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IL CULTO DEGLI ALBERI
L'albero viene considerato dai Longobardi come elemento sacro, oggetto di venerazione e, in alcuni casi come incarnazione della divinità.
E' risaputo che per i Longobardi il culto degli alberi era un culto fondamentale. Noto, ad esempio, è il caso del frassino Ygadrasil (appellativo di Odino) la cui morte avrebbe segnato la fine del mondo. Nella mitologia Scandinava (la Scandinavia è il territorio originario dei Longobardi) era ritenuto l'albero sacro che sorreggeva i nove mondi nati dal sacrificio del gigante Ymir. Secondo la tradizione, Yggdrasil, la cui chioma si estendeva a coprire l'universo intero, era sostenuto da tre immense radici che affondavano in tre mondi diversi: la dimora dei giganti, la dimora degli Asi (divinità nordiche) e la terra del freddo. Presso ciascuna radice si trovava una sorgente. Principio di vita e di morte, Yggdrasil è anche il simbolo di tutto il sapere : per possederlo, Odino dovrà offrirsi in sacrificio, rimanendo appeso per nove giorni a uno dei rami, con la lancia che gli trafigge il fianco.
Durante l'epoca longobarda le promesse di matrimonio erano fatte all'ombra di un gigantesco castagno.
Altra tradizione era la cosidetta 'fasgela': un piccolo tronco rigorosamente di legno chiaro (preferibilmente faggio) veniva dato alle fiamme durante la notte di Natale nella piazza del paese.
"Nella notte tra il 30 aprile e il primo maggio, i giovanotti recavano in dono rami fioriti alle case e percorrevano il paese cantando per la prosperità delle galline e delle famiglie in genere. Fermatisi davanti alla casa, cantavano sino a quando il padrone o la padrona non fossero scesi ad aprire, ed avessero riposto nel paniere di colui che raccoglieva le uova la coppia di uova richiesta. A quel punto, l'allegra compagnia ringraziava e salutava, lasciando sulla porta un ramo fiorito"
'Prima che arrivasse l'alba, alcuni di quei giovani si recavano nei boschi per tagliare 'l'albero del maggio': un alberello che, addobbato con nastri rossi, veniva innalzato sulla piazza del paese'
LA LINGUA DEI LONGOBARDI:
La lingua dei Longobardi è di ceppo germanico, e il suo declino è avvenuto gradualmente a partire dal VII secolo. Infatti gli stessi Longobardi ben presto adottarono il latino come lingua e di questo è prova l'Editto di Rotari, composto interamente in questa lingua.
I Longobardi, hanno lasciato numerose parole in eredità alla lingua italiana. In Friuli ad esempio ci sono oltre 232 toponimi ed esistono anche numerosi vocaboli di tale origine. Ecco quindi che troviamo la parola jökull, che sta per 'capretto', oppure scroc, il caratteristico berretto di lana in uso nelle zone montane, che deriva da krokfelar, copricapo delle donne sposate usato in Scandinavia, terra originaria dei Longobardi.
Anche i caratteristici nastri alla cintola adoperati, fino a pochi decenni fa, dalle donne maritate hanno origini longobarde. Poi c'è il ragnarök, terreno di una zona di pendìo, sul quale si crea, al momento del disgelo primaverile, una situazione di sassi, fango e detriti.
Questo termine proviene da 'regana', divinità delle acque, da cui il toponimo Reana del Rojale. Altre parole in lingua friulana di derivazione longobarda: crùchigne (stampella), gruse (crosta del sangue raggrumato sulla pelle), flap (floscio), bleòn (lenzuolo), stortheais (il gocciolio delle grondaie), garsona (ragazza, figlia).
Ancora oggi sono utilizzati nomi di origine chiaramente Longobarda come per esempio Ermengarda, Ermenegildo, Valfrido, Frida, Gerardo, Ugo, Valdo (dal longobardo Bald = ardito).
Numerosi sono anche i cognomi di origine longobarda fra cui l'ormai raro 'Gastaldi' oppure 'Sibaldi'. Altre volte, invece, la sopravvivenza del nome germanico è stata possibile solo a prezzo di una sovrapposizione del termine germanico con altri termini di derivazione latina e mediterranea; è il caso, ad esempio, di Hildjo (un nome proprio col significato di combattimento e dal quale derivano composti come Brunilde) che, attraverso una contaminazione col latino Ilia (fianchi) e col nome della città di Ilio (Troia), ha derivato due rari nomi pistoiesi: Ildo e Ilio.
L'EDITTO DI ROTARI:
L'Editto di Rotari, la prima raccolta scritta delle leggi dei Longobardi , fu promulgato alla mezzanotte tra il 22 novembre e il 23 novembre dal re Rotari. L'Editto fu composto in latino (anche se nel testo sono inserite numerose parole longobarde, in forma latinizzata o meno, il che ne fa uno dei più interessanti documenti per lo studio della lingua longobarda) e riunisce in forma organica le antiche leggi del popolo longobardo, pur risentendo in parte dell'influenza del diritto romano. Esso conta 388 capitoli.
L'Editto era valido solo per la popolazione italiana di origine longobarda; quella di origine romana soggetta al dominio longobardo rimaneva invece regolata dal diritto romano, codificato a quell'epoca nel Digesto (una parte del Corpus Iuris Civilis) promulgato dall'imperatore Giustiniano.
Era un codice di diritto civile e penale e fissava le tariffe, o guidrigildo, che l'offensore doveva pagare alla vittima, in riparazione al danno che gli aveva provocato. Il guidrigildo aveva così sostituito completamente la faida ed era un segno di notevole incivilimento dei Longobardi che il contatto coi Romani e la conversione al Cristianesimo avevano propiziato.
La pena di morte era limitata ai reati speciali, quali il regicidio, la diserzione, il tradimento, i delitti contro la sicurezza dello stato, l'ordine pubblico e l'uccisione da parte della donna del marito. Per gli altri delitti si applicava una pena in denaro che variava secondo la qualità dell'ucciso, quindi proporzionale al valore sociale della persona. La differenza di pena a seconda di chi commetteva il fatto ed a seconda di chi lo subiva denota come la società longobarda dell'epoca fosse già notevolmente stratificata.
Così anche per il ferimento: una costola, ad esempio valeva dai 10 ai 12 soldi, un dente dai 14 ai 16, mentre la frattura di una gamba valeva ben 54 soldi.
Particolarmente significativa la differenza di pena per l'uxoricidio: se commesso dalla consorte verso il marito, avrebbe portato alla condanna a morte o alla lapidazione della donna; viceversa era punito con una pena pecuniaria. Tuttavia la somma da pagare era al di fuori della portata dei più, e gli uxoricidi erano condannati dunque ai lavori forzati.
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