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Impero - L'Europa tra 1200 e 1300




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Impero

L'Europa tra 1200 e 1300


L'imperatore Enrico VI, figlio di Federico Barbarossa, ha sposato Costanza d'Altavilla, erede del trono normanno di Sicilia. L'impero comprende le terre tedesche e le terre sici­liane. Improvvisamente, all'età di 32 anni, nel 1197, Enrico VI muore. L'erede al trono, suo fi­glio Federico, non ha che 3 anni, cosicché l'impero non ha più un sovrano in grado di governare.

L'erede vive in Sicilia; in Germania il trono è vacante.

Innocenzo III, il papa, vede l'effettiva possibilità di controllare l'impero:

da un lato offre la sua protezione alla madre di Federico, Costanza d'Altavilla vedova di Enrico VI, la quale riconosce al pontefice la sovranità sui domini normanni in Sicilia, ottenendo in cambio, nel 1198, l'incoronazione di Federico a re di Sicilia;

dall'altro lato appoggia in Germania il guelfo Ottone IV di Brunswick, in lotta per la Corona imperiale contro Filippo di Svevia, l'ultimo dei cinque figli di Federico Barbarossa.

Accade, però, un imprevisto: Ottone IV, vicinissimo al potere, disconosce l'autorità di Innocen­zo III, e mostra di voler governare senza la tutela papale; Innocenzo III risponde, nel 1210, con la scomunica, e ora appoggia Federico, ancora molto giovane, che spera di poter mano­vrare con facilità. Il disegno riesce: nel 1212 Federico è eletto re di Germania.

La strada sembra spianata con la vittoria, nel 1214, sul campo di battaglia di Bouvines, delle armate di Filippo Il Augusto re di Francia e di Federico di Svevia contro Ottone IV e il suo alleato Giovanni Senza Terra, re d'Inghilterra. Federico di Svevia è eletto imperatore, promettendo a Innocenzo III di non riunire mai la Corona imperiale alla Corona di Sicilia. In que­sto modo si realizza uno degli obiettivi primi della Chiesa di Roma: suddividere, frammentare il potere delle varie monarchie, così da poterle controllare, con maggiori possibilità di successo.

Nel 1216 Innocenzo III muore.

Sino a quando è sotto stretta tutela di Innocenzo III, il giovane Federico di Svevia mostra reverenza e massima considerazione per il mondo ecclesiastico, di cui peraltro ha ricevuto sostegno e corona regale; gli alti funzionari dell'impero, in Germania, lo chiamano, con disprezzo «re dei preti».

Alla morte di Innocenzo III, nel 1216, quella docilità e quell'acquiescenza cessano del tutto. Federico ha di fronte a sé due ostacoli. È vincolato da una promessa solenne: ha giurato che mai la Corona di Sicilia si sarebbe riunita con la suprema carica imperiale. Al confini del suo regno normanno siciliano preme un Papato che, se anche non più impersonato da un uomo della statura di Innocenzo III, è pur sempre tra le massime potenze del tempo.

Il giovane sovrano si muove lungo alcune direttrici. Fa eleggere il proprio figlio, Enrico, re di Germania, aggirando così l'ostacolo dell'unico centro di potere, controllando di fatto l'impero; per ottenere ciò, mostra grande favore verso l'episcopato tedesco, rinunziando per un lato a molti dei suoi antichi privilegi, ma ottenendo anche un sottile, importante successo:

le sue concessioni al clero tedesco, e l'appoggio che ne ottiene, gli servono da contraltare,  gli sono utili per parare l'eventuale sospetto di Roma:

ribadisce al papa che l'unione della Sicilia all'impero, fino al raggiungimento della maggiore età del figlio Enrico, è transitoria e personale, non trasmissibile;

si impegna a partire in soccorso della quinta Crociata, che sotto la guida di Leopoldo d'Austria e Giovanni di Brienne non riesce a ottenere alcun risultato;

assicura il proprio intervento nella lotta contro gli eretici;

conferma l'esenzione da molti tributi e molte imposte su beni e persone in vari modi legati alla Chiesa di Roma.

Il calcolo politico per proteggersi le spalle dall'invadenza e dai sospetti del mondo cristia­no è molto evidente. Federico non è per nulla l'uomo pio e devoto che tenta di apparire: è scettico, totalmente ateo, imbevuto e partecipe della cultura araba (sarà chiamato «sultano battezzato»), aperto alla scienza. È descritto come individuo incostante e vizioso, intrigante e mentitore, ma probabilmente sono voci esagerate, messe in circolazione dai suoi nemici: il giudizio sulla sua vita privata scandalosa nasce da abitudini, gesti, letture, comportamenti anomali; scrive versi d'amore, è scrittore acuto e profondo, fortemente aperto agli estremi va­lori laici del libero pensiero (è probabilmente di sua mano un libello dissacrante e irridente dedicato ai «tre grandi impostori», Mosè, Gesù, Maometto). È persona affascinante, coltissima, che si circonda di scienziati e letterati, che apre la sua corte alle più varie influenze, ora del mondo francese di lingua provenzale, ora del mondo islamico che ben conosce; a lui si deve il recupero di straordinari testi del pensiero greco antico. Coloro che lo hanno conosciuto ne parlano a volte con terrore, per la crudeltà e ferocia che spesso dimostra, ora con reverenza e affetto, per lo spirito di tolleranza che lo guida nei suoi più delicati atti di governo. Ancora quando è vivo e regna, è noto tutta Europa con il nome di «Stupor mundi», lo stupore del mondo; e un insospettato testimone, uno scrittore arabo che lo ha incontrato e frequentato, scrive: «Non si crederebbe che in questo uomo abbastanza sgraziato, di statura inferiore alla media, a volte claudicante, spesso acciac­cato, si trovi una tale intelligenza, una tale comprensione dei problemi del mondo, una così grande carica di umanità, sapienza, amabilità». Ha scambi di cultura e cortesia con ogni parte del mondo: tra i doni che testimoniano gli scambi cosmopoliti di sapienza e di politica vi è lo splendido planetario con orologio mandatogli dal sultano d'Egitto, che riceve in cambio un orso polare bianco catturato nel gelido Nord. Nelle sue lettere, indirizzate ai più grandi nomi del tempo, da Michele Scoto, notissimo traduttore di testi aristotelici e arabi, a Giuda ben Salomon mistico e mago, al sultano al-Kamili, al califfo del Marocco, al poeta Pier delle Vigne, pone domande sui più svariati argomenti.

L'intesa con la Chiesa si rompe nel 1227, di fronte a un ennesimo rifiuto di Federico di par­tire per la Crociata; papa Gregorio IX (1227-41) lancia la scomunica. Di fronte a questo gesto estremo, Federico parte per l'Oriente, e conclude la spedizione (1228-30) in modi estrema­mente efficaci, ma totalmente inusuali: non combatte, ma usa le sottili doti della diplomazia, negozia un compromesso con il sultano d'Egitto, e ottiene il libero accesso dei cristiani al San­to Sepolcro di Gerusalemme. Il 17 marzo 1229 entra in Gerusalemme e nella basilica del Santo Sepolcro cinge da sé la corona regia. L'accordo non piace a Roma, che accusa Federico di es­sere sceso a patti con gli infedeli, di aver condotto la trattativa in modi troppo personali, senza consultare l'autorità ecclesiastica. Non solo: papa Gregorio IX manda le sue truppe verso la Sicilia, approfittando dell'assenza di Federico; ma l'imperatore ritorna a tappe forzate dalla Terrasanta, e sconfigge facilmente le truppe pontificie; il papa è costretto a ritirare la scomu­nica e a firmare un accordo (pace di San Germano, 1230).

Federico ora pone la massima attenzione a organizzare i possedimenti che direttamente controlla, il regno normanno svevo di Sicilia:

restaura con durezza e inflessibilità la propria autorità, piegando l'aristocrazia riottosa, distruggendo i castelli e le piazzeforti costruiti dai ba­roni;

recupera i beni e i diritti della Corona, abolendo le autonomie e i benefici che alcune città si sono presi;

riordina le finanze.

Accanto a sé ha giuristi, notai, uomini di governo di prim'or­dine, alcuni di formazione europea, altri educati nella grande cultura islamica.

Nel 1231 promulga, a Melfi, una nuova Costituzione (il Liber augustalis), totalmente imper­niata sul principio dell'assolutismo imperiale (si afferma che nella sua persona s'accentrano il potere di far leggi e il potere di eseguirle), totalmente chiusa a ogni rivendicazione cittadina, baronale, ecclesiastica: tutto il potere deve essere nelle mani del re, aiutato e sostenuto da un ristretto comitato, la Magna Curia, il Consiglio della Corona, di cui fanno parte pochi saggi, i quali a loro volta controllano una schiera di funzionari di grado meno elevato (tesorieri, giu­dici, esattori, notai) a cui si chiede assoluta fedeltà e onestà, pena le sanzioni più severe, sino alla condanna a morte. In una sintesi di grande respiro dottrinale si incontrano gli insegnamen­ti e le tradizioni del diritto imperiale romano (il sovrano assoluto come fonte della legge), il diritto canonico (il reato di lesa maestà è simile al reato di eresia), le consuetudini normanne (l'intransigente lotta contro il particolarismo feudale).

Federico riorganizza l'esercito e pone le basi per una politica di espansione verso l'Italia settentrionale. Per questo, ha assoluto bisogno di una finanza in ordine, di un sistema di tas­sazione che procuri un buon gettito. Lo Stato assume il controllo di alcuni prodotti di base come sale, rame, ferro, seta; crea una rete di imprese agricole di proprietà regia (le massariae regiae, una decisione che anticipa di secoli la politica economica che sarà tipica della Francia di fine Seicento, quando saranno istituite le manifatture reali, sotto il totale controllo della monarchia); introduce una moneta aurea, l'augustale, che diviene la base dei pagamenti e delle transazioni con le altre nazioni europee; riorganizza il sistema feudale, operando prelievi mol­to forti che rovinano le classi più deboli; fonda nuove città in Sicilia, Calabria, Abruzzo; per favorire la formazione del personale amministrativo destinato a servire lo Stato fonda, nel 1224, a Napoli, l'università.


Anche per Federico si presenta lo stesso problema che già ha dovuto affrontare il nonno, Federico Barbarossa: i Comuni, le libere città dell'Italia settentrionale, sono nominalmente sog­getti all'impero, di fatto sono indipendenti e hanno solide alleanze con il Papato. Ma rispetto alla situazione del tempo del Barbarossa vi è una forte novità: Enrico VII, figlio di Federico, a cui è stato affidato il regno di Germania, si allea con i Comuni contro il padre, ritenendo che quella politica esclusivamente siciliana danneggi l'impero e nuoccia alla Germania, lasciata in balia della più riottosa nobiltà. Federico ha una reazione di una durezza spietata: cattura il figlio, lo fa imprigionare; Enrico VII morirà suicida dopo qualche anno.

Federico sale al Nord, e muove guerra ai Comuni. Il primo scontro gli è favorevole: nel 1237, a Cortenuova, in Lombardia, grazie anche all'aiuto dei signori ghibellini, tra cui il veneto Ezzelino da Romano, sconfigge le forze comunali. Un successo che si rinnova dopo 4 anni, nella battaglia navale dell'Isola del Giglio, quando la flotta imperiale, guidata da Enzo, altro figlio di Federico, sconfigge i Genovesi, alleati del papa, che trasportano a Roma i vescovi francesi convocati da Gregorio IX per un Concilio che deponga l'odiato imperatore: la batta­glia ha esiti raccapriccianti, molti prelati annegano, molti sono catturati.

Il mondo politico italiano si divide. Una parte è a fianco dell'impero, un'altra è per il pon­tefice; i primi assumono il nome di Ghibellini, i secondi di Guelfi.

Gregorio IX muore nel 1241. Gli succede Innocenzo IV, con lo stesso programma antife­dericiano: nel 1245 scomunica l'imperatore, cerca di organizzare una coalizione che scenda in armi verso la Sicilia; un po' ovunque si accendono rivolte, cresce il malcontento contro Federico.

I Comuni insorgono e scendono di nuovo in campo contro le truppe svevo-normanne. Nel 1248 e nel 1249 Federico è sconfitto a Vittorio, presso Parma, e a Fossalta; suo figlio Enzo è fatto prigioniero e morirà in un carcere di Bologna.

Inaspettatamente, a 54 anni di età, il 13 dicembre 1250, Federico II muore.

La sua morte non porta all'immediata fine del suo regno siciliano. Restano solide le strutture amministrative, burocratiche, fiscali; resta intatta la fedeltà dei funzionari, ed è sottotono l'inquietudine baronale. La Corona passa, nel 1258, a Manfredi, figlio illegittimo di Federico II (che subito la Chiesa bolla come nato ex damtinato coitu, giovane coraggioso e pieno di fascino, amato dall'esercito, ben visto dall'aristocrazia.

Manfredi ripercorre la strada del padre. Accentua la vocazione mediterranea della propria politica, mette in secondo piano la Germania: sposa la figlia del re dell'Epiro, dà in moglie la propria figlia, Costanza, a Pietro III d'Aragona, si allea con Genova e Venezia. Si allea con le famiglie ghibelline, attacca i Comuni, non riesce a siglare una pace duratura con il pontefice. Il Papato gioca una carta audace, che soltanto pochi decenni prima non avrebbe potuto far valere, perché contraria ai tradizionali assetti del potere imperiale: riallacciandosi ai suoi privilegi e titoli più antichi di protettore del regno di Sicilia, e riandando anche a una scelta politica tipica della Santa Sede (quando si è minacciati da un potente, chiedere aiuto a un altro potente) offre, nel 1263, la Corona di Palermo a Carlo d'Angiò, signore di Provenza, fratello minore del re di Francia; Carlo accetta, e si impegna a versare, annualmente, un tributo molto consistente nelle casse della Chiesa di Roma (30 volte più alto di quello versato dagli Svevi), e a esentare il clero dal pagamento delle imposte.

Carlo d'Angiò ha già forti interessi in Italia, occupa da alcuni anni buona parte del Piemonte meridionale. Con il denaro dei banchieri francesi e fiorentini, a cui promette un generoso rimborso, gravato di interessi a usura, arma un grande esercito, e scende a sud, per affrontare le truppe sveve. La battaglia è a Benevento, nel 1266, e si conclude con la morte di Manfredi e la rotta delle sue truppe.

È la rovina e la fine della dinastia sveva in Italia meridionale: sono tenute in carcere a vita la moglie e la figlia di Manfredi, è catturato e decapitato (1268) il nipote Corradino, ragazzo di appena 15 anni. Carlo d'Angiò sposta ora la capitale da Palermo a Napoli, apre il regno alla speculazione delle grandi banche toscane (i Bardi, i Peruzzi, gli Acciaiuoli) a cui deve in qual­che modo rendere quel fiume di denaro che ha avuto per preparare la guerra.

Ma scatta ora lo stesso allarme che è scattato quando si è dovuto fronteggiare la potenza di Federico. Ora anche Carlo d'Angiò, che ha solidissimi legami con il sovrano di Francia (ne è il fratello), che controlla la Provenza, parte del Piemonte, l'Italia meridionale, è guardato con sospetto. Gli sono avversari forze composite e ancora scollegate, ma che pur ne minano autorità, prestigio, potenza:

Genova, che vuole entrare nelle rotte mediterranee che lo Stato angioino di Sicilia controlla;

una Lega di Comuni, con a capo Asti, che vuole scrollarsi di dosso il pesante giogo angioino (nel 1275 Carlo d'Angiò perde i suoi possedimenti piemontesi);

Il trono imperiale di Germania, su cui siede, dal 1273, l'imperatore Rodolfo della casa austriaca degli Asburgo, il quale mal sopporta l'intromissione in Sicilia di un principe francese.

Nel 1282 una violenta rivoluzione abbatte il regno angioino di Sicilia. Quella sommossa, avvenuta all'ora del Vespro del lunedì santo dopo Pasqua per un motivo occasionale assai ba­nale (un soldato francese ferma e perquisisce una donna davanti alla chiesa del Santo Spirito a Palermo; da qui il nome di rivolta del Vespro, Vespri siciliani rivela il profondo malcontento contro la gestione finanziaria e amministrativa di Carlo, improntata a severissima e ottusa ra­pacità, a diffuso desiderio di rapina verso nobiltà e strati popolari.

Ma, sullo sfondo, vi è anche un'altra forza che spinge verso la rivolta antifrancese. Pietro III d'Aragona (1276-85) ha sposato Costanza, figlia di Manfredi, ed è quindi in qualche modo legittimato ad avanzare pretese sul trono che dice indebitamente e violentemente usurpato da Carlo. I Francesi sono cacciati dalla Sicilia; si forma una federazione di città, la Communitas Siciliae, che cerca subito appoggi e sostegni presso il papa. Le trattative ristagnano, Roma non può schierarsi, soprattutto per i legami molto forti che la uniscono alla Corona di Francia e, di conseguenza, alla corte d'Angiò. A questo punto la Communitas Siciliae chiede l'intervento di Pietro III d'Aragona, che imme­diatamente accetta (1282).

Inizia così il periodo aragonese nella storia della Sicilia. Da quel momento l'isola, ormai in mano a una potenza esclusivamente e dichiaratamente europea come il regno d'Aragona, per­de per sempre quella funzione di ponte, di cerniera verso gli Stati mediorientali, i suoi mercati, la cultura araba e greca, che ha avuto per secoli, dal tempo delle dominazioni araba, norman­na, sveva.

Carlo d'Angiò non si rassegna alla sconfitta, e muove guerra agli Aragona. Inizia così, intorno al 1282, la «guerra del Vespro», durata sino al 1302, chiusa con la pace di Caltabellotta: la Sicilia è assegnata sì a un Aragona, ma non al titolare della Corona in Spagna, cioè Giacomo II, bensì a un suo fratello minore, Federico.

Dopo due anni di vacanza, sale al trono pontificio  Celestino V. La sua, fu una scelta sorprendente: nel pieno della lotta fra le grandi famiglie, incapaci di raggiungere un accordo, e nell'infuriare del conflitto interno alla chiesa sul rinnovamento spirituale, venne scelto un monaco eremita, noto per la sua severità di costumi ed intensa spiritualità. Ma le speranze da lui suscitate vennero presto deluse: trovatosi al centro di pressioni ed intrighi, dai quali non era esclusa la potente famiglia dei Castani, clamorosamente di dimise dopo qualche mese; subito dopo il conclave elesse il cardinale benedetto castani, col nome di Bonifacio VIII.

Questi aveva del papato la stessa concezione teocratica che era stata di Innocenzo III:

non esitò a ricorrere alla forza contro la famiglia rivale dei Colonna;

intervenne spregiudicatamente nelle questioni politiche del tempo:

operò per favorire gli Angioini impegnati nella guerra del Vespro;

intervenne nelle questioni interne del Comune di Firenze, sostenendo il colpo di mano dei guelfi neri;

rivendicò con fermezza le prerogative della Chiesa contro il re d'Inghilterra e di Francia, che intendevano sottoporre il clero dei loro paesi  al pagamento delle imposte.

Nel 1300, a dimostrazione della potenza del papato, indisse il primo Giubileo secolare della storia della Chiesa.  Fu un successo straordinario: 200.000 pellegrini affluirono a Roma; probabilmente abbagliato dal senso di onnipotenza datogli dal successo clamoroso, decise di agire contro Filippo IV, ma fu sconfitto dal re di Francia, prima sul piano politico, poi su quello militare.

Morto Bonifacio pochi mesi dopo l'oltraggio della sconfitta e della prigionia, gli succedette l'arcivescovo di Bordeaux col nome di Clemente V. Questi, dopo un anno, fissò la sua residenza ad Avignone, nel feudo degli Angiò. Iniziò così quel periodo di circa 70 anni, polemicamente indicato col nome di cattività avignonese, nel corso del quale i pontefici svolsero la loro azione in stretto contatto con gli angioini di Napoli e con la corona francese.


In Germania, dopo la fine dell'interregno con l'elezione di Rodolfo d'Asburgo, si accentua il carattere tedesco dell'impero. Tuttavia, dopo l'elezione di Enrico VII di Lussemburgo si ripropone il problema dei rapporti con l'Italia. L'intenzione dell'imperatore era di presentarsi come il pacificatore che finalmente avrebbe posto fine alle discordie che dividevano l'Italia, ma il suo progetto utopistico crollò al primo impatto con la realtà:

le città e le fazioni ghibelline approfittarono della discesa dell'imperatore in Italia per riprendere l'iniziativa contro i nemici, il che costrinse Enrico a uscire dal ruolo di mediatore per entrare  in quello di partigiano;

i guelfi si preparò a fronteggiare il pericolo, sotto la guida di Roberto d'Angiò;le operazioni militari si rivelarono più complicate del previsto e, alla fine, infruttuose.

Nel 1313, mentre preparava un attacco militare contro il regno di Napoli, morì per un'improvvisa malattia.

Il suo successore, Ludovico il Bavaro, fu incoronato a Roma nel 1328 da un nobile ghibellino nella veste di rappresentante del popolo romano. Questo gesto pose fine a un'intera stagione politica: nel momento in cui rifiutava l'incoronazione dalle mani del pontefice, infatti, l'imperatore negava qualsiasi valore all'approvazione pontificia; nell'accettare la corona da un rappresentante del popolo, proclamava l'importanza del consenso popolare. Lo stesso principio fu affermato in Germania, con una deliberazione con la quale si negava che l'elezione imperiale avesse bisogno della conferma pontificia.



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