|
Visite: 1467 | Gradito: | [ Grande appunti ] |
Leggi anche appunti:La costruzione dello stato totalitarioLA COSTRUZIONE DELLO STATO TOTALITARIO Il 1925 fu l'anno della trasformazione La Francia nel '600La Francia nel '600 Nel 1674 la Francia, riuscì a portare Messina alla rivolta Lo schiavoLo schiavo La schiavitù ha la massima diffusione soltanto in alcune città: quelle |
IL RUOLO DELLA MEMORIA NELLA STORIA
Introduzione: Amnistia e amnesia dopo la guerra civile ateniese.
L'epoca contemporanea ha visto non di rado traumatiche crisi di regime politico. Talvolta la transizione è avvenuta pacificamente, talvolta è costata lacrime e sangue. Ogni volta, comunque, si è riproposto il problema delle responsabilità di chi al passato regime aveva (per convinzione, conformismo o costrizione) aderito. Quella della "resa dei conti" è sempre stata una questione delicata: non è facile, sotto un governo tirannico, sceverare l'entusiasmo reale da quello indotto o simulato. Nel groviglio inestricabile di accuse, sospetti e rancori che inevitabilmente germogliano in tali momenti, la soluzione cui spesso si ricorre per chiudere i conti con il passato è l'amnistia - una soluzione politica per un problema che è, anzitutto, politico, prima che giudiziario. Furono i Greci, gli Ateniesi anzi, i primi a prospettare tale soluzione, all'indomani della restaurazione della democrazia, dopo un periodo tormentato e tragico che alla catastrofe della guerra peloponnesiaca aveva visto il succedersi prima di un governo dispotico e arbitrario, poi di una guerra civile cruenta e lacerante. L'amnistia politica è uno strumento di regolazione dei conflitti civili di cui siamo debitori ai Greci.
Ogni amnistia, però, lascia sempre irrisolto il problema del dolore delle vittime. Si badi: il dolore di chi ha subito un'ingiustizia, un'offesa o un lutto non è semplicemente un problema individuale delle vittime. Non si tratta solo della difficoltà di riconciliare esigenze pubbliche e sentimenti privati; anche la sofferenza delle vittime è un problema politico. Come può una collettività ripartire da zero se le sue ferite non sono state rimarginate? Si può voltare pagina senza che ci sia stata una catarsi? In realtà, "non si dà alcuna riconciliazione se si dimenticano proprio gli eventi che hanno sconvolto la nazione" (Agnes Heller). Così l'orazione di Lisia "Contro Eratostene" non è solo il grido di dolore personale di chi ha visto uccidere il proprio fratello per mano di un regime sanguinario; è anche un allarme lanciato contro il pericolo che l'amnistia significhi un'assoluzione generale dei crimini del passato, tale da gettare sulla comunità democratica appena ripristinata un'ombra inquietante.
Le orazioni di Lisia sono una testimonianza importante della fase civile e politica successiva alla guerra civile: attestano atteggiamenti e gradi differenti dell'elaborazione collettiva di quei traumatici eventi. Per la guerra civile ateniese, come per eventi più recenti, ci si trova di fronte a esigenze contrapposte: dimenticare eventi spiacevole e, nel contempo, ricordarli. Si crea così un impasto di memoria e oblio. Certo, La prospettiva che trapela dalle orazioni lisiane è naturalmente condizionata da esigenze processuali contingenti, inevitabilmente deformata e deformante; tuttavia, tenute come sono di fronte a un vasto pubblico non di specialisti del diritto ma di persone comuni, già testimoni diretti dei grandi eventi richiamati in queste cause, le orazioni lisiane non possono essere considerate pura propaganda. Sono parte importante del dibattito pubblico ateniese: per un verso lo rispecchiano, per l'altro contribuiscono a determinarlo.
La guerra civile ateniese, tra i democratici di Trasibulo asserragliati al Pireo e gli oligarchi padroni del centro urbano, termina, nel settembre 403, con gli accordi di riconciliazione tra le due parti, conclusi anche grazie alle sollecitazioni del re spartano Pausania. Essi prevedevano una sorta di divisione dello stato attico in due: a Eleusi potevano rifugiarsi tutti gli ex capi dell'oligarchia, con i loro sostenitori, previa una registrazione ufficiale, e ivi governarsi autonomamente; i democratici rientravano in città, accettando la clausola per cui "non era permesso a nessuno rinfacciare gli eventi del passato contro nessuno" (Aristotele, Costituzione degli Ateniesi), salvo contro i Trenta tiranni stessi, nonché contro chi si fosse macchiato personalmente di omicidio. Il divieto di ricordare non era, naturalmente, una pura inibizione verbale, ma implicava la proibizione di procedere in tribunale per fatti avvenuti durante la guerra civile. Scopo dichiarato degli accordi era quello di porre fine in anticipo a tutti i possibili e potenzialmente infiniti contenziosi giudiziari volti a riacquistare beni perduti o a vendicarsi dei torti subiti: insomma si voleva voltare pagine, impedendo la riapertura del conflitto.
La dissoluzione dell'esperienza comunitaria imponevano pertanto, all'indomani della restaurazione della democrazia di trovare dei punti in comune da cui ripartire L'ideale della concordia, assunto a slogan della ricostruzione cittadina, aveva bisogno anche di un'interpretazione dei fatti recenti che permettesse sia agli uni che agli altri di guardare al passato senza malanimo e di infondere nel presente fiducia reciproca. Il successo della riconciliazione dipendeva dall'abilità degli Ateniesi di creare racconti riguardo al passato che riaffermassero la loro fede nella stabilità della democrazia, la lealtà dei cittadini e la loro unità.
Alcuni eventi dolorosi andavano dimenticati, altri ricordati, si sentiva il bisogno di una memoria condivisa, che implica necessariamente un oblio selettivo. Si è parlato, a proposito, di un'ideologia della concordia, di cui si possono cogliere alcuni tratti nelle orazioni di Lisia. Anzitutto, la demonizzazione dei Trenta, sui quali soltanto vengono fatte ricadere tutte le responsabilità degli avvenimenti. In secondo luogo, l'assoluzione dei Tremila, quelli che i Trenta avevano incluso nel catalogo degli aventi diritto alla cittadinanza, e che al loro governo avevano fornito l'indispensabile base di consenso. Si trattava per lo più di cittadini benestanti, il cui apporto era indispensabile per riavviare il tessuto socio-economico e per non minare alla partenza la rinata democrazia.
Di fronte alla promulgazione dell'amnistia, destinata ad evitare l'innescarsi di una spirale di persecuzioni giudiziarie e di reciproche vendette, non tutti i settori dell'opinione pubblica ateniese reagirono con favore. Molti Ateniesi avevano subito gravissime perdite in termini di affetti umani e di interessi economici sotto la tirannide dei Trenta, che aveva visto un drammatico susseguirsi di confische, espulsioni, condanne a morte, eliminazioni sommarie nei confronti di cittadini e meteci di orientamento democratico. Quindi, se è vero che sostanzialmente l'amnistia fu osservata, è vero anche che vi furono diversi tentativi di violazione e di aggiramento. Particolarmente interessante in proposito appare l'atteggiamento di Lisia nei confronti dell'amnistia del 403: l'oratore interviene frequentemente in modo critico sulle modalità di applicazione delle convenzioni, in particolare sulle clausole che regolavano il diritto di godere della protezione amnistiale.
Lisia, che possiamo considerare portavoce dell'ala radicale del partito democratico, sembra assumere in diverse occasioni posizioni apparentemente contraddittorie sulla questione ed è stato per questo accusato di invocare l'amnistia per motivi di comodo e di chiederne poi spregiudicatamente la violazione, a seconda degli interessi della causa: con un atteggiamento che rivelerebbe più l'opportunismo del logografo che la rigida coerenza dell'ideologo. In realtà Lisia è sostanzialmente coerente nell'accostare, al sicuro e convinto riconoscimento del valore dell'amnistia, il rifiuto della sua applicazione indiscriminata. Al tema dell'oblio dei mali subiti egli contrappone con convinzione il tema della memoria, che impone non tanto la vendetta, quanto la giustizia.
Le convenzioni d'amnistia vietavano di perseguire, per i reati contro lo stato commessi all'epoca dei fatti relativi alla caduta della democrazia e all'instaurazione della tirannide, nonché per quelli commessi nel corso del 404/3, qualunque cittadino, ad esclusione degli oligarchi stessi (i Trenta, i Dieci, i Dieci del Pireo, gli Undici) e dei colpevoli di omicidio o di tentato omicidio, purché autocheires (cioè colpevoli di aver agito direttamente, di propria mano). Per gli oligarchi era prevista la possibilità di rientrare negli accordi sottoponendosi ad un rendiconto; nulla di questo genere era invece ammesso per gli omicidi autocheires, a motivo della particolare gravità del reato. La seconda categoria risultava però, nei fatti, estremamente difficile da individuare e da colpire: la necessità di dimostrate rigorosamente l'autocheiria escludeva infatti dal perseguimento tutti i mandanti e persino molti degli esecutori, e finiva per trasformare l'amnistia stessa in una sorta di "colpo di spugna" anche di fronte alle responsabilità più gravi. Il che era peraltro gravido di rischi politici, giacché consentiva un pieno reinserimento nella vita politica e civile della restaurata democrazia ateniese anche a persone gravemente compromesse con il regime e con i delitti da esso perpetrati.
Il corpus lisiano reca le tracce di un articolato tentativo di ridiscutere la questione dell'amnistia, partendo da un'accettazione generale delle convenzioni e del loro valore, ma discutendone i criteri di applicazione: il diritto di godere della protezione amnistiale andava regolato su basi diverse da quelle fissate nei patti, che tenessero conto del grado di collaborazione con il regime di quanti fra "quelli della città" chiedevano, dopo la restaurazione, una piena reintegrazione nella comunità politica e civile. Tale proposta, che colloca peraltro Lisia in linea con altre voci di parte democratica, consiste in concreto nel riconoscere il godimento dell'amnistia non, come volevano le convenzioni, a qualunque cittadino che non fosse stato oligarca (salvo previo rendiconto) e che non si fosse macchiato di reati di sangue in qualità di autocheir, ma soltanto a coloro di cui si potesse dimostrare che non avevano avuto parte alcuna nel governo oligarchico, ricoprendovi una qualsiasi carica istituzionale, e che non avevano commesso reati gravi (non necessariamente i soli reati di omicidio o di tentato omicidio autocheir) verso i concittadini.
La via proposta da Lisia, umanamente comprensibile e politicamente non priva di valore, è caratterizzata da un'impostazione fortemente legata alla dimensione politica e incapace di rinunciare alla tradizionale etica della vendetta. Per capire la posizione di Lisia, è interessante un confronto con le perorazioni finali delle orazioni XII (Contro Eratostene) e XIII (Contro Agorato): dominate dai concetti di memoria (in opposizione all'oblio del mè mnesikakein) e di vendetta (giudiziaria, e dunque, non indiscriminata, ma comunque alternativa al perdono), esse ripropongono la tradizionale etica politica greca, che considera la vendetta legittima e anzi, in alcuni casi, addirittura necessaria.
Nell'orazione XII (Contro Eratostene, uno dei Trenta) la perorazione finale si apre con un appello ai due partiti, quello "della città" e quello "del Pireo". Nel rivolgersi al "partito della città", Lisia introduce immediatamente il tema della memoria: non la dimenticanza del male subito, ma la sua memoria (anamimneskein) e il conseguente rancore (orgizesthai) devono guidare il voto dei giudici in tribunale, a qualunque partito appartengano. I due partiti sono così idealmente affratellati nella vendetta e nel ripudio del presente passato politico, un ripudio che non passa attraverso l'oblio, ma attraverso la memoria. Questo tema si sviluppa pienamente nell'appello al "partito del Pireo", tutto giocato sui temi della memoria, del mantenimento del rancore, della vendetta, in netta contrapposizione con l'appello di Trasibulo ai suoi a non violare il giuramento di mè mnesikakein. I democratici vengono sollecitati da Lisia non a "dimenticare il male subito", ma piuttosto a "ricordare" le vicende più dolorose del governo dei Trenta, e a "conservare il rancore". Lisia insiste in particolare sulla memoria delle azioni empie dei Trenta (l'uccisione di uomini strappati dagli altari o dalle braccia dei familiari, l'impossibilità di dar loro degna sepoltura, la persuasione di essere al di sopra delle leggi divine), che li rendono indegni di fruire dell'amnistia: l'empietà dei Trenta dimostra che non l'osservanza dei giuramenti d'amnistia, ma la vendetta dei morti è il solo scrupolo religioso meritevole di essere osservato. E proprio le vittime dei Trenta sono evocate nel finale, come fossero presenti per chiedere con forza, ai sopravvissuti, la vendetta che si attendono.
Lisia non nega la necessità della riconciliazione, ma ne considera presupposto ineludibile la condanna per via giudiziaria dei responsabili dei reati più gravi (non solo gli oligarchi e gli omicidi autocheires, ma anche i mandanti e tutti quanti hanno in qualche modo causato la morte di cittadini democratici con azioni anche indirette); mentre non gli appare accettabile la prospettiva che privilegia il perdono sulla giustizia e considera il recupero della concordia civica un obiettivo da realizzare a qualsiasi costo.
Appendice: Testo della perorazione finale dell'orazione XII Contro Eratorstene (92-100)
"Voglio scendere (dalla pedana), dopo aver richiamato alla memoria poche cose a entrambe le fazioni, quelli della città alta e quelli del Pireo, affinché, tenendo presente come modello le disgrazie capitatevi per colpa di questi, emettiate un verdetto. E, per prima cosa, voi che siete oligarchici, considerate che a causa di questi subiste una tirannia così ferrea che foste costretti a combattere una guerra così assurda contro fratelli, figli e cittadini, nella quale, vinti avete gli stessi vantaggi dei vincitori, pur vincitori sareste stati schiavi di questi (i Trenta). E questi, approfittando della contingenza, si sarebbero impadroniti di grandi beni di fortuna privati, mentre voi, a causa della guerra civile, li avete inferiori; infatti, non vi credevano degni di godere con loro dei vantaggi, vi costringevano a subire assieme a loro il discredito, diffondendo a tal punto il disprezzo verso di voi che, pur non essendo generosi con gli uomini, pretendevano la vostra fedeltà, ma credendo che voi foste lo stesso benevoli, mentre loro vi coinvolgevano nei rimproveri. Ora, voi che siete al sicuro, vendicatevi di queste cose più che potete, per voi stessi e per quelli del Pireo, tenendo presente che subiste una tirannia da questi che sono i più vili, tenendo presente che ora con gli uomini migliori governate, combattete per i cittadini e prendete decisioni sulla città, e ricordandovi degli ausiliari, che questi posero a guardia, sull'acropoli, del loro potere e della schiavitù di ciascuno di voi.
E dico tutte queste cose a voi, anche se ci sarebbero ancora molte cose da dire. Quanto a voi che siete democratici, per prima cosa ricordatevi delle armi, cioè che, pur avendo combattuto molte guerre in paesi stranieri, foste disarmati di queste non dai nemici, ma dai Trenta in tempo di pace; ricordatevi poi, che foste banditi dalla città che gli avi vi diedero, mentre voi fuggivate alle città che desideravate. Di questo trattamento adiratevi come quando eravate in esilio, ricordatevi degli altri mali che avete sofferto da questi che, afferrandoli a forza, uccisero alcuni (prendendoli) dall'agorà e alcuni dal tempio e, strappandoli, costrinsero alcuni con figli, prole o moglie ad uccidersi, e non permisero che ottenessero esequie tradizionali, convinti che il loro potere fosse più forte della vendetta divina.
Quanti (tra voi) fuggirono la morte, ovunque in pericolo ed errando per molte città e banditi da ogni luogo, pur essendo mancanti delle cose adatte (privi di tutto), alcuni dopo aver abbandonato i figli in una patria divenuta nemica, altri in terra straniera, dopo molte traversie tornaste nel Pireo. Sebbene l'impresa fosse molto rischiosa (molto e grande), mostrando il vostro valore, avete liberato gli uni e ricondotto in patria gli altri. Se, invece, non aveste avuto successo e se aveste fallito in questa impresa, avreste dovuto essere esiliati per non soffrire quelle stesse cose di prima, e, vittime della loro malvagità non vi sarebbero stati d'aiuto né i templi né gli altari, che sono mezzo di salvezza anche per i più malvagi; i vostri figli, quanti fossero rimasti in Atene, a causa di queste cose avrebbero dovuto subire violenze, mentre quelli in terra straniera sarebbero finiti schiavi per debiti irrisori per la mancanza di coloro che li aiutassero.
Ma ora non voglio raccontare quello che sarebbe potuto accadere, non potendo narrare le azioni di questi: (questa) infatti, sarebbe impresa non per un accusatore, né per due, ma per molti. Nondimeno, nulla di mia volontà è stato tralasciato sui templi, che questi in parte vendettero, in parte, essendo presenti, profanarono, sulla città, che resero meschina, sugli arsenali, che hanno distrutto, e sui defunti, per i quali voi, poiché non avete potuto difenderli da vivi, date, ora che sono morti, il vostro sostegno. Credo che essi (i morti) ci ascoltino e vi riconosceranno quando darete il voto, pensando che quanti di voi assolveranno questi (i tiranni), avranno condannato a morte loro, quanti esigeranno giustizia, avranno fatto la loro vendetta.
Termino qui la mia accusa. Avete ascoltato, avete visto, avete sofferto, lo avete in vostro potere (il colpevole): giudicate."
La natura della lotta tra partigiani e la Repubblica sociale italiana è ancora oggi al centro del dibattito storiografico. L'idea di una guerra civile è stata a lungo rimossa da gran parte della storiografia antifascista. Secondo Pavone, soltanto utilizzando la categoria di "guerra civile" è possibile comprendere le vicende italiane dal 1943 al 1945.
Appendice: brani tratti da Una guerra civile, saggio storico sulla moralità nella resistenza, di Cesare Pavone
"L'interpretazione della lotta fra la Resistenza e la Repubblica sociale italiana come guerra civile ha incontrato da parte degli antifascisti, almeno fino a questi ultimissimi tempi, ostilità e reticenza, tanto che l'espressione ha finito con l'essere usata quasi soltanto dai vinti fascisti, che l'hanno provocatoriamente agitata contro i vincitori. La diffidenza degli antifascisti ne è risultata accresciuta, alimentata dal timore che parlare di guerra civile conduca a confondere le due parti in lotta e ad appiattirle sotto un comune giudizio di condanna o di assoluzione. In realtà mai come nella guerra civile, che Concetto Marchesi (latinista e militante del Pci) chiamò "la più feroce e sincera tra le guerre", le differenze fra i belligeranti sono tanto nette e irriducibili e gli odi tanto profondi. "Siamo quelli che hanno odiato di più", ha detto di recente un vecchio resistente.
Affermare che la Resistenza è anche guerra civile non significa andare alla ricerca di protagonisti che l'abbiano vissuta esclusivamente sotto quel profilo. Al contrario, significa sforzarsi di comprendere come i tre aspetti della lotta - patriottica, civile, di classe -, analiticamente distinguibili, abbiano spesso convissuto negli stessi soggetti individuali o collettivi. [.]
Nel volume delle Opere di Togliatti relativo agli anni 1944-55 le parole "guerra civile" non compaiono mai, tanto era forte nel leader comunista la volontà di accreditare il proprio partito come partito nazionale. Questa esigenza collimava con la propensione largamente diffusa a occultare il dato elementare che "anche i fascisti, nonostante tutto, erano italiani". "Italiani" non rinvia soltanto a un dato etnico. Entrambe le parti intendevano reintegrare il "paradigma dello stato moderno come sovrana unità politica", poiché entrambe si sentivano rappresentati dell'Italia intera. Il primo modo di esorcizzare quanto di regressivo e pauroso c'è nella rottura dell'unità dello Stato nazionale sta nel negare la comune nazionalità di chi quella rottura compie. I fascisti avevano sempre chiamato "antinazionali" i loro avversari; e questi li hanno ricambiati espellendoli in idea - almeno quelli della Rsi - dalla storia d'Italia, se non addirittura dall'umanità. [.] E non è un caso che Giorgio Bocca, uno dei pochi scrittori non fascisti che abbia senza reticenza parlato di guerra civile, sia stato recensito sotto il titolo Anche Salò è storia nostra. Asserzioni come quella di Gorrieri (partigiano e uomo politico cattolico nato nel 1920), "guerra civile non ci fu", sono in effetti il meccanico corollario di altre quali "il fascismo repubblicano non trovò nessuna rispondenza nella coscienza popolare". La verità di fondo di questa affermazione non elimina il problema dei fascisti che, sia pur poco numerosi e poco ascoltati, si affiancarono ai tedeschi. La qualifica di servi dello straniero data ai fascisti non è sufficiente a cancellare in loro quella di italiani, né autorizza a eludere la riflessione sui nessi, non nuovi ma in questo caso strettissimi, tra guerra esterna e guerra interna. Nemmeno si può sorvolare sugli italiani, notevolmente più numerosi dei fascisti militanti, che di fatto accettarono il governo della Rsi, prestandogli in varie forme obbedienza, anche se con riserve mentali più o meno ampie.
Alla sostanziale continuità dello Stato tra fascismo e Repubblica e, in particolare, agli esiti fallimentari dell'epurazione, è consona una visione della Resistenza levigata e rassicurante, che espunga ogni traccia di guerra civile. L'unità antifascista incarnatasi nel sistema del Cln (i comitati di liberazione nazionale), e che è tuttora fonte di legittimazione della Repubblica italiana e di quello che è stato chiamato il suo "arco costituzionale" (espressione con cui vengono designate le forze parlamentari che danno vita alla lotta antifascista e partecipano all'elaborazione della Costituzione repubblicana), viene così reinterpretata come mera unità antitedesca, quasi che la Repubblica si fondi sull'opposizione alla Germania e non invece al fascismo.
In realtà, è il fatto stesso della guerra civile che reca in sé qualcosa che alimenta la tendenza a seppellirne il ricordo. I francesi per esorcizzare la guerra civile hanno coniato l'espressione guerres franco-françaises , nella quale unificano tutte le fratture che, con le armi o senza armi, hanno diviso il loro popolo, almeno a partire dalla grande rivoluzione. Perfino in Jugoslavia, almeno a livello ufficiale e politico, si nega che la Resistenza sia stata una guerra civile. Eppure è difficile non riconoscere questo carattere alla lotta senza quartiere fra i partigiani di Tito, i cetnici (monarchici anticomunisti) del generale Mihajlović, gli ustascia (nazionalisti di estrema destra) di Ante Pavelić, i belgradisti (filo fascisti), le altre bande fasciste che infestarono il paese tra il 1941 e il 1945. Non solo, ma la Jugoslavia è l'unico paese europeo in cui la Resistenza si sia svolta come riuscita rivoluzione politica e sociale. Questo paradosso jugoslavo si spiega con considerazioni che possono valere anche per l'Italia. I membri di un popolo che si pongono al servizio dello straniero oppressore vengono considerati colpevoli di un tradimento radicale al punto da spegnere in loro la qualità stessa di appartenenti a quel popolo. Essi con il loro comportamento annichiliscono in sé proprio il dato che rende la loro fellonia (defezione o tradimento) immensa e imperdonabile.
Il concetto religioso di rinnegato può essere utile a spiegare questo processo che priva della nazionalità ideale e morale, prima ancora che politica, chi si è posto contro la comunità del proprio popolo. Rinnegato viene chiamato un partigiano fucilato dai suoi compagni come spia. "Rinnegati sparsi sulle montagne" un console della milizia fascista chiama i partigiani. Per distruggere un nemico interno di tal fatta l'uso della violenza appare tanto più legittimo quanto più quel nemico viene assimilato a quello esterno. Contro il nemico esterno, infatti, assai più che contro quello interno, è giustificato da una tradizione millenaria l'esercizio di una violenza che "sopprima i limiti e le restrizioni all'esercizio del potere" e che appunto per questo vuole essere rapidamente dimenticata. Il rinnegato può inoltre pentirsi e tornare alla comunità originaria, può convertirsi e controconvertirsi, come attestano i passaggi dalla Repubblica sociale alla Resistenza e viceversa. La parte che veniva abbandonata faceva propria la massima secondo cui "non vi è traditore più traditore del convertito sincero". La falsa conversione poteva essere tollerata, proprio come nei conflitti religiosi, a preferenza dell'eresia.
Il nesso fra guerra civile e rivoluzione va a sua volta scritto fra i motivi che hanno spinto a escludere che fra il 1943 e il 1945 sia stata combattuta in Italia una guerra civile. Questo innegabile nesso può peraltro essere visto in due modi. Da una parte la rivoluzione può venire connotata in senso positivo ed escatologico (come destino ultimo dell'uomo), così che la guerra civile appaia al confronto, nel giudizio avalutativo (esente da valutazioni politiche di parte) che si crede di poterne dare, sinonimo soltanto di disordine e di orrore. Da un'altra parte la guerra civile appare invece come lo sbocco quasi immancabile della rivoluzione, così da trascinarsi dietro le connotazioni, positive o negative, che alla rivoluzione vengono date. E poiché la Resistenza italiana non è stata da nessuno rivendicata come rivoluzione, il suo nesso con la guerra civile è rimasto nella memoria soltanto come uno scampato pericolo.
I comunisti si sono sempre fatti vanto di aver saputo risparmiare al nostro paese la "prospettiva greca" (dopo la liberazione della Grecia dai nazifascismi, i partigiani comunisti, sostenuti da Jugoslavia e URSS, e quelli monarchici, finanziati da Gran Bretagna e Stati Uniti, si affrontano per tre anni in una sanguinosa guerra civile da cui esce vincitrice la monarchia), evitando che il moto resistenziale sboccasse in una devastante guerra civile post-liberazione. Il Partito d'azione invocava la rivoluzione democratica, ma dava a quella forma un significato fortemente innovativo rispetto all'uso corrente della parola rivoluzione e ai fantasmi che essa evoca (non è un caso, come già si è fatto notare, che la tradizione azionista sia sempre stata la meno restia a parlare di guerra civile). In effetti solo una rivoluzione vittoriosa ha la forza di iscrivere senza timore le sofferenze provocate dalla guerra civile nella propria storia. Perfino una rivoluzione sconfitta può rivendicare di essere stata protagonista di una guerra civile quando non intenda nascondere il proprio carattere rivoluzionario [.].
Il prevalere della formula guerra, o movimento, di liberazione nazionale rispetto a quella di guerra civile occulta dunque la parte di realtà che vide italiani combattere contro italiani. A un occultamento analogo ricorrono gli spagnoli quando definiscono di indipendenza la guerra contro i francesi, dimenticando che esistevano anche gli afrancisados (gli spagnoli filofrancesi).
L'occultamento rende la formula guerra di liberazione nazionale tanto tranquillizzante che l'uso di essa ha resistito al grande rafforzamento semantico verificatosi nel dopoguerra, quando la formula è venuta a designare i movimenti anticolonialisti e antimperialisti del Terzo mondo, nei quali tutti erano incluse aspre componenti di guerra civile. L'individuazione del nemico principale - il tedesco o fascista - è un problema che attraversa tutta la Resistenza. Un acuto indagatore americano di cose italiane ha scritto: "In brevissimo tempo [.] il cittadino medio dell'Italia del Nord giunse ad odiare i neofascisti più dei nazisti". Questo supplemento d'odio è un fenomeno che va indagato, anche per il riscontro speculare che se ne trova tra i fascisti, a loro volta impegnati ad attribuire agli antifascisti, e in particolare ai comunisti, tutta la responsabilità dell'inizio e dell'inasprimento della guerra civile.
Le reciproche denunce di aver dato avvio alla lotta fratricida furono e restano numerose. Esse non debbono tuttavia spingere a dimenticare coloro che sentirono sì la guerra civile come una tragedia generatrice di stragi e lutti, ma anche come un evento da assumere con orgoglio, in nome della scelta compiuta e della consapevole accettazione di tutte le conseguenze che essa comportava. Da questo punto di vista la corrente deprecazione può rovesciarsi: fu proprio infatti nella tensione insita nel carattere "civile" che trovarono modo di riscattarsi gli elementi negativi tipici della guerra in franco tale. Franco Venturi (storico, 1914-1994, militante del movimento Giustizia e Libertà) ha detto una volta che le guerre civili sono le sole che meritano di essere combattute."
Fare un'analisi ponderata su ciò che significò la Resistenza per l'Italia non deve significare in alcun modo confondere le due parti in lotta, appiattirle sotto un comune giudizio di condanna e assoluzione. E questo vale anche per i fenomeni di violenza che caratterizzarono in tutto il suo corso la guerra antipartigiana, e da cui non fu indenne la Resistenza, specie alla vigilia e all'indomani della Liberazione, proprio perché la Resistenza fu anche guerra civile.
La Resistenza fu una straordinaria prova di riscatto civile e
patriottico, come ha sottolineato di recente il presidente della Repubblica
Napolitano, e quindi non può appartenere solo a una parte della nazione. Al
contrario deve porsi al centro di uno sforzo volto a ricomporre in spirito di
verità la storia della nostra Repubblica. Occorre infatti arrivare a un comune
sentire storico in direzione del quale sono stati compiuti importanti passi
avanti. Ad esempio, il contributo dei militari regolari che, dopo l'8
Settembre, non aderirono a Salò ma combatterono al fianco degli Alleati e dei
partigiani.
L'eredità spirituale e morale della Resistenza, sottolinea sempre Napolitano, vive nella Costituzione, e in essa possono ben riconoscersi anche quanti vissero diversamente gli anni 1943-45, quanti ne hanno una diversa memoria per esperienza personale o per giudizi acquisiti. La Carta costituisce in parte la base del nostro vivere comune e della nostra rinnovata identità nazionale. Quindi nessuna delle forze politiche oggi in campo può rivendicarne in esclusiva l'eredità. E' un patrimonio che appartiene a tutti e vincola tutti.
Proprio negli ultimi anni, diventano sempre più frequenti i tentativi di revisionismo riguardanti la storia della Resistenza in Italia e la retorica della 'memoria condivisa' non può che finire, inevitabilmente, nello snaturare la verità perché, così come la questione è stata posta, con equivoci incomprensibili e volontà di falsificazione - a partire dalla campagna vergognosa di riabilitazione sul problema dei 'ragazzi di Salò' - rischia di tradursi nella trappola della 'storia condivisa', ossia in una riprovevole interpretazione delle nostre vicende nazionali che annebbia le cose e che, con lo scorrere inevitabile delle generazioni, rappresenta alle giovani generazioni un paradigma storico bugiardo.
Di seguito, a dimostrazione di quanto il dibattito sulla Resistenza e i suoi revisionismi sia rilevante nella vita politica italiana, viene riportato in parte il discorso di insediamento del Presidente della Camera dei Deputati, Luciano Violante, del 10 Maggio 1996:
"A differenza di altri importanti paesi europei, non abbiamo ancora
valori nazionali comunemente condivisi.
Le due grandi vicende della storia nazionale, il Risorgimento e la Resistenza,
hanno coinvolto solo una parte del paese e solo una parte delle forze
politiche. Quelle che ne sono uscite sconfitte, ma anche settori di quelle
vincitrici, tanto a metà dell'Ottocento, quanto, un secolo dopo, a metà del
Novecento, hanno potuto, per ragioni diverse, frenare la portata innovativa e
nazionale di quegli eventi.
Oggi del Risorgimento prevale un'immagine oleografica e denudata dei
valori profondi che lo ispirarono.
La Resistenza e la lotta di liberazione corrono lo stesso rischio e, per di
più, non appartengono ancora alla memoria collettiva dell'Italia repubblicana.
Mi chiedo, colleghi, me lo chiedo umilmente, in che modo quella parte d'Italia che in quei valori crede e che quei valori vuole custodire e potenziare nel loro aspetto universale di lotta alla tirannide e di emancipazione dei popoli, non come proprietà esclusiva, sia pure nobile, della sua cultura civile o della sua parte politica, mi chiedo - dicevo - cosa debba fare quest'Italia perché la lotta di liberazione dal nazifascismo diventi davvero un valore nazionale e generale, e perché si possa quindi uscire positivamente dalle lacerazioni di ieri.
Mi chiedo se l'Italia di oggi - e quindi noi tutti - non debba cominciare a riflettere sui vinti di ieri; non perché avessero ragione o perché bisogna sposare, per convenienze non ben decifrabili, una sorta di inaccettabile parificazione tra le parti, bensì perché occorre sforzarsi di capire, senza revisionismi falsificanti, i motivi per i quali migliaia di ragazzi e soprattutto di ragazze, quando tutto era perduto, si schierarono dalla parte di Salò e non dalla parte dei diritti e delle libertà (Applausi). Questo sforzo, a distanza di mezzo secolo, aiuterebbe a cogliere la complessità del nostro paese, a costruire la liberazione come valore di tutti gli italiani, a determinare i confini di un sistema politico nel quale ci si riconosce per il semplice e fondamentale fatto di vivere in questo paese, di battersi per il suo futuro, di amarlo, di volerlo più prospero e più sereno. Dopo, poi, all'interno di quel sistema comunemente condiviso, potranno esservi tutte le legittime distinzioni e contrapposizioni."
LA RICOMPOSIZIONE DELLA FRATTURA TRA LA PARTI MEDIANTE IL RICONOSCIMENTO DELLA DIGNIT DELL ALTRO
Ode 1, 37
La sospirata notizia giunse a Roma alla fine dell'estate dell'anno 30 a.C.: Antonio e Cleopatra, sconfitti definitivamente in Egitto da Ottaviano, si erano dati la morte piuttosto che accettare un'umiliante prigionia. Era la notizia attesa da almeno un anno, cioè dal 2 Settembre del 31, allorché Antonio e Cleopatra erano stati sconfitti ad Azio dalla flotta di Ottaviano; perciò essa suscitò un tripudio diffuso, anche se non universale, visto che parecchi senatori si erano rifugiati in precedenza presso Antonio.
La reazione di Orazio davanti alla vittoria è fortemente emotiva. Come un moto liberatorio sembra infatti giungere l'iniziale Nunc est bibendum, ma esso deriva, in realtà, dall'esordio con cui il greco Alceo aveva celebrato la morte del tiranno Mirsilo: "ora ognuno deve ubriacarsi e bere con forza, poiché Mirsilo è morto" (fr. 332 Voigt).
Diversamente da tante altre odi meditative, questa pagina ha una dimensione epico-celebrativa, arricchita di alcuni passaggi solenni e altisonanti, che hanno a ragione fatto parlare di un Orazio memore della vigorosa solennità di un vate. Di seguito viene riportato il testo dell'ode:
Nunc est bibendum, nunc pede
libero
pulsanda tellus, nunc Saliaribus
ornare pulvinar deorum
tempus erat dapibus, sodales.
5 Antehac nefas depromere Caecubum
cellis avitis, dum Capitolio
regina dementis ruinas
funus et imperio parabat
contaminato cum grege turpium
10 morbo virorum, quidlibet impotens
sperare fortunaque dulci
ebria. Sed minuit furorem
vix una sospes navis ab ignibus,
mentemque lymphatam Mareotico
15 redegit in veros timores
Caesar, ab Italia volantem
remis adurgens, accipiter velut
mollis columbas aut leporem citus
venator in campis nivalis
20 Haemoniae, daret ut catenis
fatale monstrum. Quae generosius
perire quaerens nec muliebriter
expavit ensem nec latentis
classe cita reparavit oras,
25 ausa et iacentem visere regiam
voltu sereno, fortis et asperas
tractare serpentes, ut atrum
corpore conbiberet venenum,
deliberata morte ferocior:
30 saevis Liburnis scilicet invidens
privata deduci superbo,
non humilis mulier, triumpho.
[TRADUZIONE: Adesso bisogna bere, la terra adesso deve essere percorsa con piede libero, ora è venuto il tempo di adornare il letto degli dei con vivande degne dei Salii, o compagni. Prima di questo momento sarebbe stato un sacrilegio spillare il vino dalle cantine degli avi, finché la regina preparava rovine folli al Campidoglio e distruzione all'impero con una schiera contaminata di uomini sconci per la malattia, incapace di controllarsi nello sperare qualsiasi cosa e inebriata dalla sua dolce fortuna. Ma una sola nave a stento superstite dalle fiamme spense la sua follia e la sua mente esaltata dal Mareotico ricondusse alla paurosa realtà Cesare (Ottaviano) che incalzava con i remi lei che fuggiva rapidamente dall'Italia, come uno sparviero che incalza timide colombe o come un cacciatore veloce incalza la lepre sulle pianure innevate della Tessaglia per dare alle catene il mostro voluto dal fato. Lei che cercando di morire in modo più nobile né ebbe paura femminilmente della spada, né cercò in cambio delle spiagge nascoste con la sua flotta veloce e osò stare a guardare la sua reggia che crollava con volto sereno e con coraggio maneggiare serpenti squamosi per assorbirne nel corpo il nero veleno, resa più determinata dalla decisione di darsi la morte, evidentemente per impedire alle crudeli libarne di essere condotta al trionfo lei, privata del trono, lei, donna non ignota.]
La nuova e inattesa protagonista dell'ode, ovvero la regina sconfitta, con la propria personalità sembra costringere il poeta a mutare, nel corso del componimento, il tono e il messaggio ideologico. Si trattava di una figura che aveva colpito l'opinione pubblica romana: ai tempi di Cesare, appena ventenne, Cleopatra era stata ammirata nella capitale con la sua lussuosissima corte. Morto Cesare nel 44 a.C., Cleopatra aveva poi incontrato Marco Antonio e lo aveva avvinto a sé in una passione turbinosa. I romani erano preoccupati delle mire imperiali che venivano coltivate ad Alessandria, in una capitale che voleva marcare con la propria magnificenza la superiorità dell'Oriente sull'Occidente.
Quando nel 33 a.C. cessò l'accordo tra Antonio e Ottaviano, quest'ultimo ebbe buon gioco nel presentarsi come il "campione" della sobrietà italica che si opponeva allo sfarzo corrotto dell'Oriente: vero o falso che fosse, a Roma, prima di Azio, circolava robustamente la voce che, in caso di vittoria, Antonio avrebbe regalato a Cleopatra la città di Roma. La propaganda di Ottaviano reagì sostenendo che lo scontro non era una nuova guerra civile, ma una contesa all'ultimo sangue tra Roma e un nemico esterno, paragonabile per pericolosità a Cartagine.
Orazio sembra riflettere le voci della propaganda di Ottaviano, allorché, nella prima parte dell'ode, ci presenta la regina con lo stuolo dei suoi effeminati gregari, mentre trama la rovina dell'impero. Poi però tutto cambia, proprio a partire da quell'espressione così pregnante e ambigua, fatale monstrum (monstrum è un mostro, ma anche un prodigio; ed è fatale perché dà la morte o perché voluto dal fato?). Cleopatra si uccide per non cadere nelle mani del vincitore: una morte che, avvenuta per il morso dell'aspide o per altro,
RIPARTIRE DA BASI DI VERIT
Sono le vittime il punto debole di una resa dei conti col passato per via giudiziaria, dal momento che per la vittima la richiesta di verità viene prima di quella della vendetta.
È stato proprio il desiderio di riconoscere alle vittime uno statuto che non era previsto dalla logica che presiedeva la giustizia dei vincitori, oltre alle diverse condizioni storiche e politiche in cui avveniva la resa dei conti con il passato e con i passati regimi, a portare alla ribalta negli ultimi anni il problema della riconciliazione come contrapposto, intrecciato o alternativo a quello della punizione. È opinione comune che dopo la caduta di qualsiasi regime dittatoriale le più orribili violazioni dei diritti umani non possano essere sanate da amnistie generalizzate; anche se è solo di recente che si è avuta la volontà e la forza di riproporre in termini internazionali la tematica della difesa giudiziaria dei diritti umani (e la conseguente sanzione penale delle violazioni compiute) incrinando la consuetudine che lasciava ad ogni Paese il compito di sottoporre a giudizio i responsabili di crimini contro l'umanità commessi sul proprio territorio.
Da alcune parti si sostiene che la messa sotto accusa dei governanti di un regime che si è macchiato di crimini contro i diritti umani non sarebbe conveniente per la democrazia appena risorta (o nata): in parte perché difficilmente si riesce a sfuggire alla logica del processo dimostrativo, a evitare il ricorso alla retroattività - tanto necessaria per l'impianto accusatorio quanto pericolosa per un processo penale di tipo democratico -; in parte perché risulta impossibile ricostruire l'intera catena delle responsabilità e del meccanismo comando/obbedienza, è azzardato ritenere i superiori sempre responsabili delle azioni commesse dai sottoposti, è difficile stabilire l'ampiezza con cui punire i servitori del regime. I processi dei vincitori si sono a volte conclusi in modo soddisfacente (oltre che prevedibile) e senza eccessive polemiche ma le campagne di epurazione hanno sempre lasciato, e da subito, strascichi velenosi per la riconciliazioni nazionale e la solidarietà sociale. È il problema della responsabilità e della colpa che non riesce a trovare forme adeguate e condivise di traduzione pratica, e non solo per il permanere di divergenze teoriche o etiche di fondo.
Per quanto riguarda la questione dell'amnistia, se nel dopoguerra questa è stata un atto della volontà dei vincitori allo stesso modo delle leggi d'epurazione, nelle transizioni degli anni '80 e '90 essa fa parte integrante degli accordi e dei compromessi per giungere alla democrazia. Nel loro insieme, le élites politiche delle dittature sono costrette a cedere il potere per la crescente debolezza e isolamento in cui si vengono a trovare. La loro azione è mossa dal desiderio di non giungere allo scontro finale e dalla possibilità di influenzare il confronto con i propri successori per pagare il prezzo più basso in termini politici, economici, giudiziari e personali. Non si giunge mai a un ricambio completo della classe dirigente: al di là delle figure di primo piano, costrette a lasciare la scena per motivi simboliti oltre che sostanziali, non sono pochi i personaggi che mantengono posizioni di potere e prestigio anche sei nuovi regimi o che si riciclano adattandosi ai nuovi valori e strumenti della democrazia.
La fine dell'apartheid in Sudafrica
L'apartheid ('a parte' in lingua afrikaans) era la politica di segregazione razziale istituita dal governo di etnia bianca del Sudafrica nel dopoguerra e rimasta in vigore fino al 1994.
L'apartheid era una pratica razzista messa in atto dal Partito nazionalista sudafricano, fondata sul principio di esclusione della maggioranza nera della popolazione (circa l'80% della popolazione) dalla gestione politica del Paese. Dal punto di vista legislativo l'apartheid si tradusse in una serie di norme che sancivano la separazione e la discriminazione dei neri nella residenza, nel lavoro e nella vita di tutti i giorni. In Sudafrica il regime di apartheid si inasprì negli anni '50 e '60, ma né la condanna della comunità internazionale (L'apartheid è stato proclamato crimine internazionale da una convenzione delle Nazioni Unite, votata dall'Assemblea Generale nel 1973 e entrata in vigore nel 1976 ed è stato recentemente inserito nella lista dei crimini contro l'umanità che la Corte penale internazionale può perseguire) né le ricorrenti rivolte della gente di colore - come quella del ghetto di Soweto nel 1976 - riuscirono a intaccare il monopolio politico della minoranza bianca: circa 5 milioni di persone contro oltre 20 milioni di neri. Una soluzione pacifica del contrasto era resa problematica sia dall'entità della posta in gioco - il Sudafrica è uno dei massimi produttori mondiali di materie prime "strategiche" come l'uranio, oltre che di oro e diamanti -, sia dalle divisioni interne alla maggioranza nera, sia infine dalla consistenza della comunità bianca, presente da tre secoli nel Paese e dunque portata a considerarlo come la propria vera patria.
Alla fine degli anni '80, il primo ministro Frederik de Klerk, fino ad allora esponente dell'ala conservatrice del Partito nazionalista al potere, cominciò a smantellare il regime di discriminazione razziale e aprì negoziati con Nelson Mandela, leader del movimento antisegregazionista African National Congress (Anc), liberato dal carcere nel Febbraio 1990. Il negoziato, benché ostacolato dalla resistenza dei gruppi intransigenti di entrambe le parti e dai violenti contrasti tra l'Anc e la più numerosa fra le popolazioni nere, quella degli zulu, ricevette un forte impulso dall'esito favorevole di un referendum tra la comunità bianca, nel Marzo 1992. Nel Maggio 1994 si svolsero pacificamente le prime elezioni a suffragio universale, vinte dall'Anc, e Mandela divenne capo dello Stato, alla guida di un governo di coalizione. La collaborazione al governo fra gli antichi avversari durò poco, ma il nuovo Sudafrica riuscì ugualmente a superare i difficili problemi di convivenza e a mantenere la sua unità e le sue istituzioni rappresentative, affermandosi inoltre, grazie anche al prestigio di Mandela, come principale potenza dell'Africa nera. Un forte contributo al superamento delle lacerazioni del passato venne dall'istituzione, tra il '96 e il '98, di una Commissione nazionale "per la verità e la riconciliazione", dinnanzi alla quale i responsabili di reati e violenze commessi da tutte le parti in lotta fornirono, con la promessa di amnistia, ampie testimonianze sugli anni dell'apartheid.
Compito principale della Commissione era ricostruire, nel modo più completo possibile, il quadro della natura, delle cause e della diffusione delle gravi violazioni dei diritti umani compiute tra il 1960 e la fine del 1993; offrire alle vittime la possibilità di rivelare e raccontare gli abusi di cui erano state oggetto; garantire l'amnistia alle persone che avessero reso piena confessione di ogni fatto rilevante legato ad azioni compiute per obiettivi politici; intraprendere misure di risarcimento, riabilitazione e ripristino della dignità umana e civile; rendere noti alla nazione i risultati raggiunti; suggerire raccomandazioni finalizzate a impedire che in futuro si potessero ripetere le medesime violazioni di diritti umani.
Il carattere di maggiore novità di questa impalcatura giuridica risiedeva nella necessità di confessare l'insieme dei propri delitti - e non solo quelli già noti - e le modalità con cui erano stati commessi per vedere accolta la propria domanda di amnistia; ma anche nell'offerta di conforto e risarcimento per coloro che avevano sofferto una "grave" violazione dei diritti umani. La trasparenza in cambio del perdono, all'interno di un compromesso politico e del riconoscimento di azioni compiute per motivi politici, costituiva così l'elemento centrale su cui la Commissione doveva costruire il proprio lavoro; insieme con il rilievo dato al racconto delle vittime e ai meccanismi escogitati per offrire loro riparazione e sostegno.
La necessità, ma insieme la difficoltà, di non ridurre al solo processo di amnistia il lavoro della Commissione, nasceva dalla convinzione che la riconciliazione nazionale dovesse fondarsi insieme sull'identificazione - in qualche modo "ufficiale" - della verità dei fatti avvenuti e sul sottolineare la necessità e gli interessi delle vittime a veder pubblicamente riconosciute le sofferenze subite come primo passo per un risarcimento collettivo. Si cercava in tal modo di controbilanciare il carattere di possibile "assoluzione" che il processo di amnistia poteva portare con sé e che certamente non era estraneo alle richieste poste dal National Party al momento del compromesso politico del 1993. La scelta di occuparsi solamente di responsabilità individuali, che avessero naturalmente una motivazione politica, rispondeva insieme a una scelta giuridica e all'obiettivo di valorizzare il racconto delle vittime e offrire un quadro dettagliato e analitico dei soprusi commessi. Il pericolo di non vedere posto sotto accusa il regime dell'apartheid nel suo complesso e di non individuare le istituzioni che si erano distinte nella politica di repressione, tortura e morte, risultava più che altro ipotetico e veniva controbilanciato dalla rivelazione della profondità raggiunta dalla persecuzione degli oppositori e dalla scoperta di azioni e gruppi illegali e clandestini che si erano distinti nelle più brutali pratiche di repressione.
Che la Commissione intendesse mantenere al primo posto la preoccupazione di dar voce al racconto delle vittime, cercando di limitare l'attenzione rivolta, soprattutto dai media stranieri, all'accumularsi delle richieste di amnistia man mano che ci si avvicinava alla scadenza dei termini, appariva evidente nell'organizzazione stessa dei lavori della commissione, che venne divisa in tre sottocommissioni, il Comitato per la violazione dei diritti umani, il Comitato dell'amnistia e il Comitato per il risarcimento e la riabilitazione, cui si aggiungeva una sezione investigativa. Il 15 Dicembre 1995 apparve sulla Gazzetta ufficiale il nome dei diciassette commissari scelti personalmente da Nelson Mandela alla fine di una lunga selezione che aveva coinvolto numerosi organismi e che si era svolto sotto la luce dei media e lo scrutinio della pubblica opinione. Cinque di loro erano donne, tre uomini di chiesa, due avvocati e tre giuristi; ma si poteva anche dividerli per appartenenza etnica o linguistica.
Le critiche rivolte alla commissione dall'Anc e l'ostilità mostrata al termine dei suoi lavori, oltre a essere il risultato, probabilmente, della crescente e quasi naturale arroganza di un partito ormai saldamente al potere, nasceva dalla riluttanza - sia politica che morale - a vedere posti sullo stesso piano i crimini dell'apartheid e di chi l'aveva combattuto. Ma avendo scelto di occuparsi di crimini commessi individualmente la Commissione non poteva esimersi dall'esaminare ogni grave violazione dei diritti umani accaduta, indipendentemente dal momento, dalla giustificazione, dall'obiettivo conclusivo.
La scelta di puntare sulla natura della verità invece che sulla giustizia come cornice del processo di rivisitazione del passato vuol dire lasciare all'amnistia un ruolo importante ma non centrale e tantomeno unico, a dispetto delle polemiche che si concentrarono su essa; e valorizzare, invece, l'esperienze vissuta, la percezione introiettata, la verità incardinata nelle singole narrazioni e il mito nascosto nella memoria comunitaria.
L'apartheid era fondato su una fondamentale separatezza e irriconciliabilità, e adesso la riconciliazione può avvenire solo sul riconoscimento della storia passata, sulla volontà d'intraprendere un cammino diverso, sulla condanna senz'appello del male compiuto.
La strada della riconciliazione è certamente più lunga di quella, già difficile, della scoperta della verità. Perché divenga effettiva non basta infatti il riconoscimento della verità fattuale, ma almeno di una parte della verità storica che la sottende: e cioè le diverse radici ideali e morali che erano alla base dell'apartheid e della lotta organizzata contro di esso; gli interessi, i privilegi, i vantaggi che hanno costituito la cornice di supporto, complicità, corresponsabilità verso il regime; l'eredità di disuguaglianze, ingiustizie, disparità di opportunità che esso ha lasciato; il valore assoluto della difesa dei diritti umani anche contro violazioni motivate da fini giusti e obiettivi politicamente o eticamente legittimi.
Anche se manca la vendetta sanzionata dalla legge e la pena comminata da un tribunale, la punizione non è assente dalla pratica della Commissione. Il castigo è parte del suo stesso codice di trasparenza, della pubblicità degli atti, della partecipazione collettiva alle sue udienze. Come il controllo sociale che in questo modo si crea rende difficile e moralmente indifendibile il rifiuto della verità e la pratica del silenzio o della menzogna - ben più che in un'aula di tribunale dove è parte accettata degli strumenti della difesa -, così la sanzione della comunità, dei parenti, dei vicini, dei mass media è vissuta a volte come più intollerabile della stessa reclusione. Andare liberamente in giro come torturatore noto e riconosciuto non è necessariamente più facile che trascorrere in carcere qualche anno.
Se la testimonianza di fronte al Comitato per i diritti umani riconsegna alle vittime e ai loro parenti la dignità perduta e compie un'opera di consolidamento dell'autostima e rafforzamento dell'orgoglio, la confessione di fronte al Comitato per l'amnistia comporta all'opposto un meccanismo di autoaccusa e pubblica esposizione, di riconoscimento di bassezza e degrado morale, di sfida all'amor proprio che è tanto più intenso quanto maggiore è la colpa.
La vera riconciliazione, ne sono tutti convinti, potrà avvenire solo quando i guasti e le ingiustizie di decenni di apartheid potranno essere davvero smantellati: quando la discriminazione, scomparsa dalle leggi, sparirà anche dalla mentalità e soprattutto dalle disuguaglianze materiali, sociali, economiche, culturali; quando un nero di Soweto potrà trovar casa, e non solo passeggiare, tra le ville di Sandton (un importante centro economico), quando l'acqua corrente non sarà più il coronamento di un lungo sogno, quando gli ospedali delle township avranno le stesse attrezzature delle cliniche dei quartieri bianchi, quando il dislivello culturale verrà mitigato e le università avranno una maggioranza di studenti e insegnanti neri. Ma non è questo che voleva o poteva dare la Commissione, né qualcuno lo avrebbe preteso. Il suo è stato un segnale, un momento di forte impegno e di indicazione di marcia che toccherà alla società nel suo insieme proseguire o abbandonare. In definitiva, nella società sudafricana, la traduzione pratica della retorica della riconciliazione in realtà dipende dalla possibilità che iniziative di riconciliazione superino i limiti di un cambiamento politico e costituzionale formale, per affrontare quegli squilibri sociali profondamente radicati che puntellano, al livello strutturale più basilare, la cultura della violenza.
Il caso Argentino:
Eventi: la dittatura militare negli anni '70
Gli anni '70 segnarono per l'America Latina la massima espansione delle dittature militari, già presenti in buona parte del continente. Nella prima metà del decennio, i militari assunsero il potere anche in paesi in cui la tradizione democratica sembrava avere radici più antiche e più profonde. Drammatiche furono le vicende attraversate in questo periodo dall'Argentina. Nel 1972 il regime militare, che aveva assunto il potere sei anni prima, si accordò con l'ex dittatore Perón, eletto alla presidenza della Repubblica nel settembre '73. Nel marzo '76 i militari ripresero in mano il potere dal momento che sia Perón, sia la seconda moglie Isabelita, che ne aveva preso il posto dopo la sua morte, non erano riusciti a portare l'ordine nel Paese né a domare l'inflazione. La dittatura militare, per avere ragione della sovversione interna, usò metodi estremamente brutali: decine di migliaia di oppositori, o presunti tali, furono arrestati e scomparvero nel nulla.
L'istituzione della Commissione Nazionale per la Scomparsa di Persone
Il 29 dicembre 1983 lo scrittore Ernesto Sabato è stato eletto presidente della Commissione Nazionale per la Scomparsa di Persone (CONADEP), per la sua onestà e il suo spirito critico. La Commissione ha avuto il compito di investigare e pubblicare una relazione sui crimini di Stato commessi dalla dittatura militare al potere tra il 1976 e il 1983. Cinque dipartimenti sono stati creati per far fronte a diversi aspetti del lavoro. Sono emersi migliaia di casi di rapimenti, sparizioni, torture ed esecuzioni. Ogni caso è stato documentato in un archivio numerato. Sono state compilate oltre 50.000 pagine di documentazione. Un riassunto frutto del lavoro di tale commissione, è stato pubblicato in un rapporto ufficiale nel 1984. Si tratta dell'enorme volume "Nunca màs" (Mai più). relazione della Commissione nazionale sulle persone scomparse" (Eudeba, 1984). Questa relazione attesta la scomparsa e la morte di più di 30 mila persone durante la dittatura militare stabilitasi nel paese dalla fine degli '70 ai primi anni '80. Dopo migliaia di testimonianze e di atroci fatti, la Commissione ha concluso con una serie di raccomandazioni per avviare azioni legali contro i responsabili. Ma oltre che dell'attività di coordinamento, Sabato è stato responsabile della scrittura della prefazione del libro. In essa si legge:
' Nel corso degli anni '70 l'Argentina è stata attraversata da un terrore
che proveniva tanto dall'estrema destra come dall'estrema sinistra, un fenomeno
accaduto in molti Paesi. Come accadde in Italia, dove per molti anni ci fu la
spietata azione delle formazioni fasciste, delle Brigate Rosse e di gruppi
simili. Però quel Paese non ha mai abbandonato i principi del diritto per
combatterlo e lo ha fatto con assoluta efficienza attraverso i tribunali
ordinari, offrendo agli accusati tutte le garanzie di difesa in tribunale e in
occasione del sequestro di Aldo Moro, quando un membro dei servizi di sicurezza
ha proposto al generale Della Chiesa di torturare un detenuto che sembrava
sapere molto, egli ha risposto con memorabili parole: "l'Italia può permettersi
di perdere Aldo Moro, ma non di introdurre la tortura".
Non è stato così nel nostro Paese: ai crimini dei terroristi le forze armate hanno risposto con un terrorismo infinitamente peggiore che combattere, perché dal 24 Marzo 1976 contavano col potere e l'impunità dello Stato assoluto, rapendo, torturando e uccidendo migliaia di esseri umani.
La nostra commissione non è stata istituita per giudicare, perché per questo ci sono i giudici costituzionali, ma per esaminare la sorte delle persone scomparse nel corso di questi anni bui della vita nazionale. Ma dopo aver ricevuto diverse migliaia di dichiarazioni e testimonianze, dopo aver determinato e verificato l'esistenza di centinaia di luoghi di detenzione clandestina ed aver accumulato più di cinquantamila pagine di documenti abbiamo la certezza che la dittatura militare ha creato la più grande tragedia della nostra storia, nonché la più selvaggia. E anche se ci aspettiamo dalla giustizia l'ultima parola, non possiamo rimanere in silenzio di fronte a ciò che abbiamo sentito, letto o registrato. Tutto ciò va ben oltre ciò che può essere considerato vicino alla tenebrosa categoria di crimini contro l'umanità. Con la tecnica della sparizione e le sue conseguenze sono stati calpestati e barbaramente disconosciuti tutti i principi etici che le grandi religioni e le filosofie più alte hanno eretto in millenni di sofferenze e calamità.
Sono moltissimi i pronunciamenti sui sacri diritti degli individui nel corso della storia e del nostro tempo, da quelli che ha sancito la Rivoluzione Francese a quelli previsti nella carta universale dei diritti umani e nelle grandi encicliche di questo secolo. Tutte le nazioni civili, inclusa la nostra, hanno stabilito nelle loro costituzioni garanzie che non possono mai essere sospese, anche nei più catastrofici stati di emergenza: il diritto alla vita, il diritto di non soffrire disumane condizioni di detenzione, di negazione della giustizia o di esecuzioni sommarie.
Dall'enorme documentazione da noi ricavata si deduce che i diritti umani sono stati violati in forma organica e statale dalla repressione da parte delle forze armate. E non violati in modo sporadico ma sistematico, in modo sempre uguale, con rapimenti simili a torture identiche in tutto il territorio. Come non attribuire tutto questo a una strategia del terrore progettata da alti mandati? [.] Se le nostre deduzioni non sono sufficienti ci sono le ultime parole pronunciate nella Giunta Internazionale di difesa dal capo della delegazione argentina, il generale Santiago Omar Riverso, il 24 Gennaio 1980: "abbiamo fatto la guerra con la dottrina in mano [.]".
Così quando davanti al clamore universale per gli orrori perpetrati i membri della giunta militare hanno deplorato gli eccessi di repressione, inevitabili in una guerra sociale, è stato rivelato un ipocrita tentativo di scaricare su subalterni indipendenti gli orrori pianificati.
[.] Così nel nome della sicurezza nazionale, migliaia e migliaia di esseri umani, di solito giovani e persino adolescenti, hanno iniziato a costituire una categoria fantasma: quella dei desaparecidos. Parola - triste privilegio argentino! - che oggi è scritta in spagnolo nei giornali di tutto il mondo.
Sequestrati con la forza, hanno smesso di avere una presenza civile. Esattamente da chi erano stati rapiti? Perché? Dove erano? Non c'era una precisa risposta per queste domande: le autorità non avevano sentito parlare di loro, le carceri non conoscevano le loro generalità, la giustizia li disconosceva [.]. Intorno a loro cresceva il silenzio. Mai un sequestratore fu arrestato, mai fu individuato un luogo di detenzione clandestino, mai ci fu la notizia di una sanzione agli autori di questi reati. Così passavano giorni, mesi, anni di incertezza e di dolore di padri, madri e figli, tutti in attesa di qualche notizia [.].
Per quanto riguarda la società si faceva largo l'idea di mancanza di protezione nell'oscuro timore che chiunque, per innocente che fosse, potesse rientrare in questa caccia alle streghe senza fine, suscitando la grande paura di alcuni e da parte di altri una tendenza a giustificare l'orrore consciamente o inconsciamente.
[.] L'appello di sovversivo aveva una gamma tanto vasta quanto imprevedibile. Nel delirio semantico, guidato da qualifiche come marxismo-leninismo, materialisti e atei, nemici dei valori occidentali e cristiani, tutto era possibile: da gente che invocava una rivoluzione sociale fino ad adolescenti sensibili che andavano in città di miseria per aiutare i loro residenti. Tutti cadevano nella retata: i dirigenti sindacali che lottavano per un semplice miglioramento dei salati, ragazzi che erano membri di un centro studentesco, giornalisti che non erano dipendenti dalla dittatura, psicologi e sociologi appartenenti a professioni sospette, giovani pacifisti, suore e sacerdoti che avevano introdotto gli insegnamenti di Cristo nei quartieri più squallidi. E gli amici di chiunque di loro, e gli amici di quegli amici, gente che era stata denunciata per vendetta personale e da sequestrati sotto tortura. Tutti per lo più innocenti, estranei al terrorismo o anche ai gruppi di combattenti delle guerriglia, perché questi combattevano e morivano nello scontro o si suicidavano prima di cedere, e poche arrivavano in vita in mano degli oppressori.
[.] Di questi abbandonati dal mondo ne abbiamo contati circa novemila, ma abbiamo tutte le ragione per pensare a una cifra più elevata, dato che molte famiglie hanno esitato a denunciare i sequestri per paura di rappresaglie. E ancora esitano, temendo un ritorno di queste forze del male.
Con tristezza e con dolore abbiamo assolto il compito che ci è stato affidato dal Presidente della Repubblica. Il lavoro è stato molto difficile perché abbiamo dovuto ricomporre un oscuro puzzle, dopo molti anni dai fatti, quando sono state cancellate deliberatamente tutte le tracce, sono stati bruciati tutti i documenti e persino gli edifici sono stati demoliti. Abbiamo dovuto basarci quindi sulle denunce dei parenti, sulle dichiarazioni di coloro che sono stati in grado di uscire da questo inferno e anche sulle testimonianze di repressori che per oscure motivazioni si sono avvicinati a noi per dire ciò che sapevano.
Nel corso delle nostre indagini siamo stati minacciati e insultati da coloro che hanno commesso i crimini e che, lontani dal pentirsi, tornano ancora una volta a ripetere i noti motivi della guerra sociale, della salvezza della patria e dei valori occidentali e cristiani che sono stati trascinati proprio da loro tra le sanguinose mura dei luoghi di repressione. E ci accusano di non promuovere la riconciliazione nazionale, di attivare odi e rancori e di impedire l'oblio. Ma non è così: noi non siamo mossi dal risentimento né dallo spirito di vendetta, solo chiediamo verità e giustizia, come da un'altra parte hanno chiesto le Chiese di diverse confessioni, fermo restando che non ci potrà essere riconciliazione se non dopo il pentimento dei colpevoli e una giustizia che si fonda sulla verità. Perché se no bisognerebbe eliminare dalla Terra il compito che il sistema giudiziario ha in ogni comunità civile. Verità e giustizia, d'altro canto, che hanno permesso di vivere con onore agli uomini delle forze armate che sono innocenti e che, se non si procedesse così, correrebbero il rischio di essere coinvolti da un'incriminazione globale e ingiusta. Verità e giustizia che permetteranno a quelle forze di considerarsi come autentiche eredi di quegli eserciti che con tanto eroismo quanta povertà hanno portato la libertà in mezzo continente.
Siamo stati accusati, infine, di denunciare solo una parte dei sanguinosi fatti che ha sofferto la nostra nazione negli ultimi tempi, facendo tacere coloro che hanno commesso il terrorismo che ha preceduto il Marzo 1976 e persino, in qualche modo, facendo loro una tortuosa esaltazione. Al contrario, la nostra Commissione ha sempre ripudiato quel terrore e lo ripetiamo ancora una volta in queste stesse pagine. Il nostro compito non era indagare i loro crimini, ma rigorosamente la sorte delle persone scomparse, a prescindere dal fatto che provenissero da una o dall'altra parte della violenza. I parenti delle vittime del terrorismo precedente non l'hanno fatto sicuramente perché tale terrore ha causato morti, non desaparecidos. Per di più il popolo argentino ha potuto vedere e sentire numerosi programmi televisivi, leggere innumerevoli articoli in giornali e riviste, oltre che un intero libro pubblicato dal governo militare, che hanno elencato, descritto e condannato a fondo i fatti di quel terrorismo.
[] Le grandi calamità sono sempre istruttive, e certamente la più terribile tragedia che nel corso della sua storia la Nazione ha sofferto durante la dittatura militare iniziata nel Marzo 1976 servirà a farci capire che solo la democrazia può preservare un popolo da tale orrore, che solo la democrazia può conservare e salvare i sacri e gli essenziali diritti della creatura umana. Solo così possiamo essere certi che mai più si ripeteranno nel nostro Paese i fatti che sono stati tragicamente famosi nel mondo civile.'
Grazie all'azione della commissione guidata dallo scrittore Ernesto Sabato tutta l'Argentina fu posta di fronte alla verità dei desaparecidos, anche coloro che non vi avevano mai creduto, avevano chiuso gli occhi per non vedere o l'avevano coscientemente ignorata: e lo stesso avvenne per la comunità internazionale. Di fronte a una tale verità, e soprattutto all'estensione e alle modalità delle sparizioni dopo la tortura e la morte, la giustificazione di una guerra condotta "contro la sovversione", e quindi necessariamente con mezzi drastici e violenti, non era più sufficiente a difendere una simile violazione dei diritti umani. La relazione finale del lavoro svolto descriveva in dettaglio i metodi e i luoghi di detenzione e sparizione, il coinvolgimento di tutte le forze armate e di polizia, le categorie delle vittime e la loro percentuale (compresi bambini, handicappati, donne incinte), l'incapacità e complicità del sistema giudiziario nel lasciare impuniti crimini più volte denunciati.
La verità, naturalmente, non è tutto: e infatti i lavori della commissione non produssero automaticamente giustizia. Alle critiche che alcuni gruppi - fra cui le madri di Plaza de Mayo - avevano già rivolto al governo per non aver creato una commissione parlamentare d'inchiesta con poteri straordinari, si aggiunse nel tempo la delusione di molti che avevano appoggiato l'operato del presidente Alfonsin. Con l'obiettivo di indebolire la protesta dei militari e allontanare il pericolo di nuovi golpes da parte di alcuni settori delle forze armate, nel Dicembre 1986 veniva infatti varata la legge de Punto Final, che stabiliva un termine di due mesi oltre il quale nessun militare avrebbe più potuto essere accusato per reati commessi durante la dittatura. Sei mesi dopo una nuova legge sulla "obbedienza dovuta" scagionò di fatto tutti i militari ad eccezione dei gradi più alti con la presunzione che i crimini e gli abusi commessi fossero stati compiuti per obbedire agli ordini dei superiori. Neppure le ripetute amnistie concesse dal successore di Alfonsin, Menem, tuttavia, (Menem graziò inizialmente trentanove ufficiale, in seguito duecento tra guerriglieri di sinistra e personale militare, infine i generali stessi delle juntas), ebbero il potere di cancellare dalla coscienza collettiva la verità dei fatti accertati dalla commissione.
Appunti su: Il ruolo della memoria nella storia, |
|
Appunti Astronomia cosmologia | |
Tesine Archeologia | |
Lezioni Architettura | |