|
Visite: 1259 | Gradito: | [ Picolo appunti ] |
Leggi anche appunti:La terza Guerra d'indipendenza italianaLa terza Guerra d'indipendenza italiana La politica estera del governo italiano Tema sulla rivoluzione industrialeTema sulla rivoluzione industriale VIII secolo. Epoca di notevoli mutamenti. Giovanni pascoli e il nazionalismo -"la grande proletaria s'è mossa"GIOVANNI PASCOLI E IL NAZIONALISMO "La grande Proletaria s'è mossa" Il |
La liberazione del Veneto, la presa di Roma e la crisi della Destra storica
La guerra tra Prussia e Austria nel 1866 fu l'occasione che permise al governo italiano di giungere all'acquisizione del Veneto; così come la guerra franco-prussiana del '70 fu l'occasione propizia per l'acquisizione di Roma e per il compimento delle aspirazioni risorgimentali. Fu la destra storica, seguendo la strategia politica cavouriana a condurre a compimento il grande disegno di unificazione territoriale, politica ed amministrativa della penisola, ma poco dopo si trovò esaurita e in un certo modo superata dalle nuove ed incombenti realtà storiche, dai nuovi problemi insorgenti e dovette cedere il passo agli uomini della sinistra.
La terza guerra d'indipendenza, combattuta a fianco della Prussica bismarkiana, fu voluta dal ministero Lamarmora, benché l'Austria avesse offerto di cedere all'Italia il veneto in cambio della neutralità. Lamarmora e il suo governo erano convinti che una prova bellica potesse rinsaldare la compagine del giovane stato, dimostrare la sua solidità e permettere di acquistare,oltre al Veneto, anche il Trentino.
Ma le cose andarono diversamente: gli eserciti, mal comandati da Lamarmora incapparono in una sconfitta a Custoza (24 giugno 1866). La stessa sorte toccò alla flotta italiana,comandata dall'ammiraglio Persano, nelle acque di Lissa (20 luglio 1866).
L'unico a riportare significative vittorie fu Garibaldi, che al comando dei suoi cacciatori delle Alpi, sconfisse gli Austriaci a Bezzecca (21 luglio), aprendo la strada verso Trento.
Per buona sorte degli Italiani, le folgoranti e decisive vittorie prussiane costrinsero gli Austriaci alla ritirata; essi, tuttavia, non riconoscendosi battuti sul fronte italiano, cedettero il Veneto alla Francia, perché lo concedessero all'Italia, e pretesero di conservare il territorio di Trento. La pace di Vienna del 1866 sanzionò questa soluzione. Quanto alle truppe garibaldine, esse erano state già fermate dall'ordine di ritirarsi dai territori conquistati nel Trentino: al quale ordine Garibaldi aveva risposto con il famoso telegramma di una sola parola "obbedisco".
Le sconfitte sul campo, ingigantite dalle polemiche, parvero il segno che lo stato unitario fosse poco vitale e soprattutto mal organizzato e mal guidato. Si levarono alte le voci degli oppositori della Destra: bisognava rivedere tutta l'organizzazione dello stato. Occorreva allargare la base elettorale, concedere un ampio decentramento amministrativo, restituire al parlamento le sue funzioni di direzione politica generale. Questi programmi di riforma trovarono naturalmente una vasta eco tra le forze della sinistra parlamentare.
La situazione favorì un'energica ripresa del movimento mazziniano e del partito d'azione, mentre nel mezzogiorno scoppiarono nuovi moti e nuovi tumulti.
Il ritorno di Rattazzi al potere (1867) sembrò aprire una certa possibilità d'azione per le forze democratiche, che insistevano perché la questione di Roma venisse risolta con un colpo di mano in appoggio ad un moto insurrezionale.
L'improvviso arresto di Garibaldi a Villa Glori e le condanne che colpirono alcuni patrioti romani, anziché dissuadere Garibaldi dai suoi propositi, lo indussero a lasciare di nascosto Caprera, dov'era sorvegliato, a sbarcare in Toscana e a porsi alla testa di tremila volontari in marcia verso il Lazio. Solo l'intervento di truppe regolari francesi, prontamente sbarcate nel porto di Civitavecchia, permise di fermare sanguinosamente l'avanzata dei garibaldini nella battaglia di Mentana (3 novembre 1867).
L'episodio
di Mentana ebbe notevoli riflessi nello sbilanciare verso
Tale mutato orientamento internazionale corrispondeva ad un progressivo mutamento del lima culturale italiano ed europeo, con l'affermazione del Positivismo e del neoheghelismo.
Sia i positivisti che i neogheliani, per quanto lontanissimi tra loro, avevano in comune lo spirito anticlericale: essi erano convinti che la presa di Roma avrebbe dovuto segnare la vittoria della scienza e della cultura moderna contro le tenebre della chiesa e dunque erano fautori di una maggiore iniziativa contro la chiesa.
Allo scoppio della guerra franco-prussiana (1870), nonostante i tentennamenti di Vittorio Emanuele II, che si sentiva ancora legato da un debito di riconoscenza nei riguardi di Napoleone III, il governo italiano non solo rifiutò ogni aiuto alla Francia, ma, alla caduta dell'impero di Napoleone, dichiarò di non ritenersi più vincolato dalla Convenzione di settembre.
Per colmo di paradosso, proprio mentre Garibaldi accorreva in Francia per recare un vano quanto generoso aiuto alla nuova repubblica francese minacciata da Bismark, un corpo di spedizione italiano, al comando del generale Cadorna, aprì una breccia nelle mura di Roma, a Porta Pia, ed occupò la città (20 settembre 1870).
Nel luglio 1871 la capitale ed il governo si trasferirono nella città eterna, annessa dopo un plebiscito, mentre il papa si era rinchiuso nei palazzi vaticani, denunciando di fronte al mondo la violazione e l'usurpazione dei suoi diritti e rifiutando di riconoscere il fatto compiuto.
In realtà la presa di Roma apriva una somma di problemi di grande rilievo:
si temeva che il possesso di Roma fosse un invito alla megalomania;
si apriva il problema del trattamento da riservarsi al papa, che si proclamava prigioniero in Vaticano. Era chiaro a tutti che le sorti del capo dello stato della cattolicità avevano ampie risonanze internazionali; né si poteva ignorare che la maggioranza della popolazione italiana continuava ad essere cattolica.
I liberali cavouriani trassero spunto dalla situazione per cercare di mettere in opera una serie di garanzie per il pontefice e per realizzare un'effettiva separazione tra stato e chiesa.
La legge delle guarentigie, votata nel 1871 dal parlamento, stabiliva che:
la persona del papa era sacra ed inviolabile: al pontefice dovevano essere riservati onori sovrani, nonchégli si concedevano, in perpetuo, in godimento i palazzi vaticani e la villa di Castelgandolfo;
si garantiva in perpetuo la libertà del pontefice
di comunicare con i cattolici di tutto il mondo e l'immunità diplomatica per
gli ambasciatori stranieri accreditati presso
al pontefice si assegnava un appannaggio annuo di tre milioni;
lo Stato, nei riguardi della Chiesa, pur rinunciando ad alcune armi giurisdizionali, non rinunciava a quelle che gli permettevano di accordare o meno il consenso alla nomina dei vescovi nelle diverse diocesi e alla pubblicazione degli atti ecclesiastici;
per i beni del clero era previsto un sistema di amministrazione, cui avrebbero dovuto partecipare anche i laici, ma che non venne mai attuato.
Né Pio IX né i suoi successori, però, vollero riconoscere la legge delle guarentigie, considerandole un atto unilaterale dello stato, anzi di uno stato illegittimo ed usurpatore.
Questo fatto rese inattuabile una conciliazione tra le
masse cattoliche e i nuovi ordinamenti nazionali e liberali. Si giunse nel 1874
al divieto fatto ai cattolici di partecipare alla elezioni politiche. Con il
cosiddetto non éxpedit ("non conviene")
Frattanto, lo stato continuava a trovarsi alle prese con gravi problemi sociali irrisolti e con una serie di nuove rivolte di contadini. Tali rivolte erano per lo più collegate alla politica fiscale dei governi, alle prese con un pauroso deficit, che le spese belliche avevano contribuito ad aggravare.
Il problema del deficit fu l'assillo costante del più esperto ministro delle Finanze dei governi di destra: Quintino Sella. Allo scopo di rimpinguare le finanze dello stato egli fece adottare due tipi di provvedimenti: l'introduzione dell'imposta sul macinato e la vendita dei beni ecclesiastici e demaniali.
Il primo provvedimento colpì in particolare le popolazioni più povere e contadine, grandi consumatici di pane, pasta e polenta. Approvata nel 1868 ed entrata in vigore nel 1869, la nuova tassa provocò subito un'ondata di vere e proprie insurrezioni in quasi tutto il paese. Contro i rivoltosi, sorti talvolta al grido "viva il Papa e viva gli Austriaci", fu impiegato ancora una volta l'esercito, con centinaia di morti e feriti e migliaia di arresti. Il governo però tenne duro e la tassa dette molti introiti.
La vendita di beni comunali e demaniali, accompagnata da quella di beni di enti ecclesiastici, non dette invece i risultati sperati e si risolse, di fatto, a scapito delle popolazioni rurali, che intendeva invece favorire.
Infatti sia le terre comunali e demaniali, benché mal coltivate e poco redditizie, offrivano qualche risorsa alle popolazioni contadine, ad esempio per il pascolo e per fare legna.
Le numerose leggi culminate nel biennio 1866-1867 con cui lo stato sciolse miglia di enti ecclesiastici e congregazioni religiose, confiscandone i beni, finirono per arricchire i possedimenti dei grandi proprietari. Questo perché, con la preoccupazione di realizzare al più presto introiti, le autorità statali misero all'asta le estesissime terre incamerate, senza curarsi di fornire ai piccoli coltivatori i crediti per acquistare i lotti in vendita. Furono i latifondisti, i finanzieri e gli uomini d'affari ad approfittare della situazione. L'auspicata distribuzione delle terre non si ebbe e il problema contadino rimase irrisolto.
Proprio nel 1876, l'anno in cui si ottenne il pareggio del bilancio statale, la destra fu travolta da un ultimo scontro tra gruppi contrapposti, intorno al problema della nazionalizzazione delle ferrovie. Gli oppositori del progetto uscirono dalla maggioranza, fecero cadere il governo e aprirono la strada all'avvento della sinistra al potere.
Appunti su: |
|
Appunti Aeronautica | |
Tesine Astronomia cosmologia | |
Lezioni Architettura | |