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I Fenici




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I Fenici


Gli antichi abitanti delle città della costa orientale del Mediterraneo, corrispondente circa all'attuale Liba­no, non definirono mai sé stessi con il nome di Fenici, che invece fu loro imposto dai Greci, con i quali vennero ben presto in contatto, nel corso dei loro viaggi.

Il nome di Fenici si deve forse al caratteristico colore rosso-porpora delle loro stoffe, colore definito in greco per l'appunto foinix.

I Fenici invece denominarono sé stessi raramente con il nome generico di Cananei, dalla terra di Canaan, antico nome della regione siro-palestinese, e più frequentemente con i nomi delle singole città di pro­venienza.

Sono rimaste dunque ad esempio le testimo­nianze dei Tirii e dei Sidonii, abitanti rispettivamente delle antiche città ancora oggi esistenti Tiro e Sidone.

Per quanto riguarda i Fenici abitanti nelle colonie dell'Occidente mediterraneo, venuti ben presto in con­tatto con i Romani, furono da questi denominati unita­riamente Punici, nome questo che ricalca in modo spe­culare il termine greco.

Invece, al pari degli abitanti del­la costa orientale del Mediterraneo, i Fenici di Occidente definirono sé stessi con i nomi delle loro città. Pertanto, a titolo esemplificativo, si possono ricordare i Bithiensi e i Sulcitani, abitanti rispettivamente delle antiche Bi-thia e Sulcis, in Sardegna.

Attualmente il mondo degli studi, anche per evitare sovrapposizioni e incomprensioni, tende a definire con il nome di Fenici gli abitanti delle città della costa siro-palestinese e, in Occidente, gli abitanti degli insediamen­ti del Mediterraneo occidentale prima della loro conqui­sta da parte di Cartagine verso la fine del VI sec. a.C. Con il nome di Punici vengono invece indicati gli abi­tanti dei centri di Occidente dopo la conquista da parte di Cartagine. Infine, con il nome di Cartaginesi sono de­nominati gli abitanti della metropoli nord-africana.

L'unico aspetto che realmente unì questo popolo fu l'uso dell'alfabeto e quindi della medesima lingua, che lo segui da Oriente a Occidente nel corso dei suoi viaggi e della sua storia.


Storia delle città di Oriente


La storia dei Fenici di Oriente si pone tradizional­mente dal XII sec. a.C. fino alla conquista di Tiro da parte di Alessandro Magno, avvenuta nel 333 a.C.

La data iniziale trae origine dalla formazione di una identi­tà culturale, ma non politica, tra le città della costa siro-paleslinese, al termine di un periodo di grandi sommovi­menti di regni e di popoli che sconvolsero tutta l'area del Vicino Oriente antico nel XIII sec. a.C.

La caduta e la repentina scomparsa dell'impero ittita, il drastico ridi­mensionamento di quello egiziano e l'invasione dei co­siddetti «Popoli del mare» crearono in tutta l'area vicino-orientale un lungo periodo di instabilità politica che permise il crearsi e il consolidarsi di autonomie loca­li, tra le quali per l'appunto quelle delle città della costa de! Mediterraneo orientale.

Ad una precoce egemonia di Sidone segui, dal X sec. a.C., un periodo di predominio da parte di Tiro, che, attorno al 950 a.C., intraprese al­leanze con i popoli vicini, quali il regno di Israele retto da Salomone, e viaggi di esplorazione e di commercio di lungo percorso.

L'affermazione e l'espansione del regno di Assiria divengono evidenti fin dal IX sec. a.C. con le continue spedizioni armate tese all'esazione di tributi da parte delle città fenicie.

Non solo Tiro e Sidone, ma anche al­tre città quali Biblo, Arado, Acco e Sarepta vengono ag­gredite e spesso saccheggiate. Anche l'isola di Cipro, politicamente legata a Tiro, non sfugge alla conquista sia pure temporanea verso la fine delI'VIII sec. a.C.

Do­po la caduta dell'impero assiro e un breve periodo di sottomissione ai Babilonesi, le città della Fenicia vengo­no conquistate dai Persiani verso la fine del VI sec. a.C. e vengono incluse nella satrapia della Siria. L'abilità marinara dei Fenici permette che le loro navi costituisca­no il nerbo della flotta persiana nella battaglia di Salamina contro gli Ateniesi, che viene persa per l'incapacità dei comandanti persiani.

La spedizione di Alessandro il Macedone contro l'impero persiano penetra nella regione siro-palestinese e la città di Tiro, pur disposta a versare un tributo, rifiu­ta di fare atto di sottomissione al Macedone, che ne or­dina l'assedio e ne decreta la distruzione. Con questo tragico avvenimento ha termine l'indipendenza delle città-stato della Fenicia.


L'espansione nel Mediterraneo


Le città fenicie, compresse come erano in una esigua striscia costiera, che si dipanava tra il mare Mediterra­neo e la catena montuosa del Libano, erano prive del re­troterra necessario ad un ampio e soddisfacente svilup­po agricolo. Per di più, la spinta esercitata da Oriente dall'impero assiro contribuì, assieme alla situazione geografica, a creare nelle popolazioni fenicie una voca­zione marinara che li spinse a solcare con le loro navi ogni golfo dei mari allora noti, alla ricerca di materie prime.

In un tempo relativamente breve, ogni recesso del Mediterraneo fu esplorato e le risorse delle più lontane terre rivierasche vennero imbarcate per contribuire alla produzione delle botteghe artigianali delle città. Infatti, le capacità artistiche dei Fenici, note e ampiamente ap­prezzate dai mercati vicino-orientali, richiedevano l'uso di materie prime pregiate, la cui costante ricerca con­tribuì alla spinta verso Occidente.

In un susseguirsi e un sovrapporsi di mito, tradizione e realtà, tutte le terre che nel corso dei secoli rappresen­tarono per gli antichi popoli l'estremo limite del mondo, furono scoperte e visitate per la prima volta dai navigan­ti fenici. Già nel VI sec. a.C. lo storico greco Erodoto favoleggiava di miniere d'oro fenicie nell'isola di Taso, nell'Egeo settentrionale, per lui mitiche, ma storicamen­te reali. Ugualmente reale è probabilmente da conside­rare la circumnavigazione dell'Africa, ritenuta prodotto della fantasia dallo stesso Erodoto. Dal canto suo, la Bibbia, pur attribuendone la paternità al Re Salomone, narrava di una spedizione fenicia lungo il Mar Rosso verso la mitica terra di Ofir, da identificare con l'Etiopia se non addirittura con l'India.

Che le genti fenicie fossero gelose custodi degli itine-rari verso le terre lontane da loro scoperte, le quali rap­presentavano per loro una non piccola possibilità di so­stentamento, è dimostrato da un aneddoto che descrive la storia di un capitano fenicio. Questi, inseguito da na­vi greche, preferì gettare la sua imbarcazione sugli scogli pur di non essere costretto a rivelare al nemico la rotta verso Occidente.


I viaggi e le esplorazioni


Se nel mondo greco la ricerca di nuove terre fu detta­ta dalla pressione demografica e dalla povertà della ma­dre patria, occorre premettere che la spinta dei Fenici verso Occidente e quindi l'esplorazione di terre scono­sciute e avvolte nel mistero ben difficilmente fu animata dallo spirito di avventura. Se questo vi fu, probabilmen­te fu accompagnato dal desiderio di acquisire nuovi mercati e dalla ricerca di sempre più abbondanti giaci­menti di materie prime.

Tralasciando per il momento quelle che furono le grandi rotte da est a ovest, che, pur lunghissime, costi­tuirono un percorso abbastanza usuale per il naviglio mercantile fenicio, si prenderanno in considerazione quegli itinerari che, per la loro lunghezza e per le terre che toccarono, sono da ritenere straordinari per l'epoca nella quale furono compiuti. Primo fra tutti è il già cita­to viaggio attorno al continente africano effettuato da una flotta fenicia armata dal faraone Necao. Le imbar­cazioni, partite dal Mar Rosso verso la fine del VII sec. a.C., compirono il periplo dell'Africa verso ovest in tre anni, ritornando in Egitto attraverso il Mediterraneo. Il sostentamento dei naviganti fu garantito dalla semina delle messi, raccolte durante le soste.

Un altro viaggio, più breve ma del quale esiste una relazione assai dettagliata, fu quello compiuto verso la fine del V sec., a.C. da Annone Cartaginese. L'impresa ebbe luogo con tremila coloni imbarcati su sessanta navi mosse ciascuna da cinquanta remi, da cui il nome greco di pentecontere. L'ammiraglio Annone condusse i suoi compagni lungo le coste atlantiche dell'Africa, fino al Golfo di Guinea. L'esplorazione portò tra l'altro alla cattura di strani indigeni pelosi, che probabilmente null'altro erano che grandi scimmie antropomorfe.

Un'altra impresa degna di menzione fu il viaggio che il cartaginese Imilcone compì verso la metà del V sec. a.C. alla ricerca delle miniere di stagno del Nord-Europa. Il navigatore, superate le Colonne d'Erede e traversato il Golfo di Biscaglia, approdò in alcune isole che denominò Cassiteridi, in virtù della presenza di ric­che miniere di questo minerale e che sono probabilmen­te da identificare con l'Irlanda meridionale e con la Cornovaglia.


Le rotte commerciali


I grandi itinerari che erano percorsi dal naviglio commerciale fenicio e conducevano dai mercati del Le­vante ai giacimenti e alle colonie di Occidente furono sempre costanti, anche se in alcune epoche mutarono, sia pure in parte, il loro percorso per cause prevalente­mente politiche. Una prima rotta, detta anche rotta me­ridionale, che sviluppava oltre tremila miglia e che rima­se quasi costantemente attiva, fu quella che dalla costa siro-palestinese conduceva lungo i lidi spesso deserti dell'Africa settentrionale fino agli insediamenti situati sui versanti atlantici dell'attuale Marocco e della peniso­la iberica.

Un altro itinerario, utilizzato soprattutto in epoca arcaica, cioè tra il XII e l'VIII sec. a.C., fu quello set­tentrionale, che, assai più lungo e articolato del prece­dente, toccava via via gli insediamenti fenici di Cipro, la costa meridionale dell'attuale Turchia, l'isola di Creta o, alternativamente, l'arcipelago delle Cicladi, il Peloponneso e le coste ioniche dell'Italia. Da questo punto si avevano alcune varianti a seconda dei luoghi che si desi­derava raggiungere. Se la destinazione erano i centri etruschi, si traversava lo Stretto di Messina e si prosegui­va lungo la costa tirrenica della penisola italiana. Se in­vece era necessario raggiungere la Sardegna e, quindi, l'estremo Occidente, l'itinerario preferenziale era quello della costa meridionale della Sicilia e di quella setten­trionale dell'attuale Tunisia, dalla quale si passava a quella meridionale della Sardegna. Da quest'isola si rag­giungeva quindi l'arcipelago delle Baleari e infine si toc­cavano i centri fenici della penisola iberica meridionale.

Esistevano inoltre anche itinerari minori che si di­staccavano dalle grandi rotte e i cui luoghi salienti sono ricordati dalle antiche fonti scritte come frequentati dal­le navi fenicie. Tra i più antichi si possono ricordare quello che dalla costa meridionale della Turchia toccava le isole dell'Egeo giungendo a Taso, oppure quello che dagli insediamenti fenici della costa meridionale della Sardegna portava nell'arcipelago campano seguendo un ampio arco nel Mar Tirreno che lo portava davanti alle coste dell'attuale Lazio.


Storia degli insediamenti nel Nord-Africa


Se si prescinde dai fondaci e dagli scali temporanei che furono stabiliti dai naviganti fenici nelle regioni del Mediterraneo orientale, gli insediamenti storicamente più importanti e più longevi furono impiantati lungo il Nord-Africa. Il settore costiero più densamente abitato, perché affacciato sul settore marittimo di maggiore traf­fico, fu quello del Mediterraneo centrale, corrisponden­te all'attuale Tunisia. Ciò non toglie che, dalle coste del­la Cirenaica a quelle atlantiche del Marocco, numerosi fin dall'età più antica furono i centri abitati permanenti.

L'insediamento tradizionalmente più antico fondato dai Fenici fu quello di Utica, in lingua fenicia «La vec­chia», sorto forse nello scorcio del XII scc. a.C. presso la foce del fiume Megerda, che sbocca nel tratto della costa tunisina affacciato tra il Canale di Sardegna e quello di Sicilia.

Di poco più tarda, poiché fu fondata probabilmente nell'814 a.C., è la città di Cartagine, in lingua fenicia «Città nuova», eretta lungo la costa occidentale dell'at­tuale golfo di Tunisi, noto come uno tra i migliori porti naturali del Mediterraneo. L'insediamento fenicio, ubi­cato su una penisola protetta da due lagune, una delle quali ospitò il porto, ebbe origine con il contributo etni­co dei Fenici di Tiro e dei Ciprioti e, ben presto, divenne il centro più ricco e potente del Mediterraneo. In allean­za con le principali città etrusche estromise i Greci dal Mediterraneo occidentale e, nel VI sec. d.c., corrispon­dente a un periodo di crisi delle città del Libano, mise in atto una politica espansionistica, già iniziata nel secolo precedente con la fondazione della colonia di Ibiza, nel­le Baleari. Con sbarchi successivi e con grande impegno di uomini e di risorse economiche, Cartagine si impa­dronì della Sicilia occidentale e conquistò praticamente tutta la Sardegna e le conservò in suo potere rispettiva­mente fino al 241 e al 238, anni in cui dovette cederle a Roma.

Altri importanti insediamenti, tutti affacciati sul Mediterraneo dal quale trassero vita e ricchezza, furo­no, da est a ovest, ad esempio Biserta e Tabarka, in Tu­nisia; Bona e Algeri, in Algeria; Melilla e Tangeri, in Marocco. Questi ed altri numerosissimi centri sorsero in gran parte durante l'VIII e il VII sec. a.C., ma solo una parte di essi ebbe vita e prosperità, poiché molti decad­dero e scomparvero per il mutamento delle condizioni geografiche e delle metodologie commerciali.


Storia degli insediamenti in Sicilia


I Fenici toccarono ben presto le coste della Sicilia che, a quanto narrano le antiche fonti, furono parzialmente occupate da fondaci commerciali e da scali probabil­mente stagionali. Verso la metà dell'VIII sec. a.C., sot­to la spinta della prima colonizzazione greca, i naviganti fenici abbandonarono gli insediamenti più orientali dell'isola per stabilirsi in modo ormai permanente nelle coste affacciate sul Canale di Sicilia. Nacque in questo periodo la città di Mozia, posta su un'isoletta ubicata tra Marsala e Trapani e dotata di uno splendido porto lagunare. Di poco più tarda è la fondazione di Panormo, l'attuale capoluogo siciliano. Per sintetizzare, ciò che in ogni momento della loro storia ha caratterizzato i centri fenici di Sicilia sono stati i rapporti commerciali e culturali con le città greche dell'isola, tra le quali è op­portuno ricordare dapprima Siracusa, eterna rivale di Cartagine, e poi Selinunte, Agrigento ed Imera. Quanto all'elemento autoctono, stretti legami non solo politici unirono i Fenici agli Elimi, il cui capoluogo fu Erice.

Motivata anche dalla pressione colonizzatrice delle città greche, Cartagine interviene in Sicilia attorno alla metà del VI sec. a. C., forse in aiuto delle città fenicie. Eliminato temporaneamente il pericolo, Cartagine si in­sedia stabilmente nella Sicilia occidentale, iniziando una politica di espansione verso i mercati greci della parte orientale. Il conflitto di interessi diviene ben presto inso­stenibile e gli eserciti dei due contendenti si scontrano a Imera nel 480 a.C., secondo la tradizione nello stesso giorno della battaglia di Salamina.

Il fatto d'arme vede da una parte Cartagine, i suoi alleati dell'isola e un forte contingente di mercenari reclutati in Sardegna e nella penisola iberica, e dall'altra una coalizione di città gre­che di Sicilia capitanate da Siracusa. I Greci si dichiara­rono vincitori, ma i confini delle rispettive sfere di in­fluenza rimasero identici a quelli precedenti il conflitto.

Verso la fine del V sec. a.C., durante un nuovo con­flitto con Siracusa, Cartagine distrusse Agrigento e con­quistò Selinunte, mentre, pochi anni dopo, Dionisio Si­racusano devastava Mozia, i cui abitanti si rifugiarono nella piazzaforte di Lilibeo, attuale Marsala. Segui oltre un secolo di scontri e di paci armate, fino alla conquista quasi totale della Sicilia da parte di Cartagine. L'inge­renza di Roma nei fatti dell'isola provocò un nuovo conflitto, la prima guerra punica, che si concluse, con epiche battaglie navali e dopo alterne vicende, con il passaggio della Sicilia sotto l'influenza romana.


Storia degli insediamenti in Sardegna


La Sardegna, posta al centro del Mediterraneo, at­trasse precocemente l'attenzione dei naviganti fenici clic, prima, vi fecero scalo nel loro tragitto verso Occi­dente e poi, nella prima mela dell'VIII sec. a.c., vi si in­sediarono stabilmente. L'isola, dotata di splendidi ap­prodi naturali ampi e sicuri, quali i golfi di Palmas e di Porto Conte, e ricchissima di materie prime, quali l'ar­gento e il rame, vide il sorgere di centri urbani dediti alla prima lavora/ione dei minerali e al commercio con gli insediamenti di tutte le sponde del Mediterraneo. Tra le città fenicie più antiche e più ricche fanno spicco gli in­sediamenti di Sulcis, attuale Sant'Antioco, e di Tharros, in prossimità di Oristano. Le città, politicamente auto­nome, ebbero rapporti prevalentemente amichevoli con le popolazioni nuragiche, autoctone della Sardegna, clic probabilmente detenevano le ricchezze minerarie del­l'isola.

Nella seconda metà del VI sec. a.c., la politica espansionistica già attuata in Sicilia spinse Cartagine ad invadere la Sardegna per impadronirsene e sfruttarne le risorse agricole. Seguì un inevitabile scontro armato con le città fenicie, che, prima vittoriose, furono poi sconfit­te definitivamente verso la fine del secolo e dovettero piegarsi al dominio di Cartagine. Alcuni insediamenti, quali Cuccureddus di Villasimius, furono rasi al suolo e non più frequentati, altri, quali Monte Sirai presso Carbonia, furono parzialmente distrutti e poi ricostruiti. Se nei secoli precedenti i commerci delle singole città ave­vano coperto il bacino del Mediterraneo, con l'avvento di Cartagine furono posti sotto stretto controllo e, forse in alcuni casi, in regime di monopolio. Tutte le pianure dell'isola, tra le quali il Campidano, furono poste a col­tura prevalentemente cerealicola, per l'alimentazione degli eserciti cartaginesi che combattevano in Sicilia.

Verso i primi anni del IV sec. a.C ., in seguito a moli insurrezionali che coinvolsero anche il Nord-Africa, ol­tre alla Sardegna, si ebbe un considerevole sviluppo dell'edilizia pubblica e soprattutto delle opere di difesa urbane e alcune città furono cinte di mura e di fortifica­zioni talvolta assai rilevanti.

Pochi anni dopo la fine della prima guerra punica, Cartagine, impegnata in una logorante guerra interna contro i suoi mercenari ribelli, fu costretta da Roma ad abbandonare la Sardegna, che passò quindi sotto il do­minio romano nel 238 a.C.


Storia degli insediamenti nella penisola iberica


Gli insediamenti stabili della penisola iberica sono considerati i più antichi dell'espansione fenicia nel Me­diterraneo. Il centro di Cadice, sede tra l'altro di un an­tichissimo tempio del dio Melqart, divinità principale di Tiro, è per tradizione il più antico e sembra essere stato fondato nella seconda metà del XII sec. a.C. In ogni ca­so, tutti i principali insediamenti, disseminati lungo le coste meridionali atlantiche e mediterranee della peniso­la, sono databili non più tardi delI'VIII sec. a.C. Oltre a Cadice, sono da citare ad esempio Malaga, Toscanos e Almunecar.

L'antica Iberia attrasse i naviganti fenici soprattutto per l'enorme ricchezza delle sue risorse minerarie, tra le quali prevaleva l'argento. A proposito di questo metal­lo, si narra addirittura che tale fosse l'abbondanza da mettere in crisi la capacità di carico delle navi e da co­stringere i capitani a gettare i ceppi in piombo delle an­core e a sostituirli con altri fusi in argento. A prescinde­re dalla verità storica del racconto, restano comunque le tracce di numerose antiche miniere di vasta estensione.

L'entroterra della penisola era densamente abitato da popolazioni riunite in un reame denominato Tartesso, che ben presto assunsero in buona parte le usanze dei Fenici e ne svilupparono autonomamente numerosi ca­ratteri, dando origine alla civiltà iberica.

Nel VI sec. a.C., la crisi delle città fenicie della costa siro-palestinese, costrinse a diradare progressivamente i rapporti commerciali con gli insediamenti fenici del-l'Iberia, che furono ben presto inclusi nei domini di Cartagine e andarono lentamente chiudendosi in sé stes­si, subendo un processo involutivo, che ricordava solo pallidamente gli antichi splendori.

Nel III sec. a.C., nel pieno della spinta espansionisti­ca di Cartagine, sia per l'acquisizione di metallo prezio­so, sia per il reclutamento di truppe mercenarie da im­piegare nel teatro di guerra di Sicilia, la penisola iberica meridionale fu occupata militarmente e gli antichi inse­diamenti tornarono nuovamente in auge. Dall'Iberia eb­be origine l'avventurosa spedizione di Annibale, che lo condusse a insidiare da vicino la potenza romana.

Ma Roma, risorta dopo la disfatta di Canne, nel 216 a.C., inviò un esercito nella penisola iberica che, una dopo l'altra, conquistò tutte le città puniche. L'ultima a capi­tolare fu emblematicamente la più antica, Cadice, che fu presa nel 206 a.C., sanzionando la fine della domina­zione cartaginese in Iberia.


L'industria


La produzione industriale, volta soprattutto a fini commerciali, rivestì grande importanza nel mondo feni­cio e punico, a tale punto che una parte di questi beni la­vorati era destinata quasi esclusivamente ai mercati este­ri e non aveva se non minimi consumi interni. Il riferi­mento è volto nel caso specifico alla produzione di sup­pellettili in legno pregiato, quale il cedro, intarsiate in avorio e osso, i cui mercati più ricettivi erano l'Assiria e Cipro. Altri oggetti di consumo quasi esclusivamente estero, per il costo elevato e quindi per il prestigio che esprimevano, furono i recipienti in argento e in bronzo, soprattutto coppe, decorati a sbalzo con figurazioni so­prattutto animali.

Tuttavia, i prodotti per i quali giustamente si è soliti ricordare il mondo fenicio e punico sono la porpora e il vetro. Da non tralasciare è la cantieristica, della quale tuttavia si tratterà più oltre, così come è da ricordare la metallurgia nell'insieme delle tecniche relative.

L'importanza della porpora nell'antichità risiedette nel fatto che si trattava dell'unica sostanza colorante, per di più rossa e quindi legata agli ambienti sacro e fu­nerario, che, ottenuta da materiali reperibili in natura, risultasse indelebile. Da ciò l'importanza commerciale dei tessuti di lino e di lana colorati con la porpora. Il materiale colorante si otteneva da molluschi dei generi Murex e Purpurei, attraverso una lavorazione articolata che comprendeva lo schiacciamento delle conchiglie, la macerazione in vasche del prodotto e la sua successiva diluizione in acqua marina. Alcune varianti del processo davano una differente intensità alla sostanza colorante.

Per quanto riguarda invece il vetro, è ormai oggi ac­certato che non si tratta di una invenzione dovuta ai Fe­nici, bensì agli Egiziani, che lo utilizzarono sotto forma di pasta fin dalla prima metà del secondo millennio a. C. Il merito dei Fenici fu quello di averne favorito la capil­lare diffusione in ogni regione del mondo antico come bene di consumo voluttuario.

Da quanto esposto fino a questo punto si può facil­mente comprendere come la produzione industriale fe­nicia e punica fu rivolta verso quei beni che, preziosi e di immediato effetto, potevano essere stivati con facilità nei carichi navali, che erano prevalentemente misti.


Il commercio


Se l'industria fenicia e punica fu caratterizzata dalla elaborazione delle materie prime, il commercio di questi popoli riuscì a trarre il motivo della sua esistenza dalla continua acquisizione delle materie prime da trasforma­re e dalla conseguente esportazione dei manufatti otte­nuti da offrire come mercé di scambio. Ma al di là di questa sintesi, è chiaro che i Fenici differenziarono sia la domanda che l'offerta a seconda delle popolazioni con le quali vennero in contatto.

La continua ricerca di materie prime da trattare por­tò questi popoli ad avvicinare soprattutto genti che co­me unica forma di commercio conoscevano il baratto. Prova ne sia che i Fenici, pur provenendo dall'area siro-palestinese, contigua alla regione anatolica ove ebbe ori­gine l'uso della moneta, furono tra gli ultimi ad utilizza­re i metalli coniati come mercé di scambio. Le prime monete cartaginesi iniziarono a circolare unicamente in Sicilia non prima della fine del V sec. a.C., come paga­mento delle truppe mercenarie e per controbattere la monetazione greca già da tempo in corso nell'isola. Nel Nord-Africa e in Sardegna, invece, la circolazione della moneta è assai più tarda e non ha luogo prima della fine del IV sec. a.C.

Per quanto riguarda il baratto, caratteristico è un antico racconto che descrive i metodi commerciali dei Fenici e che è riassunto qui di seguito: i naviganti si avvi­cinavano alla spiaggia, sbarcavano con le mercanzie da barattare e si allontanavano di nuovo lasciandole sulla costa. Gli abitanti del luogo si accostavano alle merci, le valutavano e senza toccarle deponevano dell'oro e si ri­tiravano. I Fenici sbarcavano di nuovo, soppesavano Foro e se erano soddisfatti lo raccoglievano e se ne an­davano definitivamente, altrimenti, senza toccare alcun­ché, si allontanavano in attesa che gli indigeni depones­sero altro oro.

Il commercio fenicio delle città del Libano, soprat­tutto quello rivolto verso terre molto lontane e quindi di costi elevati, si svolgeva principalmente con la garanzia e il finanziamento del palazzo reale o del tempio, che rappresentavano rispettivamente il potere civile e quello religioso. Non a caso, infatti, il più antico e famoso tempio del dio fenicio Melqart era situato a Cadice, la più occidentale delle colonie. Non è da escludere, inol­tre, che gruppi di mercanti privati si consorziassero e ar­massero navi in proprio, sulle quali trovavano posto ca­richi misti, formati da derrate di diversa natura.


Le navi mercantili


La tradizione marinara dei Fenici e dei Punici è cele­bre fin dall'antichità e tutti i popoli che si affacciarono sul Mediterraneo e che entrarono in contatto anche ar­mato con questi arditi naviganti, non poterono fare a meno di riconoscerne la supremazia. Gli antichi scrittori greci, celebri per aver attribuito alla loro patria talvolta anche meriti dovuti invece ad altri popoli, nel caso delle invenzioni navali furono concordi nel darne la paternità ai Fenici. Ai cantieri di Tiro e Sidone è attribuita, nel corso del VII sec. a.C., l'invenzione della trireme, men­tre a quelli di Cartagine vengono ascritti i primi esem­plari delle tetrere e delle pentere.

Ma, se certamente sono più note e famose le navi da guerra dei Fenici, non peggiori e certamente più «mari­ne» furono quelle mercantili. Note al mondo greco con il nome di gauloi, dalla parola fenicia gal che significa tondo, queste navi avevano fianchi arcuati e capaci e una lunghezza variabile che poteva giungere anche oltre i quaranta metri; la larghezza era circa la terza parte del­la lunghezza. Iniziando una descrizione sommaria dalle strutture portanti, occorre premettere che i progressi fatti dagli attuali cantieri che costruiscono imbarcazioni tradizionali sono ben modesti, poiché queste navi aveva­no una chiglia dalla quale avevano origine le ordinate sulle quali veniva disposto il fasciame. La chiglia veniva fatta con travi di legno di cedro o di quercia, mentre le ordinate, il fasciame e tutte le restanti strutture erano ri­cavate da legno di abete o di pino.

La propulsione della nave avveniva grazie ad una ve­la di forma quadrata che, sorretta da un pennone, era is­sata sull'unico albero, talvolta sormontato da una cof­fa; la velocità impressa non era superiore ai tre nodi. La manovra della vela avveniva per mezzo di giochi di ci­me, chiamati ferzi, che servivano a diminuirne la super­ficie. La direzione della nave veniva data per mezzo di un remo di governo, che non era applicato all'estrema poppa bensì su uno dei suoi lati, prevalentemente quello di sinistra. Sulle navi provviste di ponte trovava posto un casotto che era utilizzato dal timoniere in caso di cat­tivo tempo.

Il numero dei marinai dipendeva ovviamente dalle dimensioni della nave, ma raramente superava i venti uomini. L'equipaggio era alle dipendenze di un coman­dante, che di norma era l'armatore della nave, ma du­rante la navigazione era comandato dal nocchiero, che era la figura più significativa della ciurma.


Le navi da guerra


Lo spazio a disposizione non permette una descrizio­ne minuziosa dei diversi tipi di navi da battaglia che fu­rono usati nell'arco della loro storia dai Fenici e dai Pu­nici, ma la trattazione delle principali caratteristiche sa­rà sufficiente a fornire un quadro d'assieme. La struttu­ra portante era composta dalla chiglia e dalle ordinate e quindi analoga a quella delle navi mercantili; tuttavia due lunghe travi, note con il nome di trincarini, racchiu­devano i fianchi e convergevano verso prora assieme alla chiglia. Nel loro punto di incontro, che era il più robu­sto dello scafo, veniva fissato il rostro, il cui scopo era quello di squarciare il fasciame delle navi nemiche spe­ronate. Il rapporto tra lunghezza e larghezza di queste navi era di circa sette a uno. Attraverso l'esame di alcuni relitti si è potuto constatare che le navi erano costituite da un insieme di pezzi prefabbricati, che venivano as­semblati unicamente quando se ne aveva bisogno. I prin­cipali tipi di navi da guerra dell'antichità furono sostan­zialmente quattro. Il primo, in uso soprattutto nelI'VIII sec. a.C. e noto con il nome greco di pentecontera, dal numero dei remi che lo spingeva, aveva una lunghezza di circa trenta metri e ventiquattro remi per ogni lato, che sommati ai due remi di governo, raggiungevano ap­punto il numero di cinquanta. Il secondo tipo, utilizzato fin dal VII sec. a.C. e chiamato triera o trireme, a secon­da se in lingua greca o latina, in relazione al numero del­le file di rematori che erano disposti su ogni lato, aveva una lunghezza di circa trentasei metri ed era parzialmen­te pontato in modo da proteggere i centosettanta rema­tori che, divisi in sei file - tre per lato - erano applicati ai remi su linee sfalsate tra di loro. Il terzo e il quarto ti­po, utilizzati tra il IV e il III sec. a.C. e denominati rispet­tivamente in greco tetrera e pentera, erano abbastanza si­mili ed avevano una lunghezza di circa quaranta metri.

La propulsione dei rematori veniva utilizzata unica­mente in battaglia, mentre quella fornita dall'unica vela era usata durante i trasferimenti. La velocità massima era di circa sei nodi e quindi doppia rispetto a quella del­le navi mercantili. A parte i rematori, che erano tutti li­beri cittadini e ricevevano una paga, l'equipaggio era for­mato da tre o più ufficiali e da un massimo di trenta ma­rinai addetti alla manovra, ai quali si aggiungeva talvolta un contingente di fanteria di marina non superiore alle venti unità. Le squadre navali erano composte da dodici navi della stessa classe e le flotte, formate da più squadre, potevano raggiungere il numero di centottanta unità, an­che se generalmente non superavano quello di cento venti


La navigazione



Come già ricordato, l'abilità marinaresca dei Fenici era celebre nel mondo antico e, tra l'altro, presso tutte le antiche marinerie del Mediterraneo era nota la stella po­lare, indispensabile per l'orientamento durante la navi­gazione notturna, e il nome con il quale era normalmen­te indicata era «stella fenicia», indubbiamente a ricordo della scoperta delle sue funzioni da parte dei Fenici.

Mentre la navigazione a scopi militari avveniva du­rante tutto l'arco dell'anno, per motivi strategici, per la repressione degli atti di pirateria anticamente frequen-tissimi e per il necessario controllo delle coste, quella commerciale aveva inizio a marzo, con particolari riti propiziatori, e terminava a ottobre, con l'inizio del cat­tivo tempo. Le navi stesse erano varate con rituali tal­volta assai cruenti; si narra infatti che in particolari mo­menti alcune navi da guerra cartaginesi furono varate facendole scorrere sui corpi di alcuni prigionieri di guer­ra che sostituivano in tal modo i normali rulli.

Del resto, che le navi fossero considerate quasi degli esseri senzienti si dimostra con la presenza di due grandi occhi delineati ai lati della prua, che permettevano alla nave di «vedere» la rotta. Sopra la prora era normal­mente posto un fregio che, nelle navi mercantili, aveva spesso la forma di una testa di cavallo, antico simbolo di ricchezza, o di ala di uccello, per permettere alla nave di «volare» metaforicamente sulle onde. Immediatamente dietro la prua delle navi da guerra, invece, veniva fre­quentemente eretto un simbolo sacro o l'immagine di qualche divinità alla quale era dedicata la nave o, infine, un essere o un animale fantastici o mostruosi, per spa­ventare il nemico.

La navigazione avveniva prevalentemente a vista e, nei piccoli traffici, aveva luogo soprattutto durante il giorno. Le grandi navi mercantili in genere si tenevano discoste dalle rive quel tanto che permetteva loro di na­vigare in sicurezza e di non compiere tragitti inutili, qua­li le risalite dei promontori o gli accostamenti nei golfi. È altrettanto evidente, nel caso di questi natanti che pra­ticavano traffici sulle lunghe distanze, che la navigazio­ne proseguisse durante la notte, agevolata dalla stella polare, e che compisse tragitti anche in mare aperto. Si ricorderanno a questo proposito le rotte che dalla Feni­cia conducevano a Cipro oppure da Cartagine alla Sici­lia o alla Sardegna o, da quest'ultima, alle isole Baleari.

Le forze armate


Gli eserciti dei Fenici e dei Cartaginesi non si diffe­renziarono molto rispetto a quelli in uso nell'epoca, tut­tavia, una certa preminenza fu data in epoca arcaica ai carri falcati, caratteristici dell'area vicino-orientale nelle cui grandi pianure potevano operare agevolmente, e, in epoca ellenistica e prevalentemente nel Mediterraneo oc­cidentale, alla cavalleria e agli elefanti, anticamente pre­senti nell'area nord-africana.

In epoca arcaica le singole città della costa siro-palestinese sembra che fossero in grado di equipaggiare unicamente eserciti abbastanza esigui e formati in pre­valenza da cittadini al pari con gli equipaggi delle flotte. Forse fu proprio la necessità di allestire flotte assai con­sistenti talvolta armate con equipaggi di oltre quaranta­mila uomini, tratti unicamente dal rango dei cittadini li­beri, la ragione per la quale gli eserciti di Cartagine furo­no composti prevalentemente da contingenti di truppe mercenarie. Gli uomini inquadrati nella fanteria pesante erano reclutati in genere nelle città della Grecia o della Magna Grecia, oppure nella Campania e nella penisola iberica. Quelli che facevano parte della fanteria leggera provenivano invece soprattutto dalla Liguria o dall'arci­pelago delle Baleari. Soldati provenienti dalla Sardegna o dalla Gallia erano inseriti nelle schiere con differenti funzioni. Nella cavalleria venivano reclutati elementi nord-africani e provenienti principalmente dalla Numidia. Gli ufficiali inferiori di questi contingenti apparte­nevano ai luoghi di provenienza degli stessi, mentre quelli superiori così come il comandante in capo, erano di nascita cartaginese e per di più di stirpe nobile.

In alcuni casi particolari e nei momenti di maggiore pericolo veniva messo in campo un corpo speciale di fanteria pesante, denominato legione sacra, ordinato in falange e formato da giovani scelti tra i rampolli della nobiltà cartaginese.

Lo schieramento in battaglia degli eserciti cartaginesi di età ellenistica era imperniato sulla linea della fanteria pesante che era fiancheggiata, da forti contingenti di ca­valleria. Davanti alla fanteria pesante erano disposte le schiere di fanteria leggera. Tutto lo schieramento era preceduto e protetto da una linea di carri falcati, presto abbandonati perché poco operativi e sostituiti dagli ele­fanti. I fanti armati alla leggera uscivano alla spicciolata verso il nemico e lo provocavano allo scontro con scara­mucce e lanci di sassi o di frecce, quindi si ritiravano de­finitivamente ripercorrendo a ritroso l'itinerario e, pas­sando negli spazi liberi tra gli elefanti, si portavano alle spalle della loro fanteria pesante. A questo punto i carri o gli elefanti si lanciavano contro la fronte nemica che avanzava, con il proposito di scompaginarne e spezzar­ne le file e favorire l'urto della fanteria pesante. La ca­valleria, nel frattempo, assaliva le analoghe schiere nemiche e, se possibile, le scompaginava e le metteva in fu­ga, per poter poi aggredire alle spalle o ai fianchi l'eser­cito nemico.


Le abitazioni


Le città e i villaggi fenici e punici erano quasi sempre ubicati in prossimità del mare o addirittura su promontori o su isole non troppo distanti dalla costa, tanto è ve­ro che ben pochi sono i centri abitati ubicati nell'interno e dunque da considerare molto rari.

Le città erano spesso munite di cinta muraria inter­vallata da torri e si affacciavano su porti spesso naturali, soprattutto fluviali o lagunari. La viabilità urbana era formata da strade rettilinee o con percorsi che seguivano la natura del terreno.

Le case di abitazione, simili tra di loro nel tempo e nello spazio, erano costruite con una fondazione in pic­cole pietre che sosteneva uno zoccolo di pietrame anche di grandi dimensioni alto non più di un metro. Su que­sto basamento, spesso un cubito - cinquantadue centimetri - si innalzavano i muri perimetrali dell'edificio, i quali, a loro volta, erano formati da mattoni di argilla cruda mista a paglia e seccata al sole. Questi mattoni erano messi in opera con una malta di argilla e, infine, ricoperti da uno spesso strato di intonaco che li rendeva assolutamente impermeabili e, fintantoché integro, inat­taccabili dagli agenti atmosferici. Gli architravi delle porte e delle finestre erano prevalentemente costituiti da travi lignee, così come lo erano i telai dei soffitti che, as­sieme agli incannucciati, sorreggevano i piani superiori. All'interno, i pavimenti, le pareti e i soffitti erano com­pletamente coibentati con argilla cruda pressata; nel ca­so di abitazioni particolarmente curate, i pavimenti era­no realizzati in cocciopesto, ottenuto con calce e fram­menti di terracotta, mentre le pareti e i soffitti potevano essere ricoperti di intonaco.

La pianta delle case era formata da un grande corti­le, del tutto isolato verso l'esterno da alti muri privi di porte o finestre. Sul cortile, cuore delle attività domesti-che, si affacciavano le stanze. I vani che componevano l'abitazione erano in genere un andito di ingresso, dal quale con gomiti o tramezzi era impedita la vista verso l'interno della casa, da una cucina di modeste dimensio­ni, attigua al cortile, da una saletta da bagno e da un paio di locali nei quali era possibile dormire. Un pozzo o una cisterna per l'acqua piovana, ubicati nel cortile, provve­devano al fabbisogno idrico degli abitanti. Sempre nel cortile o nell'andito di ingresso trovava spazio la rampa di scale che dava accesso ai piani superiori, il cui numero poteva variare da uno a sei, a seconda dell'insediamento.


La religione e i luoghi di culto


Nella vita quotidiana e quindi anche nella spinta commerciale verso Occidente dei Fenici, la religione ebbe una grande parte e rivestì quel carattere di importanza e di spiritualità che da sempre i popoli orientali riversano nella vita quotidiana. Prova ne sia che tra coloro che caldeggia­rono, promossero e finanziarono una buona parte delle imprese commerciali dei Fenici vi fu sempre il tempio, la cui casta sacerdotale custodiva il tesoro, quindi il capitale.

Ogni insediamento urbano della costa siro-palestinese ebbe le sue divinità che, pur denominate in modi dif­ferenti, furono sostanzialmente due. Si può riconoscere una divinità femminile che con le funzioni di grande ma­dre e con i più diversi attributi predomina nel panorama divino; di questa dea si possono ricordare i nomi, diffe­renti tra le varie città, di Baalat «la Signora» o di Ashtart, assai nota nel mondo coloniale. La divinità maschile, meno preminente, ebbe diversi nomi tra i qua­li si possono ricordare Baal «il Signore» o Melqart, anch'esso molto noto in Occidente. Nel mondo occiden­tale, oltre a Melqart e a Ashtart, ebbero culti particolari Baal Hammon «il Signore del bracere» e Tanit, sua paredra e forse particolare aspetto occidentale di Ashtart. Grande fortuna ebbero Eshmun e Bes, che erano prepo­sti alla guarigione dei mali e in particolare alla protezio­ne dai morsi di serpenti e scorpioni.

I templi nei quali erano venerate queste divinità era­no edifici formati da tre vani successivi, il primo dei quali costituiva il vestibolo, il secondo accoglieva i fede­li, mentre il terzo era destinato unicamente alla statua di culto e ai sacerdoti of fidanti.

Un santuario caratteristico del mondo fenicio e pu­nico è il tofet, nel quale si pensava venissero sacrificati a Baal Hammon e a Tank i figli primogeniti delle famiglie nobili. Si tratta di ampie aree a cielo aperto racchiuse da recinti, che contengono urne fittili sepolte al cui interno sono conservate ossa di fanciulli morti in tenera età de­poste singolarmente o assieme a resti di piccoli animali. Un altro elemento distintivo di questi santuari sono le stele in pietra che, decorate con vari simboli sacri, erano erette a ricordo della cerimonia. Allo stato attuale delle conoscenze si ritiene che il tofet fosse un particolare ci­mitero nel quale erano sepolti i resti bruciati dei bambini deceduti in tenera età o addirittura nati morti e nel quale i genitori, con riti particolari, impetravano la grazia per una ulteriore nascita più fortunata.


Le necropoli


Palesemente diversi a seconda del periodo, i rituali fenici e punici variarono in modo abbastanza sensibile anche per quanto riguarda sia le modalità del rito stesso, sia per quanto concerne la tipologia delle tombe. Tali variazioni sono percepibili anche in insediamenti tra lo­ro contemporanei e arealmente prossimi. Nei centri fe­nici della costa siro-palestinese, soprattutto in epoca ar­caica, la pratica funeraria più corrente fu quella dell'in­cinerazione, che implicava cioè la combustione del cor­po del defunto, ma non mancano nello stesso periodo esempi anche numericamente cospicui di inumazioni, cioè il seppellimento delle spoglie.

Nei centri di Occidente, sempre in epoca arcaica, prevalse invece in modo quasi totale la pratica dell'inci­nerazione, ad esclusione dell'area di Cartagine, ove, forse in relazione alla componente etnica cipriota che aveva partecipato alla fondazione della città, era soprat­tutto in uso, ma non esclusiva, l'inumazione. Nelle città occidentali di Sicilia, Sardegna e Spagna, in seguito alla loro conquista da parte di Cartagine e alla conseguente immissione massiccia di nuovi abitanti dalle province nord-africane, fin dalla fine del VI sec. a.C. ebbe inizio la consuetudine di inumare i defunti.

Il rito dell'incinerazione implicava il preventivo la­vaggio del defunto che in seguito veniva unto con olio profumato; quindi il corpo veniva composto su una ca­tasta di legna e veniva bruciato assieme ai suoi arredi personali. A rogo ultimato, i resti ossei venivano raccol­ti e deposti in una fossa o una cista assieme ai vasi rituali utilizzati in precedenza. La sistemazione definitiva dei resti era generalmente in fosse o in ciste singole, ma, seppure non frequenti, si conoscono casi di deposizioni plurime in locali sotterranei.

Le modalità rituali preliminari del seppellimento de­gli inumati erano sostanzialmente simili a quelle degli in­cinerati, mentre i tipi delle sepolture variarono in modo anche sensibile a seconda della morfologia geologica dei luoghi ove fu possibile stabilire le necropoli ai margini dei centri abitati. Ove il banco roccioso lo permise furo­no scavate camere sotterranee, talvolta a profondità su­periori ai venti metri, alle quali si accedeva tramite pozzi o corridoi gradinati. L'ampiezza di questi vani sotterra­nei, adibiti probabilmente a tombe di famiglia, dipese dalla consistenza della roccia. Dove questa era partico-larmente dura e compatta o non era reperibile nelle im­mediate vicinanze dell'abitato, furono usate tombe so­prattutto singole e prevalentemente costruite, quali, ad esempio, le tombe a cassone o i sarcofagi. Per i bambi­ni, infine, furono utilizzate soprattutto sepolture all'in­terno di anfore da trasposto.



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