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Dall'Esodo alla Shoah




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Io so cosa vuol dire non tornare.

A traverso il filo spinato

Ho visto il sole scendere e morire;

Ho sentito lacerarmi la carne

Le parole del vecchio poeta:

'Possono i soli cadere e tornare:

A noi, quando la breve luce è spenta,

Una notte infinita è da dormire'


Primo Levi


























Dall'Esodo alla Shoah


Mondo ellenico e mondo ebraico


L'incontro con la cultura greca fu per l'Ebraismo un momento transitorio, ma estremamente gravido di conseguenze. La Diaspora[1] e l'impresa di Alessandro magno favorirono gli scambi culturali fra i greci e gli Ebrei, che si erano trasferiti sempre più numerosi dalla Palestina nei grandi centri ellenistici. Soprattutto Alessandria D'Egitto ospitò una ricca e influente comunità una ricca ed influente comunità ebraica che, pur mantenendosi fedele alla religione dei padri, aveva tuttavia pienamente assimilato la lingua e i costumi greci, al punto da non essere più in grado di utilizzare, per il culto privato e pubblico, i testi sacri nell'originale. Si impose dunque la necessità di tradurre la Bibbia in greco; ed è probabile che i più antichi saggi di quest'operazione risalgono alla metà del secolo III a.C.. Verso la fine del secolo successivo va datata la così detta Lettera di Aristea a Filocrate, scritta per garantire la fedeltà della traduzione. L'autore, mascherandosi dietro il nome di Aristea, narra come il sovrano, desideroso di possedere nella Biblioteca di Alessandria un esemplare greco della Bibbia, avesse incaricato di quest'opera settantadue dotti, che compirono l'immane lavoro in settantadue giorni. A lavoro concluso si scoprì che tutti avevano redatto un medesimo testo, che fu letto alla comunità ebraica e poi consegnato al re. In seguito a questo racconto leggendario la Bibbia greca è tuttora nota come la Bibbia dei Settanta. In realtà il lavoro di traduzione del testo biblico occupò almeno un secolo, e documenta il minore rigorismo della comunità della Diaspora rispetto agli Ebrei della Palestina. Il testo dei Settanta accoglie infatti scritti non compresi nel canone ebraico, e altri composti direttamente in greco.

La destinazione pratica della Bibbia dei Settanta si riflette nella sua lingua, che è la koiné non letteraria propagata in tutti i paesi soggetti all'influenza culturale greca, come dimostra la sua sostanziale coincidenza con i papiri e le iscrizioni di uso pubblico e privato risalenti alla medesima epoca. Questo tessuto di base ingloba d'altro canto espressioni che risultavano intraducibili, e per le quali si ricorse a un adattamento approssimativo del greco all'originale dettato ebraico. Ciò non toglie che nell'insieme la versione dei Settanta risulti limpida e scorrevole, ed a volte non priva di eleganza.

Negli estratti giunti a noi del Trattato sugli Ebrei di Alessandro Poliistore, vissuto tra la fine del II e i primi decenni del I secolo a.C., si trovano frammenti della tragedia Esodo del poeta ebraico Ezechiele, sicuramente databile tra III e II secolo a.C., in quanto utilizza la traduzione dei Settanta e poiché anteriore a Poliistore. I 269 trimetri giambici tramandati permettono di ricostruire le linee generali di questo singolare tentativo di adattare a un genere letterario tipicamente greco il racconto della Bibbia. Ezechiele seguiva la traccia della vita di Mosè, a partire dalla sua infanzia fino all'arrivo del popolo ebraico all'oasi di Elim, dopo la miracolosa attraversata del Mar Rosso. Comunque Ezechiele si richiama soprattutto ad Euripide, da cui deriva l'espediente del prologo espositivo e la tecnica del racconto del nunzio, che riferisce il miracoloso attraversamento del Mar Rosso; e numerosi appaiono i riecheggiamenti euripidei a livello stilistico. Me al di là delle consonanze con il teatro classico, la tragedia dell'Esodo è un documento che testimonia le drammatiche vicende del popolo ebraico.

Si deve a Filone di Alessandria, detto anche Filone Giudeo, il più notevole tentativo di giungere ad un sincretismo fra la cultura greca e quella ebraica, fondendo motivi attinti al pensiero filosofico della Grecia ed elementi che appartenevano alla teologia dell'Ebraismo. Nel 39 d.C. egli fu designato alla guida di un'ambasceria dalla comunità ebraica presso l'imperatore Caligola, per far cessare i soprusi del governatore Avillio Flacco ai danni degli Ebrei di Alessandria. La missione fallì; ma dopo breve tempo sia Caligola sia Flacco perirono miseramente, e Filone riconobbe in tali circostanze la dimostrazione che Dio punisce gli empi, instaurando un criterio storiografico che verrà raccolto dagli Apologisti cristiani.

Per Filone la sapienza pagana altro non è che un prodotto di quella ebraica; e in questo senso anche il più illustre pensatore greco, Platone, deve essere considerato come un continuatore di Mosè.

Ma molto ambigui continuarono ad essere i rapporti tra mondo ellenico e mondo ebraico: se da un lato la traduzione greca della Bibbia aveva rappresentato un tentativo notevole e coraggioso di mettere in contatto le due culture, dall'altro il rigore geloso ed esclusivo con cui il popolo ebraico si manteneva legato alle proprie tradizioni, rifiutando ogni tentazione di eclettismo culturale e di sincretismo religioso, alimentava l'accusa che dipingeva gli ebrei come nemici dell'intero genere umano. Negli stessi libri della Bibbia, del resto, non mancano testimonianze dell'astioso sospetto con cui il mondo ebraico guardava alla cultura ellenica e alle istituzioni più caratteristiche:




Giasone, fratello di Onia, ottenne con sistemi corrotti, la carica di sommo sacerdote [.], distrusse le legittime istituzioni e introdusse consuetudini contrarie alla legge di Mosè. Giasone si affrettò a fondare una palestra proprio sotto la fortezza (il tempio), e obbligò i giovani più vigorosi a vestirsi come greci. L'influenza greca cominciò quindi a farsi sentire. Gerusalemme fu completamente invasa dalla moda straniera a causa dell'arroganza dell'empio Giasone, che non si comportava affatto come un sommo sacerdote. I sacerdoti non curavano più la liturgia, anzi disprezzavano il tempio, trascuravano i sacrifici e, al primo segnale dato con il disco nella palestra partecipavano con ardore ai giochi proibiti dalla legge di Dio.


Maccabei II,IV, 7 e 11-14;traduzione ufficiale della C.E.I



Da parte del popolo ebraico si guardava dunque con grande sospetto alla cultura ellenica, vista soprattutto come portatrice di tradizioni e costumi contrari alla legge di Mosè.

Subentrati ai Tolomei nel controllo della Giudea all'inizio del III secolo a.C., i Seleucidi attuarono una politica contraddittoria nei confronti del popolo ebraico: al rispetto della loro autonomia garantito da Antioco IV, infatti, subentrò chiaramente una politica ostile inaugurata da Antioco IV Epifane (salito al trono nel 175 a.C.) e proseguita dai suoi successori.

Ed ecco la versione che da la Bibbia nel secondo libro dei Maccabei, circa gli eventi relativi alla presa della città di Gerusalemme da parte di Antioco e alla successiva persecuzione del popolo ebraico:

Antico Testamento


Poi [è l'autunno dell'anno 169 a.C.] il re Antioco[.] tornò dall'Egitto e con l'animo inferocito conquistò Gerusalemme con le armi. Ai soldati comandò di uccidere senza pietà tutti quelli che incontravano e di trucidare quelli che si chiudevano nelle loro case. Giovani e vecchi, donne e ragazzi, fanciulle e bambini furono massacrati e sterminati. In quei tre giorni Israele perdette ottantamila uomini: quarantamila morirono in battaglia e altrettanti furono venduti schiavi. Ma il re non si accontentò di questo, e sotto la guida di Menelao, traditore delle leggi e della patria, osò entrare nel pempio più santo di tutta la terra. Con le sue mani impure prese vasi sacri e portò via, in modo sacrilego, quello che gli altri re avevano deposto per la ricchezza, la gloria e l'onore del tempio [.]. Poco dopo mandò a Gerusalemme un cittadino anziano di Atene per costringere gli ebrei ad abbandonare le loro antiche tradizioni e a non vivere più secondo le leggi di Dio. Inoltre egli doveva profanare il tempio di Gerusalemme e dedicarlo a Giove Olimpio [.]. Questi mali invasero tutta la regione: erano così gravi che nessuno poteva sopportarli.


Maccabei II,V, 11-18; VI 1-4; traduzione ufficiale della C.E.I.





La fonte greca


La politica antiebraica di Antioco IV Epifane, fu proseguita dai suoi successori; uno di costoro fu Antioco VII, salito al trono nel 138 a.C.. Sarà interessante, adesso, considerare la fonte ellenica dello storico Diodoro Siculo, vissuto nel I sec. a.C., e confrontarla con le precedenti versioni filo-ebraiche:


Molti amici consigliavano Antioco di conquistare con la forza la città e di eliminare la razza dei Giudei: essi, infatti, erano i soli che non si mescolavano con altri popoli e che giudicavano tutti nemici. Notavano anche che tutti i loro antenati erano stati cacciati da tutto l'Egitto, perché empi e odiati dagli dèi. Infatti [.] avevano anche elaborato leggi ben bizzarre, come il non condividere mai la mensa con stranieri né mostrare loro amicizia. Gli amici ricordavano poi al re l'annosa ostilità dei suoi avi per questo popolo. [.] Pensò che fosse Mosè, fondatore di Gerusalemme e re, colui che aveva imposto ai giudei leggi disumane e ingiuste: Antioco, turbato da tanto odio per il genere umano, volle abolirle. Così, immolata una scrofa presso la statua del fondatore e sull'altare del dio, vi versò sopra in sangue della bestia; cottane la carne, volle che con il grasso si sporcassero i loro libri sacri, contenenti le leggi dell'odio; spense la lampada che dicono "perenne" e che bruciava notte e giorno nel tempio e obbligò il sommo sacerdote e gli altri a nutrirsene.



Bibblioteca storica XXXIV e XXXV; trad. M. Serìo



Dal confronto fra le fonti ebraiche e quella greca emerge chiaramente la tendenza a forzare o deformare i fatti a seconda delle premesse ideologiche da cui partono i diversi autori. L'autore biblico dei Maccabei denuncia infatti con sdegno la contaminazione delle due culture; Diodoro risponde condannando come xenofobo l'atteggiamento degli ebrei.



Roma e Gerusalemme: una mancata omologazione


Anche nei confronti della cultura romana il popolo ebraico presentò la sua ostilità che contribuì all'affermazione di una vera e propria letteratura antisemitica che già si era affermate a partire dal III secolo a.C.

Le pagine delle Historiae tacitiane rappresentano un importante documento storiografico che meglio ci fa capire i motivi che alla base di questa aspra ostilità.

Delle Historiae ci restano solo i libri I-IV, parte del V e alcuni frammenti. Secondo la testimonianza di san Girolamo, le Historiae formavano un'unica opera con gli Annales. La sezione superstite di tale opera copre per intero l'anno 69 e una parte del 70 a.C. e dedica la sua narrazione all ' "anno dei quattro imperatori" e l'assedio posto da Tito alla città di Gerusalemme.

L'atteggiamento di intolleranza nasceva dalla "diversità" degli ebrei, dal loro profondo attaccamento alle credenze e alle pratiche religiose nazionali, dal rifiuto di farsi assorbire dai popoli e dai regni vicini, da quando nel VI secolo aveva avuto inizio la così detta "diaspora" .

Il rigido monoteismo degli ebrei li rendeva, in effetti, un eccezione in mezzo a popoli che adoravano decine di dèi e che alimentavano il pluralismo religioso.

A Roma l'esistenza di una comunità ebraica è attestata a partire dalla metà del II secolo a.C.: infatti nel 139 è registrata la prima cacciata degli ebrei dalla città. I romani erano in genere abbastanza tolleranti nei confronti delle religioni straniere avevano anche approvato una serie di provvedimenti che difendevano la libertà di culto di tale religione, ma ciò che non veniva da loro ammesso era il proselitismo. Proprio di questo furono accusati gli ebrei quando vennero espulsi dall ' Urbe la prima volta e anche le altre due, nel 19 d.C. e durante il regno di Claudio. In quest'occasione si aggiunsero anche i disordini nati dal conflitto con i cristiani.

Le notizie che ricaviamo da questo lungo excursus  tacitiano sono estremamente imprecise, in alcuni casi palesemente false; l'avversione e il disprezzo dello storico alimentano la sua diffidenza, che non si ferma neanche di fronte alle contraddizioni più evidenti. Persino i capitoli dedicati alla geografia non mantengono quel distacco che l'argomento richiederebbe: il quadro che ne emerge è quello di un paese malsano e inospitale, che anche nelle zone fertili presenta mostruosità e stranezze contrarie alle leggi di natura. L'excursus comincia nel capitolo i, che dopo aver delineato il carattere di Tito, elenca le forze militari a sua disposizione per poter compiere l'assedio della città:



Capitolo I


Eiusdem anni principio Caesar Titus, perdomandae Iudae delectus a patre et privatis utriusque rebus militia clarus, maiore tum vi famaque agebat, certantibus provinciarum et exercituum studiis. Atque ipse, ut super fortunam crederetur, decorum se promptumque in armis ostendebat, comitate et adloquiis officia provocans ac plerumque in opere, in agmine gregario militi mixtus, incorrupto ducis honore. Tres eum in Iudea legiones, quinte et decima et quinta decima, vetus Vespasiani miles, excepere. Addidit e Syria duodecimam et adductos Alexandria duoetvicensimanos tertianosque; comitabantur viginti sociae cohortes, octo equitum alae, simul Agrippa Sohaemusque reges et auxilia regis Antiochi validaque et solito inter accolas odio infesa Iudaeis Arabum manus, molti quos urbe atque Italia sua Quemque spes acciverat occupandi principem adhuc vacuum. His cum copiis finis hostium ingressus composito agmine, cuncta explorans paratusque decernere, haud procul Hierosolymis castra facit.





Ecco come narra la conclusione dell'assedio e la presa di Gerusalemme un contemporaneo di Tacito, ovvero Flavio Giuseppe ebreo fatto prigioniero dai Romani; dal campo dei vincitori egli assistette in qualità di testimone oculare degli eventi:


Portati a termine anche i terrapieni nel settimo giorno del mese Gorpiano( agosto-settembre) dopo diciotto giorni di lavoro, i romani portarono avanti le macchine da guerra, mentre tra i ribelli alcuni, perduta ormai la speranza di tenere la città, si ritiravano dalle mura verso la città alta, altri si calavano giù nelle gallerie sotterranee, molti poi divisi cercavano di respingere coloro che facevano avanzare le torri mobili. Anche su costoro prevalevano Romani grazie al numero e alla potenza, e , quel che più conta, avendo il morale alle stele mentre i loro avversari erano ormai avviliti e spossati. Quando fu spezzata una parte del muro, e alcune delle torri battute dagli arieti caddero, ci fu una fuga frettolosa.I Romani impadronitisi delle mura, levarono i vessilli sulle torri, e con grida e con manifestazioni di gioia intonano il peana per la vittoria. Quindi, riversati nei vicoli con le spade sguainate, uccidevano indiscriminatamente tutti quelli che incontravano e appiccavano il fuoco alle case con tutti coloro che ci si rifugiavano[.] Ostruirono i vicoli di cadaveri, inondarono di fiumi di sangue tutta la città, tanto che molti incendi furono spenti dal sangue delle stragi>>.


(Bellum Iudaicum VI,8-9;

trad. G.Rosati)

Gli ebrei spagnoli


Iniziata, dunque, nell'anno '70 la Diaspora prese due strade differenti: una passando attraverso il bacino del Mediterraneo, è finita in Spagna e ha dato origine alla corrente sefardita - "Sefarad" in ebraico vuol dire Spagna ---; L'altra invece ha prendendo la strada della Mesopotamia, si è rivolta ai paesi dell'Europa centro orientale, e ha dato origine alla corrente aschenazita --- "Aschenaz" vuol dire Germania ---.

La storia del resto d'Europa si può comprendere anche senza porre gli Ebrei in primo piano; quella della Spagna no. La funzione primordiale e decisiva degli ispano-ebrei non si può scindere, a sua volta, dalla circostanza ch'essi articolarono a fondo la loro vita con la storia ispano-musulmana. La lingua usata dal più illustre di essi (maimonode, per esempio) fu l'arabo, anche se scritto in caratteri ebraici; la loro evidente superiorità rispetto ai loro correligionari del resto d'Europa corrisponde al livello dell'Islam superiore alla cristianità tra il X e il XII secolo. Senza il loro contatto con l'Islam non si sarebbero interessati alla filosofia religiosa. Non meno significativo è il fatto che in Spagna gli Ebrei possedevano un'architettura viva, con caratteristiche proprie, sebbene collegata con l'arte islamica. Dalle sinagoghe di Toledo e di Segovia parla in modo meraviglioso lo spirito degli ebrei spagnoli , con una fermezza e intensità espressiva che non ha corrispondenza nel resto d'Europa, dove essi non si sentirono mai <<in casa propria>>.

Gli ebrei, cacciati dalla loro patria nel 1942, si sentivano spagnoli come i cristiani. Prendiamo a caso uno qualunque di essi, un certo Francisco de Càceres ritornato alla sua terra verso il 1500, dopo aver apparentemente accettato, come tanti altri, il cristianesimo. I giudici del Sant' Uffizio, sotto le cui grinfie gli accadde d'incorrere, gli domandarono perché se n'era andato. Càceres rispose loro con chiare e intelligenti ragioni:<< Se il re, nostro signore, ordinasse ai cristiani di diventare ebrei, o di andarsene dai suoi regni, alcuni diventerebbero ebrei, e altri se ne andrebbero; e quelli che se n'andassero, nel momento in cui si vedessero perduti, diventerebbero ebrei per tornare al proprio luogo di nascita e sarebbero cristiani; e pregherebbero come cristiani, e ingannerebbero tutti: anche se pensassero di essere ebrei, e internamente, nel cuore e nella volontà, sarebbero cristiani>>.

Il quadro storico spagnolo dell' XI secolo include la riconquista di Toledo , avvenuta nel 1085 da parte dei cristiani, che non ostacolò particolarmente lo sviluppo della vita degli Ebrei rappresentata da due grandi personalità: quella del filosofo e poeta Giuda Levita e quella di Moshè Maimonide.[3]

Fra il 1931 e il 1942, gli Ebrei spagnoli vedono addensarsi le nubi che preannunciano l'uragano destinato a travolgerli. Nel 1391 una terribile persecuzione, sostenuta dalla nobiltà e dal clero, distrugge numerose comunità, lascia migliaia di vittime e ne converte altrettante al

cristianesimo. Fra i convertiti numerosi sono i <<marrani>>, cioè coloro che continuano a praticare clandestinamente l'ebraismo.

L'inquisizione infierisce contro questi <<eretici recidivi>>. Gli ebrei che non si sono convertiti devono portare uno speciale contrassegno, ascoltare e partecipare a <<dispute>> del tipo di quella che ebbe luogo a Tortosa nel 1413.I marrani riescono a legarsi con vincoli matrimoniali e famiglie illustri e a rivestire alte cariche anche nell'ambiente della Chiesa; ma l'Inquisizione non desiste dal proposito di smascherarli .

I recidivi vengono bruciati vivi in pubblico alla presenza di sovrani e di nobili.

Nel 1483 viene nominato capo dell' Inquisizione il domenicano Tomàs de Torquemada, il quale non solo guida con feroce zelo la lotta contro gli eretici, ma intende eliminare coloro che si erano mantenuti fedeli alla religione ebraica. Dopo che nel 1492, Ferdinando d'Aragona e Isabella di Castiglia hanno cacciato gli arabi da Granada, Torquemada convince i <<Re Cattolici>> a espellere gli ebrei dalla Spagna. Nel Luglio del 1492, trecentomila ebrei lasciano il paese, e ben presto un simile esodo avrà luogo in Portogallo. Molti Ebrei periscono durante il viaggio o sono vittime della rapacità dei marinai che li traghettano. Alcuni raggiungono l'Africa del Nord o l'Italia.



In Catalogna


Le persecuzioni del popolo ebreo si fanno sentire in particolare modo anche sul fiorente e prosperoso territorio medievale della Catalogna.

Barcellona, insieme ad altre città quali Siviglia e Valencia, durante il 1391 vedono danneggiata la loro lussuosa vita a causa delle numerose stragi e dei frequenti saccheggi.

La comunità di Barcellona cessò di esistere nel 1393 (M. Kayserlyng, in <<Rev. Etudes Juives>>, 1894,XXVIII,114); il re Giovanni II d'Aragona volle fondare una nuova comunità ebraica nel 1392, ma gli ebrei non tornarono. Nel 1424 Alfonso V d'Aragona proibì la creazione di una nuova comunità, e gli ebrei furono obbligati a risiedere in Barcellona come ospiti di passaggio e solo per 15 giorni.

Non vi era ormai una minima possibilità di tolleranza, anche se giuridicamente gli ebrei erano difesi da numerosi provvedimenti legislativi ad eccezione dalle leggi Partides che vietavano persino le medicine fatte per mano ebrea, vietavano ai giudei di servirsi di servitori cristiani e di dimorare insieme nei borghi. In molte città spagnole sono ancora oggi visibili numerosi borghi dove si svolgeva la vita quotidiana degli ebrei e che furono in seguito abbandonati a causa delle persecuzioni.

Il vecchio quartiere ebraico di Barcellona si trova nella parte centrale della città e precisamente nella zona chiamata Barri Gòtic ( quartiere gotico). Il limite del quartiere ebraico è segnato da calle Palla.






Nella Francia dell'Ottocento: L' "Affaire Dreyfus"

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AVEC LE PAMPHLET 'J'ACCUSE' PARU DANS 'L'AURORE' DU 13 JANVIER 1898,

EMILE ZOLA SAUVAIT L'HONNEUR D'UN HOMME 
ET CELUI DE LA RÉPUBLIQUE!


Le 22 décembre 1894, Alfred Dreyfus, reconnu coupable d'espionnage au profit de l'Allemagne, est condamné à la déportation et à la dégradation. Celle-ci a lieu deux semaines après dans la grande cour de l'école militaire. Journalistes, diplomates y sont invités. Les curieux s'entassent par milliers derrière les grilles, attendant le moment où l'adjudant de la garde républicaine jettera à terre tous les insignes du grade: galons du képi et des manches, les bandes rouges du pantalon et les pattes des épaules.

C'était il y a cent ans. Pour la France et pour la République, c'est la fin d'une époque! Et pour Emile Zola, ce sera le début des ennuis



HISTORIQUE

Alfred Dreyfus est au bagne, plus précisément à l'ile du Diable, comme on

sait et pour les raisons qu'on sait. A ce moment, Zola ne connait à peu près

rien de cette affaire: il est à Rome et ne lit pas les journaux. Il n'en entend

parler que le 5 janvier 1895 quand le fils d'Alphonse Daudet lui en fait le

récit qui l'effare. Mais, ses activités de romancier l'absorbent trop pour

s'intéresser plus outre à cette affaire. Au printemps 1896, Zola ne met

vraiment pas en doute la culpabilité du capitaine et ne se sent pas encore

concerné par ce cas. En revanche, il est choqué par la vague d'antisé-

mitisme qui déferle sur la France et dont le journal d'Edouard Drumond se

fait l'orchestrateur le plus féroce. Car, il ne faut pas oublier que si Dreyfus

est juif, Zola l'est aussi. Zola, alors, signe son premier article où il dénonce le

fanatisme. Il ap-prend enfin que le colonel Piquart, ancien chef du S.R.

aurait admis le manque de preuves formelles dans le dossier d'accusation

et découvert l'identité du vrai coupable lequel serait le commandant

Esterhazy.


«J'ACCUSE»
Elément décisif! Zola petit-fils d'immigrés italiens, se résout à pourfendre l'injustice et à obtenir la révision du procès. Il publie coup sur coup trois articles dans le Figaro. Et le 10 janvier 1898, tout se précipite. C'est à cette date que commence le procès du commandant Esterhazy, dénoncé par le frère d'Alfred Dreyfus comme le vrai coupable. L'audience est à huis clos. Zola flaire une procédure «arrangée» pavant la voie à un acquittement. Les événements lui donnent raison: le 11, Esterhazy est acquitté. Alors, deux jours durant, le romancier se met à écrire: il écrit fiévreusement dans son hôtel particulier, rue de Bruxelles. La lettre-réquisitoire achevée, il décide de la proposer à «l'AURORE» dont Georges Clémenceau est le rédacteur en chef. Après avoir parcouru les 39 feuillets du manuscrit, Clémenceau accepte la publication, tout en glissant à l'oreille de l'auteur  «Vous allez trop loin» Mais il ne refuse pas sa tribune à Zola. Et le titre qui s'impose, c'est Clémenceau qui le trouve «J'ACCUSE» Et le lendemain «l'Aurore» tirera à 300.000 exemplaires. Le réquisitoire de Zola fait l'effet d'un séisme! Les suites ne se font pas attendre; à 17 heures, le président du Conseil promet de poursuivre Emile Zola pour ses «abominables accusations».

L'écrivain sera jugé devant les assises de la Seine. Condamné à un an de prison et 3.000 francs d'amende, il sera contraint à l'exil. Vaincu juridiquement, Emile Zola a tout de même gagné la partie. Si «l'affaire», comme on l'appellera désormais, divisera longtemps la France, la Justice mettra encore de longues années à se déjuger. Alfred Dreyfus ne sera réhabilité qu'en 1906 - quatre ans après la mort d'Emile Zola, dont ce sera le triomphe posthume.


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'J'Accuse!'

Lettre au Président de la République
                      
Par Emile Zola
'L'Aurore' jeudi 13 janvier 1898



Lettre à M. Félix Faure,
Président de la République,

Monsieur le Président,

Me permettez-vous, dans ma gratitude pour le bienveillant accueil que vous m'avez fait un jour, d'avoir le souci de votre juste gloire et de vous dire que votre étoile, si heureuse jusqu'ici, est menacée de la plus honteuse, de la plus ineffaçable des taches?

Vous êtes sorti sain et sauf des basses calomnies, vous avez conquis les coeurs. Vous apparaissez rayonnant dans l'apothéose de cette fête patriotique que l'alliance russe a été pour la France, et vous vous préparez à présider au solennel triomphe de notre Exposition Universelle, qui couronnera notre grand siècle de travail, de vérité et de liberté. Mais quelle tache de boue sur votre nom - j'allais dire sur votre règne - que cette abominable affaire Dreyfus! Un conseil de guerre vient, par ordre, d'oser acquitter un Esterhazy, soufflet suprême à toute vérité, à toute justice. Et c'est fini, la France a sur la joue cette souillure, l'histoire écrira que c'est sous votre présidence qu'un tel crime social a pu être commis.

Puisqu'ils ont osé, j'oserai aussi, moi. La vérité, je la dirai, car j'ai promis de la dire, si la justice, régulièrement saisie, ne la faisait pas, pleine et entière. Mon devoir est de parler, je ne veux pas être complice. Mes nuits seraient hantées par le spectre de l'innocent qui expie là-bas, dans la plus affreuse des tortures, un crime qu'il n'a pas commis.

Et c'est à vous, monsieur le Président, que je la crierai, cette vérité, de toute la force de ma révolte d'honnête homme. Pour votre honneur, je suis convaincu que vous l'ignorez. Et à qui donc dénoncerai-je la tourbe malfaisante des vrais coupables, si ce n'est à vous, le premier magistrat du pays?

                                                   ***
Voilà donc, monsieur le Président, les faits qui expliquent comment une erreur judiciaire a pu être commise; et les preuves morales, la situation de fortune de Dreyfus, l'absence de motifs, son continuel cri d'innocence, achèvent de le montrer comme une victime des extraordinaires imaginations du commandant du Paty de Clam, du milieu clérical où il se trouvait, de la chasse aux «sales juifs», qui déshonore notre époque.

***

Mais cette lettre est longue, monsieur le Président, et il est temps de conclure.

J'accuse le lieutenant-colonel du Paty de Clam d'avoir été l'ouvrier diabolique de l'erreur judiciaire, en inconscient, je veux le croire, et d'avoir ensuite défendu son oeuvre néfaste, depuis trois ans, par les machinations les plus saugrenues et les plus coupables.

J'accuse le général Mercier de s'être rendu complice, tout au moins par faiblesse d'esprit, d'une des plus grandes iniquités du siècle.

J'accuse le général Billot d'avoir eu entre les mains les preuves certaines de l'innocence de Dreyfus et de les avoir étouffées, de s'être rendu coupable de ce crime de lèse- humanité et de lèse-justice, dans un but politique et pour sauver l'état-major compromis.

J'accuse le général de Boisdeffre et le général Gonse de s'être rendus complices du même crime, l'un sans doute par passion cléricale, l'autre peut-être par cet esprit de corps qui fait des bureaux de la guerre l'arche sainte, inattaquable.

J'accuse le général de Pellieux et le commandant Ravary d'avoir fait une enquête scélérate, j'entends par là une enquête de la plus monstrueuse partialité, dont nous avons, dans le rapport du second, un impérissable monument de naïve audace.

J'accuse les trois experts en écritures, les sieurs Belhomme, Varinard et Couard, d'avoir fait des rapports mensongers et frauduleux, à moins qu'un examen médical ne les déclare atteints d'une maladie de la vue et du jugement.

J'accuse les bureaux de la guerre d'avoir mené dans la presse, particulièrement dans L'Éclair et dans L'Écho de Paris, une campagne abominable, pour égarer l'opinion et couvrir leur faute.

J'accuse enfin le premier conseil de guerre d'avoir violé le droit, en condamnant un accusé sur une pièce restée secrète, et j'accuse le second conseil de guerre d'avoir couvert cette illégalité, par ordre, en commettant à son tour le crime juridique d'acquitter sciemment un coupable.
En portant ces accusations, je n'ignore pas que je me mets sous le coup des articles 3O et 31 de la loi sur la presse du 29 juillet 1881, qui punit les délits de diffamation. Et c'est volontairement que je m'expose.

Quant aux gens que j'accuse, je ne les connais pas, je ne les ai jamais vus, je n'ai contre eux ni rancune ni haine. Ils ne sont pour moi que des entités, des esprits de malfaisance sociale. Et l'acte que j'accomplis ici n'est qu'un moyen révolutionnaire pour hater l'explosion de la vérité et de la justice.

Je n'ai qu'une passion, celle de la lumière, au nom de l'humanité qui a tant souffert et q u a droit au bonheur. Ma protestation enflammée n'est que le cri de mon ame. Qu'on ose donc me traduire en cour d'assises et que l'enquête ait lieu au grand jour!

J'attends.

Veuillez agréer, monsieur le Président, l'assurance de mon profond respect.

EMILE    ZOLA


In Germania

La sacralizzazione del nazionalismo

Nazionalismo romantico e nazional-socialismo

Il mito delle origini, la sacralità della terra, quindi della patria e poi della nazione, il culto della razza sono gli esiti di un percorso culturale e politico che inizia all'interno della cultura romantica tedesca, dove, accanto ad ispirazioni aperte al trascendente, si delineano, a partire da Fichte, connotazioni del sacro in senso fortemente nazionalista.


Il 1806 non è solo l'anno che segue la svolta politica di Schleirmacher ma è anche l'anno che segna l'inizio del nazionalismo romantico tedesco. Cioè è l'anno in cui il movimento culturale romantico tedesco si piega al nazionalismo e, da puro movimento letterario, diventa un movimento aperto a un ingaggio politico. Nell'ambito della poesia tedesca romantica avviene una svolta che ha ovviamente anche dei riflessi nello stesso svolgimento della poesia romantica. Si tratta di due tappe nell'ambito del romanticismo che sono caratterizzate da due riviste. La prima dal titolo <<Athenaum>>, che termina nel 1800, è aperta ad un cosmopolitismo culturale. La seconda dal titolo <<Zeitung fur Einsiedker>> ( Giornale per ermetici) del è aperta piuttosto al culto del passato tedesco. Si è di fronte a una nuova fase del romanticismo e di conseguenza a un nuovo volto del romanticismo. L '<<eremita>> della rivista patriottica canta un nuovo patriottismo che esce dalla bufera napoleonica. Nella sua solitudine questo eremita medita e dà nuova vita ai documenti storici e letterari del glorioso passato della sua nazione.


Schlegel e Fichte

Si è di fronte a due fasi del romanticismo che, pur essendo distinte, sono legate strettamente tra loro. La prima fase di carattere cosmopolitico è intrinsecamente aperta al futuro, la seconda fase, che è soprattutto patriottica, è rivolta al passato. Sono forse due i pensatori caratteristici di questi due momenti del romanticismo: F. Schlegel(1772-1829) per la prima fase e J.G.Fichte(1762-1814)per la seconda. Nelle sue ben note lezioni berlinesi, F.Schlegel esorta gli uditori ad essere sempre più aperti al fascino della cultura. Pure Fichte nelle sue lezioni, tenute cinque anni dopo, sottolinea l'amore per la cultura tedesca e soprattutto per le origini di tale cultura. Nei Discorsi alla nazione tedesca(Reden an die deutsche Nation)(1807-1808), che sono ormai ritenuti dagli storici della cultura come un documento della storia del germanesimo,

Fichte viene sottolinea la superiorità dell'essere tedesco e si leggono talvolta accenti di intolleranza per tutto ciò che non è tedesco. Anche se non in modo esplicito, si possono trovare in questi discorsi delle premesse che la cultura del nazionalsocialismo saprà sfruttare con molta abilità.

Così se si riprende la questione sul possibile rapporto tra il romanticismo tedesco e il nazionalismo ateo, materialistico del nazionalsocialismo, si può vedere che tale rapporto può essere messo a fuoco in modo particolare nella seconda fase del romanticismo: cioè quello nazionalistico, non cosmopolitico, delineato nella figura dell'eremita della rivista citata. Nei discorsi di Fichte l'unità europea non è più poetica, culturale, religiosa, ma si confonde con l'unità preistorica ancora indistinta della Germania. Nasce da qui il modello di <<popolo>> delineato dal filosofo. Non è il vincolo della legge a tenere unito un popolo ma il senso di una continuità spirituale e di una missione. <<Nazione>> per eccellenza, anzi <<popolo originario>>. Fichte dichiara la nazione o il popolo tedesco; mentre le altre comunità europee hanno, nel corso dei secoli, perduto o corrotto i loro caratteri( tra i quali uno dei più importanti è la lingua), i tedeschi si sono sostanzialmente mantenuti identici a loro stessi. Proprio per queste concezioni il filosofo è stato spesso dichiarato come un antesignano del nazionalismo tedesco. Ciò è fattualmente vero nel senso che i discorsi vennero effettivamente letti in quello spirito; ma la cosa avvenne molto tempo dopo la loro stesura. Occorre precisare che il filosofo non pensò mai ad un dominio, in senso politico, della Germania sull'Europa; tantopiù che un'espansione dei tedeschi, fuori dalle loro frontiere etniche, li avrebbe costretti alla mescolanza tra i popoli, e quindi avrebbe fatto perdere le caratteristiche specifiche per cui potevano aspirare ad una sorta di primato spirituale. Ma parlando della dinamica dello spirito non si accorge che il suo discorso scivola in un'altra direzione che abbraccia la forza viva del popolo, della nazione, della patria. Nel legame spirituale della lingua del popolo affiora un altro legame che più tardi viene determinato nella cultura del nazionalsocialismo come legame materiale del sangue.


I maestri di razzismo e antisemitismo di Hiter erano un inglese, un francese e.Richard Wagner.

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In molti è opinione diffusa che la  superiorità della razza ariana sia una tesi sostenuta da Hitler.

Invece un 'classico' della letteratura razzista in Europa  è il Saggio sull'ineguaglianza delle razze umane del 1853-55 del conte francese GOBINEAU  JOSEPH ARTHUR. Il primo esempio di una visione storica d'ispirazione razzista. Nel saggio ci sono tutti i temi del razzismo contemporaneo: l'ossessione per la purezza del sangue considerata fattore essenziale dell'ascesa e della decadenza delle civiltà; l'idea che la cultura sia espressione delle qualità razziali innate del popolo che la esprime; la pretesa dimostrazione della superiorità assoluta degli Arii di ceppo germanico; la diffidenza e il disprezzo per l'elemento semitico. 

Il termine 'Antisemitismo' fu invece poi coniata nel 1879 da un agitatore tedesco di nome Wilhelm Marr, ebbe fra i razzisti subito successo per quell'aria da parola 'scientifica' che le dava l'etimologia greca, mutuata dagli studi dell'epoca in campo linguistico

Di proseliti in Germania Gobineau ne fece molti. Uno in particolare: WAGNER! Musicista investito di un preteso dominio mondiale musicale, culturale, e persino politico con due estremi ideologici, enunciati in due movimentate fasi della sua singolare vita.

Prima anarchico, con attacchi violenti sull'organizzazione sociale Wagner si trova a fianco e conosce BAKUNIN; diventa con lui un vero protagonista della fallita rivoluzione; contro di lui viene persino spiccato un mandato di cattura e una condanna a morte per tradimento; infatti per non finire in galera o sul patibolo decise di fuggire in Svizzera, a Zurigo. Imputazione: di Wagner  è infatti il discorso socio-rivoluzionario (fatto a Dresda) alle sommosse europee del 1848,  e suo è il polemico opuscolo politico L'arte e la rivoluzione  del 1849 (dove invocava persino l'abolizione del denaro - ovviamente quello degli altri; del resto in tasca lui non ne aveva mai. Per alleviarne le difficoltà finanziarie  (paradossalmente) gli passava qualche soldo l'editore ebreo, Moritz Schlesinger, pubblicandogli sulla  Gazette Musicale alcuni articoli, anche se di scarso valore letterario).

Poi, l'ex rivoluzionario,  improvvisamente si converte agli ideali dell'aristocrazia reazionaria, e di soldi qui finalmente ne trova! Ed anche il successo. A Monaco il 21 giugno 1868, rappresentando il patriottico Maestri cantori, non solo  fu promosso 'compositore nazionale', ma sempre in un modo più manifesto divenne il preminente rappresentante della politica culturale del nuovo Impero Tedesco a partire dalla sua fondazione (1871).

 Nietzsche (prima apologeta, poi detrattore fino alla repulsione)  quando la musica di Wagner era ormai  assurta nella coscienza pubblica a un rango spirituale, con disprezzo  accusò Wagner di essere uno 'stregone', di trattare la musica come un allucinogeno sonoro'. Impietoso anche  K. Marx, che iniziò a beffeggiare Wagner denominandolo 'il musicante di stato'. Del resto, prima il musicista  disprezzava apertamente Bismarck, poi quando vinse i francesi iniziò a glorificare l'uomo.

Sotto gli auspici del grande musicista (di cui è nota l'esaltazione del mito germanico nella tetralogia nibelungica) nella sua residenza di Bayreuth, dopo la sua conversione (agli agi e non più alle rivoluzioni e alle barricate dei morti di fame),  nel 1874, era già nato in casa sua un circolo per diffondere l'opera del teorico del razzismo GOBINEAU che abbiamo citato sopra. Morto Wagner nel 1883, nel 1894 venne fondato nel Circolo Bayreuth, la Gobineau Vereneinigung. Compito principale di questo cenacolo: introdurre in Germania l'opera e le teorie del francese ed indottrinare alcuni apostoli per diffondere il suo verbo, 'razzismo' che ora si chiama per merito di Marr 'antisemitismo'.


Ma un appassionato ed instancabile discepolo,  poi autorevole ed eminente divulgatore, non fu nè un francese e nemmeno un tedesco, ma l' inglese Houston Stewart Chamberlain.

Chamberlain aveva sposato Eva la figlia di Wagner e di Cosima Lizt; si era perfino naturalizzato tedesco ed era andato ad abitare con loro. Sei anni dopo la fondazione del 'Circolo Gobineau', nel 1900, Chamberlain da' alle stampe il suo monumentale saggio: 'I fondamenti del XIX secolo'. 1200 pagine fitte fitte con una sola teoria logorroica dominante dall'inizio alla fine: quella della 'superiorità della razza germanica cui Dio aveva affidato la missione di civilizzare il mondo e di dare origine a una nuova, forte, pura, civiltà occidentale'; ma anche 1200 pagine di dichiarato antisemitismo non inferiore a quello del suocero.


Oltre un discreto successo letterario, l'opera segnò l' approdo del razzismo all'antisemitismo militante; non solo, ma questo razzismo e antisemitismo si apprestò a diventare un fattore importante della vita politica tedesca, conquistando un larghissimo consenso tra le masse piccolo-borghesi.
In verità non ne fu immune neppure la Francia -vedi caso Dreyfus; poi l'Inghilterra con Galton (fondatore dell'eugenetica) e Pearson che teorizzava che era un dovere nazional-patriottico dei popoli espellere le razze inferiori;  infine anche gli Stati Uniti non ne furono immuni; le teorie razzistiche europee con  Madison Grant ('Passaggio della grande razza', 1917),  C.B. Stoddart ('L'eredità razziale dell'America, 1922), e  Casa della Bibbia (Il negro: è una bestia),  divennero parte integrante della discriminazione razziale sul nuovo continente pari a quella che si sviluppò inGermania.

Ma ritorniamo a  Bayreuth. Wagner -lo abbiamo letto sopra- non era  solo un compositore, ma anche un sanguigno autore di scritti politici (quelli successivi dopo il '49) impastati di fanatico pangermanesimo e antisemitismo. Sul suo personale organo di stampa, il Bayereuther Blatter, scriveva e invocava con violenza di linguaggio e durezza di argomentazioni 'la distruzione totale degli ebrei' che riteneva 'demoni della rovina dell'uomo'. Ovviamente suo genero Chamberlain condivideva lo stesso irrefrenabile odio. I due si erano incontrati, s' intendevano benissimo, s'imparentarono perfino, vissero insieme. Morto poi Wagner  il genero continuò la 'missione'; e si stabilì in casa di Wagner; fondò il Circolo citato sopra, scrisse l'opera già accennata, ed infine ebbe il grande incontro con 'l'uomo' che mise in pratica poi tutta la sua teoria.

Infatti, otto giorni prima del Putsch di Monaco (dell' 8 nov. 1923) Adolf Hitler, in un'ora molto critica (con il suo triunvirato a un vicolo cieco), per placare il suo nervosismo, lui che era un accanito estimatore della musica e degli (ultimi) scritti di Wagner e di Chamberlain, lo troviamo a fare un devoto pellegrinaggio a Bayreuth. Nel giardino della villa, davanti alla tomba dell'autore del Parsifal (opera emblematica) Hitler non trattenne l'emozione. (quand'era barbone a Vienna andò 30 volte di seguito a sentire il Parsifal).

 Cosima Lizst  ormai ottantaseienne  vedova di Wagner,  Siegfred suo figlio sposato con la figlia di un famoso giornalista anche lui inglese, ed infine Chamberlain con Eva Wagner, lo accolsero calorosamente e anche con orgoglioso compiacimento nel vedere questo fanatico estimatore.  Quest'uomo di cui già si parlava in giro, stava ponendo a base della sua ideologia politica i miti glorificati dal loro congiunto. Particolarmente intenso fu però il colloquio con Chamberlain. Non gli parve vero che qualcuno mettesse finalmente in pratica quello che lui aveva scritto; e anche quello che non aveva ancora scritto.


Era stato proprio Chamberlain a mettere in luce nella sua opera come 'in Germania risiede il più forte nucleo germanico continuatore degli ariani'. Era proprio di Chamberlain la teoria 'dell'aspirazione ebraica al dominio mondiale, impedire il quale e contrapporvi la restaurazione di una gerarchia razziale universale è il compito degli ariano-germanici'.

Sappiamo che dopo questo incontro, Chamberlain scrisse a Hitler una solenne lettera; lo definiva 'un dono di Dio', un essere che il Signore aveva inviato sulla terra a testimoniare la grande vitalità della nazione; e se la Germania nella sua ora più critica  ha prodotto un Hitler, io adesso posso addormentarmi in pace. Dio protegga la Germania'



Le leggi razziali fasciste


Nella seconda metà del 1938 il regime fascista, non senza alcuni contrasti interni, muta in modo radicale la sua posizione. Come si legge nella premessa delle deliberazioni del massimo organo del regime (il Gran Consiglio del fascismo) sui problemi razziali del 6-7 Ottobre 1938, la 'questione della razza' è posta in Italia all'ordine del giorno della proclamazione dell'impero che segue l'occupazione in Etiopia. Il Gran Consiglio del fascismo << in seguito alla conquista dell'impero, dichiara l'attualità urgente dei problemi razziali e la necessità di una coscienze razziale[.].In poco tempo una minoranza integrata si trova ad essere una minoranza discriminata e perseguitata, di cittadini di seconda classe: vietati i matrimoni misti, vietato l'accesso alle professioni e alla scuola, fortemente limitato il diritti di proprietà.

Tuttavia, a differenza di altri molti paesi europei, quando, dopo l'occupazione nazista della penisola all'indomani dell'8 Settembre 1943, si profila il loro massacro, numerosi italiani, religiosi e non, e molti membri del clero cattolico aiutano gli ebrei a nascondersi e a sfuggire alla deportazione. La caccia agli ebrei avviane in Italia sulla base degli elenchi compilati nel 1938 in seguito al censimento.





<<La soluzione finale del problema ebraico>>


La guerra conduce, sotto il dominio del Terzo Reich, milioni di ebrei, oltre quelli tedeschi e austriaci. Alla fine del conflitto più di 5 milioni di ebrei saranno assassinati dai nazisti e dai loro alleati. E' la <<soluzione finale del problema ebraico>>, un'espressione entrata nell'uso corrente della burocrazia nazista nel marzo 1942. L'obbiettivo di eliminazione fisica, dell'assassinio di massa di tutti gli israeliti d'Europa si cela sotto l'espressione << soluzione finale>>, di per se carica di minaccia, ma di cui solo dopo il conflitto si è potuto valutare tutto l'orrore.

Nelle aree occupate dall'URSS e dalla Polonia le popolazioni furono sottoposte a violenze sistematiche, private di tutto, uomini e donni sfruttati come animali da lavoro. La persecuzione assunse così le dimensioni di genocidio, ovvero distruzione pianificata di un popolo intero.

Come già era avvenuto per la guerra, l'amministrazione dei campi venne affidata alle SS, che seppero trarre forte vantaggio dalla forza-lavoro necessaria a parecchie industrie tedesche.

I lavori forzati avvenivano nei campi di prigionia (lager), gran parte dei quali era collocata in territorio polacco e tedesco.


La memoria


Sui campi di sterminio nazisti esiste una nutrita letteratura. In particolare sul Lager di Auschwitz, forse il più famigerato. Questa letteratura, come ha detto proprio Primo Levi nella prefazione all'edizione italiana di Uomini ad Auschwitz di Hermann Langbein, si può dividere in tre categorie: i diari o memoriali dei deportati, le loro elaborazioni letterarie, le opere sociologiche e storiche. Ma Se questo è un uomo, che Levi iniziò durante la prigionia, appartiene a tutte e tre le categorie. E' un documento al più sincero possibile, è un racconto con già la misura del classico, è un'analisi fondamentale della composizione e della storia del Lager, ovvero dell'umiliazione e della degradazione dell'uomo, prima ancora della sua soppressione nello sterminio di massa. A Se questo è un uomo segue La tregua , che contiene il resoconto del suo lungo viaggio di ritorno giù per un'Europa non ancora rinsavita dalla follia collettiva. Ma quando finalmente Levi giunge in Italia capisce che tutti gli ultimi suoi mesi di vagabondaggio ai margini della civiltà sono stati una tregua affettuosamente e capricciosamente concessagli dal destino.

Toccanti risultano le pagine iniziali e soprattutto il capitolo intitolato 'Sul fondo' dove si raggiunge proprio l'apice della degradazione umana:


Allora per la prima volta ci siamo accorti che la nostra lingua manca di parole per esprimere questa offesa, la demolizione di un uomo. In un attimo, con intuizione quasi profetica, la realtà ci si è rivelata: siamo arrivati al fondo. Più giù di così non si può andare: condizione umana più misera non c'è, e non è pensabile. Nulla più è nostro: ci hanno tolto gli abiti, le scarpe, anche i capelli; se parleremo non ci ascolteranno, e se ci ascoltassero, non ci capirebbero. Ci toglieranno anche il nome: e se vorremo conservarlo, dovremo trovare in noi la forza di farlo, di fare sì che dietro al nome, qualcosa ancora di noi, di noi quali eravamo, rimanga[.]. Si comprenderà allora il duplice significato del termine <<Campo di annientamento>>, e sarà chiaro che cosa intendiamo esprimere con questa fresa: giacere sul fondo.

Sulla linea di continuità con l'opera narrativa si collocano le raccolte poetiche(L' osteria di Brema,1975; Ad ora incerta, 1984), pur esse ispirate all'esperienza del Lager e finalizzate ad estendere l'esperienza personale su un piano universale. La scrittura risulta solenne e di intonazione biblica.

Per Primo Levi non esiste solo la perdita della memoria storica, ma vi è principalmente la gestione dell'oblìo, una patologia, agli occhi del poeta, ben più grave dell'altra. La stessa che ha accecato per decenni l'opinione pubblica facendola cadere nel <<revisionismo>> e nel <<negazionismo>> della Shoah. In presa diretta con il processo di Gerusalemme Levi decide di rivolgersi, sotto forma di lettera aperta, ad Adolf Eichmann. Non tanto lo tocca la sua natura di aguzzino o l'infamia, ma piuttosto l'apparente normalità dell'uomo, la sua mostruosa facoltà di rimuovere e razionalizzare a posteriori gli eventi più disumani, di costruirsi alibi inattaccabili da qualsiasi senso di colpa. L'intuizione di Levi coincide con la tesi di una grande filosofia ebrea-tedesca, Hannah Arendt(1906-1975), che assistendo al medesimo processo ne trae un libro dal titolo eloquente, La banalità del male (1963), in cui dice: 'Questa capacità spaventosa di consolarsi con frasi vuote non lo abbandonò nemmeno nell'ora della morte'.

Perciò Levi non augura a Eichmann di morire, ma di vivere per ricordare e percepire nella pienezza dl corpo e della mente tutto l'orrore del suo passato.


Per Adolf Eichmann


Corre libero il vento per la nostre pianure,

eterno pulsa il mare vivo alla mostre spiagge.

L'uomo feconda la terra, la terra gli dà fiori e frutti:

Vive in travaglio e in gioia, spera e teme, procrea dolci figli.


. E tu sei giunto, nostro prezioso nemico,

Tu creatura deserta, uomo cerchiato di morte.

Che saprai dire ora, davanti al nostro consesso?

Giurerai per un dio? Quale dio?

Salterai nel sepolcro allegramente?

O ti dorrai, come in ultimo l'uomo operoso si duole,

Cui fu la vita breve per l'arte sua troppo lunga,

Dell'opera tua trista non compiuta,

Dei tredicimilioni ancora vivi?


O figlio della morte, non ti auguriamo la morte,

Possa tu vivere a lungo quanto nessuno mai visse:

Possa tu vivere insonne cinque milioni di notti,

E visitarti ogni notte la doglia di ognuno che vide

Rinserrarsi la porta che tolse la via del ritorno,

Intorno a sé farsi buio, l'aria gremirsi di morte.

20 luglio 1960                                           

(1975), poi in 'Ad ora incerta'(1984) e in 'Opere II'(1988)

Pubblicata in 'L'osteria di Brema' .



Germania: un passato che non passa di E. Nolte


<<Con 'passato che non vuole passare' si può intendere soltanto il passato nazionalsocialista dei tedeschi o della Germania. Il tema implica la tesi che di solito ogni passato passa, e che in questo non passare c'è qualcosa di affatto eccezionale. D'altra parte il normale passare del passato non va inteso come scomparsa. Nei libri di storia si continua a discutere dell'età napoleonica o della classicità augustea; ma questi passati hanno perso, ovviamente, l'urgenza che avevano per i contemporanei, e proprio per questo possono essere affidati agli storici. Invece, a quanto pare, il passato nazionalsocialista non soggiace a questo processo di dissoluzione o di indebolimento, ma sembra al contrario, diventare sempre più vivo e vigoroso non come modello bensì come spauracchio, come passato che si pone come presente, o che pende sul presente come una mannaia.



Ecco perché rileggendo ancora oggi i versi e la prosa degli internati l'uomo rabbrividisce di fronte a così tanta ferocia e a così tanto disprezzo che i suoi simili poterono provare per altri simili. E' il dramma universale e immortale che aleggiando s'aggira ancora per la Terra e s'insinua nelle menti umane che ne conservano la memoria.

Perciò concludo con i celebri versi della poesia 'Shemà' che in ebraico vuol dire 'Ascolta' ed è la prima parola della preghiera fondamentale dell'ebraismo. I seguenti versi invitano l'uomo a scolpire nel cuore quelle parole che esprimono la necessità della memoria e a rinunciare all'indifferenza nei confronti di chi ha sofferto durante la deportazione:



Shemà https://www.cronologia.it/storia/formaggi.htm


Meditate che questo è stato:

Vi comando queste parole.

Scolpitele nel vostro cuore

Stando in casa andando per via,

Coricandovi alzandovi;

Ripetetele ai vostri figli.

O vi si sfaccia la casa,

La malattia vi impedisca,

I vostri nati torcano il viso da voi.


Primo Levi

Bibliografia



Américo Castro, La Spagna nella sua realtà storica(Cristiani, musulmani ed ebrei nell'epoca della Reconquista), Garzanti , Cernusco(Mi)1995;


Peruzzo Laruosse, La grande enciclopedia vol.6 alla voce 'ebraico(popolo)';


Menghi-Gori, Vivae Voces, Edizioni Scolastiche Bruno Mondadori,Varese 1995;


Dario del Corno, Letteratura Greca, Principato, Milano 1995;


Bruno Falcetto, Di cosa parlano i poeti, Garzanti Scuola, Milano 1998;


Marco Manzoni e Francesca Occhipinti, I territori della storia vol.3 tomo 2, Einaudi Scuola, Milano 1998;


Giorgio Penzo, La sacralizzazione del nazionalismo,Nuova secondaria- N. 4 2000 -Anno XVIII;


E. Nolte, Germania: un passato che non passa, Einaudi, Torino 1987;


Primo Levi, Se questo è un uomo-La tregua, Einaudi Tascabili, Torino 1989;


Roberto Finzi, L'Antisemitismo, Collana XX secolo, Giunti Casterman, Firenze 1997;







Si definisce Diaspora il movimento di dispersione del popolo ebraico nel mondo, fuori dalla Palestina, che ebbe inizio già in epoca assai antica e si accentuò durante l'Ellenismo.

Fritz baer, Die Juden im christlichen Spanien, I, 1929; II,1936. Quest'opera è una magnifica raccolta di documenti relativi egli ebrei spagnoli, in parte inediti, e in gran parte attinti a fonti disperse.

Rabbino, filosofo e medico( Cordoba.1135-Il Cairo,1204). In ebraico è conosciuto come Mosheh ben Maimon , figlio di un giudice rabbinico di Cordoba, e inizialmente dimostrò interesse per la religione islamica. Intervenne in favore deglli ebrei perseguitati, fu medico di corte e nagid , capo degli ebrei che dipende dal califfo, e detenne importanti poteri sia religiosi che giudiziari.


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