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La prima guerra mondiale, nata occasionalmente dalla tensione austro-serba, fu in realtà l'esito tragico di una serie di contrasti di ben più ampia portata. Si può fare già riferimento al sistema bismarckiano, già studiato nelle precedenti lezioni, per capire il sistema di alleanze e i contrasti tra le potenze europee sul finire dell'Ottocento e gli inizi del Novecento.
In primo luogo va analizzato il contrasto anglo-tedesco, alimentato dal progresso dell'industria germanica che, nel campo della metallurgia, della meccanica e della chimica, minacciava o superava il primato inglese fino allora indiscusso. Il volume complessivo delle esportazioni industriali britanniche, fortissimo nel settore dei tessili, teneva ancora la testa, ma le distanze si accorciavano rapidamente, e nel primo decennio del secolo, mentre le esportazioni tedesche crescevano del 93,2%, quelle inglesi aumentavano solo del 62,3%. L'Inghilterra, d'altra parte, era fortemente interessata a conservare in Europa una situazione di equilibrio che le permettesse di continuare quella politica della «mano libera» grazie alla quale essa poteva far fronte ai suoi impegni di potenza mondiale; e la preponderanza germanica sul continente violava tale equilibrio. Infine, il programma tedesco della «grande flotta», aveva costretto l'Inghilterra ad affrontare spese quasi insostenibili per conservare l'egemonia marittima.
Ricordiamo, in secondo luogo, il contrasto franco-tedesco a proposito dell'Alsazia e della Lorena, strappate dalla Germania alla Francia nella guerra del 1870-71. L'offesa aveva esasperato il nazionalismo francese e aveva alimentato la volontà di rivincita sulla quale facevano leva le correnti dello sciovinismo reazionario. Questo, d'altra parte, era solo la manifestazione politica distorta di un problema reale, in quanto la Francia si trovava effettivamente impegnata a fronteggiare la preponderanza demografica, industriale e militare della Germania.
In terzo luogo, occorre tener presenti la concorrenza austro-russa nei Balcani, gli interessi dei Russi al controllo dei Dardanelli, per i quali passava gran parte del loro commercio estero, la forte aspirazione dei popoli balcanici a conseguire la piena indipendenza, ostacolata dai fitti rapporti economici e militari stabiliti dagli Imperi Centrali con la Turchia.
A un'espansione economica e politica sulla sponda adriatica della penisola balcanica aspirava d'altra parte anche l'Italia, che mirava inoltre a togliere all'Austria il Trentino e la Venezia Giulia per portare a termine il processo di unificazione nazionale.
Queste gravi ragioni materiali di contrasto, peraltro, non sarebbero forse approdate a una guerra, senza il supporto delle ideologie nazionalistiche e irrazionalistiche, cui abbiamo più volte accennato. Tali ideologie, pur nella loro varietà, avevano in comune l'esaltazione della guerra e della violenza, servivano efficacemente a organizzare il consenso negli ambienti di mezza cultura della piccola borghesia, e rivestivano di colori affascinanti i concreti interessi imperialistici delle grandi concentrazioni capitalistiche; tanto più che la guerra era anche un ottimo strumento per dirottare sui nemici esterni le tensioni e i conflitti sociali che dividevano le singole compagini nazionali. «La guerra, il sangue, le stragi, le durezze, le crudeltà non erano più oggetto di deprecazione e di ripugnanza e di obbrobrio, ma, come cose necessarie ai fini da conseguire, si facevano accettevoli e desiderabili, e si rivestivano di una certa attrazione poetica.
Va anche ricordato che nell'Impero germanico gli ambienti militari godevano di un altissimo prestigio e, convinti che la guerra fosse inevitabile, ritenevano necessario scatenarla al più presto, dato che (come dichiarò Moltke, capo di stato maggiore tedesco, nel maggio del 1914 in un incontro col suo collega austriaco Conrad von Hötzendorf) «ogni attesa significava diminuire le loro possibilità».
La Germania, infine, malgrado gli ottimi risultati raggiunti anche nell'agricoltura, data la densità della popolazione in continua crescita doveva ricorrere a massicce importazioni di derrate alimentari che, per quanto largamente compensate dalle esportazioni industriali, creavano una sorta di dipendenza dall'estero, poiché la Germania non disponeva, come l'Inghilterra, di un impero coloniale capace di supplire alle sue carenze.
Da questa «contraddizione» traevano spunto ideologie estremamente pericolose: la Germania, per la sua superiorità culturale e tecnica, avrebbe dovuto guidare una confederazione europea e assegnare a ciascun popolo i compiti più idonei per il raggiungimento del bene comune; ossia, in parole povere, avrebbe dovuto ridurre 1'intera Europa alla condizione di colonia.
E naturalmente questi deliri del «germanesimo» ne suscitavano per reazione altri analoghi presso gli sciovinisti di tutti i paesi.
Nelle condizioni descritte, l'innesco alla guerra partì dalla penisola balcanica.
II 28 giugno del 1914, l'arciduca Francesco Ferdinando, erede presunto dell'Impero austro-ungarico, durante una visita a Sarajevo (Bosnia) fu ucciso con la moglie da due nazionalisti serbi.
Poiché l'arciduca era uno dei più convinti assertori del «trialismo», cioè dell'estensione anche agli Slavi del regime di parità già concesso agli Ungheresi nel 1867, il signifìcato politico dell'attentato era chiarissimo: il trialismo mirava infatti ad inserire definitivamente gli Slavi delle regioni dipendenti da Vienna nell'ambito dell'impero, mentre le più profonde aspirazioni degli Slavi sì rivolgevano non alla conquista della parità, ma all'indipendenza e all'unione con la Serbia.
La notizia dell'attentato fu accolta in Serbia con entusiasmo; e lo stesso governo serbo era almeno indirettamente responsabile dell'atto terroristico, in quanto, pur avendone avuto sentore, non aveva preso alcuna misura per prevenirlo. Da parte sua l'Austria, data la composizione plurinazionale dell'Impero, era fortemente interessata a stroncare sul nascere ogni manifestazione indipendentistica delle minoranze allogene e temeva particolarmente l'attrazione esercitata dalla Serbia sui nazionalisti slavi.
Per umiliare la Serbia essa le inviò pertanto un ultimatum (23 luglio) col quale praticamente le impose di farsi complice degli Asburgo nell'opera di repressione e di prevenzione contro gli Slavi ribelli, e, all'ovvio rifiuto della Serbia, passò senz'altro alla dichiarazione di guerra (28 luglio), trascurando il chiaro avvertimento della Russia che aveva a sua volta ordinato la mobilitazione parziale.
La Russia ordina allora la mobilitazione generale (30 luglio) che, per gli accordi della Duplice Alleanza, implica la contemporanea mobilitazione anche dell'esercito francese.
La Germania risponde immediatamente con la dichiarazione di guerra alla Russia (31 luglio) e alla Francia (2 agosto).
Il sistema di alleanze cominciava a far sentire i suoi effetti.
Lo stato maggiore tedesco ritiene che solo un successo in Occidente possa portare a una conclusione rapida e vittoriosa della guerra: perciò, secondo piani da lungo tempo prestabiliti, tenta di liquidare la Francia ancor prima che la Russia, più lenta nella mobilitazione, possa efficacemente intervenire.
Pertanto i Tedeschi, rimanendo sulla difensiva sul confine franco-germanico, ben munito di fortezze e di truppe, attaccano di sorpresa al nord, violando la neutralità del Belgio e garantendosi un clamoroso successo iniziale
Ma i risultati positivi, colti sul terreno militare, sono pagati con la squalifica morale della Germania presso l'opinione pubblica europea; e l'invasione del Belgio induce l'Inghilterra a rompere gli indugi e ad intervenire immediatamente a fianco della Francia (4 agosto).
La Gran Bretagna possiede inizialmente solo un esercito professionale di 120 000 uomini, ma mette a disposizione dell'Intesa le risorse inesauribili del suo impero mondiale e le assicura la prevalenza sui mari. La superiorità militare degli Imperi Centrali rimane per ora schiacciante, ma le possibilità economiche, produttive e demografiche dell'Intesa sono destinate a una progressiva mobilitazione, che alla distanza risulterà decisiva.
Intanto, però, la sorpresa e la perfetta efficienza permettono all'esercito tedesco di penetrare profondamente nel territorio nemico, e privano la Francia delle regioni nord-orientali densamente industrializzate, donde essa ricavava gran parte del suo carbone e quasi tutti i minerali ferrosi: la stessa Parigi è in pericolo, tanto che, mentre le armate francesi, comandate dal generale Joffre, si attestano sulla Marna, il governo ritiene necessario trasferirsi a Bordeaux.
Tuttavia, la guerra lampo, o guerra di movimento, iniziale sta per cedere il posto alla guerra di trincea (non meno sanguinosa): il successo tedesco è ben inferiore alle speranze e alle previsioni di liquidare la Francia in sei settimane, dalla Marna, infatti, i Francesi contrattaccano (5-12 settembre), e i Tedeschi sono a loro volta costretti a retrocedere sull'Aisne.
La battaglia della Marna ha un'importante funzione psicologica sui francesi, grazie alla pur parziale vittoria riportata.
A questo risultato contribuiscono le contemporanee vicende del fronte orientale: due corpi d'armata, infatti, hanno dovuto essere distolti dall'offensiva contro la Francia per tamponare l'irruzione che le truppe russe hanno iniziata sin dall'agosto nella Prussia orientale. L'offensiva viene respinta, ma i Russi sono riusciti a sfondare più a sud, nella Galizia, e minacciano da vicino il territorio ungherese dell'Impero asburgico.
Sul fronte occidentale, alla battaglia della Marna segue la «corsa al mare» per il controllo delle coste della Manica, e gli Anglo-francesi riescono a conservare i porti di Calais e di Dunkerque, preziosi per i reciproci collegamenti. Al termine della campagna il fronte si stabilizza su una linea estendentesi da nord-ovest a sud-est, che fino al marzo 1918 non subirà più escursioni maggiori di 15 km.
La guerra di movimento, sulla quale puntava lo stato maggiore tedesco, si è dunque trasformata in guerra di posizione e di trincea, con grande vantaggio per gli Alleati, che potranno ormai disporre del tempo necessario per la mobilitazione delle proprie risorse.
Gli Alleati possono segnare al loro attivo anche l'intervento del Giappone che, schieratosi al loro fianco dal 23 agosto, continuerà però sino al termine del conflitto a condurre una guerra «parallela», più che da vero e proprio alleato, limitandosi ad attaccare le isole e le basi tedesche nel Pacifico e in Cina.
A loro volta gli Imperi Centrali sono avvantaggiati dall'intervento della Turchia (31 ottobre), grazie al quale le comunicazioni fra le potenze occidentali e la Russia attraverso il Bosforo e i Dardanelli rimarranno costantemente bloccate.
Le vicende puramente militari del conflitto sono ben lontane dall'esaurire il significato complesso della guerra, che è guerra totale e impegna non solo gli eserciti, ma l'intera compagine delle nazioni: l'economia, le capacità produttive, le risorse morali, le strutture politiche e sociali vi sono tutte ugualmente messe alla prova.
Questo carattere di totalità è reso anche più evidente dal fatto che, al di là dei contrasti di interesse, la guerra viene presentata dalle opposte propagande come un conflitto di idee e di culture, viene vissuta non solo come lotta e confronto di sistemi politici, ma addirittura come scontro fra diverse concezioni del mondo e, persino, come insanabile contrasto di razze.
L'internazionalismo socialista, che ancora nel luglio del 1914 si manifestava in imponenti dimostrazioni a favore della pace, si scioglie non appena la guerra è iniziata, e i singoli partiti socialisti - in testa quello tedesco che era allora il più forte e il più organizzato del mondo - aderiscono alle «unioni sacre» con i partiti sino al giorno prima combattuti e disprezzati come «borghesi».
La cultura, che fino allora era stata concepita come attività universale e sovrannazionale per eccellenza, cessa di essere il terreno di incontro e di superamento dei particolari punti di vista, e si offre come strumento di giustificazione e di propaganda delle parti in lotta.
Dei pericoli inerenti a questo clima spirituale vi fu coscienza presso alcuni esponenti dell'intellettualità europea. Croce, per esempio, si batté costantemente per «la difesa del comune patrimonio civile e della comune opera del pensiero e dell'arte tra i contrasti e le lotte politiche e guerresche dei popoli» ed espresse la sua «indignazione contro gli uomini di scienza, che presero allora a falsificare la verità sotto pretesto di servir la patria o il partito politico», ma operarono in realtà quello che nel 1927 il francese Julien Benda chiamerà, in un'opera omonima, «il tradimento dei chierici» (cioè degli intellettuali).
Queste posizioni che volevano mantenere al di sopra della mischia almeno la cultura o gli intellettuali furono però rare: anche presso i massimi esponenti dell'intellettualità europea prevalse la tendenza all'immedesimazione senza residui con la passione e con le vicende della propria patria particolare.
I successi degli Imperi Centrali durante i primi mesi di guerra furono controbilanciati dal trapasso dalla guerra di movimento alla guerra di posizione: con ciò il «fattore tempo» cominciava ad agire a favore dell'Intesa, superiore per potenza economica e per l'illimitata possibilità di rifornirsi delle materie prime necessarie alla guerra.
Gli Austro-tedeschi, al contrario, salvo che per i rapporti con i paesi neutrali immediatamente confinanti e con quelli raggiungibili attraverso il Mar Baltico, potevano essere efficacemente strozzati mediante il blocco navale messo in atto dall'Inghilterra.
I Tedeschi erano però nettamente superiori per quanto riguardava i sommergibili che, a partire dal febbraio 1915, tentarono a loro volta un controblocco, affondando le navi, anche neutrali, dirette verso le potenze occidentali.
In questo campo un episodio clamoroso, abilmente sfruttato dalla propaganda alleata, fu l'affondamento del transatlantico inglese Lusitania (7 maggio 1915), che provocò la morte di più di mille passeggeri, fra i quali più di cento Americani.
La formale protesta elevata in quest'occasione dagli Stati Uniti indusse quindi il governo tedesco ad impegnarsi per una condotta più oculata della guerra sottomarina.
Come dicevamo, i successi degli Imperi Centrali du
navale rante i primi mesi di guerra furono controbilanciati dal trapasso dalla guerra di movimento alla guerra di posizione: con ciò il «fattore tempo» cominciava ad agire a favore dell'Intesa, superiore per potenza economica e per l'illimitata possibilità di rifornirsi delle materie prime necessarie alla guerra. Gli Austro-tedeschi, al contrario, salvo che per i rapporti con i paesi neutrali immediatamente confinanti e con quelli raggiungibili attraverso il Mar Baltico, potevano essere efficacemente strozzati mediante il blocco navale messo in atto dall'Inghilterra.
Sul fronte occidentale intanto la situazione rimane statica. Sul fronte orientale i tedeschi costringono i Russi a sgomberare la Polonia, i franco-inglesi hanno così tempo di riprendersi e si impegnano in una serie di battaglie che, tuttavia, non intaccano l'esercito nemico (le perdite sono altissime, 400.000 morti contro i 170.000 tedeschi).
La ritirata dei Russi però consente all'Austria-Ungheria di attaccare a fondo la Serbia.
In questa situazione l'Italia decide il proprio intervento a fianco dell'Intesa (24 maggio 1915).
Mentre le nostre truppe impegnano l'esercito austriaco con ripetute offensive sull'Isonzo, la situazione precipita nei Balcani.
La Bulgaria infatti interviene a fianco degli Imperi Centrali rendendo insostenibile la situazione della Serbia, attaccata, oltre che da nord, anche dal suo fianco orientale. Malgrado i vincoli di alleanza che la legano alla Serbia, la Grecia - per le tendenze filogermaniche di re Costantino - si rifiuta di soccorrerla, né un corpo di spedizione che gli Alleati fanno sbarcare a Salonicco serve per ora a ristabilire l'equilibrio. Invasa dal soverchiante nemico, la Serbia riesce solo a salvare una parte dell'esercito, che viene trasportata a Corfù da navi italiane e inglesi.
Gli Imperi Centrali controllano ora un imponente blocco di territori, che si estende senza soluzione di continuità dalle coste del Mare del Nord e dal Mar Baltico sino alla Turchia: un enorme diaframma separa dunque le potenze occidentali dalla Russia.
Per sbrecciare questa muraglia gli Anglo-francesi, lungo tutto il corso del 1915, tentano di impadronirsi degli stretti che mettono in comunicazione il Mar Egeo col Mar Nero, ma riescono solo a stabilire delle teste di ponte nella penisola di Gallipoli, a prezzo di tali perdite che nel gennaio del 1916 si rassegnano ad abbandonare l'impresa.
L'ultimatum, che nel luglio del 1914 l'Austria aveva inviato alla Serbia senza alcun preliminare accordo con l'Italia, era redatto in termini tali da consentire al governo Salandra (subentrato a Giolitti nel marzo 1914) di dichiarare ufficialmente la neutralità (3 agosto 1914) senza venir meno agli impegni della Triplice.
Naturalmente la dichiarazione di neutralità non impedì però che i partiti e gli organi di stampa si pronunciassero sull'atteggiamento che l'Italia avrebbe dovuto assumere nell'immane conflitto, destinato a sconvolgere le strutture geo-politiche del continente europeo e dell'intero mondo. Nei mesi successivi, pertanto, l'opinione pubblica italiana si venne dividendo nei due opposti campi dell'interventismo e del neutralismo, nell'ambito di ciascuno dei quali emersero differenze di prospettiva di grandissimo rilievo.
Fra gli interventisti sono, in primo luogo, i repubblicani di origine e di ispirazione mazziniana, gli irredentisti (come il socialista trentino Cesare Battisti), i social-riformisti (come il Bissolati), i radical-progressisti (come il Salvemini). Pur nelle diverse sfumature di sensibilità, gli interventisti democratici, che tendono a dimenticare di trovarsi virtualmente schierati anche con la Russia zarista, vogliono il nostro intervento a fianco dell'Intesa concependolo come prosecuzione delle lotte risorgimentali per l'indipendenza nazionale, come guerra al militarismo degli Imperi Centrali, come impegno di solidarietà con le nazioni oppresse e con le grandi democrazie occidentali: l'Inghilterra e la Francia.
Accanto a questi, sono pure per l'intervento nazionalisti, che esaltano ideali imperialistici di «sacro egoismo» e di potenza; essi credono nel valore taumaturgico della guerra e la considerano un bene in se stessa. Tant'è vero che, dopo aver inclinato in un primo tempo per l'intervento accanto ai nostri alleati della Triplice, passano con estrema disinvoltura a farsi entusiasti sostenitori dell'intervento accanto all'Intesa.
Ultima recluta del più acceso interventismo è anche Benito Mussolini, che ancora nel settembre 1914, come direttore dell'Avanti! ed esponente dell'ala rivoluzionaria del Partito socialista, ha confermato la sua irriducibile avversione alla guerra, «forma estrema, perché coatta, della collaborazione di classe, annientamento dell'autonomia individuale e della libertà di pensiero»; ma che già nel novembre dello stesso anno, facendosi espellere dal Partito socialista, prende a pubblicare Il Popolo d'Italia e si fa promotore e divulgatore di miti giovanilistici e nazional-rivoluzionari: per lui la guerra è l'evento tragico dal quale si potrà derivare una rivoluzione.
Tesi interventiste 'rivoluzionarie' sostengono anoche gli anarco-sindacalisti, guidati da Arturo Labriola, già ardente sostenitore della campagna libica. Sia Mussolini sia gli anarco-sindacalisti sembrano ignorare che la probabilità di derivare una rivoluzione da una guerra è legata all'ipotesi di una guerra perduta, perché ben difficilmente può essere scalzata dal potere una classe dirigente che abbia guidato un paese alla vittoria.
Non meno composito è lo schieramento dei neutralisti
Per i socialisti il neutralismo è una questione di principio; mentre, come abbiamo visto, gli altri partiti socialisti della Seconda Internazionale venivano meno ai loro solenni impegni e appoggiavano i rispettivi governi partecipando alle «unioni sacre», i socialisti italiani tenevano fede alla propria ostilità alla guerra, considerata come un affare esclusivamente borghese e capitalistico. Una volta dichiarata la guerra, essi si ridussero però ad adottare il motto «né aderire, né sabotare» che, per un verso, risultava impraticabile data la perentorietà dell'alternativa reale, per l'altro li esponeva all'accusa d'essere estranei e indifferenti agli interessi della nazione.
Meno rigido fu il neutralismo degli ambienti cattolici, non ancora organizzati in partito. Benedetto XV (1914-1922), asceso al soglio pontificio nell'agosto del 1914 dopo la morte di Pio X, inclinava a concedere un certo margine di autonomia e di iniziativa alle organizzazioni cattoliche che, sia in base ai fondamenti stessi del cristianesimo, sia perché in questo caso si sarebbe trattato di risolversi a combattere contro la cattolicissima Austria, si espressero inizialmente in senso decisamente neutralistico. Ma ben presto alcune personalità del laicato cattolico operarono una distinzione fra l'assoluto neutralismo, al quale doveva necessariamente attenersi la Chiesa, e l'atteggiamento dei singoli fedeli, che potevano preferire o rifiutare il neutralismo, secondo gli interessi, i sentimenti e i diritti della comunità nazionale cui appartenevano.
Fondato su rigorose considerazioni realistiche fu il neutralismo di Giovanni Giolitti, che aveva il consenso di vasti strati dell'opinione pubblica italiana, ben lontani peraltro da ogni preciso impegno politico. «I fautori della guerra - scriveva lo statista nelle sue Memorie - sostenevano allora l'urgenza di prendervi parte, ritenendo che essa sarebbe stata di breve durata; temevano che, venendo a finire senza il nostro intervento, si perdesse una magnifica occasione per compiere l'unità nazionale; ed affermavano che l'intervento nostro, rompendo l'equilibrio delle forze, avrebbe fatto finire la guerra in tre o quattro mesi». Egli riteneva invece che la guerra sarebbe stata per l'Italia una prova durissima e molto rischiosa, e che fosse per ciò più opportuno patteggiare la nostra neutralità contro quelle concessioni cui l'Austria sarebbe stata costretta dallo stato di necessità.
Mentre si svolgono queste polemiche fra gli opposti schieramenti, il governo Salandra, nel quale il ministero degli esteri è occupato da Sidney Sonnino, tentate inutilmente le trattative con l'Austria, si risolve (marzo 1915) a prendere contatti con l'Intesa, e i126 aprile conclude con gli Alleati il patto segreto di Londra, che impegna l'Italia ad intervenire entro un mese contro gli Imperi Centrali dietro la promessa del Trentino e del Sud-Tirolo, dell'Istria, esclusa Fiume, e della Dalmazia.
Il patto prevede anche l'annessione definitiva del Dodecaneso ed eventuali compensi in Adalia (Turchia meridionale) «in caso di spartizione totale o parziale della Turchia», nonché «qualche equo compenso coloniale nel caso che la Francia e la Gran Bretagna aumentassero i loro domini coloniali d'Africa a spese della Germania».
Col patto di Londra, ispirato a una concezione nazionalistica che non lasciava alcuno spazio alle esigenze dell'interventismo democratico, l'ingresso dell'Italia nella guerra era praticamente deciso, cosicché la lotta finale fra interventisti e neutralisti, svoltasi nel maggio seguente, era già pregiudicata in favore dei primi e doveva solo servire a dar veste «popolare» al fatto compiuto.
Essa fu connotata da una vasta attività di piazza, e le dimostrazioni interventistiche assunsero spesso carattere di intimidazione.
D'Annunzio, per esempio, in un comizio tenuto a Roma, non esitò ad aizzare la folla perché procedesse senz'altro al linciaggio di Giolitti.
Ben diversa rimaneva però l'opinione prevalente dei parlamentari, che in gran numero espressero la loro solidarietà al leader liberale del neutralismo.
Salandra, sentendosi virtualmente battuto, rassegnò allora le sue dimissioni, che il re peraltro respinse, mentre Giolitti - convintosi che le decisioni fossero già state prese - abbandonava la lotta e si ritirava nella sua residenza di Cavour.
Stroncate così anche le ultime speranze dei neutralisti, nella seduta del 20 maggio la Camera, dopo essere stata informata delle nostre vane trattative con l'Austria, si rassegnò a votare per l'intervento, con l'unica eccezione dei socialisti.
Troppe volte é stato detto che la maggioranza parlamentare neutralistica non interpretava le esigenze più profonde della nazione, le quali si sarebbero invece espresse nelle dimostrazioni interventistiche del radioso maggio del 1915; in realtà il clima nel quale avvenne la deliberazione dell'intervento e le modalità con cui fu stipulato il patto di Londra (rimasto segreto fino al 1918) furono una prima lacerazione delle istituzioni liberal-democratiche, perché il Parlamento dovette ratificare - sotto la pressione della piazza - una decisione già presa dal governo e dal re (il quale aveva facoltà di stipulare autonomamente trattati internazionali).
All'aprirsi del 1916, sono ancora i Tedeschi a prendere l'iniziativa: essi vogliono ripetere il tentativo dei primi mesi di guerra e risolvere a proprio vantaggio la situazione sul fronte occidentale.
Scatenano perciò sin dal febbraio una violentissima offensiva contro Verdun; ma essa si risolve in una tragica ecatombe: mentre le perdite complessive ammontano a circa 700.000 caduti, ugualmente ripartiti fra le due parti in lotta, lo scopo strategico di ridare mobilità al fronte non viene conseguito.
Sui nostri confini l'esercito italiano s'impegna, contemporaneamente, in una offensiva sull'Isonzo, che deve però essere interrotta nel maggio, quando, da nord, gli Austriaci rispondono con la cosiddetta Strafexpedition («spedizione punitiva»).
Essi attaccano sul fianco sinistro del nostro schieramento, tra l'Adige e il Brenta, con l'intenzione di sfondare in tal punto e di far così retrocedere tutto il nostro fronte, avanzato ad oriente fino all'Isonzo. Il piano non consegue peraltro i previsti risultati strategici, e la stessa avanzata austriaca sull'altopiano di Asiago viene neutralizzata da una nostra controffensiva che permette i1 recupero di quei territori.
Per la Strafexpedition l'Austria ha dovuto distrarre delle truppe dal fronte orientale, il che facilita ora una vittoriosa offensiva russa, che sfonda nella Polonia meridionale e rientra in Bucovina e Galizia, ripetendo contro l'Austria-Ungheria la minaccia del 1914.
Anche sul fronte occidentale gli Alleati, dopo l'offensiva tedesca di Verdun, passano alla controffensiva con la battaglia della Somme (luglio), nella quale vengono impiegati per la prima volta í carri armati. Ma essa fallisce, com'era fallita quella del nemico, e le perdite sono anche più gravi: circa 700 000 caduti fra gli Alleati, circa 500 000 fra i Tedeschi. Intanto i successi della campagna del Brusilov inducono la Romania ad intervenire a fianco dell'Intesa, ma l'iniziativa sarà disastrosa sia per quella nazione sia per gli Alleati: presa in mezzo fra l'Austria-Ungheria e la Bulgaria, la Romania viene occupata quasi per intero, e in essa gli Imperi Centrali trovano una preziosa fonte di rifornimento di grano e di petrolio.
Nel corso del 1916 si combatte anche l'unica vera e propria battaglia navale di tutta la guerra: la battaglia dello Jütland (31 maggio). La flotta tedesca d'alto mare incontra e attacca una squadra di incrociatori inglesi ad occidente della penisola di Jütland, e infligge agli avversari perdite assai maggiori di quelle subite, ma deve ritirarsi quando sopravviene il grosso della flotta inglese. Paradossalmente questo episodio, che in sostanza fu una vittoria tedesca, si risolse in un durevole e decisivo successo della flotta britannica, dato che in seguito i Tedeschi non osarono più contestarle il pieno e incontrastato dominio dei mari.
In Italia intanto entrò in crisi nel giugno il ministero Salandra, considerato corresponsabile dei pericoli corsi dal nostro fronte durante la Strafexpedition e accusato di aver dato al nostro intervento un significato troppo angusto e restrittivo (basti pensare che la guerra era stata dichiarata alla sola Austria). A Salandra succedette Boselli che, conservando agli esteri il Sonnino, formò un ministero più ampiamente rappresentativo dell'unità nazionale, si preoccupò di realizzare più cordiali e coordinati rapporti con gli Alleati e, per togliere ogni motivo di riserva e di diffidenza nei nostri confronti, dichiarò formalmente la guerra anche alla Germania (28 agosto).
I primi due anni e mezzo di guerra, svanite per tutti le speranze di una conclusione rapida, avevano ridotto i belligeranti in condizioni morali e materiali durissime; il 1917 fu per molti paesi l'anno della prova suprema, e per la Russia zarista l'anno del definitivo sfacelo.
Lo stato di grave sofferenza investe tutte le nazioni della guerra neppure l'inasprimento fiscale e l'aumento del debito pubblico bastano a sostenere le enormi spese di guerra, e dovunque si ricorre all'espediente di stampare nuova moneta.
Nella depressione generale il massimo peso è nondimeno sostenuto dalla Germania e dall'Austria, costrette al razionamento dei generi di prima necessità e scarseggianti di alcune materie prime indispensabili alla produzione bellica, come il rame e il caucciù. Il blocco economico, tanto più dopo l'incidente del Lusitania, agisce a senso unico in loro sfavore e fa sentire i suoi progressivi effetti di soffocamento. Anche in Russia, dove le materie prime non mancherebbero, l'arretratezza delle strutture produttive e la insufficienza dei trasporti dà luogo a gravissimi problemi; in particolare, le grandi città risentono delle difficoltà di approvvigionamento e mancano di pane: in un paese che pure è gran produttore di grano!
In queste condizioni, già nel dicembre del 1916 le potenze centrali, chiedendo la mediazione del presidente degli Stati Uniti, Wilson, avanzano generiche proposte di pace.
Nel gennaio del 1917, comunque, l'«offensiva di pace», che gli Austro-tedeschi conducono senza offrire alla controparte neppure lo sgombero del Belgio e dei territori francesi occupati, viene nettamente respinta.
Né varrà a riaprire la questione la nota che nel successivo agosto Benedetto XV rivolgerà con ben altro proposito ai capi dei paesi belligeranti invitandoli a porre termine all'«inutile strage».
Lo stato maggiore tedesco, che è ora comandato da Hindenburg, prende all'inizio dell'anno la decisione gravissima di rilanciare la guerra sottomarina senza limitazioni, con la speranza di ridurre alla fame l'Inghilterra nel giro di sei mesi.
Le potenze neutrali vengono pertanto avvertite (31 gennaio 1917) che le navi mercantili di qualunque nazionalità, sorprese nelle zone di guerra, saranno immediatamente affondate senza preavviso.
Com'era da prevedere, la risposta degli Stati Uniti, sempre più interessati alla vittoria dell'Intesa cui avevano concesso ingentissimi prestiti, fu immediata: già il 3 febbraio essi ruppero le relazioni diplomatiche con la Germania, invitando anche gli altri stati neutrali a seguire il loro esempio, e il 5 aprile dichiararono la guerra.
Così il bilancio dell'operazione, malgrado l'enorme incremento del naviglio affondato dai sommergibili tedeschi, diventava disastroso.
Gli Stati Uniti, se per il momento non potevano incidere sulle sorti della guerra nello scacchiere europeo, rendevano immediatamente impensabile una vittoria finale degli Austro-tedeschi, e col loro intervento sostenevano in modo decisivo il morale dei popoli dell'Intesa, destinato a subire in quell'anno il duro colpo del crollo della Russia.
Sul fronte occidentale, dall'aprile al maggio, il nuovo generale francese Robert Nivelle, che dal dicembre 1916 ha sostituito Joffre, scatena un'offensiva su tutta la linea da Arras a Reims, ma ancora una volta essa si conclude con spaventose perdite, soprattutto fra gli attaccanti, mentre l'aumentato stato di sofferenza si manifesta in Francia con una serie di scioperi e persino con ammutinamenti che si diffondono ampiamente fra le truppe scoraggiate. Toccherà a Philippe Petain, subentrato a Nivelle alla metà di maggio, ristabilire una situazione che minacciava di farsi insostenibile.
Particolarmente drammatiche sono in questa fase della guerra anche le vicende italiane. Il proletariato industriale torinese alimenta una sommossa (22/25 agosto) che, nata dallo stato di disagio determinato dal calo dei salari reali e dalla temporanea chiusura delle fornerie per mancanza dei rifornimenti di farina, assume immediatamente il carattere di protesta contro la prosecuzione della guerra. L'insurrezione viene sedata dall'intervento di reparti dell'esercito e costa ai ribelli parecchie decine di morti e centinaia di arresti.
Sull'alto Isonzo - dopo che il nostro esercito fra l'agosto e il settembre è riuscito a caro prezzo ad occupare l'altopiano della Bainsizza - gli Austro-tedeschi sferrano una massiccia offensiva, riescono a sfondare le nostre linee a Caporetto (24-27 ottobre) e, minacciando di isolare le truppe scaglionate sul fronte giuliano, costringono il nostro esercito ad una precipitosa ritirata che si trasforma in una vera e propria rotta e determina lo sbandamento di interi reparti.
In conseguenza del gravissimo rischio superato, che fu sul punto di tramutarsi in un completo disastro, il governo Boselli entrò in crisi e fu sostituito da un nuovo governo di unità nazionale, presieduto da Vittorio Emanuele Orlando, nel quale ancora una volta il ministero degli esteri rimase affidato a Sonnino.
Cadorna - che per il suo eccessivo autoritarismo e per la sua incapacità di ridurre al minimo le perdite e di tener conto del morale della truppa era considerato fra i maggiori responsabili della rotta di Caporetto - fu destituito e dovette cedere il comando supremo al generale Armando Diaz.
Mentre in Francia e in Italia si manifestavano pericolosi sintomi di crisi e di sbandamento, in Russia il regime autocratico dello zar andava incontro a completa rovina, attraverso vicende cui per ora accenniamo solo in riferimento alla guerra riservandoci di trattarne più avanti.
Fin dagli ultimi mesi del 1916 la società russa è in preda a uno stato di marasma che si va facendo sempre più acuto. Nel marzo del 1917 il diffuso malessere sfocia a Pietrogrado (Pietroburgo, poi Leningrado) in una vera e propria insurrezione, che in pochi giorni costringe lo zar Nicola II Romanov ad abdicare e induce lo stesso granduca Michele, designato a succedergli, a rinunciare a una corona ormai manifestamente squalificata.
Si forma allora un governo provvisorio che, in un primo tempo, s'impegna a continuare la guerra a fianco degli Alleati e anzi, nel luglio, tenta di organizzare una nuova offensiva in Galizia; ma il completo fallimento dell'impresa disperata prepara il terreno per una nuova ondata rivoluzionaria guidata dai bolscevichi, e questi il 7 novembre eliminano il governo provvisorio e s'impadroniscono del potere.
Il programma dei bolscevichi comportava la necessità di concentrare tutte le energie popolari sul fronte interno della rivoluzione e imponeva l'immediata cessazione della guerra: una guerra che la Russia, comunque, non era più in grado di proseguire
Perciò i bolscevichi intavolarono subito con gli Imperi Centrali trattative di pace, iniziate in dicembre con l'armistizio di Brest-Litovsk, e concluse il 3 marzo 1918 con l'omonima pace.
Le condizioni imposte dai Tedeschi furono durissime: in pratica, la Polonia, la Finlandia, la Lituania, la Curlandia, la Livonia, l'Estonia e persino la Russia meridionale (Ucraina) furono ridotte in condizioni di vassallaggio nei confronti dei vincitori, mentre la Russia dovette impegnarsi a pagare una cospicua indennità di guerra.
Complessivamente la pace di Brest-Litovsk strappava alla Russia 56 milioni di abitanti (pari al 32% della sua popolazione) e la privava di un terzo delle strade ferrate, del 73% dei minerali ferrosi, dell'89% della produzione di carbone.
Il crollo della Russia costrinse anche il governo romeno, che sin dalla fine del 1916 era stato ridotto a controllare solo un'esigua porzione del suo precedente territorio, ad accettare la pace di Bucarest (5 aprile 1918), non meno esosa di quella imposta alla Russia.
Nel frattempo, già prima della fine del 1917, l'Intesa aveva serrato le file: si era rinnovato, come abbiamo visto, il governo italiano; in Francia il potere era passato nelle mani del radicale George Clemenceau, detto «Tigre» per la sua decisione nel condurre la guerra; in Inghilterra Lloyd George esercitava una specie di provvisoria dittatura, assistito da un ristretto Comitato di guerra.
Nel corso del 1917, contro i successi degli Imperi Centrali sul fronte orientale, gli Alleati segnavano al loro attivo, oltre all'intervento americano, anche quello della Grecia, dove il comandante delle truppe stanziate a Salonicco, generale Sarrail, aveva costretto il re Costantino I ad abdicare e aveva ottenuto da Venizelos, dal giugno ripristinato al governo, l'entrata in guerra del paese a fianco dell'Intesa.
Con le quaranta divisioni che dopo l'armistizio e la pace di Brest-Litovsk hanno potuto togliere dal fronte russo i Tedeschi rafforzano le loro armate sul fronte occidentale e, dal 21 marzo 1918, scatenano una nuova e violenta offensiva.
L'esercito tedesco dimostra ancora una volta di non essere inferiore alla propria fama: esso sfonda le linee nemiche e penetra profondamente nel suolo francese, sino a raggiungere nel luglio la Marna e a superarla in qualche punto.
Ma anche questa vittoria ha le sue ombre: l'attacco non riesce a rompere la continuità fra gli eserciti francese e inglese, com'era nei suoi scopi; gli Alleati si sono finalmente risolti ad unificare il comando supremo nelle mani del generale francese Foch; le perdite tedesche sono state ingentissime; i soldati tedeschi, avanzando, hanno potuto constatare che - contrariamente a quanto affermava la propaganda - le retrovie nemiche erano ancora ricchissime di rifornimenti e si son fatti la convinzione che, malgrado tutti i loro sforzi, il nemico sia invincibile.
D'altra parte, l'apporto americano è in rapido aumento: dalla fine di aprile sbarcano in Francia circa 300 000 soldati statunitensi al mese.
Nella seconda metà del luglio la guerra subisce la svolta decisiva: il generale Foch inizia infatti, con largo impiego anche di aerei e di carri armati, quella controffensiva che non avrà termine sino alla vittoria finale.
I Tedeschi si ritirano ordinatamente, ma già in settembre sono ricacciati sulle posizioni dalle quali erano partiti nel marzo. E l'avanzata nemica non si arresta. E ormai evidente che, per quanto lo strumento militare germanico possa ancora protrarre la propria resistenza, esso non ha più la minima prospettiva di vittoria.
Nel settembre anche il fronte balcanico è in movimento: la Bulgaria, attaccata da sud dalle forze con-giunte francesi, inglesi, serbe e greche, è battuta in pochi giorni e costretta ad arrendersi (29 settembre). Così non solo sono interrotte le comunicazioni fra gli Imperi Centrali e la Turchia, ma gli Alleati possono risalire la penisola balcanica e minacciare direttamente i territori della monarchia austro-ungarica.
Separata dai suoi alleati, anche la Turchia deve presto cedere: la concomitante caduta della Bulgaria, risulta fatale all'Impero turco e lo costringe alla resa a discrezione (30 ottobre).
Sotto la pressione esterna va intanto crescendo la ribellione contro l'Impero austro-ungarico delle nazionalità oppresse, che reclamano ormai la propria completa indipendenza. Lo sfacelo dell'Austria viene accelerato dalla vittoriosa offensiva italiana di Vittorio Veneto (22 ottobre-3 novembre), che dissolve l'esercito nemico.
Il 4 novembre l'Austria firma l'armistizio di Villa Giusti; ma è chiaro che tale armistizio non segna solo la fine delle operazioni militari, quanto piuttosto l'atto di morte dell'Impero asburgico, che si dissolve nelle singole nazioni fino allora in esso incorporate.
Anche in Germania la crisi socio-politica è evidente: l'esercito, pur retrocedendo, continua a resistere, ma la flotta è in rivolta; Brema, Amburgo e Lubecca sono nelle mani dei marinai e degli operai; in Baviera viene proclamata la repubblica; una frazione dei socialisti, organizzata da Karl Liebknecht e da Rosa Luxemburg nella Spartakusbund (Lega di Spartaco, significativamente intitolata al nome del condottiero della più grande rivolta servile contro Roma), si muove nella stessa direzione dei bolscevichi russi e tenta di derivare dal fallimento della vecchia classe dirigente una rivoluzione proletaria.
Il 30 settembre il Kaiser Guglielmo II promette al popolo ampie riforme democratiche e chiede pace al presidente degli Stati Uniti.
Ma è ormai troppo tardi perché la monarchia possa separare le proprie responsabilità e perché la guerra possa concludersi con una pace contrattata. Il regime viene travolto nella sconfitta e, quando il 9 novembre Guglielmo II abdica e si rifugia in Olanda, non fa che prendere atto di una trasformazione già consumata.
La Germania è ormai una repubblica, e saranno i suoi delegati che l'11 novembre, presso Compiègne, firmeranno l'armistizio con i rappresentanti dell'Intesa, ponendo termine al più che quadriennale conflitto.
Dallo spaventoso travaglio della guerra popoli e governi uscirono con speranze e aspettative profondamente contraddittorie.
Da una parte si avvertiva la necessità di imboccare una strada radicalmente nuova che stornasse per sempre i pericoli di guerra;
dall'altra, si attribuiva agli sconfitti l'esclusiva responsabilità del conflitto e si pretendeva di punirli, mettendoli in condizioni tali da impedire ogni reale e solida pacificazione.
La guerra era stata presentata dagli Alleati come «guerra democratica» contro il militarismo degli Imperi Centrali, ma ora, di fronte alla rivoluzione bolscevica e alla suggestione ch'essa esercitava sul proletariato europeo, gli ideali democratici erano guardati con sospetto sia dalle masse popolari che inclinavano a considerarli come semplice maschera degli interessi capitalistici, sia dalla borghesia che riteneva eccessive le possibilità legali garantite dalla democrazia al nemico di classe.
Fin dal gennaio del 1918 il presidente americano, Woodrow Wilson aveva fissato in quattordici punti le finalità che gli Stati Uniti intendevano raggiungere con la loro partecipazione alla guerra.
Sostanzialmente egli proponeva:
di abolire la diplomazia segreta,
di rendere libera in pace come in guerra la navigazione sui mari,
di eliminare le barriere doganali,
di ridurre al minimo gli armamenti,
di risistemare (ma non di abolire) le colonie tenendo conto anche degli interessi dei popoli assoggettati,
di evacuare tutti i territori occupati durante la guerra,
di consentire l'autodeterminazione dei popoli,
di ridefinire i confini d'Europa secondo le linee di divisione delle varie nazionalità,
di costituire infine una Società delle Nazioni, «fondata su convenzioni precise, capaci di fornire garanzie reciproche di indipendenza politica ai piccoli come ai grandi stati».
L'impostazione di Wilson, certamente legata agli interessi di un grande paese capitalistico che non aveva nulla da temere dalla liberalizzazione degli scambi, era comunque adeguata alle necessità di pacifica ricostruzione, tanto che suscitò vastissimi consensi; ma, contrastata in Europa dal miope «realismo» dei governi e più tardi rinnegata dalle correnti isolazionistiche statunitensi, ebbe il decisivo torto di rimanere soltanto sulla carta, come semplice dichiarazione di buone intenzioni.
Alla conferenza di pace apertasi a Parigi nel gennaio del 1919 furono ammessi i rappresentanti di 27 paesi, ma in realtà, poiché le riunioni plenarie contarono assai poco, le decisioni fondamentali furono prese dai «quattro grandi», ossia da Wilson, Lloyd George, Clemenceau e Orlando (che peraltro si trovava in posizione subalterna).
Per l'assenza della Russia bolscevica e dei rappresentanti dei paesi sconfitti, i lavori procedettero speditamente e si conclusero in pochi mesi con l'elaborazione del trattato di Versailles, imposto alla Germania e comprendente anche lo statuto della Società delle Nazioni (giugno 1919), del trattato di Saint-Germain, stipulato con l'Austria (settembre 1919), del trattato di Neuilly con la Bulgaria (novembre 1919), del trattato del Trianon con l'Ungheria (giugno 1920), del trattato di Sèvres con la Turchia (agosto 1920).
Il trattato di Versailles, dai Tedeschi giustamente ribattezzato Diktat, imponeva alla Germania:
di restituire l'Alsazia e la Lorena alla Francia e di concederle per quindici anni lo sfruttamento del bacino minerario della Saar (che allo scadere del periodo avrebbe deciso la propria sorte mediante un plebiscito),
di evacuare il Belgio
di cedere alla costituenda repubblica polacca le terre abitate da popolazioni polacche o da popolazioni miste tedesco-polacche, come la Posnania,
di rinunciare a tutto il suo impero coloniale, del quale si impadronivano - in Asia e nel Pacifico - principalmente il Giappone, - in Africa - principalmente l'Inghilterra e, in misura minore, la Francia, il Belgio e il Portogallo.
Alla Germania venne altresì imposta la riduzione delle forze armate a soli 100 000 uomini, la cessione della flotta all'Inghilterra (ma le navi tedesche preferirono autoaffondarsi), la smilitarizzazione della Renania, la rinuncia all'artiglieria pesante, all'aeronautica e ai sommergibili così il disarmo proposto dal Wilson veniva fatto valere per la sola Germania.
Infine la Germania venne costretta a dichiararsi unica responsabile della guerra e a impegnarsi pertanto al risarcimento di tutti i danni provocati dal conflitto. Questa clausola, moralmente disgustosa, era anche praticamente ineseguibile, sia per l'enormità delle riparazioni (definite più tardi da una speciale commissione), sia perché si pretendeva dalla Germania un così smisurato risarcimento mentre la si privava delle risorse economiche delle colonie, della Saar, nonché, come ora diremo, dell'Alta Slesia e dei Sudeti.
In tal modo i vincitori fomentavano in Germania la rinascita del più sfrenato nazionalismo e aprivano le porte all'avvento del nazismo.
Con i trattati di Saint-Germain e Trianon si prendeva atto della dissoluzione dell'Impero asburgico, sulle cui rovine nascevano la Repubblica austriaca, cui si faceva divieto di unirsi alla Germania, la Repubblica cecoslovacca, che includeva più di tre milioni di Tedeschi dei Sudeti, il Regno di Ungheria (che non ebbe mai un re), il Regno di Iugoslavia, che riuniva ai territori della Serbia, il Montenegro e le regioni slave già appartenenti all'Austria.
Dello sfacelo asburgico si avvantaggiava anche l'Italia, che otteneva il Trentino e l'Alto Adige, Trieste e l'Istria.
Rimaneva invece in sospeso la questione della Dalmazia, che il Patto di Londra assegnava all'Italia ma che ora era rivendicata dalla Iugoslavia.
Nell'Europa orientale, sulle terre restituite dalla Germania, dall'Impero asburgico e dalla Russia, nasceva la Repubblica polacca, che includeva anche l'Alta Slesia tedesca, ricca di miniere, e otteneva uno sbocco sul Mar Baltico mediante un «corridoio» facente capo a Danzica, eretta a città libera.
Questo passaggio si insinuava però nel corpo della Germania separando dal restante territorio tedesco la Prussia Orientale.
Più a nord, sui territori che la pace di Brest-Litovsk aveva strappati alla Russia e posti sotto il protettorato tedesco, sorgevano le repubbliche di Lituania, Lettonia, Estonia e Finlandia. Nella penisola balcanica, la Romania si annetteva la Transilvania; la Iugoslavia e la Grecia si spartivano la Macedonia; la Bulgaria veniva privata di ogni sbocco sul Mar Egeo dal trattato di Neuilly; la Turchia conservava, al di qua degli Stretti che venivano posti sotto il controllo internazionale, la sola Costantinopoli.
Del resto il trattato di Sèvres sanciva lo smembramento dell'Impero ottomano, sulle cui rovine sorgevano i nuovi stati della Siria, della Palestina, della Transgiordania e dell'Irak. Non si trattava però di stati indipendenti, perché la Società delle Nazioni affidò la Siria come mandato alla Francia e gli altri paesi all'Inghilterra; e il «mandato» era una finzione giuridica, escogitata per l'occasione e applicata anche alle colonie ex-tedesche, che comportava un rapporto di reale subordinazione.
La stessa integrità territoriale della Turchia veniva compromessa con la cessione alla Grecia della zona di Smirne. Contro queste decisioni insorse più tardi un movimento nazionalista, guidato da Mustafà Kemal, che, eliminato il sultanato (novembre 1922), ammodernò le strutture della Turchia e ottenne la revisione del trattato di Sèvres, sostituito nel luglio 1923 dal trattato di Losanna.
Quest'ultimo restituiva alla Turchia il controllo degli Stretti ed eliminava da Smirne la testa di ponte greca, mentre confermava all'Italia il possesso del Dodecaneso.
Durante l'elaborazione dei trattati di pace, venne anche approvato lo statuto della Società delle Nazioni (aprile 1919), che vietava il ricorso alla guerra, imponeva la soluzione delle controversie internazionali mediante arbitrato, prevedeva gravi sanzioni economiche contro gli stati che avessero turbato la pace.
Le dichiarazioni dello statuto, in realtà già contraddette dallo spirito punitivo del trattato di Versailles, non si tradussero però in concreta volontà politica.
Gli Stati Uniti, che pure avevano promosso la costituzione della Società delle Nazioni per iniziativa del loro presidente, si convertirono all'isolazionismo e non vi aderirono. L'Inghilterra e la Francia usarono lo strumento societario soltanto al servizio dei loro interessi, sicché il prestigio della nuova istituzione fu ben presto sminuito e offuscato, e i rapporti internazionali rimasero affidati alla «logica» della pura forza.
Le conseguenze della guerra, che era costata quasi dieci milioni di morti, furono proporzionate alle sue smisurate dimensioni e dipesero, prima ancora che dai trattati di pace e dalle deliberazioni dei vincitori, dalle trasformazioni determinate dal corso stesso degli avvenimenti.
Erosi dalla guerra, crollano l'Impero germanico, l'Impero austro-ungarico, l'Impero zarista, l'Impero turco. In Russia è in corso una rivoluzione destinata a mutare le sorti del mondo, alla quale, anche nell'immediato, si ispirano le frazioni rivoluzionarie socialiste dell'Occidente.
La vecchia Europa, dei vincitori non meno che dei vinti, cede il primato mondiale agli Stati Uniti, mentre anche la Russia e il Giappone si avviano ad imporsi come potenze di primo piano, e mentre in Cina e in India il processo di maturazione di una coscienza nazionale avanza e si intensifica.
Le ripercussioni della guerra si manifestano in tutti gli ambiti della vita pubblica e privata. Fra il 1918 e il 1919 ai caduti sui campi di battaglia si aggiungono altri sei milioni di morti, falciati dalla «spagnola»: un'epidemia influenzale alla cui diffusione il razionamento dei generi di prima necessità, le privazioni, il peggioramento delle condizioni igieniche hanno offerto il terreno più adatto.
Per sostenere il «fronte interno» i governi sono ricorsi alla più sfrenata propaganda, attribuendo ai nemici le peggiori nefandezze: e la dimostrata sinistra onnipotenza dei mass media sarà d'ora in poi largamente utilizzata per il «lavaggio dei cervelli», quasicché - secondo un assunto ancor oggi largamente condiviso - una menzogna ripetuta un numero sufficiente di volte si trasformi in verità.
Per tener alto il morale delle truppe si è spesso promesso ai soldati che, finita la guerra, si sarebbe proceduto ad un'energica azione di riforma in favore delle classi popolari (in Italia, per esempio, dopo Caporetto si è parlato di «partecipazione degli operai agli utili delle società per azioni» e di distribuzione di terre ai contadini). E queste promesse - difficili da mantenere nella situazione postbellica e comunque fatte per pura demagogia - hanno creato aspettative atte ad inasprire i conflitti sociali. Tanto più che il trauma della guerra ha destato a coscienza politica, magari ancora elementare, anche masse popolari che, per le loro condizioni economiche depresse, erano rimaste fino allora ai margini della vita pubblica.
La chiamata alle armi di intere classi ha costretto ad impiegare personale femminile anche in funzioni tradizionalmente riservate agli uomini, sicché le donne, pur nella peggiore delle circostanze, vanno acquisendo più chiara consapevolezza del proprio valore e compiono un passo avanti sulla via della propria emancipazione (in Inghilterra, per esempio, conquistano il diritto di voto nel gennaio del 1918).
La guerra ha indirizzato il progresso tecnico alla produzione di mezzi distruttivi (lanciafiamme, gas tossici, carri armati), ma ha contribuito al perfezionamento di strumenti utili: così, per esempio, l'aeronautica, impiegata in misura crescente nelle operazioni militari, potrà poi assumere notevole importanza anche nelle attività pacifiche, e le ricerche condotte dagli scienziati tedeschi per sopperire alla carenza di materie prime (determinata dal blocco navale britannico) risulteranno utili anche per la chimica dei tempi di pace.
In tutti i paesi gli interventi delle autorità statali nella vita civile, politica ed economica si sono fatti più pressanti.
Durante la guerra la stampa è stata assoggettata a censura preventiva, e spesso la lotta contro il disfattismo è diventata pretesto per soffocare ogni libertà di critica. Persino in Inghilterra l'aumento dello sforzo bellico ha portato «a un deciso risveglio dell'attività governativa, cosicché verso la fine del 1917 pochi erano i settori della vita pubblica, e perfino privata, non ancora interessati da provvedimenti legislativi. Le ferrovie, l'industria del carbone e i cantieri navali, per esempio, passarono sotto il controllo diretto dello stato, più di 200 fabbriche vennero nazionalizzate e 9/10 delle merci di importazione furono acquistate direttamente dallo stato.
In complesso, dunque, la prima guerra mondiale, anche a prescindere dai trattati di pace, costituì una svolta storica e fu la confutazione pratica del liberismo economico e del liberalismo politico, almeno nelle forme concrete nelle quali liberismo e liberalismo si erano realizzati fino al
Riepilogo cronologico
Anno |
Data/periodo |
Avvenimento |
|
28 giugno |
Uccisione dell'arciduca Francesco Ferdinando a Sarajevo, in Bosnia |
28 luglio |
Dichiarazione di guerra dell'Austria alla Serbia |
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31 luglio |
Dichiarazione di guerra della Germania alla Russia |
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2 agosto |
Dichiarazione di guerra della Germania alla Francia |
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3 agosto |
Dichiarazione ufficiale di neutralità dell'Italia |
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4 agosto |
Dichiarazione di guerra dell'Inghilterra alla Germania |
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23 agosto |
Intervento del Giappone a fianco degli Alleati |
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5-12 settembre |
Battaglia della Marna (fronte occidentale) |
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31 ottobre |
Intervento turco a fianco degli Imperi Centrali |
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26 aprile |
Patto segreto di Londra |
7 maggio |
Affondamento del 'Lusitania' |
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24 maggio |
Dichiarazione di guerra dell'Italia all'Austria |
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10 ottobre |
Intervento della Bulgaria a fianco degli Imperi Centrali |
|
novembre |
Invasione della Serbia |
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19 febbraio |
Inizio dell'offensiva tedesca contro Verdun (fronte occidentale) |
14 maggio |
Inizio della «spedizione punitiva» (fronte italiano, nuovo fronte aperto oltre quello orientale ed occidentale) |
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31 maggio |
Battaglia navale dello Jütland |
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giugno |
Offensiva russa del Brusilov (fronte orientale) Crisi del ministero Salandra, sostituito dai ministero Boselli |
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luglio-settembre |
Battaglia della Somme (fronte occidentale) |
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27 agosto |
Dichiarazione di guerra della Romania all'Austria |
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28 agosto |
Dichiarazione di guerra dell'Italia alla Germania |
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dicembre |
Invasione della Romania |
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31 gennaio |
La Germania avverte i neutrali che la guerra sottomarina verrà condotta senza limitazioni |
marzo |
Crollo del regime zaristico |
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5 aprile |
Dichiarazione di guerra degli Stati Uniti alla Germania |
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aprile-maggio |
Offensiva alleata sul fronte occidentale |
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1 agosto |
Nota di Benedetto XV ai capi dei paesi belligeranti |
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24-27 ottobre |
Battaglia di Caporetto Crisi del ministero Boselli, sostituito dal ministero Orlando |
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7 novembre |
II partito bolscevico al potere in Russia |
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gennaio |
I «quattordici punti» del presidente Wilson |
3 marzo |
Pace di Brest-Litovsk imposta alla Russia |
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marzo-giugno |
Offensiva tedesca sul fronte occidentale |
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5 aprile |
Pace di Bucarest imposta alla Romania |
|
luglio |
Inizio della controffensiva alleata sul fronte occidentale |
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29 settembre |
Resa della Bulgaria |
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22 ott.-3 nov. |
Battaglia di Vittorio Veneto |
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30 ottobre |
Resa della Turchia |
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4 novembre |
Armistizio di Villa Giusti |
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11 novembre |
Resa della Germania |
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aprile |
Si costituisce la Società delle Nazioni |
28 giugno |
Trattato di Versailles con la Germania |
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10 settembre |
Trattato di Saint-Germain con l'Austria |
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27 novembre |
Trattato di Neuilly con la Bulgaria |
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4 giugno |
Trattato dei Trianon con l'Ungheria |
10 agosto |
Trattato di Sèvres con la Turchia (sostituito nel luglio 1923 dal trattato di Losanna) |
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