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Età giolittiana
Nome con cui viene definito il periodo della storia d'Italia che va dal 1901 al 1913, in cui è centrale la figura di Giovanni Giolitti, prima come ministro dell'Interno del governo di Giuseppe Zanardelli e poi come primo ministro. In quegli anni fu impressa una svolta decisiva allo sviluppo economico e sociale dell'Italia e furono gettate le basi per la modernizzazione del paese. Importantissime furono le riforme e le novità introdotte in campo sociale, politico, economico e in politica estera.
Contrariamente ai governi autoritari che li avevano preceduti, quelli di Zanardelli e di Giolitti riconobbero alle organizzazioni sindacali e al Partito socialista un importante ruolo nella costruzione di una nuova dialettica politica e nella trasformazione in senso liberale delle istituzioni del paese. Divenne così possibile la costituzione del primo importante sindacato italiano, la Confederazione generale del lavoro, che poté operare, senza temere repressioni e intimidazioni, in condizioni di relativa libertà. Soprattutto nei primi anni del XX secolo, furono realizzate importanti riforme sociali: fu istituito un ufficio per la mediazione dei conflitti sul lavoro; fu incentivato il movimento cooperativo; fu introdotta una legislazione per la prevenzione degli infortuni sul lavoro; furono posti limiti al lavoro notturno delle donne e al ricorso ai minori nell'attività produttiva; fu istituito il monopolio statale delle assicurazioni sulla vita con le quali finanziare un istituto pubblico di previdenza sociale (che sarebbe però sorto solo in epoca fascista).
La liberalizzazione sindacale e la normativa sociale, oltre che rispondere a precise convinzioni liberali del ceto di governo giolittiano, intendevano anche coinvolgere l'ala riformista del PSI, del quale si temeva la crescente influenza nelle campagne e tra la nascente classe operaia del Nord, fino a proporle l'assunzione di responsabilità di governo, anche al fine di accentuarne i contrasti con i settori massimalisti del partito. Giolitti cercò, con una serie di iniziative culminate nel patto Gentiloni (1913), anche di stabilire un rapporto con l'altro, e ben più esteso, settore della popolazione italiana, quello cattolico, che il non expedit di Pio IX teneva in disparte dalle vicende politiche dello stato unitario. Giolitti favorì quindi il processo di allargamento del diritto di voto, con l'introduzione del suffragio universale maschile. Non riuscì invece a combattere il clientelismo dilagante nella vita politica italiana, né il trasformismo; cercò anzi di usarli a proprio vantaggio.
Le misure sociali e politiche furono funzionali anche all'impulso dato all'industria nazionale, favorita in primo luogo dalla nazionalizzazione delle ferrovie e dal sostegno alla siderurgia e alla cantieristica. Durante l'età giolittiana cominciò a delinearsi un primo autentico sviluppo industriale, che fu tuttavia molto squilibrato e lasciò il Meridione in una condizione di pesante arretratezza. Lo sviluppo industriale fu consentito peraltro solo dalle massicce commesse pubbliche e da un regime di protezionismo doganale.
In politica estera, abbandonato, in seguito alla sconfitta di Adua, il prudente atteggiamento improntato all'intervento economico, l'Italia di Giolitti sviluppò una strategia aggressiva, allo scopo di partecipare da protagonista alla spartizione dei territori coloniali. Favorito lo sviluppo dell'industria pesante, Giolitti inviò un'armata in Libia, nella convinzione di ottenere una facile vittoria sulle truppe ottomane. In realtà, la guerra fu più difficile e lunga del previsto e fu tra le cause principali della grave crisi che avrebbe costretto nel 1914 Giolitti alle dimissioni.
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