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Gli Stati Uniti e la crisi del '29
Il nuovo ruolo degli Stati Uniti e la politica isolazionista
Gli Stati Uniti difensori della libertà
Ad aprire agli Statunitensi la strada per consolidare il ruolo di predominio nella politica internazionale aveva contribuito la politica dei Quattordici punti proposta al tavolo della pace dal presidente democratico Woodrow Wilson divenuto con tale iniziativa il difensore della libertà, della democrazia e dell'autonomia di tutti i popoli contro le pesanti rivendicazioni di tipo nazionalistico messe in campo dagli alleati europei.
L'opposizione interna alla politica di Wilson
Il "liberalismo" wilsoniano non risultò comunque vincente, specie nella gestione degli affari internazionali, né presso gli ex alleati, né presso buona parte dell'opinione publica americana, che considerava tale linea politica troppo pericolosa, in quanto comportava una piena adesione alla Società della Nazione e quindi un'assunzione di responsabilità di fronte all'intricata serie di controversie scaturite dalla guerra, ritenute estranee ai reali interessi del Paese.
La politica conservatrice del presidente Harding (1921-1923)
Si crearono così le premesse per un rovesciamento dell'indirizzo di governo e quindi della politica interna e internazionale degli Stati Uniti, che si concretizzò nelle elezioni presidenziali del 1920, le prime nelle quali le donne poterono esercitare il diritto di voto. Le urne decretarono la sconfitta del "wilsonismo" e la vittoria del Partito Repubblicano, rappresentato da Warren Harding (1865-1923). Una volta insediatosi alla Casa Bianca, il nuovo presidente non tardò a ripristinare la politica isolazionistica e conservatrice. Ne derivò un indirizzo opposto a quello cui si erano ispirati tra il 1913 e il 1920 Wilson e il Partito democratico, dal momento che il nuovo governo repubblicano si rifiutò non solo di prendere parte ai lavori della Società delle Nazioni, ma anche di ratificare i trattati di Parigi, negoziando automaticamente trattati bilaterali di pace con Germania, Austria e Ungheria.
La politica isolazionistica per potenziare l'economia americana
L'indirizzo politico dell'isolazionismo era, per la verità, appoggiato da gran parte dell'opinione americana, la quale sosteneva che gli Stati Uniti, isolandosi dal resto del mondo, avrebbero potuto godere tranquillamente dei vantaggi ottenuti nel corso della guerra. Era infatti convinzione diffusa che, sfruttando il rientro degli ingenti prestiti concessi agli alleati, sarebbe stato agevole per gli Usa sviluppare ulteriormente le proprie capacità economiche e promuovere, al riparo da nuovi eventuali conflitti, lo sviluppo del mercato interno, lasciando ampia libertà di iniziative alle imprese (liberalismo), ma allo stesso tempo adottando una rigida difesa del prodotto nazionale mediante una rigorosa applicazione di alte tariffe doganali (protezionismo).
Conseguenze reazionarie e razzistiche
L'isolazionismo politico e l'isolazionismo economico non furono dunque che le due facce di una stessa medaglia e comportarono una serie di provvedimenti contro l'immigrazione straniera, sull'onda crescente di un nazionalismo conformista, che raggiunse punte di estrema violenza xenofoba (avversione e odio per tutto ciò che è straniero) e razzistica.
Il proibizionismo e il traffico illegale degli alcolici
In questo quadro va inserita la legge, approvata nel 1919, che proibiva la produzione e la vendita di alcolici (proibizionismo). Con essa si mirava a colpire soprattutto neri e immigrati, accusati di essere inclinati all'alcolismo e di favorire pertanto la diffusione di pericolose forme di degradazione fisica e morale. Il proibizionismo però ebbe anche motivazione economica: si pensava infatti che l'abuso di alcol, oltre a causare l'insorgere della delinquenza, potesse ridurre la produttività degli operai. Il provvedimento, tuttavia non solo non ottenne gli effetti voluti, ma addirittura provocò il traffico illegale di alcolici, praticato da numerose e bene organizzate bande criminali, resesi ben presto responsabili di un'infinita serie di delitti, soprusi e violenze di ogni genere, combattuti dalle forze dell'ordine con scarsa efficacia fino al 1933, anno nel quale il proibizionismo venne abolito.
Il boom economico
La presidenza Coolidge (1923-1929) e il decollo dell'economia americana
Inaugurata da Warren Harding e seguita dal successore, il repubblicano Calvin Coolidge 1872-1933), la politica conservatrice dell'isolazionismo favorì la ripresa dell'economia americana e il superamento della crisi di sovrapproduzione, manifestatasi nel Paese tra il 1920 e il 1921 in seguito al cessato flusso delle esportazioni di guerra verso l'Europa. Ciò non impedì al mondo capitalistico statunitense di avvertire l'esigenza di ampliare il mercato, in quanto quello interno si stava rivelando insufficiente ad assorbire la massa di merci prodotte.
Il "piano Dawes" e la ripresa dei commerci con l'Europa
Ampliare il mercato significava riprendere l'esportazione di prodotti in direzione degli Stati europei, non esclusi quelli dell'Europa centrale, che in seguito alla sconfitta subita erano rimasti privi dei mezzi finanziari indispensabili per una rapida ricostruzione delle loro disastrate economie. La ricostruzione economica era proprio il presupposto indispensabile affinché quei Paesi potessero procedere al pagamento delle ingenti riparazioni imposte dai trattati di pace a favore delle potenze vincitrici, a loro volta alle prese con il problema dei debiti di guerra contratti con gli Stati Uniti. Si fece in tal modo strada la convinzione che un consistente aiuto finanziario fornito agli Stati vinti e in primo luogo alla Germania avrebbe innescato benefiche conseguenze.
Ebbe origine così il piano Dawes, ideato dal finanziere e uomo politico americano Charles Dawes (1865-1951) e divenuto esecutivo nel 1924. Il piano era basato sulla proposta di fare affluire capitali statunitensi verso la Germania, al fine di permettere la ripresa della macchina produttiva tedesca e indirettamente anche quella degli altri Paesi vinti.
I finanziamenti americani rilanciano l'economia europea
Il denaro americano rivitalizzò l'economia europea e permise ai Paesi vinti di procedere al pagamento delle riparazioni ai vincitori, i quali poterono estinguere i debiti contratti con gli Stati Uniti per le forniture belliche. A loro volta gli Usa, non trovando possibilità di investimenti interni remunerativi, rifecero affluire i capitali verso l'Europa in generale e la Germania e i Paesi dell'Europa orientale in particolare, ormai sempre più legati al mercato statunitense, anche perché era il solo capace di offrire prodotti agricoli (frumento, mais, cotone, carni, ecc.) e industriali (macchine di ogni genere, materiale ferroviario, apparecchi elettrici, ecc.) a prezzi molto bassi e pertanto più convenienti di quanto non lo fossero quelli praticati dagli operatori europei.
Si venne così determinando nell'ambito del mondo capitalistico un enorme giro di affari che in breve tempo produsse un notevole sviluppo economico, destinato a sfociare, tra il 1925 e il 1926, in un vero e proprio boom (fase di rapida espansione del ciclo economico).
La Crisi del '29
Eccesso di ottimismo e speculazione in Borsa
Nella convinzione che lo stato di benessere non potesse cessare, il mondo produttivo statunitense si rese protagonista tra il 1925 e il 1929 di un'affannosa gara alla produzione industriale e agricola, la quale coinvolse anche le banche in un giro di prestiti e di speculazioni ad ampio raggio, proprio mentre il grosso volume di affari commerciali in atto incoraggiava molti ad affrontare in modi e forme spesso spregiudicati i rischi di un frenetico gioco di Borsa. L'ottimismo dilagante faceva però dimenticare che l'equilibrio economico è fondato sull'equilibrio del mercato, ossia su un armonico rapporto fra l'offerta da parte dei produttori e la domanda di prodotti da parte dei consumatori.
Il ristagno del mercato internazionale
La politica protezionistica, che aveva dominato la vita economica degli Stati Uniti a partire dalla fine del primo conflitto mondiale e che si era andata esternando in tutto il mondo, aveva infatti cominciato a creare notevoli difficoltà all'industria, in quanto comportava una progressiva restrizione delle possibilità di acquisto da parte dei singoli mercati. Tali restrizioni erano rese ancor più pesanti dal fatto che i singoli governi, per combattere al proprio interno la crescente inflazione monetaria, avevano a un certo momento imboccato la strada della deflazione (politica monetaria con lo scopo di sottrarre moneta costante alla circolazione, allo scopo di mantenere entro limiti accettabili il valore reale della valuta nazionale). Questo, però, limitava e condizionava il libero spostamento dei capitali, abbassava il potere di acquisto dei salari e rendeva molto oneroso il prestito bancario, deprimendo la domanda di merci e la produzione a basso costo. Ecco perché il mercato internazionale, divenuto a poco a poco stagionale e fragile, si trovò nell'impossibilità di assorbire i grossi squilibri determinatisi nella produzione.
Crisi di sovrapproduzione
Tutto ciò non tardò a determinare una crisi di sovrapproduzione che colpì improvvisamente il mondo e che trasse origine proprio dall'economia statunitense, danneggiata più delle altre dalla diminuzione delle esportazioni. Visto che i cittadini americani non erano in grado di consumare da soli l'ingente quantità di merci accumulate di giorno in giorno nei magazzini, sui mercati si vennero a trovare enormi masse di prodotti agricoli e industriali invenduti, nonostante l'ausilio della pubblicità e la diffusione su vasta scala delle vendite rateali.
24 Ottobre 1929: il crollo della Borsa e dell'economia americana
Nell'ottobre del 1929 si ebbe il crollo della Borsa di New York, con sede in Wall Street, seguito dall'inevitabile crollo dei prezzi e dei titoli azionari e dalla chiusura di molte fabbriche. Nel giro di soli due anni la produzione industriale calò del 54%, provocando una lunga serie di clamorosi fallimenti industrie e di banche a esse collegate, che trascinarono sul lastrico numerosissime famiglie della borghesia benestante, ma soprattutto una parte notevole di lavoratori. La disoccupazione aumentò vertiginosamente: fra il 1931 e il 1933 il numero delle persone senza lavoro risultò infatti più che raddoppiato, passando dai 6 ai 13 milioni di unità.
La ripercussione della crisi in Europa
La catastrofe economica degli Stati Uniti si propagò naturalmente in tutto il mondo, determinando una crisi generale di estrema gravità. In Europa il ritiro dei capitali statunitensi e l'arrivo sui mercati di prodotti a prezzi bassissimi provocarono la brusca frenata della produzione e il conseguente aumento della disoccupazione. Il sistema monetario internazionale venne praticamente distrutto, malgrado i provvedimenti adottati dai singoli governi.
La crisi del 1929 in Italia
La crisi si fece sentire anche in Italia, stravolgendo ogni settore dell'economia e danneggiando pesantemente gli agricoltori, che videro i prezzi dei loro prodotti ridursi progressivamente (quello del grano passò da 130lire il quintale nel 1929 a sole 93lire nel 1933; quello del vino da 112 a 55lire). Altrettanto critica era la situazione del settore industriale, la cui produzione ebbe un consistente tracollo. L'intera vita economica finì così per subire una forte contrazione produttiva, mentre il progressivo aumento della disoccupazione aggravò le già difficili condizioni degli agricoltori, alle cui famiglie appartenevano molti degli operai rimasti senza lavoro.
Il 1929 non fu comunque un anno disastroso per tutti. Alcuni operatori ebbero infatti modo di sfuggire alle drammatiche conseguenze della crisi e, favoriti anche dalla politica protezionistica del governo fascista e dai bassi salari, riuscirono ad accaparrarsi ampi mercati e a monopolizzare alcuni settori produttivi a tutto danno dei consumatori.
Roosevelt e il New Deal
Il "nuovo corso" di Roosevelt (1932-1936)
A risollevare gli Stati Uniti dalla crisi contribuì con tempestività e decisione il nuovo presidente, il democratico Franklin Delano Roosevelt (1882-1945), designato nelle elezioni della primavera del 1932 e confermato in seguito nell'alta carica per altre tre volte, nel 1936, nel 1940 e nel 1944. Coadiuvato da un gruppo di intellettuali, tecnici e docenti universitari, con i quali condivideva alcune moderne concezioni di politica economica, egli elaborò un piano di emergenza chiamato New Deal ("nuovo corso"), in base al quale seppe coraggiosamente abbandonare la concezione tradizionale dello Stato come realtà staccata dal mondo della produzione.
Da un'economia libera a un'economia guidata
Pur accettando l'esistenza del sistema capitalistico, Roosevelt era infatti convinto dell'assoluta urgenza di porre precisi limiti alla crescita senza controlli e all'eccessiva libertà concessa all'iniziativa individuale dai governi repubblicani e sfociata nella crisi del 1929. In questo senso il New Deal ebbe una portata rivoluzionaria nella storia americana, in quanto rappresentò una decisa tendenza ad allontanarsi da un'economia libera di tipo privatistico per adottare un'economia guidata, basata su un energico intervento dello Stato e quindi in aperto contrasto con la legge del mercato.
Un bilancio del New Deal
Roosevelt riuscì con questi sistemi, anche a costo di aumentare il deficit dello Stato, a combattere la disoccupazione. Per favorire la ripresa dell'industria e della produzione, egli, infine, sollecitò con ogni mezzo il mercato, favorendo l'aumento degli stipendi e dei salari e incoraggiando il cittadino agli acquisti. In tal modo, pur in mezzo agli ostacoli opposti alla sua politica dal grande capitale e dalle classi privilegiate, egli riuscì a condurre con risultati positivi la propria battaglia in favore di un diretto intervento del potere pubblico negli affari privati, con la prospettiva di un capitalismo più democratico, riformatore e meno individualista.
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