Conseguenze dell'imperialismo romano sui
popoli vinti
La svolta nell'amministrazione dei territori posti sotto il controllo di
Roma verso una concezione imperialistica inizia nel 202 a.c., dopo la vittoria
su Cartagine. Risale a questa data l'adozione nell'amministrazione della
Sicilia da parte del senato della concezione della proprietà tipica
dell'Oriente: la terra non appartiene più a chi la possiede ma al
'sovrano', in questo caso al senato e al popolo romano, che si arroga
il diritto di prelevare un'imposta fondiaria. Tale criterio di amministrazione
divenne il modello di gestione di tutte le numerose province che vennero create
dopo la Sicilia. Questo cambiamento nell'atteggiamento verso i territori
sottomessi fu determinato da crescenti bisogni economici legati anche al
finanziamento delle guerre: il grano siciliano, ad esempio, era divenuto
necessario, ora che il Lazio stava abbandonando le colture granarie, e proprio
con la gestione di tipo orientale poteva facilmente essere sfruttato. La nuova
concezione però non consentiva la collaborazione di Roma con i popoli indigeni
e questo obbligò i Romani a mantenere un esercito permanente che proteggesse la
provincia e che sedasse eventuali rivolte. Era altresì necessario un valido
apparato giudiziario per giudicare i casi riguardanti i cittadini romani e per
risolvere le controversie sulle decime; i due uffici furono riuniti in un'unica
carica che garantiva un governo forte: il proconsolato. Il magistrato in
questione però, così delegato, nel suo agire non aveva particolari limitazioni,
in particolare il suo operato non era tenuto a freno dalla pubblica opinione e
venne un tempo in cui Roma dovette istituire un tribunale speciale per ricevere
i ricorsi dei sudditi delle province contro i loro proconsoli o propretori.
L'ordinamento dato alle province non dava alcun diritto politico agli abitanti,
e, per quanto concerne i diritti civili, questi erano concessi da Roma in modo
limitato. Di fatto tutto il territorio era gestito arbitrariamente dai Romani,
anche se era dato in uso agli abitanti indigeni. Nelle province occidentali,
oltre ai soprusi di amministratori corrotti, pubblicani e mercanti romani ed
italici, agli abitanti fu imposta anche la cultura e la lingua latina. A questo
punto è inevitabile chiedersi fino a che punto la civiltà, indubbiamente molto
progredita, e il progresso economico portato da Roma abbia ripagato la
distruzione indiscriminata di gran parte del patrimonio culturale e delle
tradizioni dei popoli sottomessi nell'Occidente. In gran parte, almeno
inizialmente, le popolazioni non goderono dei vantaggi della presunta
'civilizzazione' e numerose furono in ogni periodo le rivolte sedate
con il sangue. Di solito, al termine di una campagna di conquista, il generale
romano imponeva al paese conquistato ordinamenti provvisori; poi il senato, su
proposta di una commissione inviata sul posto, emanava la lex provinciae.
Queste leggi tenevano conto delle consuetudini locali e in particolare delle
religioni, purché però non fossero in contrasto con gli interessi politici ed
economici di Roma. Le province orientali, del punto di vista culturale, furono
maggiormente rispettate: non ci fu alcun tentativo di imporre la lingua latina,
infatti i Romani dimostrarono di apprezzare molti aspetti della cultura
ellenistica. Sembra quasi che Roma, dopo avere indebolito e compromesso
l'ellenismo, finisca per allearvisi.