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Il primo dopoguerra in Italia




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Il primo dopoguerra in Italia






L'immediato dopoguerra in Italia



Come tutte le altre nazioni belligeranti, l'Italia uscì dalla guerra profondamente mutata.


Le commesse statali, l'inflazione, la mobili­tazione delle risorse economiche per la guerra avevano determinato forti concentrazioni industriali e grandi spostamenti di ricchezza dai ceti a reddito fisso ai ceti più direttamente impegnati nella pro­duzione e nelle speculazioni (i cosiddetti «pescicani»);

vaste masse erano state attivate dalla partecipazione alle esperienze e ai sacrifi­ci della guerra e dalle promesse di riforma che, specie dopo la rotta di Caporetto, erano state fatte per allargare il consenso popolare;

il nazionalismo presumeva di trovare nella vittoria conseguita la conferma della propria validità;

l'esempio della rivoluzione bol­scevica, vissuta come «mito», agiva potentemente sugli atteggia­menti delle classi subalterne;

la piccola borghesia, da cui erano usciti gran parte dei quadri inferiori dell'esercito, avvertiva acuta­mente il disagio della propria scarsa consistenza di classe ed era animata da un forte e confuso sentimento di autoaffermazione.


Que­sto complesso intreccio di trasformazioni oggetti­ve e di attese trovava concreta espressione in un pro­fondo mutamento del quadro politico: un mutamento che nel corso di quattro an­ni (1919-1922) si concluderà di fatto con l'avvento del fascismo.


Le novità più rilevanti della situazione postbellica erano:

una ra­pida e massiccia sindacalizzazione delle masse lavoratrici

una for­tissima avanzata del Partito socialista (e l'organizzazione nel suo ambito di frazioni dalle quali sarebbe nato il Partito comunista)

la nascita del Partito popolare, di ispirazione cattolica

il tumultuoso affacciarsi sulla scena politica di organizzazioni combattentistiche.


La Camera Generale del Lavoro (C.G.L.), tendenzial­mente socialista, che nel 1918 contava circa 250 000 aderenti, passò a oltre un milione e mezzo nel 1919 e superò i 2300000 aderenti nel 1920.

Negli stessi anni la Confederazione Italiana dei Lavoratori, sindacato bianco di ispirazione cattolica nato nel 1918 in concorrenza con i sindacati rossi, riusciva ad orga­nizzare 1661000 lavoratori e s'impegnava soprattutto nella mobili­tazione delle masse contadine, fra le quali otteneva la maggior parte dei consensi.

In tal modo, anche ambienti rimasti ai margini della vita politica e impermeabili alla penetrazione dei «rossi» venivano iniziati all'attività associativa delle Leghe e delle Cooperative.

L'accresciuta volontà rivendicativa delle masse che avevano sostenuto i sacrifici della guerra, l'ina­sprimento della tensione sociale derivante dalla difficoltà di reinse­rire nelle strutture produttive le classi rapidamente smobilitate, la suggestione del bolscevismo russo fecero enormemente aumentare il numero degli aderenti e dei simpatizzanti del Partito socialista e fecero prevalere in esso l'ala massimalista, guidata da Giacinto Menotti Serrati, che ripudiava ogni forma di collaborazione coi governi borghesi, quali ne fossero i programmi, considerava la bor­ghesia come un unico blocco di forze reazionarie e dava per certa l'imminenza della rivoluzione.



Il massimalismo dava per scontata e imminente la nascita in tutto il mondo di re­pubbliche proletarie (che non sarebbero mai sorte) e prescindeva dalla realtà effettuale italiana, nella quale la struttura capitalistica non era stata affatto indebolita dalla guerra, la forza della Chiesa e del movimento cattolico era rilevante, l'appello al nazio­nalismo aveva una forte presa, specie fra la piccola borghesia 'idealista e patriottica'.

I massimalisti, del resto, agitavano solo a parole la prospettiva di una rivoluzione, tanto che sia i socia­listi napoletani facenti capo ad Amadeo Bordiga, sia i socialisti tori­nesi, facenti capo ad Antonio Gramsci, Palmiro Togliatti, Umberto Terracini e Angelo Tasca, ne denunciavano il velleitarismo e, pur convinti che la situazione italiana consentisse uno sviluppo rivolu­zionario, tentavano strade completamente diverse da quelle seguite dalla direzione del partito.

Bordiga progettava infatti un partito di rivoluzionari di professione che non avrebbe dovuto neppur par­tecipare alle competizioni elettorali.

Gramsci e i suoi compagni di Torino s'impegnavano nell'esperienza di Ordine Nuovo, ossia nell'organizzazione di un movimento, nato nel 1919 intorno all'o­monima rivista, che nei consigli di fabbrica doveva preparare i qua­dri dirigenti di un blocco storico di operai, di contadini e di intellet­tuali, capace di guidare la rivoluzione e quindi di esercitare anche le funzioni utili, svolte in una società borghese dai capitalisti.

Nel partito rimaneva per il momento anche l'ala mo­derata minoritaria - guidata da Filippo Turati e da Claudio Treves e largamente rappresentata fra i quadri della C.G.L. - che, del tutto aliena da ipotesi rivoluzionarie, non osava però compromettersi in collaborazioni governative per l'attuazione del suo programma di riforma democratica dello stato e della società: l'unico programma nel quale credeva effettivamente.


Nell'immediato dopoguerra giunge a maturazione anche il lungo processo di accostamento dei cattoli­ci allo stato italiano, che già aveva compiuto tappe significative nel­le elezioni del 1904 e soprattutto del 1913, nelle quali peraltro i cat­tolici avevano svolto una funzione subalterna rispetto alla classe di­rigente liberale.

La Rerum novarum - benché dedicata a problemi sociali di carattere internazionale e non specificamente italiani - aveva aperto la strada per una più attiva partecipazione dei cattoli­ci alla vita politica anche in Italia.

Nel 1905 il Fogazzaro in un suo romanzo, intitolato Il santo, aveva posto il problema di una possi­bile conciliazione fra cattolicesimo e mondo moderno: il libro, condannato nel 1906 dalla Congregazione dell'Indice, aveva scate­nato vaste polemiche in tutto il paese e la condanna aveva fatto scalpore.

Dal 1907 al 1911 era uscita a Milano la rivista Il rinnovamento, che riprendeva e ampliava la tematica del Fogazzaro. I più illustri re­dattori del Rinnovamento, Romolo Murri ed Ernesto Bonaiuti, erano stati a loro volta condannati dalla Chiesa per le loro tendenze mo­dernistiche, ma nel complesso le discussioni, le condanne e le pole­miche avevano preparato il terreno per un profondo rinnovamento del movimento cattolico italiano.


D'altra parte, ben più che ai tempi del patto Gentilo­ni risultava evidente che le varie fra­zioni del liberalismo italiano non avrebbero retto al­l'offensiva del socialismo, sicché Benedetto XV, vincendo le ultime remore e revocando formalmente e definitivamente il non expe­dit, autorizzò dì fatto don Luigi Sturzo (1871-1959) a fondare un partito dichiaratamente cattolico, che prese il nome di Partito po­polare italiano e pubblicò il proprio manifesto programmatico nel gennaio del 1919.


Il nuovo partito professava contemporaneamente la propria ispi­razione cristiana e la propria indipendenza politica dalla gerarchia ecclesiastica:

si batteva per la colonizzazione del latifondo e per la difesa della piccola e media proprietà contadina

per l'adozione del sistema proporzionale

per l'estensione del voto alle donne

per l'ampliamento delle autonomie locali, in polemica con le ten­denze centralistiche dello stato liberale

faceva professione di in­terclassismo, secondo una concezione corporativa per la quale le classi sociali avrebbero dovuto contribuire armonicamente al rag­giungimento del bene comune

puntava sul rafforzamento delle as­sociazioni benefiche e assistenziali autonome

sulla libertà di inse­gnamento e quindi sul potenziamento della scuola privata, per la maggior parte in mano a istituti religiosi.


Il problema specifico di una moderna società borghese, cioè lo sviluppo dell'industria e del­le città industriali, veniva lasciato ai margini, quasi si volesse con­trapporre la campagna, sede di una vita sana e virtuosa, alla città, fonte di disgregazione e di corruzione.

In complesso, perciò, il Partito popolare non era esente né da equivoci (per la compresenza in esso di possidenti, preoccupati so­prattutto di combattere contro il socialismo, e di masse contadine, come quelle guidate nel Cremonese da Guido Miglioli, interessate a riforme radicali) né da impostazioni arcaiche, anticapitalistiche in quanto precapitalistiche (e non era privo di significato il fatto che il partito assumesse come simbolo lo scudo crociato di età comuna­le).

Estremamente complicato era anche il problema dell'autono­mia del Partito popolare che, per usare le parole di Salvemini, «era autonomo finché non avesse fatto nulla che potesse dispiacere alle autorità ecclesiastiche; ma il giorno in cui queste avessero di­chiarato di non poter approvare la sua opera, esso si sarebbe trova­to al bivio o di rinunciare all'autonomia e obbedire alle autorità ec­clesiastiche, o di rivendicare l'autonomia sfidando la condanna di quelle autorità».

Malgrado questi gravi limiti, la nascita del Partito popolare rimaneva comunque un evento storico di grande e positi­va importanza, perché comportava l'immissione diretta delle masse cattoliche nel vivo circuito delle lotte politiche nazionali e, con la cessazione formale del non expedit, eliminava almeno uno dei più gravi handicap dello stato italiano



Negli stessi mesi in cui avveniva la gestazione del Partito popolare, si andava organizzando anche il movimento dei combattenti, che fin dal novembre del 1918 si costituivano in Associazione Nazionale Combattenti e dichiaravano la propria sommaria sfiducia in tutti i partiti: «Nes­sun partito, nessuna classe, nessun interesse, nessun giornale - af­fermava l'Associazione - gode la nostra fiducia Organizzati e in­dipendenti, la nostra politica la faremo noi stessi».

Questo spirito di protesta indiscriminata presentava evidenti pericoli di degenera­zione 'qualunquistica' (come diremmo oggi), ma l'Associazione fa­ceva propria. una richiesta, appoggiata anche da altre forze, repub­blicane, socialriformistiche e sindacali, che avrebbe potuto avere un'importanza determinante per lo sviluppo democratico del pae­se: essa chiedeva infatti la convocazione di un'assemblea costi­tuente che desse nuove basi al Regno d'Italia, nato nel 1861 me­diante la pura e semplice estensione a tutta la penisola dello Statu­to albertino.

Nelle organizzazioni combattentistiche confluivano per lo più individui di provenienza piccolo-borghese che, abituati ai rischi della guerra e alle sofferenze della trincea ma non alla routine del lavoro quotidiano, intendeva­no per un verso difendere i valori spirituali che avevano portato il paese alla vittoria, per l'altro «presentare il conto» dei sacrifici sop­portati ed evitare il rientro nelle occupazioni abituali, troppo infe­riori all'eroismo, vero o presunto, delle loro gesta belliche.

L'ambiguità della posizione del ceto medio fu palese in quegli anni: essi rivolsero la propria avversione contro gli arricchiti di guerra, contro gli industriali e i capitalisti che avevano tramutato in profitto i sacrifi­ci degli Italiani, ma non risparmiarono neppure il proletariato, nei cui confronti anzi prese rapidamente corpo l'invidia.


Nell'ambito equivoco e contraddittorio del combat­tentismo piccolo-borghese si muoveva allora l'ex so­cialista rivoluzionario Benito Mussolini, che il 23 marzo 1919 fondò a Milano i Fasci Italiani di Combattimento sulla base di rivendicazioni avanzatissime, comprendenti fra l'altro il trapasso dalla monarchia alla repubblica e la convocazione di un'assemblea costituente.

«Il Fascismo italiano - diceva il pro­gramma - vuole tenere ancora uniti - con una forma di antiparti­to o di superpartito - gli italiani di tutte le fedi e di tutte le classi produttrici per sospingerli alle nuove ineluttabili battaglie che si devono combattere a completamento e a valorizzazione della gran­de guerra rivoluzionaria».

L'antipartito risuscitava dunque il tema usuratissimo della guerra rivoluzionaria, ma né questo richiamo né gli altri punti programmatici dovevano minimamente ritenersi im­pegnativi, perché nel giorno stesso della fondazione dei Fasci il Mussolini scriveva sul Popolo d'Italia: «Noi ci permettiamo il lusso di essere aristocratici e democratici; conservatori e progressisti; reazionari e rivoluzionari, legalitari e illegalitari a seconda delle circostanze di tempo, di luogo e di ambiente».

Questa «spregiudicatezza», che come vedremo risulterà utilissi­ma all'affermazione del fascismo, era anche perfettamente confa­cente alla cultura e alla psicologia confusionaria di buona parte della piccola borghesia.









Le tensioni sociali del 1919



Il  Patto di Londra aveva assegnato all'Italia un am­pio tratto della costa dalmata, ma aveva riservato la città di Fiume alla Croazia.

In realtà al termine della guerra, mentre Fiume esprimeva il suo voto di annessione all'Italia, il movimento delle popolazioni slave approdava alla formazione del regno di Iugoslavia, al quale sarebbe stato assurdo chiedere la rinuncia alla Dalmazia

La rappresentanza italiana alla conferenza di Parigi, guidata da Orlando e da Sonnino, pretendeva però l'an­nessione di Fiume in base al conclamato principio di autodecisione dei popoli, e l'annessione della Dalmazia in base alle clausole del Patto di Londra.


Nell'aprile del 1919, quando a Parigi si discusse ap­punto della questione adriatica, il presidente Wil­son, non vincolato dal Patto di Londra che gli Stati Uniti non ave­vano né sottoscritto né riconosciuto, pubblicò un messaggio con­trario alle pretese della nostra delegazione: un messaggio che si concludeva con un appello diretto al popolo italiano, negando di fatto la capacità di Orlando e di Sonnino di interpretarne gli inte­ressi e le aspirazioni.

L'affronto per il presidente del Consiglio e per il ministro degli esteri non poteva essere più grave: Orlando e Sonnino abbandonarono la conferenza di pace e si precipitarono a Roma a chiedere un voto di fiducia; e la fiducia fu subito concessa a grandissima maggioranza alla Camera e all'unanimità al Senato, mentre in tutta la penisola grandi dimostrazioni di piazza, simili a quelle del «radioso maggio» del 1915, esprimevano il sostegno «popolare» al governo

Il risultato del gesto teatrale fu però disa­stroso: durante l'assenza della delegazione italiana si decise infatti a Parigi la sorte delle colonie ex tedesche, dalla cui spartizione noi rimanemmo completamente esclusi, e in Italia vennero ulterior­mente stimolati i sentimenti sciovinistici, animati dal mito della vittoria mutilata.

Questa formula demagogica, avallata dalla più autorevole delle fonti, esasperava gli ex interventisti, che si sentiva­no traditi nelle loro legittime aspettative, e lasciava sgomenta la po­polazione di fronte al pubblico e solenne riconoscimento che i sa­crifici della guerra erano stati sostenuti invano.

Nel giugno del 1919 il ministero Orlando, scosso nel suo prestigio per l'imperizia dimostrata nelle trattative di pace, entrò in crisi e fu sostituito da un ministero presieduto da Francesco Saverio Nitti, mentre gli effetti gravissimi del carovita e della disoccupazione determinavano un vasto movimento di agitazione popolare.


Nel settembre del 1920 Gabriele D'An­nunzio promulgò la Carta del Carnaro, os­sia la costituzione del territorio di Fiume.


Contemporaneamente aveva inizio anche un vasto moto di contadini che procedevano senz'altro al­l'occupazione di terre incolte (ma talvolta anche di terre ben coltivate) soprattutto nelle regioni centro-meridionali del­la penisola: entro l'aprile del 1920 quasi 30.000 ettari di terreno, dei quali circa la metà nel solo Lazio, furono così «confiscati» da coo­perative e associazioni di contadini.

Forti agitazioni per la revisio­ne dei contratti si effettuavano intanto nella valle padana, appog­giate anche dai cosiddetti «bolscevichi bianchi» del Partito popola­re.

In generale il contenuto delle rivendicazioni contadine era rela­tivamente moderato, ma le modalità dell'azione erano durissime, sicché in complesso nel biennio 1919-1920 - passato alla storia co­me biennio rosso - lo spazio per una mediazione politica del con­flitto di classe si andava riducendo.

E non si riduceva solo per le iniziative ora ricordate:  il 12 settembre del 1919, infatti, D'Annunzio, alla testa di alcuni reparti militari sottrattisi ai loro obblighi di disciplina, s'impadroniva della città di Fiume, fino al­lora soggetta a un regime di occupazione interalleato, e vi instaura­va una sua «reggenza del Carnaro», circondata di molta retorica. Il colpo di testa dannunziano, diffondendo l'insubordinazione nell'e­sercito, feriva lo stato liberale in uno dei suoi gangli vitali, faceva correre all'Italia gravi pericoli di conflitto con la Iugoslavia, risu­scitava lo stile del «radioso maggio» e prefigurava il metodo e il blocco di forze che tre anni più tardi avrebbero portato al potere il fascismo.


Nitti, pur convinto che l'Italia non dovesse ri­schiare le sue sorti «per follie o per sport romantici e letterari di vanesi», di fatto non osò stroncare con la forza l'inizia­tiva dannunziana, così come non aveva potuto arginare le agitazio­ni delle masse popolari, ma si limitò per un verso a rafforzare l'ap­parato repressivo con l'istituzione della Guardia regia, per l'altro a cercar di eliminare alcune delle cause più gravi del diffuso spirito di ribellione, concedendo un'ampia amnistia ai disertori, varando un decreto che consentiva il passaggio temporaneo delle terre in­colte ad associazioni di lavoratori, conservando il prezzo politico del pane, che costava allo stato oltre sei miliardi all'anno (corri­spondenti a circa 5500 miliardi di lire 1986).

La scarsa incisività dell'azione governativa non era però imputabile personalmente a Nitti, quanto piut­tosto a una crisi del liberalismo che risultò evidentissima nelle ele­zioni del novembre 1919.

In quell'occasione, infatti, la vecchia Ita­lia prebellica subì una pesante sconfitta: i socialisti ottennero 156 seggi, contro i 52 del 1913; il Partito popolare, che per la prima volta affrontava il cimento elettorale, conquistò 101 seggi; il resto dei suffragi andò alle diverse cor­renti liberali e radicali, che conservarono la maggioranza dei voti (circa tre milioni e mezzo), ma perdettero la maggioranza dei seg­gi ottenendone complessivamente 251 su 508.

Era, come intitolò il suo commento La Stampa di Torino, una vera e propria «Caporetto liberale», cui faceva riscontro la piena vittoria dei partiti di massa.

I fascisti, per il momento, uscivano malconci dalla competizione e non ottenevano alcun seggio.






L'ultimo ministero Giolitti



Giolitti aveva promosso lo sviluppo capita­listico industriale del primo Novecento, ma non per questo era diventato 1'uomo di fiducia dei capi­talisti.

I suoi rapporti con gli ambienti del grande capitale, che non erano mai stati permanenti e organici, lo erano ora meno che mai, perché la borghesia si avviava a ritirare il suo appoggio alle istitu­zioni liberali democratiche, che egli intendeva invece rafforzare.


Il Partito socialista rimaneva ancorato alle tesi massimalisti­che (confermate nel XVI Congresso svoltosi a Bologna nell'ottobre del 1919), e non era quindi disposto ad appoggiare un programma di democrazia avanzata, quale  Giolitti proponeva

Il Partito popolare, per le sue concezioni «agricole» arretrate, per i suoi legami di fatto col Vaticano e per la sua aspirazione a non delegare la propria rappresentanza a un esponente laico del li­beralismo, non poteva fornire al Giolitti che un appoggio condi­zionato, che sarebbe venuto meno proprio su alcuni punti signifi­cativi del programma di governo

Infine, la Camera, tradizionale strumento dell'egemonia giolittia­na, non era più il centro reale del potere, che si era largamente spostato nei partiti di massa: socialista, cattolico e, di lì a poco, fa­scista.


La strategia del Giolitti mirava:


a impegnare i so­cialisti, o almeno una frazione di essi, nell'attuazio­ne di una politica riformistica;

a ridurre i Popolari in una posi­zione subalterna (stile patto Gentiloni);

a utilizzare i fascisti co­me deterrente contro l'estremismo socialista e a conceder loro quanto bastava perché essi rientrassero poi nella norma dello Stato liberale


E questa serie di «miracoli» doveva essere compiuta senza che Giolitti avesse dietro di sé un apparato di attivisti, di stampa, di propaganda, di organizzazione capillare, neppur da lon­tano paragonabile a quello dei partiti di massa.

Così stando le cose, il vecchio statista fallì completamente i suoi obiettivi strategici: i socialisti non si lasciarono ridurre al riformismo, i popolari non ac­cettarono d'essere egemonizzati, i fascisti, infine, grazie allo straor­dinario fiuto di Mussolini, finsero di lasciarsi usare, ma in realtà finirono coll'usare il Giolitti per ottenerne una patente di rispettabi­lità.


Efficace e rapida fu invece l'iniziativa di Giolitti nell'attuazione dei singoli punti programmatici del suo quinto governo.

Il Presidente liquidò il protettorato italiano sull'Albania (stabilitosi al termine della guerra per mandato della conferenza di Parigi) che aveva dato luogo a una vera e propria in­surrezione delle popolazioni locali.

Per la questione adriatica,  Giolitti provvide a con­cludere accordi diretti con i rappresentanti iugosla­vi e strinse con essi il trattato di Rapallo (12 novembre 1920), per il quale l'Italia, conservando la città di Zara, rinunciava definitiva­mente al resto della costa dalmata, abitata effettivamente da popo­lazioni slave; Fiume veniva eretta a città libera, e il confine orienta­le con la Iugoslavia veniva stabilito in modo che all'Italia rimaneva­no tutta l'Istria e alcune isole.

Con ciò era decisa la fine dell'avventura dannun­ziana: dopo aver inutilmente tentato di ridurre alla ragione il «Comandante» in via pacifica (e dopo essersi assicurato che Mussolini, il cui peso politico andava crescendo, non avreb­be offerto al D'Annunzio se non una solidarietà «platonica»),  Gio­litti affidò l'incarico di intimargli lo sgombero da Fiume al generale Caviglia che, con pochi colpi di cannone diretti al palazzo della reggenza, nel Natale del 1920 costrinse i legionari e il poeta ad ab­bandonare la città. I nazionalisti parlarono perciò di un Natale di sangue, Mussolini pubblicò sul Popolo d'Italia un articolo di aspra condanna intitolato Il delitto; ma tutto si esaurì in proteste verbali, mentre sul piano dei fatti il paese traeva grande vantaggio dal conseguimento della pace.







Per quanto riguarda la politica interna, il governo procedette speditamente all'attuazione del program­ma: fra il giugno e la prima metà di agosto del 1920 fu approvata la legge che riformava l'articolo 5 dello Statuto e stabiliva la sovranità del parlamento anche nel cam­po degli accordi internazionali e della dichiarazione di guerra[2], nonché altre leggi che limitavano la facoltà del governo di ricor­rere a decreti-legge, stabilivano una forte progressività nelle im­poste di successione, imponevano la nominatività dei titoli, che fino allora erano stati titoli al portatore (ma questa decisione, di notevole importanza, fu prima insabbiata dal Partito popolare e più tardi abrogata dal Mussolini).


Grazie a queste iniziative democrati­che (appoggiate anche da gran parte dei deputati socialisti), il Go­verno conseguì il prestigio sufficiente per proporre la graduale abolizione del prezzo politico del pane, necessaria ad alleviare il disavanzo statale ma ovviamente molto impopolare.

Malgrado l'o­struzionismo dei socialisti, anche questa proposta passò nel feb­braio del 1921.

Nel frattempo però erano accaduti nel paese fatti gravissimi, destinati a compromettere irrimediabil­mente le sorti del proletariato e con esse le speranze di una soluzione democratica della crisi italiana.

Dalla metà del lu­glio 1920 erano in corso trattative fra la Federazione Italiana Operai Metallurgici (FIOM) e le rappresentanze padronali sul problema dell'adeguamento dei salari al carovita. Di fronte alla rigida resi­stenza degli industriali, la FIOM decise di ricorrere all'ostruzioni­smo, che cominciò ad essere praticato dal 21 agosto con l'intesa che ad un'eventuale serrata le maestranze avrebbero risposto con l'oc­cupazione delle fabbriche.

Pochi giorni dopo, gli operai - trovata la ditta Romeo di Milano presidiata dalle forze di polizia che ne im­pedivano l'accesso - procedettero all'occupazione di circa trecen­to stabilimenti, dislocati in tutto il triangolo industriale (Milano, Torino, Genova). Superate di molto le sue origini sindacali, la lotta assunse pertanto il significato di una sfida alle leggi vigenti.

Il Par­tito socialista, però, né seppe né volle assumersi la responsabilità di una scelta rivoluzionaria che sarebbe stata coerente con le premes­se massimalistiche, sicché il proletariato fu lasciato allo sbaraglio e si profilò ben presto la inevitabilità di una sconfitta. Questa fu tan­to più grave in quanto il Giolitti, resistendo alle pressioni dell'opi­nione pubblica più sprovveduta, si astenne dal tentare una repres­sione violenta, ma - per usare le sue stesse parole - lasciò che «1'esperimento si compisse sino a un certo punto, perché gli operai avessero modo di convincersi della inattuabilità. dei loro propositi, ed ai caporioni fosse tolto il modo di rovesciare su altri la responsa­bilità del fallimento».


Così, in poco più di due settimane, la spinta prole­taria si esaurì, e gli operai dovettero costatare che, senza il sostegno dei tecnici, degli impiegati, degli intellettuali, del­le masse contadine dell'Italia centrale e meridionale, essi non costi­tuivano un blocco storico autosufficiente

A metà settembre si ria­prirono pertanto le trattative fra le rappresentanze padronali e ope­raie con la mediazione del governo, e gli operai si impegnarono a sgombrare pacificamente le fabbriche contro l'assicurazione che il governo avrebbe presentato un progetto di legge «allo scopo di or­ganizzare le industrie sulla base dell'intervento degli operai al con­trollo tecnico e finanziario, o all'amministrazione dell'azienda».

Un tale risultato, che ottenuto con una normale lotta sindacale e come obiettivo dichiarato delle organizzazioni politiche dei lavoratori sa­rebbe stato un successo, conseguito invece al termine di una lotta pararivoluzionaria, con la mediazione e i buoni uffici del governo, perdeva ogni significato e veniva vissuto dalle masse come una rea­le sconfitta; tant'è vero che in seguito neppure il Partito socialista si batté perché i progetti di legge che dovevano tradurre in atto il pattuito controllo operaio sulle fabbriche venissero discussi in par­lamento.

L'esito dell'occupazione delle fabbriche e il conse­guente scoraggiamento del proletariato diedero spa­zio alla reazione padronale.

Segni di una controffensiva borghese si erano chiaramente annunciati nel corso di tutto il 1920 con mol­teplici tentativi di organizzare corpi di volontari per la difesa dell'ordine e con la costituzione, nell'agosto, di una Confederazione generale dell'agricoltura, intesa a rintuzzare l'offensiva delle leghe contadine, particolarmente dura specialmente in Emilia e nella Bassa Padana.

Effettivamente, durante gli scioperi del «biennio ros­so» gli atti di violenza (incendi di fienili, distruzione di raccolti, uc­cisione di capi di bestiame, blocchi stradali eccetera) erano stati frequentissimi, e le leghe esercitavano in intere regioni una sorta di dittatura di fatto.

Questa vera e propria «guerra sociale» non pote­va però protrarsi indefinitamente e doveva concludersi o con un esito rivoluzionario, che a suo modo l'avrebbe fatta cessare, o con un contenimento della conflittualità entro limiti compatibili col si­stema borghese.


La situazione generale, intanto, si veniva deterioran­do per una crisi internazionale che fra il 1920 e il 1921 metteva a dura prova le strutture economiche italiane. La pro­duzione industriale calava, e i capitalisti, di fronte alla drastica ri­duzione dei loro profitti, erano sempre meno disposti a concedere miglioramenti al proletariato; gli operai, d'altra parte, minacciati dal pericolo del licenziamento per la diminuzione dei posti di lavo­ro, erano costretti sulla difensiva.

Così, mentre la volontà di lotta del proletariato ur­bano s'andava spegnendo, cominciava invece, ver­so la fine del 1920, una vistosa compenetrazione fra la reazione agraria e il fascismo, che organizzava l'uso sistematico della vio­lenza mediante le sue squadre d'azione. Le modalità operative de­gli squadristi si ripetevano uniformemente: pagati e riforniti dagli agrari, i fascisti colpivano i centri delle organizzazioni operaie e contadine, prima socialiste, poi anche cattoliche, devastavano le Camere del Lavoro, bastonavano o uccidevano i capi sindacali, sac­cheggiavano le cooperative, seminavano il terrore e la morte, men­tre l'opinione pubblica borghese e piccolo-borghese, salvo margina­li riserve, applaudiva al loro operato.

Alla sutura del fascismo con la reazione agraria si aggiungeva ben presto quella con la reazione degli industriali, usciti dagli scio­peri del biennio rosso e dall'occupazione delle fabbriche con pro­positi di sterminio delle organizzazioni operaie e profondamente insoddisfatti della moderazione di Giolitti.

Lo scontro di classe, in altri termini, scavalcava la mediazione politica e statale, e avveni­va ormai sul terreno militare: l'unico appunto sul quale il proleta­riato si trovava in posizione di gravissima inferiorità.

Le istituzioni, d'altra parte, erano esse stesse larga­mente compromesse col fascismo, né si trattava solo di collusione ri­guardante gli alti comandi, ché al contrario fra gli ufficiali dei gra­di inferiori e tra le forze dell'ordine (troppo spesso attaccate dai «rossi» anche con provocazioni assolutamente assurde) le simpatie per il fascismo erano diffusissime. Malgrado gli sforzi di Giolitti, che per la verità non mancava di richiamare continuamente prefet­ti e questori all'esercizio imparziale del loro dovere, lo stato libera­le era dunque in completo sfacelo.

A Giolitti sfuggiva invece la nuova fi­sionomia assunta dal fascismo da quando esso si era organica­mente legato alla reazione padronale e aveva con ciò cessato di es­sere un movimento transitorio, facilmente riassorbibile nelle strut­ture dello stato liberale; e tale errore di diagnosi, allora assai diffu­so, era facilitato dallo stesso Mussolini che, con sicuro istinto, al­ternava atteggiamenti idonei, per un verso, a conservargli il fonda­mentale supporto dell'«esercito» squadrista, per l'altro ad impedire la completa identificazione del fascismo con la reazione armata, che non avrebbe ottenuto alla distanza una sufficiente base di con­senso.


Poco dopo la liquidazione dell'avventura dannunzia­na a Fiume, si riunì a Livorno il XVII Congresso del Partito socialista (15-20 gennaio 1921), nel qua­le si manifestò in tutta la sua asprezza la dissidenza dei gruppi di Amadeo Bordiga e di Antonio Gramsci, che uscirono anche for­malmente dal partito e fondarono il Partito Comunista d'Italia[4] Sui tempi e sui modi della scissione, gli stessi Gramsci e Togliatti espressero più tardi un giudizio fortemente autocritico, ed effetti­vamente, nel breve periodo, essa contribuì a indebolire ulterior­mente la capacità di resistenza del proletariato che, pur conservan­dosi in gran parte fedele al Partito socialista, rimase confuso e fra­stornato dalla durissima polemica condotta contro di esso dai co­munisti.

Giolitti aveva invece sperato in una scissione «a destra» dei socialriformisti di Turati, che sin dal pri­mo Novecento egli aspirava a cooptare nell'esercizio del governo. Per quanto deluso nella sua aspettativa, egli chiese comunque alla Corona lo scioglimento della Camera, con un anticipo di tre anni sulla scadenza normale, allo scopo evidente, anche se non dichiara­to, di approfittare della crisi del socialismo per farlo duramente pu­nire dagli elettori e per poter poi trattare con i suoi esponenti da posizioni di forza.


«Per lo svolgimento della lotta elettorale - scrisse egli stesso -, considerando che la più grave debo­lezza dei partiti costituzionali liberali stava nel loro frazionamento, in confronto alla unione e compattezza dei socialisti e dei popolari, io consigliai la formazione di blocchi in cui tutte le forze dei vecchi partiti liberali e democratici fossero raccolte».

In realtà il suo non fu un semplice «consiglio», ma fu invece un attivo e determinante intervento per la costituzione di Blocchi nazionali che dovevano essere l'equivalente liberale dei partiti di massa, ma che furono invece il trampolino di lancio del fascismo, largamente rappre­sentato in tali blocchi e chiaramente avviato a diventare l'unico partito di massa fra le sparse schiere del vecchio liberalismo.

I consensi al fascismo aumentavano infatti con straordinaria ra­pidità: i Fasci, che nel marzo del 1921 erano 317 con 80 476 iscritti, nel solo mese di aprile salirono a 417, con 98 399 iscritti, e subito dopo le elezioni balzarono di colpo a 1001 con 187 098 aderenti. Nel medesimo tempo anche l'aggressività delle squadre d'azione si intensificava, tanto che durante la campagna elettorale si ebbero gravissimi incidenti con decine di morti.

Partito Comunista d'Italia

L'arretramento dei socialisti nelle elezioni, che si svolsero il 15 maggio 1921, fu complessivamente in­feriore alle previsioni: essi infatti conservarono 123 seggi (dei pre­cedenti 156), mentre 15 venivano «ricuperati» dai comunisti. Il Par­tito popolare passava da 101 a 107 seggi.

I Blocchi nazionali ottene­vano ben 275 seggi, ma 35 di questi seggi venivano conquistati dai fascisti che, dopo aver ottenuto dal Giolitti l'ambita patente di «costituzionalità», avevano impostato la campagna elettorale in ter­mini nettamente antigiolittiani. Né gli altri gruppi che avevano ade­rito ai Blocchi potevano considerarsi omogenei, dato che essi com­prendevano tutte le gamme del liberalismo: dai nazionalisti, ogget­tivamente imparentati coi fascisti, ai democratici radicali.

La complessa manovra delle elezioni anti­cipate e dei Blocchi nazionali era dunque fallita: nel­la nuova Camera, convocata 1'11 giugno 1921, il ministero presen­tato dal Giolitti ottenne la fiducia con una maggioranza limitata, e alcuni dei suoi stessi sostenitori espressero riserve su punti signifi­cativi delle dichiarazioni programmatiche, sicché Giolitti ritenne necessario rassegnare le dimissioni.








La marcia su Roma



Caduto il ministero Giolitti, l'incidenza dell'azione governativa si riduce notevolmente: sotto i due de­boli ministeri di Bonomi (luglio 1921-febbraio 1922) e Facta (febbraio-ottobre 1922) i fascisti spadroneggiano su in­tere regioni, senza che i poteri dello stato intervengano a difendere la legalità; anzi la collusione delle «forze dell'ordine» col fascismo, salvo rare eccezioni e malgrado i richiami talvolta molto energici di Bonomi, si fa ogni giorno più manifesta.

Non per questo Mussolini intende però identifi­carsi senza riserve con lo squadrismo, perché ciò lo esporrebbe al rischio di essere «scavalcato» dai «ras»[5] che dominano nelle singole province

Al contrario: gli squa­dristi devono bensì servirgli a conquistare spazi sempre più vasti di potere, ma d'altra parte il suo «costituzionalismo» deve servirgli per tener a segno gli squadristi.

In questa prospettiva si collocano le sue non infrequenti professioni di rispetto della legalità e il patto di pacificazione che, per sua esplicita e tenace volontà, i rappre­sentanti del fascismo firmano il 3 agosto del 1921 con i rappresen­tanti del Partito socialista: patto di scarsissima efficacia e che dura solo fino al 15 novembre, ma che serve a Mussolini per accreditare il proprio «perbenismo» politico.

La linea del «doppio binario» (squadristico e «legalitario») viene confermata anche nel III Con­gresso che si svolge a Roma nel novembre e che trasforma il movi­mento dei fasci in Partito Nazionale Fascista (P.N.F.): nei docu­menti che ne escono, infatti, mentre si conferma ambiguamente che le istituzioni possono essere «efficaci in quanto i valori nazio­nali vi trovino espressione e tutela», si dice anche che «ogni fascio ha l'obbligo di costituire delle squadre di combattimento».

Malgrado la resistenza che le squadre talvolta incon­trano nella forza pubblica o negli Arditi del popolo (nati per combattere i fascisti sul terreno militare, ma considerati con diffidenza dai partiti di sinistra), la violenza antiproletaria as­sume progressivamente una tale ampiezza che negli ambienti sin­dacali e politici di sinistra s'affaccia allora l'idea di abbandonare la lotta contro lo stato liberale e di appoggiare invece anche un gover­no borghese, purché questo si impegni a difendere le più elementa­ri libertà dei lavoratori.


Si costituisce inoltre un'Alleanza del Lavo­ro fra la CGL ed altre organizzazioni sindacali, che tenta, con scar­si risultati, di rendere più efficace la difesa dei lavoratori contro le aggressioni fasciste.


Il 31 luglio del 1922 tale Alleanza proclama uno sciopero generale di protesta, in difesa della legali­tà («sciopero legalitario»).

La direzione del P.N.F. non esita allora a porre al governo Facta un vero e proprio ultimatum, minacciando l'intervento delle squadre, se lo Stato non  avesse provveduto a stroncare lo sciopero entro quarantotto ore.

Ed effettivamente, nei giorni che seguono, le associazioni sindacali, le cooperative, i municipi ad amministrazione socialista sono oggetto di un'offensiva fascista di vaste proporzioni, che strappa ai 'rossi' anche le roccaforti consi­derate imprendibili di Milano e di Genova.

Al pieno successo del colpo di stato fascista manca ormai solo il consenso della dinastia, necessario per ottenere l'adesione degli ambienti militari, indifferenti alle sorti delle istituzioni liberali ma fedeli al sovrano.

Le tendenze repubbli­cane del fascismo erano state confermate da Mussolini anche subi­to dopo le elezioni del 1921, quando il «duce» e altri deputati del suo gruppo si erano addirittura rifiutati di partecipare alla cerimo­nia d'apertura della nuova Camera, durante la quale, come di con­sueto, il re aveva tenuto il cosiddetto «discorso della Corona»; ma il 'pragmatismo' fascista consentiva di superare l'ostacolo con la massima disinvoltura.


Il 20 settembre del 1922, infatti, Mussoli­ni dichiarava in un discorso tenuto a Udine: «Io penso che si possa rinnovare profondamente il regime, lasciando da parte la istituzio­ne monarchica Perché siamo repubblicani? In un certo senso perché vediamo un monarca non sufficientemente monarca. La mo­narchia rappresenterebbe, dunque, la continuità storica della na­zione». Nello stesso discorso, per tranquillizzare gli ambienti indu­striali che ancora consideravano con sospetto i trascorsi socialisti del «duce» e di altri esponenti del fascismo, si faceva professione del più radicale liberismo economico: «Basta - diceva infatti il Mussolini - con lo stato ferroviere, con lo stato postino, con lo sta­to assicuratore; basta con lo stato esercente a spese di tutti i contri­buenti».


Le dichiarazioni di Mussolini circa la ormai «inevi­tabile» vittoria del fascismo divennero nei giorni successivi sempre più chiare ed esplicite, mentre, nella decomposi­zione del vecchio stato liberale, i fascisti si preparavano alla presa del potere con un atto di forza.

Il 24 ottobre 1922 si riunirono a Napoli alcune decine di migliaia di camicie nere, e Mussolini le arringò in questi termini: «O ci daranno il governo, o lo prenderemo calando su Roma; ormai si tratta di giorni e forse di ore».

Il 27 ottobre un comunicato della di­rezione fascista (affidata per l'occasione ai quadrumviri Balbo, Bianchi, De Bono e De Vecchi) annunciò agli Italiani che l'esercito delle camicie nere marciava «disperatamente» su Roma.

In verità la disperazione era solo nelle parole, perché la Marcia su Roma (28 ottobre 1922) non incontrò resistenze apprezzabili.

Il re, rientrato precipitosamente a Roma da San Rossore la sera del 27 ottobre, s'accordò in un primo tempo con Facta per la proclama­zione dello stato d'assedio, ma la mattina dopo si rifiutò di firmar­lo, sicché a Facta non rimase altra alternativa che quella di presen­tare le dimissioni.

L'incarico di formare il nuovo governo venne allora affidato da Vittorio Emanuele III a Mussolini, quasi  si trattasse di un normale avvicendamento di ministeri (31 ottobre).



Il sistema proporzionale, invocato anche dai socialisti, fu effettivamente adottato nelle elezioni del 1919 e del 1921, delle quali parliamo più avanti. Col vecchio sistema uninominale da ogni collegio elettorale usciva eletto un solo candidato: quello appunto che aveva raccolto il maggior numero di voti. Col nuovo metodo, molto si­mile rimasto in vigore fino a qualche anno fa, da ogni collegio escono eletti parecchi deputati, asse­gnati alle singole liste in proporzione ai voti ottenuti da ciascuna lista (scru­tinio di lista).

Il collegio uninominale attribuiva maggiore importanza ai singoli can­didati, ai «notabili». Il sistema pro­porzionale, pur consentendo agli elet­tori di manifestare il proprio voto pre­ferenziale anche per singoli candida­ti, accentua l'importanza dei partiti e delle scelte politiche che essi espri­mono.

L'articolo 5 dello Statuto stabiliva: «A1 Re solo appartiene il potere ese­cutivo. Egli è il Capo Supremo dello Stato: comanda tutte le forze di terra e di mare; dichiara la guerra; fa i trat­tati di pace, d'alleanza, di commercio ed altri []». Le modalità con cui nel si era giunti al Patto di Londra e alla dichiarazione di guerra avevano ampiamente dimostrato la pericolosi­tà di questo articolo.

I titoli (azioni, obbligazioni eccete­ra) si dicono al portatore quando non sono intestati a una singola persona ma rimangono anonimi. In tal caso chi li possiede fisicamente e li «por­ta» (ossia li presenta in banca o nelle altre sedi previste) può esercitare tutti i diritti inerenti ai titoli stessi senza che il suo nome compaia. I titoli sono invece nominativi, appunto se recano il nome del loro proprietario.

È chiaro che, se i titoli sono al porta­tore, l'evasione fiscale risulta estre­mamente facilitata: opporsi alla no­minatività dei titoli significa quindi, in concreto, favorire l'evasione fi­scale.

Secondo le pretese della Terza In­ternazionale, il Partito socialista pote­va rimanere nell'associazione (cui  aveva aderito) solo accettando una specie di Diktat, formulato in 21 pun­ti che contribuirono ad inasprire i dissensi fra i congressisti. Tali punti prescrivevano fra l'altro che il Partito socialista abbandonasse la tradizio­nale denominazione e assumesse quella di «Partito comunista», si des­se un'organizzazione fortemente cen­tralizzata, provvedesse periodica­mente a epurarsi degli aderenti picco­lo-borghesi infidi, espellesse gli «op­portunisti notori» come Filippo Tura­ti (menzionato per nome), rifiutasse ogni credito alla «legalità borghese», si impegnasse a fondo per l'instaura­zione della dittatura del proletariato. La maggioranza massimalista del Congresso di Livorno respinse i 21 punti e pertanto il Partito socialista fu estromesso dalla Terza Internaziona­le, alla quale fu invece ammesso il Partito comunista.

Il termine ras, tratto dal feudalesi­mo etiopico, veniva usato per indica­re i capi locali del fascismo, che in pratica dominavano in provincia se­condo il loro personale arbitrio. Fra i ras più noti citeremo Farinacci di Cremona, Balbo di Ferrara, Arpi­nati di Bologna, Giunta di Trieste, Perrone Compagni di Firenze, Ca­radonna di Bari. I rapporti del «duce» con i ras erano spesso assai tesi, e di­vennero addirittura burrascosi a pro­posito del patto di pacificazione, nel quale i ras videro il perico­lo di essere messi in disparte e magari abbandonati ai rigori della legge, da loro quotidianamente violata.


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