dell'immigrazione clandestina I regni germaniciI regni germanici · I popoli germanici, MayaPopolo: Maya Locazione: Messico, Yucatan (attuali Guatemala & Belize) Periodo di |
In seguito all'esito della guerra russo-nipponica, dovuta alle rivalità delle due nazioni per l'egemonia in Estremo Oriente, con la pace di Portsmouth del 1905 che sanciva la vittoria del Giappone e la perdita della Manciuria e di altri territori (tra cui la Corea che divenne un protettorato nipponico), le tendenze rivoluzionarie che da tempo minavano la società russa si accentuarono.
Dopo le iniziative riformatrici dello zar Alessandro II (del resto prematuramente abbandonate), sotto i successori Alessandro III (1881-1894) e Nicola II (1894-1917) ben poco si era fatto per risolvere i problemi delle masse popolari, specialmente contadine, che premevano tumultuosamente per ottenere condizioni di vita almeno tollerabili; e la stessa borghesia, che pure aveva cominciato ad assumere una certa importanza dopo la diffusione dei metodi moderni di produzione promossa dal ministro Sergej Vitte (1892-1903), si vedeva negati i più elementari diritti politici.
Essa pertanto esprimeva le proprie aspirazioni nel Partito democratico-costituzionale (meglio noto come Partito cadetto), così come il proletariato rurale e urbano trovava i suoi difensori nelle minoranze dell'intelligencija che affluivano nel Partito socialista rivoluzionario e nel Partito socialdemocratico russo.
Ma anche indipendentemente da questi ristretti gruppi politici, in via di organizzazione e destinati a svolgere una funzione determinante solo più tardi, le masse popolari esprimevano la loro protesta contro le condizioni di vita insostenibili cui erano costrette, attraverso frequenti ribellioni regolarmente represse con spietata durezza dall'autocrazia zarista.
La domenica del 22 gennaio 1905, a Pietroburgo, un'imponente dimostrazione popolare, guidata dal pope Gapon, recava allo zar una petizione che invocava alcuni provvedimenti essenziali - come la convocazione di una assemblea costituente, il miglioramento del regime salariale e una graduale riforma agraria . Per tutta risposta, la guardia imperiale di Pietroburgo aprì sulla massa un fuoco micidiale, che provocò molte centinaia di morti e di feriti.
L'indignazione popolare divampò allora diffusamente per tutta la Russia, e in molti luoghi si formarono dei soviet (consigli) degli operai, che assunsero, per quanto possibile, la guida del movimento.
Quando risultò evidente che la ribellione - estesasi anche ad alcune unità della flotta e appoggiata da uno sciopero che bloccò l'intera vita nazionale - non poteva più essere repressa con la sola violenza, lo zar si risolse finalmente a sottoscrivere un Manifesto (ottobre 1905), nel quale si impegnava solennemente a concedere le fondamentali libertà politiche e ad istituire un parlamento elettivo o Duma[1].
Queste concessioni erano però semplici espedienti, rivolti a frenare la pressione di base e a dividere la borghesia liberale moderata dalle masse popolari e dai gruppi di ispirazione socialista.
Così lo zarismo, rifiutando ogni autentico sviluppo costituzionale, contribuiva a preparare il terreno per la propria definitiva e radicale eliminazione.
La durissima prova della guerra, come abbiamo visto, determinò lo sfacelo del regime zaristico, che del resto era da tempo minato da contraddizioni insanabili.
Mentre infatti gli stati dell'Occidente europeo si erano progressivamente adeguati alle esigenze di una società evoluta, la Russia viveva ancora, nel primo quindicennio del '900, in un paradossale intreccio di predominante arretratezza semifeudale e di capitalismo industriale moderno, particolarmente avanzato nelle regioni minerarie degli Urali, nella zona petrolifera di Baku e intorno alle grandi città di Mosca e di Pietroburgo.
L'industrializzazione era caratterizzata da un massiccio intervento statale e da un forte afflusso di capitali europei
Fra il 1888 e il 1913 la rete ferroviaria era più che raddoppiata, le esportazioni (principalmente di materie prime) quadruplicate, le importazioni (principalmente di manufatti) quintuplicate.
Gli operai, che nel 1890 erano circa 1400 000, erano saliti a quasi 3 000 000 ai primi del '900, e il loro numero era in continua ascesa. Ma al promettente sviluppo economico non si era accompagnato alcun miglioramento nella vita dei lavoratori, retribuiti con salari da fame, costretti a vivere in abitazioni miserabili e a lavorare per oltre undici ore al giorno, privi di ogni diritto di sciopero e di organizzazione sindacale.
La borghesia russa, composta di liberi professionisti, di commercianti, di finanzieri, di direttori tecnici, di funzionari, si andava organizzando dal 1903 nel Partito cadetto (così chiamato dalle iniziali di «costituzionale-democratico»), ma essa rimaneva complessivamente debole, perché gran parte degli impianti e delle fabbriche erano posseduti o da capitalisti stranieri o dallo stato.
La rivoluzione del 1905, non era riuscita a modificare profondamente il regime. politico. La prima Duma, eletta nel 1906 secondo modalità che favorivano gli agrari e i nobili a scapito dei contadini e degli operai , fu sciolta dallo zar dopo solo due mesi di vita, perché la maggioranza cadetta aveva chiesto una riforma democratica della legge elettorale e aveva preteso di esercitare il controllo sul governo.
Una seconda Duma, eletta nel 1907, aveva subìto la stessa sorte.
La terza Duma (1907-1912) e la quarta Duma (1912-1917), elette secondo una nuova legge che accentuava ulteriormente i privilegi dei grandi proprietari, poterono infine evitare lo scioglimento anticipato in quanto si rassegnarono a seguire le direttive del governo e rinunciarono a porre le questioni fondamentali riguardanti l'esercizio del potere e il diritto di controllo sull'esecutivo.
In condizioni diverse, ma non migliori di quelle degli operai, vivevano le masse di gran lunga più numerose dei contadini, i quattro quinti dei quali, dopo l'abolizione della servitù della gleba (1861), erano rimasti legati alle comunità semifeudali dei mir[3].
Anche dopo le riforme del 1861 la vita delle masse contadine russe non aveva subito trasformazioni radicali, anzi era rimasta legata ad usi e abitudini anacronistici, tipici di una realtà socio-economica antiquata rispetto a quella degli altri paesi europei. Alla vigilia della prima guerra mondiale, ad esempio, la resa in cereali delle terre russe era mediamente inferiore del 50% a quella britannica, benché la Russia fosse un paese prevalentemente agricolo, nel quale l'86% della popolazione lavorava la terra
Per la crescita della popolazione, le terre dei mir venivano divise tra le famiglie delle singole comunità in appezzamenti sempre più piccoli, e le comunità rispondevano solidalmente del pagamento delle tasse e del riscatto previsto dalla riforma di Alessandro II e non ancora estinto nel 1906.
Lo stato ricavava principalmente dai contadini le somme necessarie per pagare gli interessi dei capitali presi in prestito dagli stranieri, sicché i contadini, malgrado l'insufficienza delle loro entrate, sostenevano gran parte del costo dell'industrializzazione, mentre il mir, con i suoi obblighi e diritti collettivi, ostacolava il progresso dell'agricoltura, già di per sé molto arretrata per scarsità di capitali.
In questo campo una riforma veramente significativa fu attuata da Pëtr Stolypin, primo ministro dal 1906 al 1911, responsabile dello scioglimento delle prime due Dume ma convinto che il governo, mentre non doveva indulgere a nessuna concessione democratica, doveva però assicurarsi l'appoggio dei moderati mediante un'efficace iniziativa di ammodernamento delle strutture produttive.
Nella giusta convinzione che il mir fosse un'unità produttiva antiquata e inefficiente, Stolypin favorì in ogni modo la formazione di proprietà individuali capitalistiche, sia abolendo i riscatti che i mir dovevano pagare collettivamente, sia autorizzando i contadini a vendere i loro diritti di proprietà comune e a liberarsi dagli obblighi che ne derivavano. In tal modo egli ottenne un duplice risultato:
per un verso facilitò e accelerò la nascita di una classe di liberi e ricchi proprietari di terre (detti più tardi kulak),
per l'altro, favorì l'esodo dal mir di manodopera disponibile per l'industria.
La riforma, varata nel 1906, consegue un notevole successo: più di sei milioni di famiglie, sui sedici milioni che ne avevano diritto, abbandonano effettivamente il mir nel corso di un decennio, e più di dieci milioni di ettari di terra, sciolti da ogni vincolo, passano alla libera disponibilità dei loro padroni; ma la nuova classe dei kulak rimane pur sempre un'esigua minoranza rispetto alle plebi rurali sfruttate, e la maggior parte di coloro che lasciano i mir vanno ad ingrossare le file del proletariato urbano.
Pertanto, anche dopo la riforma di Stolypin, mentre circa 30 000 famiglie di nobili, di latifondisti e di kulak posseggono un terzo del suolo nazionale, gli altri due terzi sono suddivisi fra 13-14 milioni di famiglie: mediamente, cioè, gli agricoltori ricchi posseggono terreni 225 volte più estesi di quelli dei contadini poveri. Questi ultimi non solo dispongono di terreni insufficienti, ma per la loro miseria non sono in grado di procurarsi i mezzi per uno sfruttamento razionale della loro esigua proprietà, e spesso si riducono alla condizione di braccianti salariati (mugik) o alternano il lavoro sul loro campo con quello alle dipendenze di un padrone.
Al vertice della società russa, come autentico retaggio di feudalesimo, sta la nobiltà terriera, che circonda lo zar e ne condiziona e consiglia la politica, o che vive in provincia curando la gestione dei propri latifondi e monopolizzando l'amministrazione periferica.
La nobiltà considerava mostruose anche riforme come quelle promosse da Vitte o da Stolypin, responsabili di aver introdotto nella «Santa Russia» i metodi di produzione capitalistica; tanto che, quando nel 1911 Stolypin cadde vittima di un attentato, si pensò non senza ragione che il «rivoluzionario» autore dell'assassinio fosse in realtà un agente al servizio degli ambienti più reazionari.
La presenza incombente della nobiltà conferisce un'impronta arcaica alla Russia zaristica, nella quale, per giunta, la società è divisa piuttosto in caste che in classi, perché un abisso invalicabile separa i mugik e gli operai, reietti e analfabeti, «poveri e ubriaconi», dal mondo dei ricchi e dei nobili, e perché questi, per cultura, costumi, stile di vita, ritengono addirittura di appartenere a un'umanità diversa.
Una situazione sociale contraddittoria come quella descritta, se per un verso offriva il terreno adatto a una soluzione rivoluzionaria, per l'altro non poteva essere facilmente rovesciata: operai e contadini, per la loro arretratezza, erano inclini ad esplosioni improvvise, destinate a sicura sconfitta, piuttosto che ad un'azione politica di vasto respiro; mentre, per la stessa ragione, l'intelligencija non riusciva a stabilire un rapporto organico con le masse popolari, come non vi riuscivano le caste dominanti privilegiate.
Di questo stato di fatto furono espressione, sulla fine del sec. XIX, i populisti, che, in un certo senso, lo eressero a principio, rassegnandosi all'azione individuale terroristica, destinata ad esaurirsi nella soppressione di qualche esponente delle classi dominanti senza che il sistema venisse minimamente intaccato.
Le concezioni del populismo furono efficacemente criticate da Georgij Plechanov (1857-1918) che, dopo averne vissuto l'esperienza, si convertì al marxismo e nel 1895 pubblicò in Russia un'opera Sullo sviluppo monistico della storia, nella quale mostrava tutta la fragilità e l'insufficienza dell'azione terroristica.
Il marxismo insegnava a concentrare l'attenzione sul movimento storico di massa e sulle condizioni oggettive che sarebbero state necessarie per il rovesciamento del regime; ma, concepito in funzione delle società evolute dell'Europa occidentale, doveva anche essere ripensato in termini adeguati alla situazione concreta della Russia.
In primo luogo, infatti, Marx prevedeva che il passaggio al socialismo sarebbe avvenuto solo dopo che la rivoluzione democratico-borghese e la produzione capitalistica avessero completato il loro ciclo;
in secondo luogo, considerava come classe rivoluzionaria per eccellenza il proletariato urbano. Ma la scarsa consistenza della borghesia russa impediva a questa classe di realizzare in Russia un rivolgimento analogo a quello operato in Francia alla fine del '700 dalla grande rivoluzione; perciò il proletariato avrebbe dovuto addossarsi almeno in parte anche il compito di realizzare la rivoluzione «democratico-borghese».
D'altra parte l'assoluta prevalenza quantitativa delle masse contadine su quelle operaie rendeva necessario che i teorici della rivoluzione attribuissero un'adeguata importanza anche al proletariato della campagna, senza l'aiuto del quale lo stesso proletariato urbano non poteva sperare né di rovesciare lo zarismo, né, a maggior ragione, di intraprendere una rivoluzione socialista.
Al di là dei problemi ideologici, la retta impostazione dei quali era condizione necessaria ma non sufficiente per una rivoluzione, si imponeva poi il compito di saldare gli sviluppi teorici astratti, che riguardavano un esiguo numero di intellettuali e di élites operaie, con l'effettivo corso del movimento storico.
Decisivo per la soluzione di tutti questi problemi fu il contributo di Lenin che, sin dagli ultimi mesi del 1900, prese a pubblicare all'estero l'Iskra (Scintilla): un giornale che veniva diffuso clandestinamente in Russia e costituiva l'unico punto di riferimento comune per gli sparsi gruppi del movimento rivoluzionario.
Nelle sue pubblicazioni Lenin riprese e approfondì la polemica plechanoviana contro il populismo, ma si preoccupò anche di confutare le tesi dei cosiddetti marxisti economisti che, separando l'azione sindacale, da riservare agli operai, dall'azione politica, da lasciare alla borghesia, rinviavano a un futuro imprecisato l'iniziativa rivoluzionaria del proletariato e ritenevano che il trapasso al socialismo si sarebbe potuto attuare solo dopo che la rivoluzione borghese si fosse pienamente realizzata.
Secondo Lenin, tale impostazione - ispirata a un'interpretazione meccanica e schematica del marxismo - attribuiva al proletariato una funzione passiva e subalterna, l'avviliva in una lotta puramente economica, lo privava, insomma, del suo destino di portatore di una nuova concezione del mondo.
Lenin s'occupò a fondo anche del problema dei rapporti che si dovevano stabilire fra il Partito operaio e il proletariato
Nonostante la sua fiducia nelle capacità creative delle masse, egli avversò la tendenza, tutt'altro che rara negli ambienti rivoluzionari, a mettere in primo piano in forma esclusiva l'autonomia e la spontaneità del proletariato. Perciò il partito non doveva limitarsi a seguire il movimento del proletariato, ma doveva esercitare su di esso un'attiva egemonia, che poteva essere efficace solo se il partito si organizzava secondo una rigorosa disciplina e badava più alla qualità che alla quantità dei suoi aderenti.
In questa condanna della spontaneità popolare indiscriminata era inclusa anche la critica delle tesi sostenute dai Socialisti Rivoluzionari (comunemente designati con le iniziali «SR»), che, riprendendo alcuni temi cari al populismo, concentravano la propria attenzione sulle campagne e puntavano sulla naturale tendenza dei contadini al socialismo. Lenin osservava invece che la vocazione spontanea dei contadini era piuttosto quella di trasformarsi, grazie alla distribuzione delle terre, in piccoli proprietari, secondo un ideale piccolo-borghese che non aveva nulla a che vedere con il socialismo.
Dal punto di vista quantitativo il Partito operaio socialdemocratico russo, fondato a Minsk nel 1898 da solo nove rappresentanti di disparate organizzazioni locali delle grandi città (Pietroburgo, Mosca, Kiev), era ancora di dimensioni assai modeste nel 1903, quando si riunì all'estero, prima a Bruxelles poi a Londra, il suo secondo congresso.
Risale a questo congresso la distinzione fra bolscevìchi e menscevìchi[4] , che in realtà, nonostante i ripetuti tentativi di conciliazione, costituirono fin d'allora due diversi partiti e nel 1912 si separarono anche formalmente.
I bolscevichi, guidati da Lenin, sostenevano la tesi del partito compatto, centralizzato, formato sostanzialmente da rivoluzionari di professione, impegnati fino in fondo nella lotta politica;
i menscevichi proponevano invece una prospettiva più aperta e graduale, capace di mobilitare un grande movimento di opinione, che doveva in primo luogo battersi per una riforma democratica della società lasciando al futuro il trapasso al socialismo. Essi accusavano Lenin di bonapartismo e denunciavano il pericolo implicito nelle tesi da lui sostenute che - secondo quanto sosteneva Trotzki, allora militante nelle file dei menscevichi - avrebbero portato a una dittatura sul proletariato e non del proletariato, perché la rigida disciplina necessaria per bruciare le tappe verso la rivoluzione avrebbe imposto l'egemonia dell'apparato organizzativo sul partito, del comitato centrale sull'apparato, e infine del potere personale di un dittatore sullo stesso comitato centrale.
Nel travaglio ideologico-politico sopra esaminato si formarono le minoranze organizzate che contribuirono a determinare gli esiti della rivoluzione; ma l'innesco alla rivoluzione fu dato dalla crescente e diffusa protesta contro le assurdità del regime zaristico, rese più acute ed evidenti dalle prove della guerra.
Le sconfitte del 1914-15 erano costate ai Russi più di due milioni di uomini e avevano comportato la perdita di grandi quantità di materiale bellico. La stessa vittoriosa avanzata del Brusilov nel 1916 aveva dovuto essere precocemente interrotta e s'era alla fine risolta in un grave insuccesso, seguito da sempre più numerose diserzioni. Disastri analoghi, per la verità, avevano subìto tutti i paesi belligeranti, ma mentre altrove si era corsi ai rimedi mediante tempestive rettifiche politiche e militari, la Russia zaristica si dimostrava incapace di ogni trasformazione.
La stessa borghesia liberale «patriottica», che si era spontaneamente mobilitata per sostenere lo sforzo bellico con svariate iniziative, era guardata con sospetto; fra gli alti funzionari non pochi parteggiavano per gli Imperi Centrali, perché temevano il contagio democratico dei Francesi e degli Inglesi; altri speravano che la vittoria fornisse l'occasione per abrogare anche le precarie conquiste costituzionali del 1905; gli ambienti di corte, e specialmente la zarina Alessandra, subivano la nefasta influenza di Rasputin[5]: un santone ciarlatano e guaritore, senza i buoni uffici del quale era ben difficile trovare udienza presso i sovrani.
Verso la fine del 1916 la Duma, per quanto moderata, eleva la sua indignata protesta contro questo stato di cose, e un complotto, cui partecipa anche un parente dello zar, elimina Rasputin, ponendo termine ai suoi intrighi. Ma, di fronte a questi episodi che coinvolgono ambienti vicini alla corte e che sono soltanto i sintomi della ben più vasta crisi dell'esercito e del paese, lo zar non sa reagire altrimenti che rafforzando la polizia e disponendosi a nuove repressioni, ormai chiaramente impraticabili.
Il seguito degli avvenimenti è di per se stesso eloquente: l'8 marzo 1917[6] gli operai di Pietrogrado insorgono perché la città è rimasta priva di pane; le truppe di guarnigione si rifiutano di sparare sulla folla; come nel 1905 si formano i soviet degli operai e dei soldati (ormai acquisiti alla causa della rivoluzione); la Duma preme perché si formi un nuovo governo, ma lo zar la scioglie; i liberali nominano un governo provvisorio e chiedono l'abdicazione dello zar.
Nicola II finalmente, quando anche i suoi generali gli dichiarano di non poter più rispondere dei loro reparti, si risolve ad abdicare in favore del fratello Michele (14 marzo); questi peraltro, data la situazione, rifiuta la corona.
Dal 17 marzo la Russia è dunque una repubblica, nella quale emergono due punti di riferimento di ben diversa ispirazione:
il governo provvisorio, presieduto dal principe Georgij L'vov, liberale e sostenuto dalla borghesia
il soviet di Pietrogrado, formato di SR, menscevichi, bolscevichi e socialisti indipendenti, sostenuto dalle masse popolari.
Sull'esempio di quello di Pietrogrado, altri soviet si formano nelle principali città della Russia occidentale e più tardi anche nelle campagne.
I rapporti fra governo provvisorio e soviet - nel periodo del «doppio potere», che si protrarrà fino alla rivoluzione di ottobre - non sono ovviamente regolati da alcuna norma giuridica e variano dalla collaborazione all'antagonismo, a seconda delle circostanze e del prevalere di questo o quel partito: mentre infatti gli SR e i menscevichi vogliono che i soviet si limitino a sorvegliare e stimolare il governo provvisorio, i bolscevichi, sotto l'influenza di Lenin, considerano i soviet come uno strumento rivoluzionario, destinato in prospettiva a eliminare e sostituire il governo provvisorio.
Rientrato dall'esilio in Svizzera e giunto a Pietrogrado nell'aprile 1917, Lenin pubblica immediatamente le sue tesi (note appunto come «Tesi di aprile») sui Compiti del proletariato nella rivoluzione attuale: il proletariato - egli vi sostiene - deve battersi perché il potere passi per intero ai soviet, i quali, se non potranno per il momento eliminare la proprietà privata e operare il trapasso al socialismo, dovranno almeno assumere il controllo «della produzione sociale e della distribuzione dei prodotti», ossia di tutta l'attività economica.
Questa scelta, riassunta nella parola d'ordine «Tutto il potere ai soviet», fu inizialmente respinta a grande maggioranza dagli stessi bolscevichi, ma alla distanza essa risulterà decisiva per le sorti della Russia e per la vittoria della rivoluzione.
Il governo provvisorio, nel quale l'unico socialista era Kerenskij, entrò in crisi nello stesso aprile e fu sostituito da un nuovo governo, sempre sotto la presidenza del L'vov, nel quale, oltre a Kerenskij, entrarono altri cinque socialisti ma nessun bolscevico.
Così gli SR e i menscevichi si impegnavano nell'esercizio dell'autorità e tendevano a chiudere il circuito della rivoluzione fornendole un approdo legalitario; i bolscevichi invece, ormai convertiti alla parola d'ordine leninista «Tutto il potere ai soviet», conservavano piena libertà d'azione, proprio mentre erano sul tappeto questioni di immediato interesse per le masse popolari, come la cessazione della guerra e la distribuzione delle terre ai contadini.
Sulla necessità della pace erano d'accordo anche i menscevichi e gli SR, ma essi insistevano nel voler ottenere una «pace democratica», senza poter indicare con quali forze effettive una pace cosiffatta potesse essere imposta ai nemici vittoriosi. I bolscevichi, dopo alcune iniziali oscillazioni, si resero presto conto che - salvo la speranza di trasformare la «guerra imperialistica» in guerra civile del proletariato contro le classi dominanti all'interno di ogni paese - la Russia doveva accettare le condizioni imposte dai Tedeschi quali che esse fossero: i contadini-soldati, secondo l'espressione di Lenin, stavano già votando «con i tacchi» (ossia disertando) contro la guerra.
I bolscevichi si fecero pertanto promotori del cosiddetto disfattismo nazionale, inteso ad imporre a qualsiasi costo la liquidazione della guerra, e ottennero vasti consensi fra le masse popolari.
Più difficile si presentava per i bolscevichi, che avevano la loro base principalmente nel proletariato urbano, il problema della distribuzione delle terre, perché, mentre i contadini aspiravano semplicemente a dividersele e a trasformarsi in piccoli proprietari, i bolscevichi miravano invece a organizzare una produzione agricola largamente socializzata, che avrebbe permesso l'adozione di metodi di coltura moderni ed efficienti.
Lenin era anche convinto che non ci si dovesse opporre al movimento contadino di massa, quand'anche avesse preso tutt'altra direzione da quella auspicata dai bolscevichi, perché senza l'appoggio dei contadini, che costituivano la grande maggioranza della popolazione, la rivoluzione sarebbe stata perduta. D'altra parte i contadini, indipendentemente da qualsiasi decisione del governo provvisorio o dei soviet, stavano già di fatto occupando le terre.
Nei soviet la situazione dei bolscevichi non era facile. Ancora nel giugno, quando a Pietrogrado si riunì il I Congresso panrusso dei soviet, su 822 delegati,n 285 erano SR, 248 menscevichi e solo 105 bolscevichi.
I rapporti di forza erano però profondamente diversi nelle azioni di massa, nelle quali prevalevano le parole d'ordine lanciate dai bolscevichi; come accadde nelle minacciose manifestazioni del luglio contro il governo provvisorio.
In questa occasione il governo provvisorio raccolse la sfida e procedette a un'energica repressione ordinando l'arresto dei principali esponenti bolscevichi, tanto che lo stesso Lenin dovette riparare in Finlandia.
Intanto la presidenza passava a Kerenskij per la crisi del governo L'vov . Così, mentre la rivoluzione era ancora ben lontana dall'aver esaurito la sua forza eversiva, SR e menscevichi tentavano di esercitare i poteri che competono a ogni autorità costituita, e questo atteggiamento danneggiava particolarmente gli SR che, insediati nel ministero dell'agricoltura, erano tenuti a contrastare il caotico movimento dei contadini e a rinviare la questione della terra alle decisioni dell'assemblea costituente: un'assemblea che il governo aveva promesso di convocare al più presto.
Ancora una volta, soltanto i bolscevichi conservavano piena libertà d'azione.
Le forze decisamente antisocialiste, escluse dal nuovo governo, tentano in agosto, per iniziativa del generale Kornilov di liquidare con le armi sia il governo provvisorio sia i soviet.
Il tentativo fallisce sul nascere, ma è sufficiente a restituire ai bolscevichi, che hanno contribuito efficacemente alla sconfitta del Kornilov, spirito d'iniziativa e prestigio, tanto che essi conquistano ora la maggioranza nei soviet di Pietrogrado e di Mosca, cioè dei centri politicamente più importanti.
Di fronte alle ambiguità del governo Kerenskij, in larga misura responsabile di aver lasciato spazio a iniziative reazionarie come quella del Kornilov, Lenin, rientrato clandestinamente in Pietrogrado, formula in termini perentori il dilemma che si presenta: «La situazione è chiara. O la dittatura di Kornilov [ossia la reazione], o la dittatura del proletariato e degli altri strati più poveri della classe contadina Le masse hanno dato la loro fiducia ai bolscevichi e si aspettano fatti e non parole».
Malgrado l'opposizione di alcuni esponenti del bolscevismo, si decide pertanto di passare all'azione: si forma un Comitato militare rivoluzionario, presieduto da Trotzki (che rientrato in Russia nel maggio è stato accolto tra le file dei bolscevichi), e si prefigurano gli organi di un nuovo potere che dovrà sostituirsi al governo provvisorio, ormai completamente screditato.
Nella notte fra il 6 e il 7 novembre 1917 (24-25 ottobre) i bolscevichi occupano i punti strategici di Pietrogrado: centrali telefoniche, stazioni ferroviarie, impianti elettrici.
Una nave da guerra punta i suoi cannoni sul Palazzo d'inverno, sede del governo provvisorio. Kerenskij, abbandonato da tutti, si dà alla fuga. Alcuni ministri vengono arrestati, ma saranno presto rilasciati. La rivoluzione ha vinto quasi senza incontrare resistenza.
La data del 7 novembre non era stata scelta a caso: per quel giorno era convocato in Pietrogrado il II Congresso panrusso dei soviet che, ratificando il fatto compiuto e proclamando il trapasso di tutta l'autorità ai soviet, accentuò il significato politico e non puramente militare e minoritario dell'iniziativa bolscevica.
Il giorno successivo, il Congresso approvò la composizione di un Consiglio dei Commissari del Popolo, che non volle ripetere neppure nel nome la consueta denominazione di «governo» o di «consiglio dei ministri». A Lenin spettò naturalmente la presidenza, a Trotzki il commissariato degli affari esteri, a Stalin il commissariato delle nazionalità.
Eliminato il governo provvisorio e istituito il Consiglio dei Commissari del Popolo, il fine dei bolscevichi è quello di dar forma all'ordine nuovo, sottraendosi ai pericoli dell'imminente caos.
In primo luogo bisogna liberarsi a qualunque costo del peso insostenibile della guerra, ciò che vien fatto fra il dicembre 1917 e il marzo 1918, secondo le modalità già indicate.
Ma occorre soprattutto ridare un ordine alla produzione sia nelle campagne sia nelle industrie. Nell'uno e nell'altro settore la situazione è gravissima, e i provvedimenti si susseguono a ritmo incalzante.
Le decisioni più importanti sono:
la nazionalizzazione della terra (8 novembre), la cui assegnazione ai contadini viene affidata ai soviet di villaggio: si fa però eccezione per la media e piccola proprietà, nonché per le grandi proprietà coltivate razionalmente, che il decreto vorrebbe rimanessero indivise per essere trasformate in aziende modello di proprietà sociale; nei fatti, gli obiettivi dei bolscevichi, che si propongono di razionalizzare la produzione e che respingono «ogni forma di appropriazione privata della terra», devono fare i conti con le tendenze dei contadini, e la riforma viene attuata in modo alquanto caotico: solo 1'11% delle terre confiscate va allo stato, mentre 1'86% viene distribuito fra i contadini e il 3% è assegnato ad enti agricoli collettivi;
la dichiarazione dei diritti dei popoli della Russia (15 novembre), con la quale si proclama che i popoli che convivono entro lo stato russo devono considerarsi uguali fra di loro e sono completamente liberi di «disporre di se stessi, sino ad aver diritto di staccarsi e di costituire unità politiche indipendenti»;
il controllo operaio sulle fabbriche (27 novembre), affidato a Comitati - da eleggersi «con la partecipazione dei rappresentanti degli impiegati e del personale tecnico» - che dovrebbero organizzare e disciplinare il lavoro, ma che in realtà, anche per la crisi dei trasporti e dei rifornimenti di materie prime, non riescono a impedire un forte calo della produzione;
la nazionalizzazione delle banche, la sospensione del pagamento dei dividendi azionari e la limitazione del pagamento degli interessi ai soli piccoli risparmiatori (27 dicembre).
Questi provvedimenti, per quanto drastici, non hanno ancora un carattere specificatamente socialista: i bolscevichi infatti, attenendosi alla linea delle Tesi di aprile, si limitano per ora ad assicurarsi il controllo dell'attività economica senza procedere all'abolizione della proprietà privata, e solo la guerra civile li costringerà a «distruggere i vecchi rapporti in misura assai più vasta di quanto avevano previsto all'inizio» (Lenin).
Nel frattempo, adempiendo a un impegno del governo provvisorio che i bolscevichi avevano sempre condiviso, si procede all'elezione a suffragio universale e a scrutinio segreto dell'Assemblea Costituente (novembre 1917), e i bolscevichi escono nettamente sconfitti dalla consultazione popolare (su 36 milioni di votanti, ottengono infatti solo 9 milioni di voti e 175 seggi, contro i 21 milioni e 410 seggi degli SR, gli 86 seggi dei cosiddetti «gruppi nazionali», per lo più, antibolscevichi, i 17 seggi dei cadetti, i 16 seggi dei menscevichi).
E vero che proprio in quei giorni la maggioranza degli SR (ma fra i loro deputati solo 40!) si associava ai bolscevichi e che questi avevano raggiunto la maggioranza assoluta nelle grandi città di Mosca e di Pietrogrado, ma sta di fatto che ora i bolscevichi si trovavano di fronte un organismo legale decisamente ostile, proprio mentre in Ucrania, nella Russia Bianca e nel Caucaso prendeva corpo una controffensiva antisovietica, alimentata non solo da zaristi impenitenti, come il generale Kaledin, ma anche dai cadetti.
Sulla Pravda («La verità», organo del partito bolscevico) del 26 dicembre Lenin pubblica allora le sue Tesi sull'Assemblea Costituente: «in una repubblica borghese l'assemblea costituente è la più alta espressione del principio democratico», ma «una repubblica di soviet rappresenta una forma del principio democratico più alta dell'ordinaria repubblica borghese» ed è l'unica istituzione «capace di assicurare la transizione meno gravosa possibile al socialismo»; d'altra parte la controrivoluzione di Kaledin e dei cadetti ha «eliminato ogni possibilità di risolvere le questioni più acute con i metodi della democrazia formale», e quindi l'Assemblea Costituente deve dichiarare la propria «accettazione incondizionata del potere dei soviet» (ossia, in pratica, sottoscrivere il proprio atto di morte).
Con queste dichiarazioni, la rottura con tutti i sostenitori di soluzioni democratico-costituzionali è consumata, e il destino della Costituente è segnato. Essa si riunisce il 18 gennaio 1918, respinge la proposta dei bolscevichi di piena accettazione del potere dei soviet e viene sciolta il giorno dopo su proposta dello stesso Lenin.
Lo scioglimento coatto dell'Assemblea spinge su posizioni controrivoluzionarie anche gruppi di menscevichi e di SR non sospettabili di nostalgie zaristiche; d'altra parte, almeno una delle tesi di Lenin è assolutamente indiscutibile: poiché il boicottaggio del nuovo regime e addirittura la lotta armata antibolscevica sono già in atto, non esiste più uno spazio politico dove si possano collocare i lavori della Costituente, e il problema reale della rivoluzione è ormai quello di vincere la guerra civile.
Fin dal dicembre del 1917, infatti, i generali «bianchi» organizzano gruppi armati antibolscevichi nella valle del Don.
Più tardi si costituiscono sul medio Volga formazioni militari capeggiate dagli SR non convertiti al bolscevismo.
Nel maggio del 1918, 45 000 soldati cechi (già disertori dell'esercito austro-ungarico e passati dalla parte dei Russi per combattere contro gli Imperi Centrali) si uniscono agli SR del Volga. Buona parte della Siberia è controllata dagli zaristi, guidati dal generale Kolcak che pretende di presentarsi addirittura come governatore di tutta la Russia.
Gli Alleati occidentali, convinti che il bolscevismo sia una follia di breve durata, sbarcano truppe a Murmansk e ad Arcangelo. Una spedizione ben più consistente, di 8000 Americani e di 72 000 Giapponesi, approda a Vladivostok progettando di attraversare l'intera Russia, di abbattere il regime sovietico e di riaccendere la guerra contro i Tedeschi sul fronte orientale. Dall'aprile del 1920 anche la Polonia, sostenuta dalla Francia, muoverà guerra contro la Russia.
Dalla metà del 1918 sino al 1920-21, la Russia sovietica è quindi esposta a un attacco concentrico, mentre le sue condizioni economiche si fanno sempre più disastrose.
Questi sono i risultati inevitabili del cosiddetto comunismo di guerra, conseguenza necessaria della guerra civile e del sabotaggio dei proprietari, dei direttori di fabbrica e degli azionisti, passati in gran parte nelle file della controrivoluzione.
Con progressione vertiginosa le industrie vengono nazionalizzate, e lo stato è costretto a improvvisarne la gestione non tanto per edificare il socialismo, quanto per salvare l'economia russa dall'estremo collasso.
Anche più urgenti di quelli dell'industria sono i problemi dell'approvvigionamento e dell'alimentazione, cui lo stato provvede assumendo il monopolio del commercio del grano e ordinando che «ogni eccedenza di raccolto venga messa a disposizione del governo dei soviet, a profitto dei bisogni sociali». Ma le requisizioni privano talvolta il contadino anche del necessario e gli tolgono comunque ogni incentivo a produrre, sicché i raccolti si riducono.
Nonostante le immani difficoltà, la rivoluzione trova comunque le forze sufficienti per tener testa a tutti i nemici e per assicurarsi la vittoria finale. Se la guerra non è che la prosecuzione della politica con altri mezzi, questo risultato paradossale si spiega, innanzitutto, con la superiorità politica della rivoluzione che, pur attraverso il caos, sa esprimere una classe dirigente che emerge non per privilegio di nascita ma per intelligenza e per autentica dedizione alla causa.
La rivoluzione vuol eliminare il dominio di classe e restituire agli sfruttati la loro dignità, riconosce alle donne piena uguaglianza di diritti con gli uomini, si propone di assicurare alle nuove generazioni i mezzi materiali e morali che ne permettano il pieno sviluppo, vuole costruire una scuola capace di liberare le masse dal loro endemico analfabetismo, vuole infine riscattare la Russia dall'arretratezza e dal sottosviluppo.
Il fronte della controrivoluzione non offre invece né idee né speranze. Le armate «bianche» sono solo l'espressione postuma di un regime crollato nella vergogna, i corpi di spedizione stranieri perseguono finalità estranee o ostili agli interessi del popolo russo, le formazioni militari di varia estrazione «socialista» sono, nella migliore delle ipotesi, costituite da idealisti che non si rendono conto di essersi schierati dalla parte della pura reazione: dalla parte di quei generali zaristi che non esitano a ricorrere al terrore bianco pur di restaurare nelle campagne il vecchio regime di proprietà.
La superiorità politica della rivoluzione si traduce in termini militari con la formazione dell'Armata Rossa (gennaio 1918), che Trotzki affida al controllo di commissari politici e al comando di alti ufficiali sicuramente fedeli alla causa socialista. Sul fronte interno la Ceka, Commissione Speciale di implacabile durezza, combatte «contro la reazione, la speculazione e il sabotaggio» con i metodi sommari del terrore rosso. Come già durante la rivoluzione francese, l'essenza del terrore rosso è la lotta contro il nemico di classe, sicché l'origine sociale e la professione degli imputati diventano elementi di prova della loro colpevolezza, vera o presunta.
Con questi strumenti e con questi metodi la rivoluzione riesce ad avere la meglio: entro il marzo del 1920 i «bianchi» sono scacciati da tutta la Siberia. Nel corso del 1921 la Georgia, l'Armenia, 1'Azerbaigian e il Turkestan sono riconquistati. Nel 1922 anche l'ultimo corpo di spedizione straniero abbandona il territorio russo, sgomberando la base di Vladivostok.
La Russia recupera così in Oriente i confini dell'anteguerra. Diversa invece è la situazione in Occidente, dove i trattati di pace hanno fatto sorgere o rafforzato gli stati compresi tra la Finlandia e la Romania (ingrandita della Bessarabia), e dove la Polonia, grazie ai sostanziosi aiuti ricevuti dalla Francia, è riuscita a imporre alla Russia la pace di Riga (18 marzo 1921) e si è impadronita di vasti territori abitati da Ucraini, Russi Bianchi e Grandi Russi.
Si è così costituito un «cordone sanitario» contro la diffusione del bolscevismo, e di fatto le speranze di Lenin nella rapida espansione internazionale della rivoluzione sono tramontate; ma sui territori del vecchio impero degli zar può ormai costituirsi l'Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche (1922).
Date le condizioni economiche nelle quali si trova ridotta la Russia al termine della guerra civile, la vittoria sul terreno politico e militare non basta a garantire la sopravvivenza della rivoluzione: nel 1921 infatti, anche a causa di una terribile siccità che ha falcidiato i raccolti, la carestia incombe su decine di milioni di Russi e intere popolazioni sono minacciate di morte per inedia.
Occorre perciò che si ristabiliscano con la massima urgenza le capacità produttive del paese, anche a costo di smontare almeno in parte il comunismo di guerra e di reintegrare in qualche settore la proprietà privata.
La Nuova Politica Economica (NEP) - deliberata nel marzo del 1921 dal X Congresso del Partito comunista russo[7] e protrattasi sino al 1928, quando avrà inizio l'epoca dei piani quinquennali - conservando allo stato il controllo delle leve principali dell'economia, come la grande industria e il commercio estero, opera una svolta rilevante nei criteri e nei metodi.
Nelle campagne si abbandona la pratica di requisire la produzione eccedente il fabbisogno familiare, che viene invece lasciata alla libera disponibilità dei contadini; in un secondò tempo, si passa anzi dalla semplice assegnazione in usufrutto della terra a una vera e propria ricostituzione della proprietà privata e si invitano i kulak ad arricchirsi, purché producano.
Nell'industria e nel commercio si reintroducono alcuni criteri tipici dell'economia capitalistica: i salari non sono più fissati dallo stato, ma vengono liberamente contrattati in vista delle possibilità delle aziende, delle capacità dei lavoratori e della produttività. Il commercio interno viene largamente liberalizzato. Le industrie private, che peraltro non possono assumere più di venti operai per azienda, vengono incoraggiate, a condizione che esse forniscano allo stato una percentuale o una quota fissa della loro produzione. Le stesse aziende statali vengono gestite «in base al principio del rendimento commerciale», formalmente identico a quello capitalistico del profitto, ma sostanzialmente diverso perché in questo caso il profitto spetta allo stato e non a singoli privati.
Lo stato provvede altresì a reintegrare la rete dei trasporti fluviali e ferroviari che nel 1926, riparati gli immensi danni subìti, raggiungeranno i livelli dell'anteguerra; ricostituisce la banca nazionale, liquidata alla fine del 1920, e la autorizza a svolgere le operazioni necessarie per la ripresa economica; riforma la moneta, ritirando le vecchie divise svalutatissime e sostituendole con un nuovo rublo, di valore stabile, garantito in oro e in valuta estera pregiata.
Relativamente alle condizioni di partenza, i risultati della NEP sono imponenti: la curva degli indici di produzione sale di anno in anno a ritmo sostenuto; nel 1922-23 la Russia sfiora il pareggio nella bilancia commerciale con l'estero; nel 1924-25 consegue il pareggio nel bilancio statale, che negli anni successivi presenterà addirittura un attivo.
Il nuovo corso non riguarda solo l'economia ma investe anche la politica estera, nella quale lo stato sovietico cerca un compromesso fra le necessità di autoconservazione e di potenza (comuni a tutti gli stati indipendentemente dal loro regime politico) e le sue specifiche premesse ideali che lo impegnano a diffondere il comunismo e a patrocinare la Terza Internazionale (Komintèrn), fondata sin dal marzo 1919 per coordinare le lotte del proletariato su scala mondiale.
Questa tendenza, che si può riassumere nella formula della rivoluzione permanente, dovette però presto essere attenuata nella pratica politica, nella quale prevalse la linea del socialismo in un solo paese. Fu così resa possibile l'inserzione del nuovo stato comunista nel concerto internazionale, dove esso avrebbe agito talora secondo i propri interessi più immediati ed urgenti, talaltra secondo le ragioni politiche che avevano presieduto alla sua fondazione.
Riconosciuto fra il '24 e il '25 dalle maggiori potenze, lo stato sovietico diventerà un punto di riferimento fondamentale della storia mondiale, sia per la grande influenza da esso a lungo esercitata sul proletariato di molti paesi industrializzati, sia perché la professata avversione all'imperialismo gli conferirà un alto prestigio presso tutti i popoli sfruttati e sottosviluppati.
Eletta a suffragio indiretto e ineguale, la Duma era composta da una Camera Alta e una Camera Bassa. I suoi rappresentanti potevano esercitare solo un limitato controllo sul bilancio statale e sui ministri, e questi rispondevano delle loro scelte politiche direttamente allo zar. II sovrano inoltre manteneva il diritto di veto su tutte le decisioni della Duma
Gli elettori erano divisi in curie in base alle rispettive classi sociali, e ogni curia eleggeva i propri delegati secondo proporzioni diverse: i delegati erano infatti 1 su 2000 per i proprietari, 1 su 30 000 per i contadini, 1 su 90 000 per gli operai. Il voto di un proprietario, in altre parole, valeva come 15 voti dei contadini e come 45 voti degli operai.
Il mir era un'assemblea incaricata di ripartire i tributi e amministrare la giustizia, e che era a capo dell'Obscina, una comunità contadina di origine medievale. Con il tempo e con il consolidarsi dell'autocrazia zarista, il mir perdette la sua funzione iniziale, conservando la funzione di distribuire periodicamente le terre arabili ai membri dell'obscina. I mir mantennero tale funzione anche dopo le riforme del 1861, ma entrarono in crisi tra fine Ottocento e inizi Novecento, per essere poi aboliti durante la rivoluzione del 1917 di cui stiamo trattando.
Alla lettera, bolscevichi significa solo «appartenenti alla maggioranza», così come menscevìchi significa «appartenenti alla minoranza». Nel congresso del 1903 le tesi dei bolscevichi ottennero infatti la maggioranza dei consensi.
Grigorij Rasputin (1871-1916).Dotato di una forte personalità, Rasputin, riuscì nel 1905 ad introdursi negli ambienti di corte come santone e taumaturgo, ed esercitò un forte ascendente sulla zarina Alessandra, cui aveva promesso la guarigione del principe ereditario Alessio, affetto da emofilia. Poté pertanto intervenire nelle scelte politiche dello zar Nicola II, anch'egli soggiogato dai suoi presunti poteri, favorendo la nomina o la destituzione di ministri, funzionari e alti ufficiali dell'esercito. La sua influenza e i suoi intrighi suscitarono ben presto un crescente malcontento tra i circoli politici e militari vicini allo zar, che, visto inutile ogni tentativo di allontanarlo dalla corte, organizzarono una congiura e lo assassinarono (30 dicembre 1916). La zarina fece seppellire Rasputin con tutti gli onori ma, dopo la rivoluzione del febbraio 1917, il suo cadavere fu esumato dalla folla e bruciato.
Secondo il calendario della Russia che non aveva adottato la riforma gregoriana, la data è il 23 febbraio, per cui si parla di rivoluzione di febbraio. Noi seguiremo il calendario gregoriano (adottato anche in Russia nel 1918), indicando tra parentesi le date russe degli avvenimenti più importanti.
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