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Alessandro manzoni




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ALESSANDRO MANZONI


Dalla premessa alla "Storia della colonna infame"    (1842)


" Ai giudici che, in Milano, nel 1630, condannarono a supplizi atrocissimi alcuni accusati di aver propagata la peste con certi ritrovati sciocchi non men che orribili, parve d'aver fatto una cosa tal­mente degna di memoria, che, nella sentenza medesima, dopo aver decretata, in aggiunta de' supplizi, la demolizione della casa d'uno di quegli sventurati, decretaron di più, che in quello spazio s'innalzasse una colonna, la quale dovesse chiamarsi infame, con un'iscrizione che tramandasse ai posteri la notizia dell'attentato e della pena. E in ciò non s'ingannarono: quel giudizio fu vera­mente memorabile."


" Pietro Verri si propose di ricavar da quel fatto un argomento contro la tortura, facendo vedere come questa aveva potuto estorcere la confessione d'un delitto, fisicamente e moralmente impossi­bile. E l'argomento era stringente, come nobile e umano l'assunto.  Ma dalla storia d'un avveni­mento complicato, d'un gran male fatto senza ragione da uomini a uomini, devono necessariamente potersi ricavare osservazioni più generali, e di un'utilità, se non così immediata, non meno reale."


" Una cattiva istituzione non s'applica da sé. Certo, non era un effetto necessario del credere all'efficacia dell'unzioni pestifere, il credere che Guglielmo Piazza e Giangiacomo Mora le aves­sero messe in opera; come dell'esser la tortura in vigore non era affatto necessario che fosse fatta soffrire a tutti gli accusati, né che tutti quelli a cui si faceva soffrire, fossero sentenziati colpevoli. Verità che può parere sciocca per troppa evidenza.

Noi abbiam cercato di metterla in luce, di far vedere che que' giudici condannaron degl'innocenti, che essi, con la più ferma persuasione dell'efficacia dell'unzioni, e con una legislazione che am­metteva la tortura, potevano riconoscere innocenti; e che anzi, per trovarli colpevoli, per respingere il vero che ricompariva ogni momento, in mille forme, e da mille parti, con caratteri chiari allora com'ora, come sempre, dovettero fare continui sforzi d'ingegno, e ricorrere a espedienti, de' quali non potevano ignorar l'ingiustizia. Non vogliamo certamente togliere all'ignoranza e alla tortura la parte loro in quell'orribile fatto: ne furono, la prima in'occasion deplorabile, l'altra un mezzo cru­dele e attivo, quantunque non l'unico certamente, né il principale. Ma crediamo che importi il di­stin­guerne le vere ed efficienti cagioni, che furono atti iniqui, prodotti da che, se non da passioni per­verse? "




















" Se, in un complesso di fatti atroci dell'uomo contro l'uomo, crediam di vedere un effetto de' tempi e delle circostanze, proviamo, insieme con l'orrore e con la compassion medesima, uno sco­raggiamento, una specie di disperazione. Ci par di vedere la natura umana spinta invincibilmente al male da cagioni indipendenti dal suo arbitrio, e come legata in un sogno perverso e affannoso, da cui non ha mezzo di riscotersi, di cui non può nemmeno accorgersi. Ci pare irragionevole l'indignazione che nasce in noi spontanea contro gli autori di que' fatti, e che pur nello stesso tempo ci par nobile e santa: rimane l'orrore, e scompare la colpa; e, cercando un colpevole contro cui sde­gnarsi a ragione, il pensiero si trova con raccapriccio ad esitare tra due bestemmie, che son due de­liri: negar la Provvidenza, o accusarla. Ma quando, nel guardar più attentamente a que' fatti, ci si scopre un'ingiustizia che poteva esser veduta da quelli stessi che la commettevano, un trasgre­dir le regole ammesse anche da loro, dell'azioni opposte ai lumi che non solo c'erano al loro tempo, ma che essi medesimi in circostanze simili, mostraron d'avere, è un sollievo il pensare che, se non sep­pero quello che facevano, fu per non volerlo sapere, fu per quell'ignoranza che l'uomo assume e perde a suo piacere, e non è una scusa, ma una colpa; e che di tali fatti si può bensì essere forzata­mente vittime, ma non autori."

COMMENTO :


Nella concezione manzoniana esistono due diversi tipi di "male". Uno è connesso con la natura, con la storia e quindi con il volere divino. Un male di questo genere non può essere controllato dalla mano dell'uomo ed è pertanto inevitabile; ne è un esempio lampante la peste che aveva af­flitto Milano nel '600 e di cui il Manzoni fornisce un'ampia descrizione ne " I promessi sposi".

Parallelamente però esiste un male direttamente connesso con l'uomo  che deriva inevitabilmente dai suoi atti, siano essi in buona o in mala fede. Sempre nei "promessi" sono presenti numerosi esempi di queste differenti attitudini: Gertrude o don Rodrigo sono rappresentanti di quel gruppo di persone che fanno il male "per scelta", ne derivano, quindi, un'ingiustizia volontaria e un male compiuto gratuitamente o assecondato da minacce e corruzione. Esiste però anche il caso oppo­sto; ovvero il caso di persone che si adoperano per il bene di qualcuno e involontariamente ne causano il male: padre Cristoforo ne è un esempio eloquente; egli infatti, pensando di proteggere Lucia allontanandola dal borgo, finisce per consegnarla con le sue stesse mani alla malvagità della monaca di Monza.

Anche nell'ambito della giustizia esistono delle contraddizioni che sono sempre dovute alla volontà umana. Si può fare un ulteriore distinzione fra la giustizia dei singoli e la giustizia delle istituzioni .

Per quanto concerne la giustizia dei singoli, può essere considerato l'esempio della folla durante I tumulti di Milano  (rif: la folla verghiana di "libertà") che Manzoni giudica negativamente poiché se­gue una linea di condotta che spesso sconfina nell'irrazionale e nel contraddittorio; infatti le re­azioni della moltitudine si fondano spesso su imprevisti e contraddizioni, inspiegabili a rigor di lo­gica; e se una volta, in preda alle passioni, la folla può giungere ad eccessi estremi di crudeltà, al­tre volte è capace di trovare in sé risorse di entusiasmo e di esaltazione collettiva per il bene.

Ma il tema assai più denso di significato sulla giustizia-ingiustizia dovuta all'operare delle istitu­zioni, è affrontato da Manzoni nella "Storia della colonna infame". Il libro nasce come parte della prima edizione del capolavoro manzoniano che portava il titolo "Fermo e Lucia" ed era inserito nei capitoli sulla peste. Ne viene poi staccato e si presenta inizialmente come Appendice storica. In­fine, nell'edizione del 1827 de " I promessi sposi ", la "Storia della colonna infame" non appare neanche in calce al romanzo perché Manzoni ne sta revisionando lo stile. L'opera riappare final­mente come appendice del grande romanzo solo nel 1842.

In questa narrazione storica che vuole dare conto dell'ingiustizia, della cecità dei giudici diretti dalla "passione", si stacca e si mette in primo piano l'enorme dolore degli umili (coinvolti da altri umili) che ne furono vittime. Accusati, fatti a pezzi, spinti a cedere anche la personale dignità, nel calun­niare se stessi e altri dietro vane speranze o promesse, Guglielmo Piazza e Giangiacomo Mora, poveracci milanesi del Seicento nell'epoca della peste, si trovano, in una drammatica ricostrizione, che chiama in causa il vero storico, nell'unica capacità di ripetere: "mi lasci giù.", "V.S. dica quello che vuole che dica, lo dirò"."quello che ho detto, l'ho detto per I tormenti." .

Ma la cessazione di quei tormenti non avverrà che con la morte, dopo l'orribile supplizio dell'esecuzione, e sarà accompagnata dalla vergogna, dall'edificazione della colonna infame, nel luogo dove sorgeva la casa del barbiere Mora.  Nessun momento di compassione viene a turbare, in una deplorabile certezza, il cuore di chi è chiamato a decidere la sorte di quei poveretti: "volevano venir presto al dolore," dice Manzoni "che dava loro un vantaggio pronto e sicuro: ave­van furia'. E anche:"la passione è pur troppo abile e coraggiosa a trovar nuove strade, per iscan­sare quella del diritto".

Passione e compassione, così, si contrappongono. E il primo termine definisce dall'inizio la con­dotta presa nelle cose, faziosa, tendenziosa dei giudici " da cui il pubblico si aspettava la sua ven­detta, se non la salute". Ed era un pubblico composto a sua volta, in prevalenza, da gente del po­polo, come gli accusati. Una passione pervertitrice della volontà, un'ingiusta persuasione che porta all'esercizio della violenza. La compassione, invece, non ha posto, e il Manzoni si chiede come potesse essere assente, questo sentimento semplice, in coloro che giudicarono, la cui volontà "per mantenere l'inganno fino alla fine, dovette farsi gioco della probità e indurirsi alla compassione."

Aggiunge poco dopo che "non è cosa ragionevole l'opporre la compassione alla giustizia, ma con­tro la violenza e la frode, la compassione è una ragione anch'essa." E il Manzoni, pur nella strenua lucidità della sua opera, mostra più volte di provarla. Così come non manca di mettere in evidenza l'applicazione di due pesi e due misure nel giudizio che colpisce gli umili untori, condotti dallo stra­zio ad una catena di menzogne, e nel trattamento di Don Giovanni de Padilla, figlio del coman­dante del castello di Milano, pur costretto al carcere e a lungo. Quest'ultimo, infatti, coinvolto dall'invenzione, dalla favola di chi aveva patito la tortura, verrà assolto.

L'indignazione, nel Manzoni, non è solo morale, ma comprende una sua partecipazione commossa di fronte alla sorte toccata agli umili, assorbiti nella favola, impigliati in quella rete di delazioni e in­venzioni. L'insieme di questa storia di iniquità e violenza del potere, di vergogna e di dolore delle vittime, conferisce all'umana amministrazione della giustizia, smarrito ogni senso religioso, un che di orribilmente fragile e precario, Ma quel dolore e quei tormenti erano il frutto di una spinta incon­scia che trapassava gli umili nella denuncia di altri loro pari, e che raggiungere I loro complici ed esecutori, pronti a rispondere ad una richiesta generale. Un'esigenza che pretendeva l'individuazione o la creazione dei colpevoli, in un flagello che devastava la città. La gente, molto spesso, in ogni tempo, dentro una tragica situazione, cerca cause in modo meccanico, rudimen­tale. Immagina un complotto feroce che gestisce l'economia della tragedia. E dunque afferrati, fab­bricati, certificati dal processo con passione e malizia I colpevoli, la città si liberava della colpa, ad­dossandola completamente alle vittime.

L'infernale sentenza aveva condotto all'ultimo, selvaggio supplizio di quei poveracci, per le strade di Milano. Fu stabilito che I condannati fossero "messi su un carro, fossero condotti al luogo del supplizio; tanagliati con ferro rovente, per la strada; tagliata loro la mano destra davanti alla bot­tega del Mora; spezzate l'ossa con la rota, e in quella intrecciati vivi, e alzati da terra; dopo sei ore, scannati; bruciati I cadaveri, e le ceneri buttate nel fiume; demolita la casa del Mora; sullo spazio di quella, eretta una colonna che si chiamasse infame; proibito in perpetuo di rifabbricare in quel luogo." Così, nell'orrore, si credeva di scacciare il male, di afferrare la colpa e di esorcizzarla, espellerla, di scaricarla con brutalità e GIUSTIZIA.


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