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FASCISMO
vicende del Fascismo italiano sono strettamente connesse con gli eventi storici che coinvolsero il paese nel periodo intercorrente fra le due grandi guerre mondiali. La data di nascita ufficiale del Fascismo è ormai da tutti riconosciuta nel 23 marzo 1919, quando Benito Mussolini, durante una riunione tenuta nella sala del circolo degli interessi industriali e commerciali in piazza S. Sepolcro a Milano (onde poi i pochi presenti furono insigniti del titolo di "sansepolcristi"), annunciò ai suoi seguaci e simpatizzanti la costituzione dei Fasci italiani di combattimento. Sotto questa battagliera impostazione, Mussolini intendeva dar vita ad un movimento più che ad un partito (creato infatti soltanto il 7 novembre 1921), avente lo scopo di valorizzare con l'azione il contributo offerto dall'Italia alla vittoria degli Alleati e di porre ordine nell'assetto statale della nazione che, se pure uscita vittoriosa dalla Guerra, ne risentiva le gravose conseguenze, esasperate dal disaccordo dei vari partiti politici. Si trattava però, di un programma piuttosto vago e generico, in quanto, come vedremo in seguito, solo assai più tardi si passò ad una vera e propria elaborazione della teoria del Fascismo.
Basta infatti accennare che il movimento si sperdeva in molte
affermazioni anche contrastanti fra loro, oscillando tra il repubblicanesimo e
la tolleranza monarchica, tra un sindacalismo che non tradiva le origini
socialiste mussoliniane e la difesa degli interessi
borghesi e capitalistici, dai cui ceti il Fascismo fu indubbiamente e
notevolmente aiutato, tra un dichiarato anticlericalismo da un lato e un
prolungato intento di difesa delle tradizioni cattoliche dall'altro. Nello
stesso anno 1919 il movimento fascista fece il suo primo tentativo elettorale,
ma ne riportò una clamorosa sconfitta, di fronte alle pur sempre valide forze
liberali, socialiste e del giovane ma agguerrito Partito popolare. La
prevalenza di questi partiti fu però effimera: lo stato liberale-giolittiano,
ancorato su posizioni nettamente superate dalla naturale evoluzione dei tempi,
andava infatti disgregandosi logorato dalle polemiche interne e dalla mancanza
di quel prestigio e di quella autorità necessarie a tener testa ad un delicato
periodo di crisi economica e sociale quale era quello del dopoguerra. E' dunque
spiegabile come, in quel momento, il Fascismo, con le sue demagogiche promesse
facenti leva sul sentimento romantico di una resurrezione patriottica, potesse
acquistarsi una certa simpatia e nei ceti sostenitori dello stato ordinario e
legalitario e nei gruppi agrari e industriali, che vedevano in un indirizzo
autoritario la migliore difesa dei loro interessi, minacciati soprattutto dalle
correnti ugualitarie e livellatrici marxiste e specialmente dalle rivoluzioni
comuniste.
Ebbe cosi inizio un periodo particolarmente triste per il paese, durante il
quale il Fascismo - che aveva ben compreso la possibilità di superare con pochi
elementi decisi (gli squadristi, che si fregiavano di nere insegne
ornate di teschi) i molti raziocinanti avversari dei partiti - passò ad una
azione intimidatrice di violenza e costrizioni, quasi
sempre incoraggiate dall'incertezza e dalla tolleranza dell'autorità
costituita, anche con manifestazioni particolarmente disgustose come quelle
delle abbondanti «manganellature» e delle somministrazioni
di olio di ricino. Si arrivava in tal modo al paradosso di un movimento che,
propugnatore della legalità, cercava di aprirsi la strada del potere servendosi
della più evidente illegalità, e creando un doloroso disordine mentre si
prefiggeva di "normalizzare" la situazione.
Sarebbe assurdo negare che, ciò nonostante, il Fascismo non abbia raccolto un certo seguito, mentre gli oppositori, se pure dignitosi, non potevano in verità suscitare molte simpatie, per crescente dimostrazione di una impotente debolezza tale da rasentare l'inettitudine. I partiti marxisti, che avrebbero potuto costituire un ostacolo difficile per il Fascismo, dispersi da troppe scissioni in altrettante correnti sempre in urto tra di loro, furono quelli più violentemente colpiti, cosicché, eliminata la loro concorrenza, il nuovo movimento, per di più organizzato quasi militarmente colse l'occasione, e promosse la nota marcia su Roma delle colonne fasciste (28 ottobre 1922). Mentre gli avversari peccavano ancora una volta di indifferenza e di incredulità nelle conseguenze dell'avventura, la marcia ebbe il potere di impressionare fortemente la monarchia e gli uomini più eminenti dello stato. Infatti, re Vittorio Emanuele III, rifiutando la proposta del capo del governo Facta di proclamare lo stato d'assedio, per il timore di una deprecata guerra civile, nella speranza effettiva di migliorare la situazione, ed a seguito del rifiuto degli esponenti delle diverse correnti politiche di assumere il mandato governativo, chiamò al Quirinale Mussolini, giunto a Roma con i «quadrumviri» Bianchi, De Bono, Balbo e De Vecchi, e gli offerse l'incarico di formare il gabinetto. L'ordine tanto auspicato non si verificò: per parecchio tempo i contrasti di piazza angustiarono il paese, anche perché l'appoggio governativo all'azione delle squadre fasciste non poteva che inasprire le opposizioni, ormai presaghe di quella che tra poco sarebbe stata la loro completa soffocazione. In questo clima vennero indette le elezioni politiche del 1924, con il preordinato scopo di rendere legale lo stato di cose che certo imbarazzava gli stessi esponenti fascisti. Si introdusse uno speciale sistema elettorale basato sul «premio di maggioranza», capace di dare praticamente tutto il Parlamento in mano alla lista che avesse ottenuto una maggioranza relativa; maggioranza relativa che infatti il Partito nazionale fascista (PNF) ottenne, impostando la sua campagna elettorale sulla intimidazione e sulla violenza. Si formò così un Parlamento che non rispecchiava affatto le forzepolitiche italiane; tuttavia le opposizioni parlamentari, sia pure sparute e non bene organizzate, dimostrarono in quella occasione un alto spirito battagliero. Tra i più tenaci oppositori si rivelò subito il deputato socialista Giacomo Matteotti, il quale, mentre si riprometteva di documentare in piena Camera i soprusi e le soperchierie mediante i quali il Fascismo aveva raggiunto il successo, venne rapito da sicari fascisti e barbaramente assassinato nei pressi di Roma. Il martirio di Matteotti, uomo di alta statura morale e di indiscussa probità politica, coincise con il momento di crisi del Fascismo, che, aspramente attaccato per la responsabilità del crimine, personalmente attribuita allo stesso Mussolini, rasentò l'orlo della caduta, anche per l'indignazione suscitata nel paese da tale misfatto. Sennonché, ancora una volta le opposizioni commisero l'errore di agire sul piano simbolico anziché sul piano concreto, e, rifiutandosi di mettere piede nella Camera fascista, si ritirarono dall'attività parlamentare, dando luogo alla secessione: detta dell'Aventino (giugno 1924), dal nome del colle romano che aveva visto la secessione dei plebei. Questa ritirata rimase fine a se stessa, senza alcun seguito pratico, invano sperato ed atteso da parte della stessa monarchia. Mussolini, assai più tempista e sicuro di sé, ebbe pertanto il tempo di sollevarsi dallo stato di disagio in cui era venuto a trovarsi e riprese l'iniziativa, presentandosi il 3gennaio 1925 alla Camera per dichiarare di assumersi tutta la responsabilità politica, morale e storica di quanto era accaduto e annunciare in termini draconiani le sue contromisure, consistenti in una serie di provvedimenti che sopprimevano in Italia ogni forma di libertà e rendevano impossibile ogni opposizione che non fosse soltanto clandestina. Il naufragio degli aventiniani trovava conferma l'anno successivo con la legge che dichiarava decaduti dal mandato i deputati che dal giugno 1924 si erano astenuti dal partecipare ai lavori parlamentari. Da allora, il Fascismo rimase padrone del campo e soppresse le fondamentali guarentigie costituzionali (libertà di stampa, di riunione, associazione, ecc.), mirò a consolidare la sua forza, basandosi soprattutto, da un lato, su di una efficiente organizzazione poliziesca, e dall'altro, su una crescente propaganda di valorizzazione nazionale, ricca di suggestioni derivate dall'antico prestigio della romanità. Inoltre, dal punto di vista economico, giocando sulla blandizia verso le classi operaie e allo stesso tempo seguendo una politica protezionistica verso i maggiori industriali, lanciò il postulato della indispensabilità della autosufficienza economica dell'Italia, la cosiddetta «autarchia», al fine di sottrarsi ad ogni eventuale vassallaggio straniero. In realtà, questa politica sempre più esaltatrice di un amor patrio inteso più che altro come superiorità della nostra nazione sulle altre, unitamente alla campagna per l'incremento demografico e alla volontà di potenza, non tendeva che a dare dimostrazioni bellicose di una forza esistente più sulla carta che nei fatti, come per esempio nel campo militare. D'altra parte, alcune ammissioni fatte da alcune delle stesse grandi potenze, ingenerarono in Mussolini e in molti Italiani l'illusoria opinione di essere veramente più forti di quanto non fossero e sfortunatamente anche uomini saggi e consapevoli non osarono in quei tempi, se non in casi eccezionali e comunque timidamente, ammonire sul pericolo in cui il Fascismo stava gettando l'Italia. Per non dire della criminale ipocrisia di coloro che, mentre a parole esaltavano il regime, lo andavano sabotando nella speranza di liberarsi con poca fatica di un sistema ormai alquanto imbarazzante per loro. Così, quando Mussolini concepì l'impresa di conquistare all'Italia il famoso «posto al sole» con la vittoriosa, per quanto piena di sacrifici, campagna d'Etiopia (3ottobre 1935- 9maggio l936) - il coro delle lodi sali alle stelle, esasperando l'utopia imperiale dell'Italia, la quale in effetti, non aveva trovato altra opposizione all'infuori delle sterili deplorazioni della Società delle nazioni. Malgrado tutto, fu questo il periodo migliore del Fascismo: la stessa oppressione poliziesca e il Tribunale speciale per la difesa dello Stato davano segni di rilassamento, e il popolo italiano, disavvezzandosi gradatamente alla democrazia poteva sperare in tempi piuttosto tranquilli. Sennonché Mussolini, non soddisfatto dei successi conseguiti, entrò nell'orbita della Germania di Hitler, tesa alla conquista dell'Europa. Sopravvalutazione della propria forza e sopravvalutazione della forza germanica: ecco il fatale errore del Fascismo che, dal momento dell'entrata in guerra dell'Italia (10 giugno 1940) inizia la sua parabola discendente. La guerra infatti mostrò subito le deficienze di un regime composto da illusi, da arrivisti e da inesperti consiglieri, destinato pertanto alla rovina, malgrado le pagine eroiche ancora una volta scritte dai soldati italiani, spinti al combattimento sui vari fronti di guerra in condizioni di spaventevole inferiorità in mezzi e materiali. Mentre la monarchia tentava di sganciarsi dal Fascismo, subito dopo lo sbarco degli Anglo-Americani in Sicilia, Mussolini cadeva nella storica seduta del Gran consiglio del 24-25 luglio 1943, per opera dei suoi stessi collaboratori, che gli negavano la fiducia. Di qui il suo arresto da parte della monarchia e lo scioglimento del partito da parte del governo Badoglio. E questa può essere veramente considerata la data di morte del Fascismo mussoliniano, in quanto la triste appendice del Partito fascista repubblicano, creatosi nell'Italia del Nord durante l'occupazione tedesca, non fu che un sanguinoso fantasma, alimentato dal feroce ex alleato, che si agitò nel periodo doloroso della guerra civile (settembre 1943- aprile 1945), periodo che conobbe il sacrificio di tante vite e gli strazi e le sofferenze della popolazione civile, e culminato infine nella fucilazione di Mussolini (28 aprile 1945).
DOTTRINA
Come ogni salda concezione politica,
il fascismo è prassi ed è pensiero, azione a cui è immanente una dottrina, e
dottrina che, sorgendo da un dato sistema di forze storiche, vi resta inserita
e vi opera dal di dentro. Ha quindi una forma correlativa alle contingenze di
luogo e di tempo, ma ha insieme un contenuto ideale che la eleva a formula di
verità nella storia superiore del pensiero. Non si agisce spiritualmente nel
mondo come volontà umana dominatrice di volontà senza un concetto della realtà
transeunte e particolare su cui bisogna agire, e della realtà permanente e
universale in cui la prima ha il suo essere e la sua vita. Per conoscere gli
uomini bisogna conoscere l'uomo; e per conoscere l'uomo bisogna conoscere la
realtà e le sue leggi. Non c'è concetto dello stato che non sia
fondamentalmente concetto della vita: filosofia o intuizione, sistema di idee
che si svolge in una costruzione logica o si raccoglie in una visione o in una
fede, ma è sempre, almeno virtualmente, una concezione organica del mondo.
Così il fascismo non si intenderebbe
in molti dei suoi atteggiamenti pratici, come organizzazione di partito, come
sistema di educazione, come disciplina, se non si guardasse alla luce del suo
modo generale di concepire la vita. Modo spiritualistico. Il mondo per il
fascismo non è questo mondo materiale che appare alla superficie, in cui l'uomo
è un individuo separato da tutti gli altri e per sé stante, ed è governato da
una legge naturale, che istintivamente lo trae a vivere una vita di piacere
egoistico e momentaneo. L'uomo del fascismo è individuo che è nazione e patria,
legge morale che stringe insieme individui e generazioni in una tradizione e in
una missione, che sopprime l'istinto della vita chiusa nel breve giro del
piacere per instaurare nel dovere una vita superiore libera da limiti di tempo
e di spazio: una vita in cui l'individuo, attraverso l'abnegazione di sé, il sacrifizio dei suoi interessi particolari, la stessa morte,
realizza quell'esistenza tutta spirituale in cui è il suo valore di uomo.
Dunque concezione spiritualistica,
sorta anche essa dalla generale reazione del secolo contro il fiacco e
materialistico positivismo dell'Ottocento. Antipositivistica,
ma positiva: non scettica, né agnostica, né pessimistica, né passivamente ottimistica,
come sono in generale le dottrine (tutte negative) che pongono il centro della
vita fuori dell'uomo, che con la sua libera volontà può e deve crearsi il suo
mondo. Il fascismo vuole l'uomo attivo e impegnato nell'azione con tutte le sue
energie: lo vuole virilmente consapevole delle difficoltà che ci sono, e pronto
ad affrontarle. Concepisce la vita come lotta pensando che spetti all'uomo
conquistarsi quella che sia veramente degna di lui, creando prima di tutto in
sé stesso lo strumento (fisico, morale, intellettuale) per edificarla. Così per
l'individuo singolo, così per la nazione, così per l'umanità. Quindi l'alto
valore della cultura in tutte le sue forme - arte, religione, scienza - e
l'importanza grandissima dell'educazione. Quindi anche il valore essenziale del
lavoro, con cui l'uomo vince la natura e crea il mondo umano (economico,
politico, morale, intellettuale).
Questa concezione positiva della vita
è evidentemente una concezione etica. E investe tutta la realtà, nonché
l'attività umana che la signoreggia. Nessuna azione sottratta al giudizio
morale; niente al mondo che si possa spogliare del valore che a tutto compete
in ordine ai fini morali. La vita perciò quale la concepisce il fascista è
seria, austera, religiosa: tutta librata in un mondo sorretto dalle forze
morali e responsabili dello spirito. Il fascista disdegna la vita «comoda».
Il fascismo è una concezione
religiosa, in cui l'uomo è veduto nel suo immanente rapporto con una legge
superiore, con una Volontà obiettiva che trascende l'individuo particolare e lo
eleva a membro consapevole di una società spirituale. Chi nella politica
religiosa del regime fascista si è fermato a considerazioni di mera
opportunità, non ha inteso che il fascismo, oltre a essere un sistema di
governo, è anche, e prima di tutto, un sistema di pensiero.
Il fascismo è una concezione storica,
nella quale l'uomo non è quello che è se non in funzione del processo
spirituale a cui concorre, nel gruppo familiare e sociale, nella nazione e nella
storia, a cui tutte le nazioni collaborano. Donde il gran valore della
tradizione nelle memorie, nella lingua, nei costumi, nelle norme del vivere
sociale. Fuori della storia 1'uomo è nulla. Perciò il fascismo è contro tutte
le astrazioni individualistiche, a base materialistica, tipo sec. XVIII; ed è
contro tutte le utopie e le innovazioni giacobine.
Esso non crede possibile la «felicità» sulla terra come fu nel desiderio della
letteratura economicistica del `700, e quindi
respinge tutte le concezioni teleologiche per cui a un certo periodo della
storia ci sarebbe una sistemazione definitiva del genere umano. Questo
significa mettersi fuori della storia e della vita che è continuo fluire e
divenire. Il fascismo politicamente vuol essere una dottrina realistica;
praticamente, aspira a risolvere solo i problemi che si pongono storicamente da
sé e che da sé trovano o suggeriscono la propria soluzione. Per agire tra gli
uomini, come nella natura, bisogna entrare nel processo della realtà e
impadronirsi delle forze in atto.
Antiindividualistica, la concezione fascista è per lo Stato; ed è per
l'individuo in quanto esso coincide con lo Stato, coscienza e volontà
universale dell'uomo nella sua esistenza storica. E' contro il liberalismo
classico, che sorse dal bisogno di reagire all'assolutismo e ha esaurito la sua
funzione storica da quando lo Stato si è trasformato nella stessa coscienza e
volontà popolare. Il liberalismo negava lo Stato nell'interesse dell'individuo
particolare; il fascismo riafferma lo Stato come la realtà vera dell'individuo.
E se la libertà dev'essere l'attributo dell'uomo
reale, e non di quell'astratto fantoccio a cui pensava il liberalismo
individualistico, il fascismo è per la libertà. E' per la sola libertà che
possa essere una cosa seria, la libertà dello Stato e dell'individuo nello
Stato. Giacché, per il fascista, tutto è nello Stato, e nulla di umano o
spirituale esiste, e tanto meno ha valore, fuori dello Stato. In tal senso il
fascismo è totalitario, e lo Stato fascista, sintesi e unità di ogni valore,
interpreta, sviluppa e potenzia tutta la vita del popolo.
Né individui fuori dello Stato, né
gruppi (partiti politici, associazioni, sindacati, classi). Perciò il fascismo
è contro il socialismo che irrigidisce il movimento storico nella lotta di
classe e ignora l'unità statale che le classi fonde in una sola realtà
economica e morale; e analogamente, è contro il sindacalismo classista. Ma
nell'orbita dello Stato ordinatore, le reali esigenze da cui trasse origine il
movimento socialista e sindacalista, il fascismo le vuole riconosciute e le fa
valere nel sistema corporativo degli interessi conciliati nell'unità dello
Stato.
Gli individui sono classi secondo le
categorie degli interessi; sono sindacati secondo le differenziate attività
economiche cointeressate; ma sono prima di tutto e soprattutto Stato. Il quale
non è numero, come somma d'individui formanti la maggioranza di un popolo. E
perciò il fascismo è contro la democrazia che ragguaglia il popolo al maggior numero
abbassandolo al livello dei più; ma è la forma più schietta di democrazia se il
popolo è concepito, come dev'essere, qualitativamente
e non quantitativamente, come l'idea più potente perché più morale, più
coerente, più vera, che nel popolo si attua quale coscienza e volontà di pochi,
anzi di Uno, e quale ideale tende ad attuarsi nella coscienza e volontà di
tutti. Di tutti coloro che dalla natura e dalla storia, etnicamente,
traggono ragione di formare una nazione, avviati sopra la stessa linea di sviluppo
e formazione spirituale, come una coscienza e una volontà sola. Non razza, nè regione geograficamente individuata, ma schiatta
storicamente perpetuantesi, moltitudine unificata da
un'idea, che è volontà di esistenza e di potenza: coscienza di sé, personalità.
Questa personalità superiore è bensì
nazione in quanto è Stato. Non è la nazione a generare lo Stato, secondo il
vieto concetto naturalistico che servì di base alla pubblicistica degli Stati
nazionali nel secolo XIX. Anzi la nazione è creata dallo Stato, che dà al
popolo, consapevole della propria unità morale, una volontà, e quindi
un'effettiva esistenza. Il diritto di una nazione all'indipendenza deriva non
da una letteraria e ideale coscienza del proprio essere, e tanto meno da una
situazione di fatto più o meno inconsapevole e inerte, ma da una coscienza
attiva, da una volontà politica in atto e disposta a dimostrare il proprio
diritto: cioè, da una sorta di Stato già in fieri. Lo Stato infatti,
come volontà etica universale, è creatore del diritto.
La nazione come Stato è una realtà
etica che esiste e vive in quanto si sviluppa. Il suo arresto è la sua morte.
Perciò lo Stato non solo è autorità che governa e dà forma di legge e valore di
vita spirituale alle volontà individuali, ma è anche potenza che fa valere la
sua volontà all'esterno, facendola riconoscere e rispettare, ossia
dimostrandone col fatto l'universalità in tutte le determinazioni necessarie
del suo svolgimento. E perciò organizzazione ed espansione, almeno virtuale. Cosi
può adeguarsi alla natura dell'umana volontà, che nel suo sviluppo non conosce
barriere, e che si realizza provando la propria infinità.
Lo Stato fascista, forma più alta e
potente della personalità, è forza, ma spirituale. La quale riassume tutte le
forme della vita morale e intellettuale dell'uomo. Non si può quindi limitare a
semplici funzioni di ordine e tutela, come voleva il liberalismo. Non è un
semplice meccanismo che limiti la sfera delle presunte libertà individuali. È
forma e norma interiore, e disciplina di tutta la persona; penetra la volontà
come l'intelligenza. Il suo principio, ispirazione centrale dell'umana
personalità vivente nella comunità civile, scende nel profondo e si annida nel
cuore dell'uomo d'azione come del pensatore, dell'artista come dello
scienziato: anima dell'anima.
Il fascismo insomma non è soltanto
datore di leggi e fondatore d'istituti, ma educatore e promotore di vita
spirituale. Vuoi rifare non le forme della vita umana, ma il contenuto, l'uomo,
il carattere, la fede. E a questo fine vuole disciplina, e autorità che scenda
addentro negli spiriti, e vi domini incontrastata. La sua insegna perciò è il
fascio littorio, simbolo dell'unità, della forza e della giustizia.
Quando, nell'ormai lontano marzo del
1919, dalle colonne del Popolo d'Italia io convocai a Milano i
superstiti interventisti-intervenuti, che mi avevano seguito sin dalla
costituzione dei Fasci d'azione rivoluzionaria - avvenuta nel gennaio del 1915
-, non c'era nessuno specifico piano dottrinale nel mio spirito. Di una sola
dottrina io recavo l'esperienza vissuta: quella del socialismo dal 1903-04 sino
all'inverno del 1914: circa un decennio. Esperienza di gregario e di capo, ma
non esperienza dottrinale. La mia dottrina, anche in quel periodo, era stata la
dottrina dell'azione. Una dottrina univoca, universalmente accettata, del
socialismo non esisteva più sin dal 1905, quando cominciò in Germania il
movimento revisionista facente capo al Bernstein e
per contro si formò, nell'altalena delle tendenze, un movimento di sinistra
rivoluzionario, che in Italia non uscì mai dal campo delle frasi, mentre, nel
socialismo russo, fu il preludio del bolscevismo. Riformismo, rivoluzionarismo,
centrismo, di questa terminologia anche gli echi sono spenti, mentre nel grande
fiume del fascismo troverete i filoni che si dipartirono dal Sorel, dal Lagardelle del Mouvement Socialiste, dal Péguy,
e dalla coorte dei sindacalisti italiani, che tra il 1904 e il 1914 portarono
una nota di novità nell'ambiente socialistico italiano, già svirilizzato e
cloroformizzato dalla fornicazione giolittiana, con
le Pagine libere di Olivetti, La Lupa
di Orano, il Divenire sociale di Enrico Leone. Nel 1919, finita la
guerra, il socialismo era già morto come dottrina: esisteva solo come rancore,
aveva ancora una sola possibilità, specialmente in Italia, la rappresaglia
contro coloro che avevano voluto la guerra e che dovevano «espiarla». Il Popolo
d'Italia recava nel sottotitolo «quotidiano dei combattenti e dei
produttori». La parola «produttori» era già l'espressione di un indirizzo
mentale. Il fascismo non fu tenuto a balia da una dottrina elaborata in
precedenza, a tavolino: nacque da un bisogno di azione e fu azione; non fu
partito, ma, nei primi due anni, antipartito e movimento. Il nome che io diedi
all'organizzazione, ne fissava i caratteri. Eppure chi rilegga, nei fogli
oramai gualciti dell'epoca, il resoconto dell'adunata costitutiva dei Fasci
italiani di combattimento, non troverà una dottrina, ma una serie di spunti, di
anticipazioni, di accenni, che, liberati dall'inevitabile ganga delle
contingenze, dovevano poi, dopo alcuni anni, svilupparsi in una serie di
posizioni dottrinali, che facevano del fascismo una dottrina politica a sé stante,
in confronto di tutte le altre e passate e contemporanee.«Se la borghesia,
dicevo allora, crede di trovare in noi dei parafulmini si inganna. Noi dobbiamo
andare incontro al lavoro Vogliamo abituare le classi operaie alla capacità
direttiva, anche per convincerle che non è facile mandare avanti una industria
o un commercio Combatteremo il retroguardismo
tecnico e spirituale Aperta la successione del regime noi non dobbiamo
essere degli imbelli. Dobbiamo correre; se il regime sarà superato saremo noi
che dovremo occupare il suo posto. Il diritto di successione ci viene perché
spingemmo il paese alla guerra e lo conducemmo alla vittoria. L'attuale
rappresentanza politica non ci può bastare, vogliamo una rappresentanza diretta
dei singoli interessi Si potrebbe dire contro questo programma che si
ritorna alle corporazioni. Non importa! Vorrei perciò che l'assemblea
accettasse le rivendicazioni del sindacalismo nazionale dal punto di vista
economico» Non è singolare che sin dalla prima giornata di Piazza San
Sepolcro risuoni la parola «corporazione» che doveva, nel corso della
Rivoluzione, significare una delle creazioni legislative e sociali alla base
del regime?
Gli anni che precedettero la marcia su
Roma, furono anni durante i quali le necessità dell'azione non tollerarono
indagini o complete elaborazioni dottrinali. Si battagliava nelle città e nei
villaggi. Si discuteva, ma - quel ch'è più sacro e importante - si moriva. Si
sapeva morire. La dottrina - bell'e formata, con divisione di capitoli e
paragrafi e contorno di elucubrazioni - poteva mancare; ma c'era a sostituirla
qualche cosa di più decisivo: la fede. Purtuttavia, a
chi rimemori sulla scorta dei libri, degli articoli,
dei voti dei congressi, dei discorsi maggiori e minori, chi sappia indagare e
scegliere, troverà che i fondamenti della dottrina furono gettati mentre
infuriava la battaglia. È precisamente in quegli anni, che anche il pensiero
fascista si arma, si raffina, procede verso una sua organizzazione. I problemi
dell'individuo e dello Stato; i problemi dell'autorità e della libertà; i
problemi politici e sociali e quelli più specificatamente nazionali; la lotta
contro le dottrine liberali, democratiche, socialistiche, massoniche,
popolaresche fu condotta contemporaneamente alle «spedizioni punitive». Ma
poiché mancò il «sistema» si negò dagli avversari in malafede al fascismo ogni
capacità di dottrina, mentre la dottrina veniva sorgendo, sia pure
tumultuosamente dapprima sotto l'aspetto di una negazione violenta e dogmatica
come accade di tutte le idee che esordiscono, poi sotto l'aspetto positivo di
una costruzione che trovava, successivamente negli anni 1926, `27 e `28, la sua
realizzazione nelle leggi e negli istituti del regime. Il fascismo è oggi
nettamente individuato non solo come regime ma come dottrina. Questa parola va
interpretata nel senso che oggi il fascismo esercitando la sua critica su se
stesso e sugli altri, ha un suo proprio inconfondibile punto di vista, di
riferimento - e quindi di direzione - dinnanzi a tutti i problemi che
angustiano, nelle cose o nelle intelligenze, i popoli del mondo.
Anzitutto il fascismo, per quanto
riguarda, in generale, l'avvenire e lo sviluppo dell'umanità, e a parte ogni
considerazione di politica attuale, non crede alla possibilità né all'utilità
della pace perpetua. Respinge quindi il pacifismo che nasconde una rinuncia
alla lotta e una viltà - di fronte al sacrificio. Solo la guerra porta al
massimo di tensione tutte le energie umane e imprime un sigillo di nobiltà ai
popoli che hanno la virtù di affrontarla. Tutte le altre prove sono dei
sostituti, che non pongono mai l'uomo di fronte a se stesso, nell'alternativa
della vita e della morte. Una dottrina, quindi, che parta dal postulato
pregiudiziale della pace, è estranea al fascismo cosi come estranee allo
spirito del fascismo, anche se accettate per quel tanto di utilità che possano
avere in determinate situazioni politiche, sono tutte le costruzioni
internazionalistiche e societarie, le quali, come la storia dimostra, si
possono disperdere al vento quando elementi sentimentali, ideali e pratici
muovono a tempesta il cuore dei popoli. Questo spirito anti-pacifista, il
fascismo lo trasporta anche nella vita degli individui. L'orgoglioso motto
squadrista «me ne frego», scritto sulle bende di una ferita, è un atto di
filosofia non soltanto stoica, è il sunto di una dottrina non soltanto
politica: è l'educazione al combattimento, l'accettazione dei rischi che esso
comporta; è un nuovo stile di vita italiano. Così il fascista accetta, ama la
vita, ignora e ritiene vile il suicidio; comprende la vita come dovere,
elevazione, conquista: la vita che deve essere alta e piena: vissuta per se, ma
soprattutto per gli altri, vicini e lontani, presenti e futuri.
La politica «demografica» del regime è
la conseguenza di queste premesse. Anche il fascista ama infatti il suo
prossimo, ma questo «prossimo» non è per lui un concetto vago e inafferrabile:
l'amore per il prossimo non impedisce le necessarie educatrici severità, e ancora
meno le differenziazioni e le distanze. Il fascismo respinge gli abbracciamenti
universali e, pur vivendo nella comunità dei popoli civili, li guarda vigilante
e diffidente negli occhi, li segue nei loro stati d'animo e nella
trasformazione dei loro interessi né si lascia ingannare da apparenze mutevoli
e fallaci.
Una siffatta concezione della vita
porta il fascismo a essere la negazione recisa di quella dottrina che costituì
la base del socialismo cosiddetto scientifico o marxiano: la dottrina del
materialismo storico secondo il quale la storia delle civiltà umane si
spiegherebbe soltanto con la lotta d'interessi fra i diversi gruppi sociali e
col cambiamento dei mezzi e strumenti di produzione. Che le vicende
dell'economia - scoperte di materie prime, nuovi metodi di lavoro, invenzioni
scientifiche - abbiano una loro importanza, nessuno nega; ma che esse bastino a
spiegare la storia umana escludendone tutti gli altri fattori, è assurdo: il
fascismo crede ancora e sempre nella santità e nell'eroismo, cioè in atti nei
quali nessun motivo economico - lontano o vicino - agisce. Negato il
materialismo storico, per cui gli uomini non sarebbero che comparse della
storia, che appaiono e scompaiono alla superficie dei flutti, mentre nel
profondo si agitano e lavorano le vere forze direttrici, è negata anche la
lotta di classe, immutabile e irreparabile, che di questa concezione economicistica della storia è la naturale figliazione, e soprattutto è negato che la lotta di classe
sia l'agente preponderante delle trasformazioni sociali. Colpito il socialismo
in questi due capisaldi della sua dottrina, di esso non resta allora che
l'aspirazione sentimentale - antica come l'umanità - a una convivenza sociale
nella quale siano alleviate le sofferenze e i dolori della più umile gente. Ma
qui il fascismo respinge il concetto di «felicità» economica, che si
realizzerebbe socialisticamente e quasi
automaticamente a un dato momento dell'evoluzione dell'economia, con
l'assicurare a tutti il massimo di benessere. Il fascismo nega il concetto
materialistico di «felicità» come possibile e lo abbandona agli economisti
della prima metà del `700; nega cioè l'equazione benessere=felicità
che convertirebbe gli uomini in animali di una cosa sola pensosi: quella di
essere pasciuti e ingrassati, ridotti, quindi, alla pura e semplice vita
vegetativa.
Dopo il socialismo, il fascismo batte
in breccia tutto il complesso delle ideologie democratiche e le respinge, sia
nelle loro premesse teoriche, sia nelle loro applicazioni o strumentazioni
pratiche. Il fascismo nega che il numero, per il semplice fatto di essere
numero, possa dirigere le società umane; nega che questo numero possa governare
attraverso una consultazione periodica; afferma la disuguaglianza irrimediabile
e feconda e benefica degli uomini che non si possono livellare attraverso un
fatto meccanico ed estrinseco com'è il suffragio universale. Regimi democratici
possono essere definiti quelli nei quali, di tanto in tanto, si dà al popolo
l'illusione di essere sovrano, mentre la vera effettiva sovranità sta in altre
forze talora irresponsabili e segrete. La democrazia è un regime senza re, ma
con moltissimi re talora più esclusivi, tirannici e rovinosi che un solo re che
sia tiranno. Questo spiega perché il fascismo, pur avendo prima del 1922 - per
ragioni di contingenza - assunto un atteggiamento di tendenzialità
repubblicana, vi rinunciò prima della marcia su Roma, convinto che la questione
delle forme politiche di uno Stato non è, oggi, preminente e che studiando nel
campionario delle monarchie passate e presenti, delle repubbliche passate e
presenti, risulta che monarchia e repubblica non sono da giudicare sotto la
specie dell'eternità, ma rappresentano forme nelle quali si estrinseca
l'evoluzione politica, la storia, la tradizione, la psicologia di un
determinato paese. Ora il fascismo supera l'antitesi monarchia-repubblica sulla
quale si attardò il democraticismo, caricando la
prima di tutte le insufficienze, e apologizzando l'ultima come regime di
perfezione. Ora s'è visto che ci sono repubbliche intimamente reazionarie o
assolutistiche, e monarchie che accolgono le più ardite esperienze politiche e
sociali.
«La ragione, la scienza - diceva Renan, che ebbe delle illuminazioni prefasciste,
in una delle sue Meditazioni filosofiche - sono dei prodotti dell'umanità, ma
volere la ragione direttamente per il popolo e attraverso il popolo è una
chimera. Non è necessario per l'esistenza della ragione che tutto il mondo la
conosca. In ogni caso se tale iniziazione dovesse farsi non si farebbe
attraverso la bassa democrazia, che sembra dover condurre all'estinzione di
ogni cultura difficile, e di ogni più alta disciplina. Il principio che la
società esiste solo per il benessere e la libertà degli individui che la
compongono non sembra essere conforme ai piani della natura, piani nei quali la
specie sola è presa in considerazione e l'individuo sembra sacrificato. E' da
fortemente temere che l'ultima parola della democrazia così intesa (mi affretto
a dire che si può intendere anche diversamente) non sia uno stato sociale nel
quale una massa degenerata non avrebbe altra preoccupazione che godere i
piaceri ignobili dell'uomo volgare». Fin qui Renan. Il
fascismo respinge nella democrazia l'assurda menzogna convenzionale
dell'egualitarismo politico e l'abito dell'irresponsabilità collettiva e il
mito della felicità e del progresso indefinito. Ma, se la democrazia può essere
diversamente intesa, cioè se democrazia significa non respingere il popolo ai
margini dello Stato, il fascismo poté da chi scrive essere definito una
«democrazia organizzata, centralizzata, autoritaria».
Di fronte alle dottrine liberali, il
fascismo e in atteggiamento di assoluta opposizione, e nel campo della politica
e in quello dell'economia. Non bisogna esagerare - a scopi semplicemente di
polemica attuale - l'importanza del liberalismo nel secolo scorso, e fare di
quella che fu una delle numerose dottrine sbocciate in quel secolo, una
religione dell'umanità per tutti i tempi presenti e futuri. Il liberalismo non
fiorì che per un quindicennio. Nacque nel 1830 come reazione alla Santa
Alleanza che voleva respingere l'Europa al pre-'89, ed ebbe il suo anno di
splendore nel 1848 quando anche Pio IX fu liberale. Subito dopo cominciò la
decadenza. Se il `48 fu un anno di luce e di poesia, il `49 fu un anno di
tenebre e di tragedia. La repubblica di Roma fu uccisa da un'altra repubblica,
quella di Francia. Nello stesso anno, Marx lanciava il vangelo della religione
del socialismo, col famoso Manifesto dei comunisti. Nel 1851 Napoleone III fa
il suo illiberale colpo di Stato e regna sulla Francia fino al 1870, quando fu
rovesciato da un moto di popolo, ma in seguito a una disfatta militare fra le
più grandi che conti la storia. Il vittorioso è Bismarck,
il quale non seppe mai dove stesse di casa la religione della libertà e di
quali profeti si servisse. E' sintomatico che un popolo di alta civiltà, come
il popolo tedesco, abbia ignorato in pieno, per tutto il sec. XIX, la religione
della libertà. Non c'è che una parentesi. Rappresentata da quello che è stato
chiamato il «ridicolo parlamento di Francoforte», che durò una stagione. La
Germania ha raggiunto la sua unità nazionale al di fuori del liberalismo,
contro il liberalismo, dottrina che sembra estranea all'anima tedesca, anima
essenzialmente monarchica, mentre il liberalismo è l'anticamera storica e
logica dell'anarchia. Le tappe dell'unità tedesca sono le tre guerre del `64,
`66, `70, guidate da «liberali» come Moltke e Bismarck. Quanto all'unità italiana, il liberalismo vi ha
avuto una parte assolutamente inferiore all'apporto dato da Mazzini e da
Garibaldi che liberali non furono. Senza l'intervento dell'illiberale
Napoleone, non avremmo avuto la Lombardia, e senza l'aiuto dell'illiberale Bismarck a Sadowa e a Sedan, molto probabilmente non avremmo avuto, nel `66, la
Venezia; e nel 1870 non saremmo entrati a Roma. Dal 1870 al 1915, corre il
periodo nel quale gli stessi sacerdoti del nuovo credo accusano il crepuscolo
della loro religione: battuta in breccia dal decadentismo nella letteratura,
dall'attivismo nella pratica. Attivismo: cioè nazionalismo, futurismo,
fascismo. Il secolo «liberale» dopo aver accumulato un'infinità di nodi
gordiani, cerca di scioglierli con l'ecatombe della guerra mondiale. Mai
nessuna religione impose così immane sacrificio. Gli dei del liberalismo
avevano sete di sangue? Ora il liberalismo sta per chiudere le porte dei suoi
templi deserti perché i popoli sentono che il suo agnosticismo nell'economia,
il suo indifferentismo nella politica e nella morale
condurrebbe, come ha condotto, a sicura rovina gli Stati. Si spiega con ciò che
tutte le esperienze politiche del mondo contemporaneo sono antiliberali ed è
supremamente ridicolo volerle perciò classificare fuori della storia; come se
la storia fosse una bandita di caccia riservata al liberalismo e ai suoi
professori, come se il liberalismo fosse la parola definitiva e non più
superabile della civiltà.
Le negazioni fasciste del socialismo,
della democrazia, del liberalismo, non devono tuttavia far credere che il
fascismo voglia respingere il mondo a quello che esso era prima di quel 1789,
che viene indicato come l'anno di apertura del secolo demo-liberale.
Non si torna indietro. La dottrina fascista non ha eletto a suo profeta De Maistre. L'assolutismo monarchico fu, e così pure ogni ecclesiolatria. Cosi «furono» i privilegi feudali e la
divisione in caste impenetrabili e non comunicabili fra di loro. Il concetto di
autorità fascista non ha niente a che vedere con lo stato di polizia. Un
partito che governa totalitariamente una nazione, è un fatto nuovo nella
storia. Non sono possibili riferimenti e confronti. Il fascismo dalle macerie
delle dottrine liberali, socialistiche, democratiche, trae quegli elementi che
hanno ancora un valore di vita. Mantiene quelli che si potrebbero dire i fatti
acquisiti della storia, respinge tutto il resto, cioè il concetto di una
dottrina buona per tutti i tempi e per tutti i popoli. Ammesso che il sec. XIX
sia stato il secolo del socialismo, del liberalismo, della democrazia, non è
detto che anche il sec. XX debba essere il secolo del socialismo, del
liberalismo, della democrazia. Le dottrine politiche passano, i popoli restano.
Si può pensare che questo sia il secolo dell'autorità, un secolo di «destra»,
un secolo fascista; se il XIX fu il secolo dell'individuo (liberalismo
significa individualismo), si può pensare che questo sia il secolo «collettivo»
e quindi il secolo dello Stato. Che una nuova dottrina possa utilizzare gli
elementi ancora vitali di altre dottrine è perfettamente logico. Nessuna
dottrina nacque tutta nuova, lucente, mai vista. Nessuna dottrina può vantare
una «originalità» assoluta. Essa è legata, non fosse che storicamente, alle
altre dottrine che furono, alle altre dottrine che saranno. Così il socialismo
scientifico di Marx è legato al socialismo utopistico dei Fourier,
degli Owen, dei Saint-Simon;
cosi il liberalismo dell'800 si riattacca a tutto il movimento illuministico
del `700. Così le dottrine democratiche sono legate all'Enciclopedia. Ogni
dottrina tende a indirizzare l'attività degli uomini verso un determinato
obiettivo; ma l'attività degli uomini reagisce sulla dottrina, la trasforma,
l'adatta alle nuove necessità o la supera. La dottrina, quindi dev'essere essa stessa non un'esercitazione di parole, ma
un atto di vita. In ciò le venature pragmatistiche del fascismo, la sua volontà
di potenza, il suo volere essere, la sua posizione di fronte al fatto
«violenza» e al suo valore.
Caposaldo della dottrina fascista è la
concezione dello Stato, della sua essenza, dei suoi compiti, delle sue
finalità. Per il fascismo lo Stato è un assoluto, davanti al quale individui e
gruppi sono il relativo. Individui e gruppi sono «pensabili» in quanto siano
nello Stato. Lo Stato liberale non dirige il giuoco e lo sviluppo materiale e
spirituale delle collettività, ma si limita a registrare i risultati; lo Stato
fascista ha una sua consapevolezza, una sua volontà, per questo si chiama uno
Stato «etico». Nel 1929 alla prima assemblea quinquennale del regime io dicevo:
«Per il fascismo lo Stato non è il guardiano notturno che si occupa soltanto
della sicurezza personale dei cittadini; non è nemmeno una organizzazione a
fini puramente materiali, come quello di garantire un certo benessere e una relativa
pacifica convivenza sociale, nel qual caso a realizzarlo basterebbe un
consiglio di amministrazione; non è nemmeno una creazione di politica pura,
senza aderenze con la realtà materiale e complessa della vita dei singoli e di
quella dei popoli. Lo Stato così come il fascismo lo concepisce e attua è un
fatto spirituale e morale, poiché concreta l'organizzazione politica,
giuridica, economica della nazione, e tale organizzazione è, nel suo sorgere e
nel suo sviluppo, una manifestazione dello spirito. Lo Stato è garante della
sicurezza interna ed esterna, ma è anche il custode e il trasmettitore dello
spirito del popolo così come fu nei secoli elaborato nella lingua, nel costume,
nella fede. Lo Stato non è soltanto presente, ma è anche passato e soprattutto
futuro. E' lo Stato che trascendendo il limite breve delle vite individuali
rappresenta la coscienza immanente della nazione. Le forme in cui gli Stati si
esprimono, mutano, ma la necessità rimane. E' lo Stato che educa i cittadini
alla virtù civile, li rende consapevoli della loro missione, li sollecita
all'unità; armonizza i loro interessi nella giustizia; tramanda le conquiste
del pensiero nelle scienze, nelle arti, nel diritto, nell'umana solidarietà;
porta gli uomini dalla vita elementare della tribù alla più alta espressione
umana di potenza che è l'impero; affida ai secoli i nomi di coloro che morirono
per la sua integrità o per obbedire alle sue leggi; addita come esempio e
raccomanda alle generazioni che verranno, i capitani che lo accrebbero di
territorio e i genii che lo illuminarono di gloria.
Quando declina il senso dello Stato e prevalgono le tendenze dissociatrici e centrifughe degli individui o dei gruppi,
le società nazionali volgono al tramonto».
Dal 1929 a oggi, l'evoluzione economica
politica universale ha ancora rafforzato queste posizioni dottrinali. Chi
giganteggia è lo Stato. Chi può risolvere le drammatiche contraddizioni del
capitalismo è lo Stato. Quella che si chiama crisi, non si può risolvere se non
dallo Stato, entro lo Stato. Dove sono le ombre dei Jules
Simon, che agli albori del liberalismo proclamavano che «lo Stato deve lavorare
a rendersi inutile e a preparare le sue dimissioni»? Dei Mac
Culloch, che nella seconda metà del secolo scorso
affermavano che lo Stato deve astenersi dal troppo governare? E che cosa
direbbe mai dinnanzi ai continui, sollecitati, inevitabili interventi dello
Stato nelle vicende economiche, l'inglese Bentham,
secondo il quale l'industria avrebbe dovuto chiedere allo Stato soltanto di
essere lasciata in pace, o il tedesco Humboldt,
secondo il quale lo Stato «ozioso» doveva essere considerato il migliore? Vero
è che la seconda ondata degli economisti liberali fa meno estremista della
prima e già lo stesso Smith apriva - sia pure
cautamente - la porta agli interventi dello Stato nell'economia. Se chi dice
liberalismo dice individuo, chi dice fascismo dice Stato. Ma lo Stato fascista
è unico ed è una creazione originale. Non è reazionario, ma rivoluzionario, in
quanto anticipa le soluzioni di determinati problemi universali quali sono
posti altrove nel campo politico dal frazionamento dei partiti, dal prepotere
del parlamentarismo, dall'irresponsabilità delle assemblee, nel campo economico
dalle funzioni sindacali sempre più numerose e potenti sia nel settore operaio
come in quello industriale, dai loro conflitti e dalle loro intese; nel campo
morale dalla necessità dell'ordine, della disciplina, dell'obbedienza a quelli
che sono i dettami morali della patria. Il fascismo vuole lo Stato forte, organico
e al tempo stesso poggiato su una larga base popolare. Lo Stato fascista ha
rivendicato a sé anche il campo dell'economia e, attraverso le istituzioni
corporative, sociali, educative da lui create, il senso dello Stato arriva sino
alle estreme propaggini, e nello Stato circolano, inquadrate nelle rispettive
organizzazioni, tutte le forze politiche, economiche, spirituali della nazione.
Uno Stato che poggia su milioni d'individui che lo riconoscono, lo sentono,
sono pronti a servirlo, non è lo Stato tirannico del signore medievale. Non ha
niente di comune con gli Stati assolutistici di prima o dopo l'89. L'individuo
nello Stato fascista non è annullato, ma piuttosto moltiplicato, cosi come in
un reggimento un soldato non è diminuito, ma moltiplicato per il numero dei
suoi camerati. Lo Stato fascista organizza la nazione, ma lascia poi agli
individui margini sufficienti; esso ha limitato le libertà inutili o nocive e
ha conservato quelle essenziali. Chi giudica su questo terreno non può essere
l'individuo, ma soltanto lo Stato.
Lo Stato fascista non rimane
indifferente di fronte al fatto religioso in genere e a quella particolare
religione positiva che è il cattolicismo italiano. Lo
Stato non ha una teologia, ma ha una morale. Nello Stato fascista la religione
viene considerata come una delle manifestazioni più profonde dello spirito; non
viene, quindi, soltanto rispettata, ma difesa e protetta. Lo Stato fascista non
crea un suo «Dio» così come volle fare a un certo momento, nei deliri estremi
della Convenzione, Robespierre; né cerca vanamente di cancellarlo dagli animi
come fa il bolscevismo; il fascismo rispetta il Dio degli asceti, dei santi,
degli eroi e anche il Dio cosi come visto e pregato dal cuore ingenuo e
primitivo del popolo.
Lo Stato fascista è una volontà di potenza e d'imperio. La tradizione romana è qui un'idea di forza. Nella dottrina del fascismo l'impero non è soltanto un'espressione territoriale o militare o mercantile, ma spirituale o morale. Si può pensare a un impero, cioè a una nazione che direttamente o indirettamente guida altre nazioni, senza bisogno di conquistare un solo chilometro quadrato di territorio. Per il fascismo la tendenza all'impero, cioè all'espansione delle nazioni, è una manifestazione di vitalità; il suo contrario, o il piede di casa, è un segno di decadenza: popoli che sorgono o risorgono sono imperialisti, popoli che muoiono sono rinunciatari. Il fascismo è la dottrina più adeguata a rappresentare le tendenze, gli stati d'animo di un popolo come l'italiano che risorge dopo molti secoli di abbandono o di servitù straniera. Ma l'impero chiede disciplina coordinazione degli sforzi, dovere e sacrificio; questo spiega molti aspetti dell'azione pratica del regime e l'indirizzo di molte forze dello Stato e la severità necessaria contro coloro che vorrebbero opporsi a questo moto spontaneo e fatale dell'Italia nel secolo XX, e opporsi agitando le ideologie superate del secolo XIX, ripudiate dovunque si siano osati grandi esperimenti di trasformazioni politiche e sociali: non mai come in questo momento i popoli hanno avuto sete di autorità, di direttive, di ordine. Se ogni secolo ha una sua dottrina, da mille indizi appare che quella del secolo attuale è il fascismo. Che sia una dottrina di vita, lo mostra il fatto che ha suscitato una fede: che la fede abbia conquistato le anime, lo dimostra il fatto che il fascismo ha avuto i suoi caduti e i suoi martiri. Il fascismo ha oramai nel mondo l'universalità di tutte le dottrine che, realizzandosi, rappresentano un momento nella storia dello spirito umano.
Dottrina - (considerazioni sulla dottrina fascista)
Per dimostrare le difficoltà insite nella esposizione di una teoria del Fascismo, basterà citare questo passo di G. Gentile, che del Fascismo fu appunto uno dei più acuti esegeti: «La dottrina fascista non è una filosofia nel comune senso della parola, e tantomeno una religione. Non è neppure una spiegata e definitiva dottrina politica che si articoli in una serie di formule. La verità, il significato del Fascismo. non si misura nelle tesi speciali che esso a volta a volta assume teoricamente o praticamente. Ai suoi inizi non è sorto con un programma preciso e determinato. Spesso, avendo tentato di fissare un segno da raggiungere, un concetto da realizzare, una via da percorrere, non ha esitato, alla prova, a cambiare rotta e respingere come inadeguato o ripugnante al proprio principio quel segno o quel concetto. Non ha voluto mai impegnarsi preoccupando l'avvenire; le risoluzioni vere del Duce sono sempre quelle che sono insieme formulate e attuate» (1931). Partendo da tale presupposto, sorge il dubbio che forse soltanto la storia potrà chiarire se gli istituti politici, sociali, giuridici ed economici del Fascismo non siano stati, anziché conseguenze logiche di una dottrina ben radicata e coerente, piuttosto sovrastrutture create a schermo di un apparato ideologico inconsistente. Certo, la critica posteriore al 1945, ha commentato assai aspramente questa versatilità di cui parlava il Gentile. Riportiamo in proposito un brano significativo di Mario Paggi: «E così il Fascismo fu tutto insieme antiindividualista e predicante il culto dell'eroismo spiritualista; accettando poi dalla visione economicista la nozione dello stato corporativo, si professò democratico ed eresse a dogma lo stato poliziotto, si dichiarò hegeliano e assunse quindi la formula "tutto nello stato e tutto per lo stato" e poi mutuò dalla chiesa cattolica proprio quello che Hegel non avrebbe mai voluto accettare, e cioè la sua eticità; polemizzò contro l'Ottocento e non fece che svolgere sino alle sue estreme conseguenze la dottrina Ottocentesca dello stato autolimitato Fu sin troppo evidente che la dottrina non era che orpello volto a mascherare il vuoto di un puro e cieco pragmatismo». Ad ogni modo, lasciando da parte i giudizi, possiamo limitare la nostra indagine ai principali istituti creati dal Fascismo nei vari campi della vita nazionale. Per quanto riguarda la Costituzione, la dottrina fascista, partita dal concetto della necessità che la gestione della cosa pubblica fosse affidata agli uomini più adatti e specialmente ad un Capo, avrebbe dovuto logicamente ritenere inconcepibile l'istituto monarchico, ma, al contrario, lo esaltò e nel contempo lo mortificò con la creazione del Gran consiglio del Fascismo, organo supremo di consultazione e di deliberazione del regime, avente la triplice funzione di indicare le grandi linee della politica nazionale, di esprimere il proprio parere sulle questioni costituzionali, ivi compreso il benestare sulla successione al trono, e di tener aggiornata la lista da presentare alla Corona, in caso di vacanza, per la nomina del capo del governo, il quale, contrariamente a quanto avviene nei regimi parlamentari, riassumeva ed concentrava in sé il potere dello stato. Di pari passo con la sua teoria accentratrice, il Fascismo portò alla abolizione del Parlamento, praticamente inutilizzato dopo la legge 31 gennaio 1926, che trasferiva al potere esecutivo la facoltà di legiferare, sostituendolo definitivamente nel 1936 con una Camera dei fasci e delle corporazioni, con funzioni teoriche di rappresentanza delle categorie produttive del paese, ma comunque priva di facoltà deliberanti, che rimanevano pur sempre affidate al Gran consiglio. Nel campo economico-sociale, il Fascismo ritenne di aver risolto i più gravi problemi che travagliavano il settore con la creazione di un complesso «ordinamento corporativo», destinato a svolgere azione di inquadramento e di conciliazione dei Contrastanti interessi dei produttori, datori di lavoro e prestatori d'opera, in base ad una specie di fondamentale statuto sintetizzato dalla Carta del lavoro. Naturalmente, da questo ordinamento discendevano le più rigide negazioni di alcune delle tradizionali libertà democratiche, quali il diritto di riunirsi in sindacati liberamente scelti ed il diritto di sciopero. Come prima si è detto, gli anni del Fascismo sono ancora troppo vicini a noi, perché della sua dottrina si possa trarre un consuntivo obiettivo e particolareggiato: certo è che con la sua caduta, tutto ciò che il movimento ha esaltato durante il ventennale dominio come proprio bagaglio ideologico è precipitato d'un solo colpo, senza che nessuno, neppure quei partiti attuali che ad esso amano ricollegarsi, in nome di un più accentuato sentimento nazionale, abbia sentito il bisogno di riproporlo alla pubblica opinione: e questo è un fatto che lascia evidentemente assai perplessi sulla consistenza effettiva della sua dottrina. Il Fascismo non fu quindi un movimento generato da fervidi e profondi flussi di idee (quali quelli che, per esempio, condussero alla rivoluzione francese o alla rivoluzione sovietica), bensì una presa di possesso del potere da parte di un gruppo di uomini guidati da un capo, senza dubbio dotato di vivace ingegno e di notevoli virtù realizzatrici, almeno fino a quando non fu preda della ambizione e della megalomania. Si trattò di una conquista resa possibile da circostanze momentanee favorevoli e che durò forse al di là delle stesse previsioni di coloro che la ordirono proprio per il perdurare di quelle circostanze, in un secondo tempo rese ancor più efficienti per gli innegabili vantaggi che anche i regimi autoritari sanno arrecare ai paesi che escono da prove sconvolgenti. Sarebbe infatti stolto negare l'indubbio apporto del Fascismo ad opere di interesse pratico, quali le bonifiche, le comunicazioni, le istituzioni assistenziali, la tecnica giuridica culminata nella nuova codificazione, che, sia detto per inciso, ben poco racchiudeva dello pseudodottrinarismo fascista. Purtroppo come contrapposto ad un lodevole bilancio materiale, intendendo le opere compiute in sè e per sè, e quindi avulse dall'indirizzo politico a cui servivano di sostegno propagandistico, nulla rimane del Fascismo nel campo spirituale. Scomparsa con esso la retorica nella quale il Fascismo credette di assorbire tutti gli ideali Italiani, si è rivelato il vuoto pauroso creato soprattutto nei giovani, dalla assenza di veri ideali, che nascono dallo spirito di sacrificio, dall'amore verso il prossimo, dalla serena valutazione del giusto e dell'onesto, dalla solidarietà umana, dalla dignità propria attraverso il rispetto della dignità altrui.
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