IL MALE NELLA STORIA
Spesso appare difficile ritenere con fermezza
filosofica che il male non sia altro che assenza totale di bene o frutto della
nostra incapacità di individuare il senso universale che si nasconde dietro
ogni grande e piccolo fenomeno. La nostra 'umanità' ci porta invece a
pensare che l'essere sia inevitabilmente sotto l'influenza di due forze, delle
quali la prima ci spinge ad agire secondo il giusto, cioè in modo tale da
rendere momentaneamente migliore la nostra esistenza e quella degli altri,
oppure solo quella degli altri (e questo è quello che comunemente chiamiamo
spirito di sacrificio), mentre la seconda è istinto di morte, puro e
ingiustificato desiderio di dolore, sofferenza e distruzione, indelebile
macchia nera che contamina la parte più profonda e nascosta dell'animo di ogni
individuo. E' impossibile sradicare questo impulso dal nostro essere; per
riuscire in ciò dovremmo rinunciare ad esistere: quando veniamo al mondo
abbiamo già dentro di noi i due semi del bene e del male; il primo per
svilupparsi e crescere avrà bisogno di molte cure e attenzioni, ma al secondo
basterà il semplice contatto col mondo e con la società umana per ricevere
l'impulso che lo trasformerà in una pianta 'sana e forte'. Anche
l'infanzia, intesa come paradiso di purezza e felicità, è destinata ben presto
a dissolversi nel travolgente fluire
della vita, per cui non è possibile non bagnarsi. Nel momento in cui un bambino
entra in contatto con il gruppo dei suoi coetanei il suo processo di 'degenerazione'
prende inizio; immediatamente egli si rende conto del fatto che tutti gli altri
bambini non vogliono fare altro che affermare se stessi: di fronte alle molte
meschinità che sarà costretto a subire il suo ancora piccolo ma sensibile Ego
deciderà di reagire rispondendo alla forza con la forza: questo è il peccato
originale alla radice del male. Più si cresce più ci si addentra nell'oscurità
del male; la crescita fisica e mentale di un individuo comporta inevitabilmente
la conoscenza del male, la cui azione corrosiva riguarda ogni uomo in quanto
tale. Per un uomo, dunque, entrare nella società e nella storia significa
accettare regole, meccanismi e compromessi che, in un modo o nell'altro,
porteranno la sua purezza originaria a corrompersi, a degradarsi. A mano a mano
che il nostro senso del male si acuisce, diventiamo sempre più esperti della
vita, tanto che possiamo dire che gli uomini di maggior successo sono proprio
quelli che il male lo conoscono alla perfezione e in tutte le sue sfaccettature
(cosa che permette loro di evitare quello proveniente dall'esterno e di
servirsene al momento opportuno in vista di un guadagno personale).
Considerando tutti questi aspetti apparirà chiaro come coloro che la storia la
fanno siano maggiormente immersi nell'universo di quegli assoluti che sono il Bene
e il Male. Tiranni e capi di stato si trovano costantemente a dover scegliere
tra l'Uno e l'Altro (cosa che in fin dei conti riguarda ogni individuo), ma la
loro scelta non avrà conseguenze solo su di loro, ma anche sulle vite di molti
altri uomini e donne. Per questo possiamo dire che la storia, concepita come
grande palco scenico su cui si esibiscono attraverso il tempo popoli e stati,
costituisce per Bene e Male la migliore opportunità di affermarsi, e il secolo
appena trascorso ne è la prova tangibile.
Il Novecento è stato definito dallo storico Eric
Hobsbawm il secolo breve, iniziato nel 1914 e conclusosi nel 1989 con il crollo
dell'Unione Sovietica. Lo stesso storico ritiene che il periodo compreso tra il
1914 e il 1945 meriti il titolo di età della catastrofe, a causa della
straordinaria quantità di sangue versato durante i conflitti che lo hanno
attraversato. Ad ogni modo questi tre decenni devono essere innanzitutto
ricordati come l'età dei totalitarismi. A partire dalla seconda metà degli anni
Venti il termine totalitarismo cominciò ad essere applicato in campo
storiografico e politico per indicare quelle ideologie e quei sistemi politici
caratterizzati da un controllo completo dello stato sugli individui e sulla
società. Per Hannah Arendt, pensatrice ebrea tedesca autrice de Le origini
del totalitarismo e de La banalità del male, i regimi totalitari
sono espressione delle moderne società di massa e si basano sul consenso di
settori sociali tradizionalmente estranei all'attività politica e all'impegno
su questioni di interesse pubblico. Alle masse a cui si rivolgono i movimento
totalitari offrono un'ideologia, un sistema di credenze assolute in cui
identificarsi fanaticamente. Caratteristiche del potere totalitario sono l'uso
del terrore poliziesco, la dittatura del partito, identificato con il suo capo
carismatico, e l'indottrinamento ideologico effettuato attreverso il controllo
dei mezzi di comunicazione di massa e le attività sostenute da varie
organizzazioni di regime. In Europa dunque i totalitarismi perfetti furono solo
quelli di Hitler e Stalin, mentre quello di Mussolini dovette sempre fare i
conti con le incombenti presenze del re e del papa. Sempre secondo la Arendt
per comprendere il totalitarismo il presupposto interpretativo fondamentale è
che esso, in primo luogo nella Germania nazista, infranga la continuità della
tradizione occidentale. Dal punto di vista politico esso 'rompe' con
tutte le categorie del pensiero politico occidentale, mentre da quello morale
il sistema totalitario, con i suoi campi di concentramento e di sterminio, si
presenta nella storia come 'male radicale', cioè come qualcosa di
assolutamente nuovo. La tesi della pensatrice è che l'essanza dell'ideologia
totalitaria debba essere individuata nel tentativo di compiere un attentato
ontologico all'umanità, cioè nel desiderio di creare l'uomo nuovo perfettamente
adatto al regime, cosa che si sarebbe resa attuabile solamente nei campi di
concentramento, dove gli individui vengono privati della loro umanità e di ogni
punto di riferimento.
Di fronte a questa nuova forma di male la
filosofia del Novecento ha fatto uso delle sue capacità di analisi per
individuarne le cause e i tratti salienti. In particolare il sovvertimento dei
valori occidentali compiuto dal nazismo sarebbe spiegato dal modo in cui è
concepito il legame tra l'Io e il corpo. Nella tradizione cristiana il corpo è
avvertito come estraneo rispetto all'anima, come un ostacolo da superare con
l'aiuto della spiritualità. Nella visione nazista , al contrario, l'Io è fatto
coincidere con i valori biologici della razza e del sangue, in una specie di
esaltata accettazione dell'incatenamento dell'anima al corpo. Il pericolo
dell'hitlerismo dunque risiederebbe nella volontà di radicare la propria
ideologia nello strato più elementare dell'essere. Secondo Emmanuel Lèvinas il
nazismo non è stato una follia o una parentesi nella serenità dell'Europa
democratica, ma la rivelazione di una possibilità ontologica che minaccia
l'intera umanità. Con la sua demoniaca forza di suggestione il nazismo si
presenta come 'male elementale', espressione che allude al fatto che
l'essenza dell'uomo non è più identificabile nella sua anima e nella sua
libertà, ma nel suo corpo; ai valori spirituali si sostituiscono le forze della
vita, e al dato biologico si affida il destino di un intero popolo.
La riflessione più originale riguardo al
totalitarismo come male 'nuovo' è ancora una volta della Arendt.
Nella prefazione a La vita della mente' la Arendt spiega come
l'idea di uno studio sulla facoltà di pensare avesse avuto origine
dall'esperienza compiuta assistendo a Gerusalemme al processo di Adolf
Eichmann, ufficiale nazista. Questa esperienza venne definita la 'banalità
del male', cioè la constatazione di come si possa diventare degli assassini
senza per forza essere dei geni del male. Ciò che colpiva di Eichmann era
soprattutto la mancanza non di intelligenza, ma di pensiero: 'Il male,
come ci è stato insegnato, è qualcosa di demoniaco; la sua incarnazione è
Satana, una sfolgorante caduta dal cielo, ovvero Lucifero, l'angelo caduto il
cui peccato è l'orgoglio, cioè quella superbia della quale solo i migliori sono
capaciNondimeno, ciò che avevo sotto gli occhi a Gerusalemme, qualcosa di
totalmente diverso, era pure innegabilmente un fatto. Restai colpita
dall'evidente superficialità del colpevoleGli atti erano mostruosi, ma
l'attore,, risultava quanto mai ordinario, mediocre, tutt'altro che
demoniaco o mostruosol'unica caratteristica degna di nota che si potesse
individuare nel suo comportamento passato,, era qualcosa di interamente
negativo: non stupidità, ma mancanza di pensiero'. Se Jaspers analizza la
questione da un punto di vista morale, proponendo ai tedeschi un esame di
coscienza collettivo e affermando che ogni tedesco, senza eccezione, ha avuto
la sua parte di responsabilità politica, la Arendt, invece, basa il suo
pensiero sulla sociologia e sulla filosofia della storia. Per lei non bisogna
scandalizzarsi davanti alla banalità del male, ma individuare il nesso tra il totalitarismo politico e le trasformazioni
dell'economia moderna, che consiste nella trasformazione del padre di famiglia
da membro responsabile della società a borghese attento solo alla sua vita
privata e ignaro di ogni virtù civica. E così Himmler, capo delle SS, fece leva
proprio sui sentimenti normali e socialmente dominanti del borghese, cioè del paterfamilias
e dell'onesto lavoratore interessato unicamente al benessere economico della
propria famiglia e allo svolgimento del suo dovere. Tutti questi aspetti, uniti
ad una inspiegabile passività da parte del popolo tedesco, determinarono la
nascita e il prosperare del 'mostro' nazista, che lasciò ferite
aperte non solo negli animi di coloro che furono coinvolti direttamente, ma
anche nel pensiero occidentale tutto. Dopo Auschwitz neppure dio fu più lo
stesso di prima: l'uomo per la prima volta nella storia sperimentò il totale
abbandono da parte di un dio che, secondo Hans Jonas, non poteva più essere
concepito come onnipotente. L'esperienza di Auschwitz portò addirittura a
teorizzare la morte di dio, ormai impotente di fronte ai mali che straziano il
mondo. Insieme a milioni di uomini morirono in pochi anni quelle certezze a cui
l'uomo si era affidato ancora prima della venuta di Cristo.