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La crisi americana del 9
Le varie fasi della crisi
Le varie fasi della crisi americana del 1929 sono le seguenti:
Nei primi anni Venti l'economia americana è in espansione: le industrie chiedono prestiti alle banche, assumono manodopera, vendono prodotti durevoli, hanno buoni profitti. Di conseguenza in borsa le azioni delle industrie aumentano di valore e quindi permettono buo- ni margini di guadagno ai loro possessori. L economia conosce uno straordinario circolo virtuoso, che si autoalimenta.
Insomma,
se le azioni sono richieste, il prezzo di vendita si alza e il margine di profitto aumenta;
le azioni valgono più di quanto la borsa e il mercato giustifichi.
Industrie, banche e acquirenti di azioni si a- spettano ottimisticamente che le cose conti- nuino così indefinitamente. In borsa si gioca al rialzo e si fa speculazione: si comperano tito- li, si aspetta che il loro valore salga, poi si ri- vendono con un buon guadagno. L aspetta- tiva di guadagno aumenta.
Verso la fine del decennio la situazione eco- nomica però cambia: le industrie hanno diffi- coltà a vendere i loro prodotti durevoli, per- ché il mercato si sta ormai saturando. Ciò si ripercuote in borsa. A settembre 1929 i titoli raggiungono le quotazioni più alte; ma nelle settimane successive iniziano ad oscillare: la certezza che il loro valore aumenti e quindi la certezza di guadagni facili e sicuri si affievoli- sce. L'aspettativa di guadagno diminuisce.
All'improvviso la situazione precipita. In bor- sa qualcuno inizia a vendere i titoli, poiché vede segni di crisi: i margini di guadagno si riducono, perciò preferisce vendere con buon guadagno, piuttosto che rischiare di pareggiare o di vendere in perdita. Qualcun altro, che ha fatto lo stesso ragionamento, lo segue. In tal modo coloro che vogliono vendere le azioni aumentano. Perciò in presenza di molti vendi- tori e di pochi acquirenti il valore delle azioni si abbassa. Anzi si abbassa sempre più.
In borsa il panico si diffonde. Gli azionisti, per vendere le azioni e recuperare in tutto o in par- te le spese sostenute, iniziano a vendere a prezzo d'acquisto e poi sotto costo. Ma ciò non basta.
Infine tutti vogliono vendere, nessuno vuole comperare. Le azioni diventano carta straccia, prive di qualsiasi valore. Il 24 ottobre, il gio- vedì nero , sono vendute 13 milioni di azioni; il 29 ottobre ne sono vendute 16 milioni.
Insomma,
se le azioni non sono richieste, il prezzo di vendita si abbassa e il margine di profitto diminuisce se scende sotto il prezzo d'ac- quisto si vende in perdita ;
le azioni valgono meno di quanto la borsa e il mercato giustifichi.
La corsa alle vendite provoca il collasso della borsa, distruggendo i sogni di ricchezza degli azionisti. Il mercato si assesta soltanto a metà novembre quando il valore delle azioni è di- mezzato. Ma ormai l'effetto domino è inne- scato e si espande all'intera economia, dando luogo a un circolo vizioso inarrestabile e che si autoalimenta:
le banche chiedono alle industrie il denaro prestato, ma le industrie non possono restituir- lo, perché le vendite e i conseguenti profitti stanno precipitando verso zero;
per risolvere il problema del debito con le banche, le industrie usano il denaro disponi- bile, riducono o azzerano gli investimenti, ri- ducono la produzione, licenziano gli operai;
gli operai, che sono licenziati o che cor- rono il rischio di essere licenziati, riducono i loro acquisti, fanno diminuire la richiesta di prodotti, inducono le industrie a ridurre ulte- riormente la produzione; e corrono in banca a prelevare denaro depositato, che serve loro per vivere;
le banche non possono esigere i crediti dalle industrie né soddisfare le richieste dei lo- ro clienti, che si sono precipitati in numero troppo elevato a ritirare i loro risparmi.
A questo punto il circolo vizioso riprende, si autoalimenta e si espande a tutte le banche, a tutte le imprese, a tutti gli operai. Insomma a tutta l'economia. È l'effetto domino: la cadu- ta di una tessera coinvolge tutte le altre tesse- re. L'economia è in contrazione.
La situazione che si crea è la seguente:
le banche non riescono a recuperare i cre- diti dalle industrie, né riescono a restituire i risparmi ai loro clienti, perciò falliscono;
le industrie non possono restituire il dena- ro alle banche né possono continuare la pro- duzione, che resterebbe invenduta; perciò li- cenziano gli operai e chiudono;
gli operai licenziati diventano disoccupati a tempo indeterminato, spendono in breve tempo i risparmi depositati in banca che sono riusciti a ritirare; e diventano una marea di 14 milioni, che pesa sulle casse dello Stato.
L'allargamento della crisi economica all Europa e al resto del mondo
Gli interventi del governo americano fanno peggiorare la situazione:
Le banche e il governo americano ritirano gli investimenti che avevano fatto in Europa (e di cui l'Europa aveva bisogno per la ricostru- zione dopo la prima guerra mondiale), perché ne hanno bisogno essi stessi.
Per restituire i prestiti, l Europa deve usa- re i capitali, perciò deve bloccare la ricostru- zione e deve licenziare gli operai. Ci sono 15 milioni di disoccupati. In tal modo è coinvolta nella crisi americana.
Per difendere la produzione nazionale, le banche e il governo americano alzano le bar- riere doganali all'importazione di prodotti e- steri, così coinvolgono nella crisi anche gli al- tri paesi che fino a quel momento ne erano fuori. Gli altri Stati fanno e sono costretti a fa- re altrettanto. In tal modo gli scambi commer- ciali diminuiscono, con danno di tutti.
In questo modo la crisi americana si espande come un'epidemia a tutta l'economia interna- zionale, poiché ad essa era collegata tutta l'e- conomia internazionale. La crisi diventa mon- diale: i commerci internazionali si riducono a valori inferiori a quelli precedenti la prima guerra mondiale.
Governo, Stato, banche e industrie applicano meccanicamente e con il paraocchi le ricette indicate dall'economia tradizionale per affron- tare la crisi: licenziare e ridurre le spese. In questo modo ottengono il risultato opposto di allargare la disoccupazione e di ridurre i con- sumi, con danno delle aziende che non riusci- vano a vendere e degli operai che diventavano disoccupati e affamati. Il problema non era quello di ridurre l'offerta di beni che poi re- stavano invenduti; bensì quello, del tutto op- posto, di far riprendere la domanda di beni di consumo, magari diversificando anche l'offer- ta di tali beni.
La ripresa americana dopo il 1932
La ripresa inizia soltanto con il nuovo presi- dente, il democratico Franklin D. Roosevelt, eletto nel novembre 19 2, che mette in atto la teoria che J.M. Keynes pubblica nel 1936:
lo Stato fa fare enormi lavori pubblici (strade, infrastrutture, la bonifica della valle del Tennessee ecc.), finanziandoli con il debi- to pubblico; così lo Stato abbandona il dogma classico del pareggio del bilancio;
in questo modo si riavvia l'economia, si dà lavoro agli operai, che così non hanno più bi- sogno di sussidi statali e che possono ripren- dere a spendere, stimolano la domanda di pro- dotti, fanno riaprire o fanno sorgere nuove a- ziende, che chiedono investimenti alle banche;
una volta riavviata l'economia, lo Stato re- cuperare gli investimenti con le tasse, estingue il debito pubblico e ritorna al pareggio del bi- lancio; le nuove infrastrutture diventano poi il punto di partenza per un economia più funzio- nale e per un nuovo sviluppo economico;
è regolamentata diversamente anche la borsa, che blocca la compravendita di azioni in presenza di un eccessivo ribasso e che può anche essere chiusa, in attesa che i mercati a- zionari ritornino alla normalit .
Insomma lo Stato interviene direttamente nel- l'economia. In tal modo è abbattuto il dogma dell'economia liberale secondo cui lo Stato non deve intervenire nell'economia (se vi en- trava, era chiaro che avrebbe fatto una concor- renza a cui le industrie non potevano resiste- re). Anzi con le sue enormi commesse lo Stato può costituire normalmente il volano dell'eco- nomia di ogni paese. Ed è ciò che succede.
La politica di Roosevelt incontra fortissime opposizioni politiche ed economiche. La corte suprema boccia alcuni suoi provvedimenti. Ma ormai la ripresa si era avviata.
Per altro la piena occupazione si ha soltanto durante la guerra: i soldati sono al fronte, le fabbriche lavorano a pieno ritmo per produrre armi e munizioni che, consumate, devono ra- pidamente essere sostituite.
In Europa la Germania inizia gli investimenti militari con la salita di Hitler al potere (1933). L Italia è coinvolta in modo marginale nella crisi americana, poiché presenta ancora una economia agricola e perché pratica l autarchia (si consumano soltanto i beni prodotti dal pae- se e si cerca l'autosufficienza). E, comunque, sotto il Fascismo nasce l IRI, l Istituto per la Ricostruzione Industriale, con cui lo Stato in- terviene nell'economia per prevenire crisi ed evitare di dipendere dall'estero nei settori stra- tegici. Anche in Europa quindi lo Stato entra nell'economia in modo massiccio.
Tutto questo succede nei paesi ad economia liberale. In quegli stessi anni l'URSS sotto la guida di Stalin inizia l'economia socialista o pianificata: lo Stato avoca a sé ogni decisione economica e controlla tutta l'economia. Così in pochi anni conosce l'industrializzazione a marce forzate, mentre il mondo occidentale sta attraversando la crisi economica.
Al di là delle apparenze, non c'è una vera con- trapposizione tra l'economia classica, incen- trata sul pareggio del bilancio, e la teoria anti- crisi (o dell'intervento dello Stato) di Keynes: l'economista americano cercava soltanto di rendere più flessibile l'economia classica, sug- gerendo di infrangere il pareggio del bilancio in un momento di crisi e proprio per superare la crisi. Passato questo momento grazie agli investimenti fatti ricorrendo al debito pubbli- co, con la ripresa economica si ritornava alla tesi del pareggio del bilancio.
Gli economisti applaudo a Keynes come a co- lui che ha avuto un lampo di genio e che ha aperto nuove strade teoriche alla teoria eco- nomica e nuove possibilità di manovra all'in- tervento dello Stato. Economisti e storici dell'economia invece sono ben più ignoranti di quella pratica dell'ignoranza (oltre che di castit , povertà e umilt ) di cui faceva professione san Francesco d Assisi. Le piramidi d'Egitto IV millennio a.C.) sono lavori pubblici. Le chiese costruite a partire dal Mille sono lavori pubblici. E anche la laica Serenissima Repubblica di Venezia non disdegnava i lavori pubblici della Chiesa, finanziati con le offerte dei fedeli: Venezia è strapiena di chiese. La costruzione di molte chiese durava per secoli e dava lavoro a una quantità sterminata di operai: dai muratori agli scalpellini, dai pittori agli scultori, dagli architetti agli urbanisti.
Per altro gli economisti non colgono il rischio di un costante e massiccio intervento statale nell'economia: una volta che avesse messo le mani nell'economia, ben inteso per motivi no- bilissimi e di interesse generale, lo Stato a- vrebbe fatto di tutto per restarci. E per usare gli introiti del debito pubblico. I vantaggi - per lui, ma non per la società - sono enormi: il governo o l'intera classe politica mette le ma- ni e gestisce a proprio vantaggio le nuove pos- sibilità di spesa create dal debito pubblico. I vantaggi sono molteplici: il governo può rega- lare pensioni o elevati tassi di interesse ai suoi elettori o trasferire denaro da una classe socia- le all'altra. E può nascondere il debito pubbli- co in tanti modi: tacendolo o nelle maglie del- l'amministrazione statale.
In tal modo lo Stato può attirare capitali e di- stogliere dal mercato ingenti risorse economi- che, poiché può garantire interessi più alti e poiché è un debitore sicuramente solvente. Il peso del debito pubblico è spostato al futuro e fatto cadere sulle nuove generazioni, costrette
a pagare i vantaggi della ripresa economica goduti dalle generazioni precedenti. In Italia la voragine del debito pubblico (oltre 1.600 miliardi di euro), accumulato dopo il
1985 dai governi socialisti (e democristiani), sta provocando lo smantellamento totale del Welfare State (2006).
Commento
Gli storici presentano i fatti ma si dimenticano di esplicarli. Nel caso della crisi del 1929 essi non si chiedono né sottolineano questo problema: gli USA sono o non sono responsabili del crollo della borsa e delle conseguenze di tale crollo? Nel primo caso devono pagare i danni che hanno provocato agli altri Stati e al resto del mondo. Nel secondo caso no. Ben inteso, il crollo della borsa provoca negli USA 14 milioni di disoccupati davanti ai quali si può dire che si tratta di una questione politica interna tra elettori e loro rappresentanti politici. La questione non si può porre negli stessi termini tra gli SUA e l'Europa, dove il ritiro dei capitali investiti e il ricorso americano ai dazi doganali provoca 5 milioni di disoccupati. Lo stesso discorso si deve fare per il resto del mondo. Tutti costoro sono stati indubbiamente danneggiati, perciò hanno il diritto" di intentare causa di risarcimento contro gli USA, colpevoli di due reati:
a) hanno governato in modo irresponsabile la loro economia;
b) vogliono essere il modello e il leader politico e morale del mondo intero; ma poi, quando le cose vanno male, piantano il mondo in asso e pensano ai loro interessi (E faranno questo gioco anche nei decenni successivi).
La classe politica e i governi americani non dimostrano di avere quella levatura morale che deve avere chi vuol fare il leader o vuole gui- dare il mondo. Le mutande della Levinski per il presidente Clinton e lo scandalo Enron (o le spiate spaziali) e le elezioni dubbie del 2001 per il presidente Bush ne sono un esempio. Ed anche gli scandali degli ultimi anni. Per non parlare dello scandalo che ha coinvolto il pre- sidente Nixon (il Watergate e il turpiloquio, 1974) e la propensione all'alcol di alcuni e- sponenti della famiglia Kennedy e di Bush jr. da giovane.
Europa 1917-1932: la crisi delle democrazie e il sorgere di regimi "totalitari"
La prima guerra mondiale lascia tutti i pro- blemi aperti ed anzi li aggrava. La Germania, ritenuta dai vincitori l'unica colpevole della guerra, deve pagare riparazioni enormi. Inoltre, per prevenire tentazioni militaristiche, è smilitarizzata.
Negli anni Venti la ripresa in tutta Europa è lenta, mentre gli USA godono di una grande espansione economica. Verso la fine del de- cennio anche gli Stati europei conoscono una certa ripresa, drammaticamente interrotta nel
1929 dal crollo della borsa di Wall Street, che innesca ovunque una gravissima recessione.
La Francia e soprattutto la Gran Bretagna resistono al crollo della borsa americana. Ne- gli anni Trenta la Francia però ha governi di coalizione estremamente instabili.
L'Italia ha un dopoguerra confuso e caotico. I governi liberali sono deboli e inetti. Nel 1919 nasce il Fascismo, per bastonare prima i brac- cianti e poi gli operai. Esso gode dell'interes- sata benevolenza del governo liberale, poiché manganella i socialisti; e si trasforma rapida- mente in un partito capace di sfruttare la situa- zione e di conquistare il potere. Nell'ottobre
1922 Mussolini con la marcia su Roma ottie- ne l'incarico di formare un governo di coali- zione; nel 1924 stravince le elezioni; nel 1925 mette fuori legge i partiti, l'unico modo per por fine ai disordini e ai conflitti sociali. Giun- to al potere in un modo così rapido e impreve- dibile, egli si dedica a consolidare quel con- senso che poteva essere soltanto momentaneo, in quanto provocato nella popolazione dalla stanchezza di sette anni di crisi economica (di- soccupazione e inflazione), conflitti e disordi- ni sociali e governi liberali inetti, oltre che non rappresentativi della popolazione. E trasforma imprevedibilmente il suo governo in un nuovo regime, incentrato sulla sua persona e caratte- rizzato dal coinvolgimento costante della po- polazione nelle manifestazioni pubbliche. Egli diventa il capo carismatico della nazione.
A questo proposito gli storici parlano di regi- me totalitario. Ma si affrettano a precisare che il Fascismo è un regime totalitario imperfetto, perché Mussolini subisce la concorrenza della Chiesa, che ha il monopolio dell'educazione dei giovani; e della monarchia, a cui è fedele l'esercito. Sùbito dopo però dimenticano quel che hanno appena detto e parlano di Italia fa- scista o di ventennio fascista. D'altra parte non hanno mai condannato il comportamento dei partiti italiani, responsabili del caos istitu- zionale dal 1918 al 1924.
Nel 1929 il Fascismo consegue uno dei risul- tati maggiori: la firma dei Patti lateranensi con la Chiesa cattolica, con cui si pone fine alla questione romana (1870 1929). I cattolici e la Chiesa sono riconoscenti. Per di più Mussolini può fare questa mossa senza esserne danneg- giato: i governi precedenti non l'avevano fatta perché la pace tra Stato e Chiesa avrebbe fatto sorgere un partito cattolico che li avrebbe scal- zati dal potere e mandati a casa.
L Italia è soltanto parzialmente sfiorata dalla crisi americana del 19 9, perché è un paese agricolo e perché Mussolini avvia una politica autarchica (=il paese consuma ciò che produ- ce per non dipendere dall'estero e da turbolen- ze economiche esterne) che prevede ampi in- terventi dello Stato nell'economia e che è raf- forzata negli anni Trenta IRI, 1933).
La Germania conosce una spaventosa infla- zione dal 1919 al 1924 (l'indice tende all'in- finito, perciò i salari sono pagati giornalmen- te). La situazione economica si stabilizza e migliora dal 1925 in poi; ma alla fine del de- cennio precipita a causa del crollo della borsa americana e resta drammatica fino al 1932: i disoccupati sono divenuti 6 milioni e coinvol- gono oltre la metà delle famiglie tedesche. La spaventosa crisi, provocata dal crollo della borsa americana, spinge la popolazione ad ab- bandonare i partiti tradizionali, che si sono dimostrati incapaci di fronteggiarla, e a votare Hitler e il suo programma. Così il Partito Na- zionalsocialista, che nel 1925 ha soltanto il 2,5% dei voti, in breve tempo diventa il primo partito tedesco. Nel 1932 33 Hitler va demo- craticamente al potere, raccoglie nelle sue ma- ni tutte le maggiori cariche dello Stato ed eli- mina le opposizioni interne ed esterne al parti- to. Nasce il Terzo Reich. Per far fronte alla crisi economica, Hitler inizia il riarmo dell'e- sercito tedesco e una politica estera aggressi- va. Intende attuare la Grande Germania, che comprende tutte le popolazioni di razza tede- sca. Annette l'Austria ( 938) e cerca di annet- tere anche tutti i territori in cui la popolazione tedesca è predominante (Danzica, zone della Cecoslovacchia).
Il Nazionalsocialismo è un regime totalita- rio" che, come il Fascismo italiano, fa perno intorno alla figura carismatica di Hitler. Il termine, coniato dagli storici nei decenni suc- cessivi, indica un regime in cui l'individuo è inserito nello Stato, perché soltanto nello Stato egli si può realizzare. Questo è il senso delle grandi manifestazioni pubbliche a cui il citta- dino è chiamato a partecipare. Il termine peral- tro ha una connotazione negativa indebita, poiché è fatto diventare sinonimo di assenza di libertà e di dittatura in realtà questi regimi negano che ci possa essere libertà fuori dello Stato); e perciò è contrapposto al termine di democrazia, che diventa sinonimo di libertà e di governo quale espressione della volontà popolare. Ma nelle democrazie reali i cittadi- ni eleggono governanti che poi non realizzano i programmi per cui sono stati votati ed esisto- no forze sociali private capaci di interferire pesantemente con lo Stato. Spesso poi la delega è una specie di cambiale in bianco, poiché i governanti, una volta insediatisi al potere, i- gnorano la volontà degli elettori e cercano in tutti i modi di restare al potere il più a lungo possibile.
Ad esempio i governi italiani dal 1861 al 1924 rappresentano gli interessi di una parte assai ristretta della società (le classi nobiliari o la minuscola classe economica che vota il partito liberale) e disattendono gli interessi della mag- gioranza assoluta della popolazione che non è nemmeno rappresentata in parlamento. Tale maggioranza, fatta di socialisti e di cattolici, fa sentire parzialmente il suo peso soltanto agli inizi del Novecento, ma non può far valere il numero dei suoi potenziali elettori a causa del- le leggi elettorali che la penalizzano pesante- mente.
Peraltro (ma gli storici in genere lo ignorano) i regimi totalitari" erano già stati teorizzati dall Idealismo classico tedesco Fichte, Schel- ling, Hegel) (1796-183 ) e dal Neoidealismo italiano (Gentile (190 1943). Inoltre essi hanno un precedente storico nel mondo greco e romano, dove il cittadino si sentiva realizza- to soltanto dedicandosi alla politica e vivendo nell agorà o nel foro. È noto poi l'apologo di Menenio Agrippa, che per convincer la plebe a ritornare a Roma paragona le classi sociali agli organi del corpo umano: il corpo funziona cor- rettamente soltanto se ogni organo svolge la sua funzione e se collabora con gli altri organi. Nel Medio Evo la società organica era costi- tuita da tre ordini, ognuno con funzioni speci- fiche: i bellatores che combattevano, gli oran- tes che pregavano, i laborantes che lavorava- no.
Nel caso di Rousseau, il pedagogista che ha maggiormente condizionato la pedagogia dal
1760 in poi, si deve anzi parlare di democrazia totalitaria in cui una ristretta schiera di gover- nanti (la volontà generale) capisce gli interessi della società meglio degli stessi governati (la volontà di tutti). Questa teoria è stata recepita tra gli altri da Marx ed è confluita nel Comu- nismo, secondo il quale la volontà generale si incarna nelle avanguardie o nelle lite, e non coincide affatto con la volontà di tutti, cioè con la volontà della stragrande maggioranza dei cittadini.
L'ignoranza dei precedenti storici dei regimi totalitari" ha tuttavia la funzione (e lo scopo interessato) di presentare tali regimi come il Male assoluto che sorge all'improvviso dal nulla e che si contrappone al Bene assoluto, la democrazia ( Francia, Gran Bretagna e poi USA), che invece ha una lunga tradizione sto- rica (ma non viene detto quale).
Un'altra dimenticanza interessata riguarda le cause che hanno permesso a questi regimi di sorgere e consolidarsi: in Italia il disfacimento ormai da sette anni dello Stato liberale; in Ger- mania la pace ingiusta imposta dai regimi democratici Francia, Gran Bretagna, USA) vincitori della prima guerra mondiale, l infla- zione infinita del 1923 4 e poi i 6 milioni di disoccupati provocati dal crollo della borsa di Wall Street negli USA democratici.
Sia Mussolini sia Hitler vanno al potere in modo democratico (i brogli elettorali del 1924 non diminuiscono gli ampli consensi elettorali ottenuti dalla coalizione guidata da Mussolini; Hitler ottiene consensi grazie ai programmi elettorali): l'elettorato li vota ed essi sanno poi mantenere il consenso e rafforzare il potere. I risultati e i consensi che ottengono sono legati a tre elementi: a) si presentano come capi ca- rismatici in cui la nazione si identifica positi- vamente; b) si dimostrano capaci di risolvere i problemi economici del paese; c) fanno della popolazione la protagonista di imponenti ma- nifestazioni pubbliche. Mai i regimi democra- tici avevano prestato una tale attenzione alle classi meno abbienti e alla maggioranza della popolazione: appena andati al potere, i partiti facevano i loro interessi e dimenticavano le promette e la popolazione.
I regimi totalitari" cercano di aggregare la popolazione puntando sull'appartenenza alla nazione e individuando nemici interni (ad esempio gli ebrei, le minoranze, coloro che hanno tradito la nazione, gli opportunisti ecc.) ed esterni (ad esempio i paesi ricchi o pluto- cratici per il Fascismo; i paesi che hanno di- strutto e punito con una pace ingiusta la Ger- mania per il Nazionalsocialismo). Nello stesso tempo controllano la stampa e reprimono i dissensi. E da sempre il sentimento di apparte- nenza al clan, alla gens o alla natio (impro- priamente e spregevolmente tradotta con raz- za) o a una stessa religione avevano cementato o erano stati usati per cementare gli individui di un territorio.
La stragrande maggioranza della popolazione risponde positivamente ai regimi totalitari , perché per la prima volta è effettivamente e si sente protagonista della vita pubblica; poi per- ché vede risolta la crisi economica provocata dai regimi democratici; infine perché ha indi- viduato i nemici interni ed esterni - veri o pre- sunti - che sono responsabili di tale crisi.
I regimi totalitari" che sorgono negli anni Venti e Trenta sono quindi una risposta politi- ca ai paesi e ai regimi così detti democratici, costantemente dilaniati dagli scontri tra i nu- merosi partiti presenti sulla scena politica. Es- si perciò si dovrebbero più correttamente chia- mare non regimi democratici ma regimi parti- tocratrici. L'unica eccezione è la Gran Breta- gna, dove maggioranza e opposizione si alternano al potere; e tutti i cittadini contri- buenti sono rappresentati in parlamento, esclu- si ben inteso i sudditi delle colonie.
L URSS sorge con la rivoluzione bolscevica che porta alla dissoluzione l'impero zarista (1917) e si prepara a costruire il primo Stato operaio della storia. Il regime si consolida contro le armate bianche inviate dai governi europei e, date le sue premesse culturali e po- litiche (Rousseau, Marx e la rivoluzione prole- taria), diventa inevitabilmente totalitario: lo Stato gestisce la formazione e l educazione dei giovani, pianifica l'economia e combatte la Chiesa.
Peraltro l'accusa e la condanna di essere un regime totalitario si stempera in modo consi- derevole nel secondo dopoguerra, poiché l'URSS , con gli USA, uno degli effettivi vincitori della seconda guerra mondiale. E, com'è noto, i vincitori hanno sempre ragione e sono il Bene assoluto, i vinti hanno sempre torto e sono il Male assoluto.
Il regime attua una industrializzazione a tappe forzate, che sembra destinata al successo. Pe- raltro riprende la politica estera espansionisti- ca del regime precedente. Lo Stato pianifica l'economia, mantiene bassa la dipendenza dal- le economie straniere, perciò non è coinvolto dalla crisi di Wall Street, che provoca il col- lasso dell'economia europea e mondiale. In questi anni anzi è visibile il contrasto tra eco- nomia sovietica in espansione ed economia capitalistica disastrata, tanto che sembrava possibile che il socialismo scavalcasse il capi- talismo.
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