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La carriera dell'internato




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La carriera dell'internato

Proprio con l'internamento, al detenuto vengono a mancare sia il sostegno degli oggetti di accordo che il sostegno delle relazioni. Infatti, con il passaggio dallo stato di screditabile (se e in quanto autore di deviazioni non ancora sanzionate) allo status di screditato, egli viene smascherato nelle relazioni, e non è più in grado nemmeno di salvare la faccia[1].

Più che una crisi di identità, almeno nella prima fase di internamento, si riscontra una crisi di ruolo[2]. Infatti, la forma della deviazione, la situazione, e il flusso dei significati nell'interazione faccia a faccia hanno una grande importanza nel normalizzare l'azione e sostenere le difese percettive nei confronti della "macchia" della deviazione . Piuttosto che perdersi nello smarrimento di ogni identità, egli non accetta l'etichetta del criminale, ma il grado di vittima (che pure gli consente di partecipare con un ruolo la rappresentazione sociale). Non accetta lo status ma la condizione . E l'accetta proprio come si accetta un ruolo in una rappresentazione teatrale, frutto di un contratto aleatorio privo del synallagma ; una rappresentazione in cui le relazioni sono vissute in maniera precaria e funzionale, alimentate dal gioco dei privilegi:


dal momento in cui il processo di spoliazione dell'istituzione agisce sull'internato, indebolendo la reazione che egli ha con il proprio sé, è il sistema dei privilegi che gli fornisce una struttura su cui fondare la propria riorganizzazione.. un esiguo numero di compensi o di privilegi. in cambio dell'obbedienza.molte di queste gratificazioni potenziali sono ricavate dall'insieme dei sostegni che l'internato considerava - prima - come garantiti. Nel mondo esterno, ad esempio, egli era in grado di decidere, senza pensarci troppo, come bere un caffè, se fumare una sigaretta, e quando parlare, diritti che, all'interno di una istituzione, possono invece risultare problematici. Il terzo elemento dei privilegi è costituito dalle punizioni, che sono designate come la conseguenza di una infrazione alle regole.Generalmente le punizioni a cui l'internato va incontro nelle istituzioni totali sono più dure di qualsiasi altra esperienza egli abbia avuto nel proprio mondo familiare.[6]


E qui, la rappresentazione di un ruolo imposto, in cui lo svilimento della personalità e la mortificazione sono portati all'eccesso, i detenuti, lontani dalla contezza di aver commesso un atto certamente aberrante, si inaridiscono su posizioni vittimistiche che alimentano il senso di ingiustizia ed esasperano il conflitto con le istituzioni e con la struttura culturale sociale[7].

Il superamento di tale senso di ingiustizia[8] potrebbe essere avviato attraverso il superamento dei vecchi schemi a opera di una emancipazione della coscienza critica, attuabile attraverso quel salutare recupero di cui ha riferito Goffman, nell'interazione sociale aperta.

Nell'internamento, il deviato, invece, è portato a condividere una cultura del vittimismo, alimentata dall'interazione con altri soggetti che, percependosi come destinatari di una diagnosi sociale ingiusta, nella loro rappresentazione, riescono a farsi cogliere negli aspetti più crudi e toccanti emotivamente, attraverso la narrazione della propria esperienza.


Durante una intervista, un detenuto della casa circondariale di Padova, mi parlava dei suoi compagni, descrivendoli come reduci da esperienze di profonda ingiustizia, costretti a sopportare anche il degrado morale di innumerevoli privazioni e mortificazioni, raccontando particolari della loro esperienza con una enfasi che lasciava trapelare l'emozione di chi condivide un destino comune. Quel racconto, mi ha riportato alla mente, le storie dei detenuti della Casa Penale di Lecce, durante una delle mie  delle mie prime esperienze di insegnamento, all'interno di un penitenziario. Anche in quei racconti, fors'anche strumentali, si riusciva a cogliere la profondità dei legami solidaristici fra gli internati, fondati proprio sulla sorte comune, sulla mortificazione, sullo stigma che li aveva segnati fin dall'infanzia, in nome di una società "ingiusta e vendicativa".

Non voglio dire che in queste condizioni il senso di ingiustizia non possa essere superato. Voglio dire che esso verrà superato, forse, in tempi più lunghi e, magari, non in maniera assoluta. Così, il deviato che dovesse arrivare a giustificare la sanzione (galera permettendo) non ne giustificherà il degrado morale subìto, pur riservandosi il diritto a rivendicare un senso di ingiustizia di natura culturale: come dire era punibile il gesto, ma non la motivazione.

Come si può riscontrare dal racconto di un detenuto, durante una permesso premio, dopo circa ventiquattro anni di internamento:


". il novanta percento delle carceri hanno funzioni solo custodiali. Tengono la gente in galera; quando hai finito la tua pena, vai a casa. Invece di essere un luogo in cui si può fare qualcosa per la gente come me, di persone che hanno vissuto nell'illegalità, ti inaridisce sempre piu. Ti costringe a reagire alla tendenza a reprimere la tua personalità, attraverso l'alleanza con i compagni, che, come te, stanno a soffrire una in condizione piu dura del necessario. il carcere è totalizzante. Fin dall'inizio ti toglie la dignità, il carcere. Ti controllano fin'anche quando stai al cesso - c'è uno spioncino dal quale ti sorvegliano. Dopo impari a convivere con questo sistema. All'inizio percepisci che ti vogliono distruggere a livello psicologico. Come se volessero entrare nelle parti più intime. Allora ho imparato a difendermi. Ho cercato di mantenere quel tanto di dignità. Poi diventi, tu, bravo a barcamenarti. Ma solo dopo. All'inizio, invece, sei fragile. Ed è proprio in quei momenti, quando sei sul fondo, che trovi le persone giuste. Non tante; ma le trovi. Io ho trovato delle persone che mi hanno teso la mano quando stavo affogando.In quei momenti impari che ce la puoi fare solo se impari a vivere secondo quelle regole. impari a fidarti dei compagni, di alcuni compagni. impari a usare un linguaggio che ti permette di comunicare con i detenuti e con la sorveglianza., e questo ti permette di sopravvivere a quel clima di violenza psicologica. Una violenza che ti fa sentire ancora più una vittima. per non parlare del senso di rabbia e di ingiustizia, e di impotenza, che provi quando la sorveglianza non ti permette di mantenere un minimo di riservatezza nei rapporti con i familiari, e un minimo di relazione affettiva. In quei momenti subisci una violenza aggiuntiva. ".


E qui che si attua un ulteriore scarto di percorso, che contribuisce alla deriva della coscienza critica verso posizioni che contrastano con la realtà (diversamente rintracciabile nell'interazione aperta), proprio in funzione di quello che, Robert Sommer, ha chiamato "processo di disculturazione", di cui ci riferisce Goffman, a proposito dei cambiamenti culturali che si verificherebbero nelle istituzioni totali:


se avviene un cambiamento culturale, esso è legato - probabilmente - alla rimozione di certe possibilità di comportamento e al mancato tenersi al passo con gli ultimi mutamenti sociali che avvengono nel mondo esterno. Così, qualora la permanenza dell'internato si protragga, si potrebbe assistere a ciò che viene definito come "processo di disculturazione", vale a dire ad una mancanza di "allenamento" che lo rende incapace - temporaneamente - di maneggiare alcune situazioni tipiche della vita quotidiana del mondo esterno[10],


incapacità che aliena sia la possibilità di penetrare il senso dell'azione sociale, sia la possibilità di differenziazione dei ruoli degli attori sociali.

Il mondo esterno non viene più valutato come un panorama di istanze e comportamenti differenti, ma viene rifigurato nello stereotipo di una unità coesa e omogenea nel suo antagonismo:


il processo di fraternizzazione, attraverso il quale persone socialmente diverse si trovano a sviluppare un mutuo appoggio e una maggiore possibilità di opporsi al sistema che li costringe a una forzata intimità, ad unico destino comune, uguale per tutti.. Si tende a sviluppare un senso di ingiustizia comune a tutti e di amarezza verso il mondo esterno[11].


La coscienza critica, che si alimenterebbe proprio nel confronto con le diversità percepite negli elementi del mondo esterno - nel salutare recupero - si alimenta, qui, del confronto con un mondo esterno percepito come un unicum in contrapposizione, al quale pare difficile rapportarsi con la serenità necessaria a coglierne gli elementi di emancipazione morale.

Ed è in questo scarto che potremmo individuare la seconda fase della socializzazione dell'internamento. In questa seconda fase si passerebbe dall'accettazione della condizione (e del ruolo nella sua precarietà -come una sorta di adattamento negativo di Durkheim), alla interiorizzazione del ruolo - quella reviviscenza di Stanislavskji[12], che comunque avrà valore, in quel contesto di rappresentazione, ma non corrisponderà all'assunzione dell'identità di criminale.

In tal senso, Goffman riferisce che:


dopo essere stato soggetto ad una ingiustizia, ad una punizione eccessiva o ad un trattamento più degradante di quello prescritto dalla legge, il colpevole stesso incomincia a giustificare l'azione compiuta, che non aveva giustificato quando la compiva.


Tutto sommato, condividere la causa del compagno di cella, per l'internato, significa sentirsi partecipe di una realtà in cui la sua esperienza deviante acquista coerenza.

Dare senso alla propria esperienza, rappresenta un salvagente a cui tenersi aggrappati mentre, ad opera della disculturazione, del distacco dagli oggetti di accordo quotidiano e dal mondo affettivo, si rischia di annegare.

In tal senso, dall'indagine effettuata attraverso le interviste, risultano due aspetti maggiormente frustranti della condizione dell'internato. Il primo riguarda la spoliazione , il secondo riguarda l'impossibilità di poter contare sul sostegno e sugli stimoli delle relazioni familiari.

La procedura di internamento, prevede la privazione di tutto ciò che si possiede. Con la perdita degli oggetti di riferimento, con la perdita di condizioni di riservatezza in cui esercitare il proprio ruolo, l'individuo perde il controllo sul modo in cui appare agli altri; egli perde il corredo per la propria identità[14]:


la perdita implica naturalmente una spoliazione di ciò che si possiede. forse il più significativo di questi possessi non è qualcosa che è affatto fisico: si tratta del proprio nome. (che). può significare una notevole riduzione del sé[15].


Riguardo al sostegno che deriva dal rapporto con i gruppi primari, invece, bisogna segnalare che con l'internamento si attua un taglio netto con il passato, al fine di isolare il deviato dalla cultura di provenienza. Si tende a pensare che il fattore culturale sia quello maggiormente responsabile della devianza, e tuttavia si segregano gli uomini in una cultura altamente deviante, come quella carceraria. Questo implica, evidentemente, che sono ritenute più importanti le implicazioni motivazionali che potrebbero derivare dal rapporto col gruppo primario, che non quelle derivanti dal rapporto con i compagni di galera. La verifica di questo assioma, tuttavia, deve passare prima per la validazione che la cultura dei  gruppi primari (famiglia ecc.) sia una cultura deviante; e poi per la validazione che, con l'isolamento fisico, si interrompa quel flusso di informazioni in entrata e in uscita fra alcuni internati e alcuni gruppi primari all'esterno.

Riguardo alla cultura dei gruppi primari, infatti, le indagini sulla criminalità[16] parlano di un crescente numero di delitti commessi a opera di individui provenienti da gruppi familiari non particolarmente avvezzi alla devianza. Questo dato, che da solo è già significativo, va integrato con il dato soggettivo rilevabile dalle interviste e dagli articoli pubblicati da parte di internati di vari istituti di pena :


"la famiglia è essenziale. Io in tutti questi anni di galera, ho avuto la famiglia dietro che, in qualsiasi maniera, mi ha seguito in tutta Italia: me li son visti dietro dalla "Favignana", fino all'estremo nord d'Italia; mi sono stati vicino dappertutto. Grazie al loro contributo, ho maturato una coscienza critica, nei confronti delle mie malefatte. Ho capito le conseguenze e il dolore che ho procurato a loro, con le mie trasgressioni.. Ad esempio, pensa, che io adesso sono molto incazzato per come è andata la "Camera di consiglio" e tutto quanto: avrei voglia di mandare a.(strafottere)  tutto quanto; considera che ho conoscenze in tutto il mondo, e potrei cavarmela se decidessi di.. Ma per la mia famiglia, per i miei affetti, non lo farei mai. Per il semplice motivo che tradirei i miei familiari, quelle persone che mi stanno vicino, che mi vogliono bene, che hanno creduto in me, e nel fatto che io fossi diverso da come vi vedevano in galera. Attraverso la stima dei familiari, maturi un cordone ombellicale più forte della voglia di reazione; un legame che ti permette di acquietare quel senso di ingiustizia che ti farebbe mandare tutto al diavolo. Poi se c'è dietro anche una compagna. io ho una compagna che soffre con me, gioisce con me. e vuole stare fuori con me. Se io ho deciso di continuare il percorso verso la riabilitazione, lo devo all'attaccamento ai miei affetti, alla responsabilità che sento nei loro confronti.. E non è stato facile conservare un legame con loro. Considera che, fra le tante privazioni, quella dell'affettività in galera, è una cosa che può portarti all'esasperazione. Mentre, conservando i rapporti con la famiglia, con la propria donna, sai di poter contare su qualcosa per ricostruirti una vita. Non esci dalla galera ancora più incazzato col mondo, con Cristo e con tutti i santi. L'affettività è il tuo ponte verso il futuro. . e poi, l'Autorità ha diritto di rivalersi su di me, ma non sui miei. E quando vedo, invece, che sono mortificati anche loro, che per causa mia, le istituzioni mancano di rispetto a loro, allora io mi incattivisco"


Da qui si coglie come, dalle relazioni con il gruppo familiare, possa risultare una spinta all'emancipazione più che una deriva verso la deviazione[18].

L'isolamento dalle relazioni familiari, peraltro, rappresenterebbe una punizione che colpisce, duramente, (per il basso valore sociale e pedagogico) soltanto il deviato che provenga da famiglie che vivono una realtà a latere della cultura deviante. Infatti i deviati inseriti in una struttura familiare a predominante cultura criminale, non solo risentono meno della mancanza di sostegno delle relazioni familiari (poiché, anche in galera, conservano la loro identità, attraverso le conferme che gli derivano dal consolidamento di uno status di privilegiati, nelle relazioni con gli altri internati), ma soprattutto, conservano la possibilità di continuare a relazionarsi con il gruppo primario - proprio in forza del carattere associativo che ha denotato la loro esperienza di devianza primaria - attraverso una serie di canali informali che, spesso, sfuggono alla decodifica istituzionale[19].

In tal senso:


ritagliarsi degli spazi personali, escogitare canali di comunicazione alternativi a quelli ufficiali, creare delle reti di solidarietà, in breve mantenere in vita un altro tipo di socialità, è la risposta paziente, anche se sommessa, che gli internati danno alle pretese totalitarie dell'istituzione[20].


Così come già detto nelle interviste delle pagine precedenti.

Il cambiamento di prospettiva culturale, quindi, sembra avvenire in maniera diversa a seconda della cultura di provenienza. Tuttavia la socializzazione della pena e la carriera morale del deviato, si manifestano attraverso le pratiche di affiliazione[21], ma anche attraverso una serie di pratiche adattive (transizione). Infatti, assieme alle forme di linguaggio della comunicazione alternativa, l'internato matura tutta una serie di adattamenti secondari, che gli consentono agli internati di ottenere qualche soddisfazione proibita, o di ottenerne altre con mezzi proibiti. Queste pratiche sono diversamente riferite come "riuscire a farcela" '"saper cavarsela, "fare connivenze", "conoscere i trucchi del mestiere". Gli adattamenti secondari sono, per l'internato, la prova del suo essere ancora padrone di sé .

In tal senso un detenuto conferma che


ognuno di noi ha una serie di conoscenze cresciute con lui a forza di escogitare sistemi per procurarsi quello di cui non dispone. Queste abilità, nell'internamento, si imparano, prima dai compagni di cella, e poi, con un po' di attenzione, si apprendono dai discorsi degli altri. "Vuoi sapere come si può fare la grappa in cella con le bucce della frutta?. basta avere cinque cannucce di penna, un po' di mollica di pane, il secchio che ti danno per lavare a terra, e puoi farlo. Vuoi sapere come si stura il lavandino con uno strumento semplice e veloce da usare: smonta il sifone del lavandino, infila una bottiglia di plastica vuota - quelle dell'acqua - senza il tappo, con la bocca nel tubo di scarico e poi dagli un calcio con tutta la potenza, e il gioco è fatto.".


E così via, con una serie di ricette e invenzioni che vanno dal farsi il pane in cella, fino al sashimi col riso. Tante da poterne fare un manuale.

Tutte queste pratiche, pur se esprimono nel cambiamento di status e di ruolo, un certo livello di socializzazione carceraria, colte nel processo che va dall'affiliazione , alla transizione, all'autorità, mostrano come, ai vari livelli di progressione o differenziazione, l'internato tenda a non interiorizzare il ruolo. Nella rappresentazione quotidiana subisce lo status così come subisce l'etichetta, senza metabolizzarli mai abbastanza. Egli reagisce, mettendo in atto tutta una serie di controspinte alla mortificazione del sé, alla spoliazione, escogitando canali di comunicazione alternativi a quelli ufficiali, creando delle reti di solidarietà; in definitiva, mantenendo in vita un altro tipo di socialità che può essere interpretata come una "lotta di resistenza per l'identità"[23], significativa di una sorta di attesa di un riscatto possibile. E questo, probabilmente, perché vede nelle maggior parte delle pratiche ufficiali di internamento, una dinamica finalizzata all'imposizione di una cultura che, lungi dal fornire prospettive di reinserimento, e riscatto sociale e morale, appare funzionale esclusivamente all'esercizio burocratico della punizione. Come dire che le pratiche quotidiane, si svolgono all'insegna di una riduzione del sé, quale prerogativa al miglior esercizio delle tecniche di sorveglianza e controllo di un grande numero di persone.

Le routine di detenzione, vengono vissute come prassi di normalizzazione, in cui l'internato viene trattato come una pratica amministrativa: la spersonalizzazione, la codifica alfanumerica e la dislocazione, ne garantiscono la sorveglianza; la standardizzazione delle pratiche, la disciplina[25]e la gerachizzazione dei pari, garantiscono il controllo. Il detenuto non intravede spazi e strumenti per ristrutturare il sé, e perciò resiste, mentre tutto gli appare finalizzato all'esercizio del potere di punire e di normalizzare .

Lo confermano alcune frasi di un detenuto del carcere di Padova, un detenuto "modello", le quali, pur non essendo emblematiche della sensibilità generale degli internati, sono significative della spersonalizzazione e della deriva identitaria che si riproduce con la reclusione in certe condizioni:


".le sale per i colloqui gelano il cuore soltanto a guardale e in alcuni casi l'incontro con i familiari avviene ancora con un vetro divisorio in mezzo. Fa freddo. Siamo imbacuccati. Fa freddo a stare chiusi da soli per ventitré ore al giorno[28]. la solitudine abbassa sicuramente la temperatura dell'anima, ma quella della cella è quasi sempre gelida per conto suo: per nove mesi all'anno devi vestirti come un eschimese e negli altri tre soffri il caldo, naturalmente..

Ci si consola con il calore umano, che c'è sempre stato e sempre ci sarà dove le condizioni precarie di vita fanno della solidarietà e della fratellanza l'ultima risorsa disponibile[29]".


Non è difficile intuire come, questa lotta di resistenza per l'identità, possa implementare il senso di ingiustizia, e come, nella creazione di reti di solidarietà , si possa riprodurre la devianza.





Serino C., Percorsi del sé, Roma, Carocci Edotore, 2001;

Come testimoniano le interviste ad alcuni internati, riportate nel cap. V;

Lemert E., op. cit. p. 115;

Goffman, in Asylums, ci dice che nei confronti della condizione dell'internato, meglio sarebbe parlare di ruolo, piuttosto che di status, proprio perché lo status, in sociologia, ha significati comprensivi di elementi economici;

Torrente A. e Schlesinger P., Manuale di diritto privato, XIV edizione, Milano,  Giuffrè Editore, 1994, pp. 455-60;

E. Goffman, Asylums - Le istituzioni totali: i meccanismi della esclusione e della violenza, (1961),Torino, Giulio Einaudi Editore, 2003, pp.76-80;

Sulla questione dei rapporti fra staff e internati, si riferisce in numerosi lavori sperimentali, fra i    

quali, la tesi di laurea di E. Luban, Approccio psico-pedagogico alla dimensione affettivo-sessuale del detenuto, Ristretti.it, 2003;

Goffman E.,  Asylums, op. cit.;

La percezione del senso di ingiustizia, può dipendere piu che dalla percezione di una certa equità di condizioni di accesso alle cose, ma dalla percezione di una equità di giudizio nella valutazione del peso delle istanze individuali. Come dire che il senso di ingiustizia si sviluppa nella misura in cui viene mortificato il sé, nella mortificazione delle proprie istanze. Una autorità, sia essa un genitore o educatore o un istituto normativo, che non riesca a dare consistenza alle ragioni di una parte senza mortificare il diritto all'esistenza delle ragioni dell'altra parte (senza mortificare il valore simbolico di una istanza, che racchiude in sé la rivendicazione di una parte di identità), è una autorità che con le sue decisioni alimenta il senso di ingiustizia.

Lemert E. M., op. cit. p. 93: "non va trascurata l'impressione di ingiustizia che può essere tratta dall'accusato. Anche se egli è colpevole, ci possono essere dei livelli di criminalità che può non aver raggiunto.ma.se egli avverte profondamente e giustificatamente che la società . si è comportata in modo tirannico e crudele. l'effetto naturale di tale sentimento sarà quello di alienarlo ancor di piu dalla comunità e di fargli considerare i propri compagni criminali come gli unici che lo trattino decentemente".

Goffman E., Asylums. Le istituzioni totali: i meccanismi dell'esclusione e della  violenza, (1961), Torino, Giulio Einaudi Editore, 2003;

Goffman E., op. cit. pp.83-84;

Stanislavskij K. S., Il lavoro dell'attore, Bari, Laterza, 1982;

Goffman E., Asylums, op. cit., pp.48-53;

supra, p. 49

supra, p. 55;

Fonte Dati su indagine criminalità..

Le interviste sono state condotte personalmente agli internati della casa penale di Padova e Lecce; gli articoli sono stati raccolti attraverso una indagine su internet e presso gli archivi in rete di "LaRepubblica.on line" - "Corriere della sera.it"

Escludendo da questa fattispecie, gli internati provenienti da affiliazione con gruppi, clan e "famiglie" malavitose;

Delle forme di comunicazione alternative in uso nelle istituzioni totali, parleremo nel corso del par. 4 di questo capitolo;

E. Goffman, Asylums - Le istituzioni totali: i meccanismi della esclusione e della violenza, (1961),Torino, Giulio Einaudi Editore, 2003, pp.17-18;

Sui ruoli sociali analizzati da Meyrowitz: affiliazione, transizione, autorità, cfr. Meyrowitz J. op. cit. pag. 85;

E. Goffman, Asylums - Le istituzioni totali: i meccanismi della esclusione e della violenza, (1961),Torino, Giulio Einaudi Editore, 2003, p. 82;

Goffman E., Stigma. L'identità negata, 1963, Ombre Corte, Verona, 2003:

Se si escludono, infatti, le attività dei pochi laboratori didattici (di avviamento a vari mestieri) e gli appuntamenti con l'equipe socio-psico-pedagogica, il quadro di attività previste a supporto di una emancipazione sociale possibile, si restringe fino ai livelli insignificanti delle ore della cosiddetta "socialità"; La maggior parte dei detenuti, infatti, non ha accesso ad attività che consentano uno sviluppo di professionalità o interessi rilevanti nella prospettiva del reinserimento. E anche quando questo sia consentito, occupa una porzione di tempo assai marginale nell'economia delle pratiche quotidiane. Tuttavia, come vedremo piu avanti, non mancano le richieste da parte degli internati tendenti a partecipare quelle attività che possano presentare prospettive di reinserimento e progresso morale.

"La disciplina fissa, stabilizza o regola i movimenti; risolve le confusioni, le agglomerazioni compatte su circolazioni incerte,..deve neutralizzare gli effetti di contropotere che nascono. le discipline utilizzano i procedimenti di separazione e di verticalità. definiscono reti gerarchiche rigorose". M. Foucault, Sorvegliare e punire, Nascita della prigione, (1975), Torino, Giulio Einaudi Editore, 1976;

La gerarchizzazione dei pari può sembrare un paradosso, ma si riferisce ai pari nel ruolo di internati, gerarchicamente auto-organizzatisi, in relazione al potere e al rispetto che gli derivano dal rango criminale. L'istituzione carceraria, talvolta, si serve di queste gerarchie al fine di controllare interi sottogruppi di internati;

Foucault M., Sorvegliare e punire, op. cit., pp.239-236;

Ci si riferisce alle condizioni di internamento negli istituti dei circuiti speciali, ad Alta sicurezza, in un regime di particolare privazione prevista dal codice carcerario;

Fonte internet: WWW. RISTRETTI.IT (dalla recensione a un libro, effettuata da F. Morelli)

Solidarietà che può anche essere di tipo non partecipativo. Una sorta di Solidarietà negativa di Durkheim, un tipo di solidarietà fondata sull'astensione dall'ostacolare i diritti altrui.

E. Durkheim, La divisione del lavoro sociale, Milano, Edizioni di Comunità, 1962, pp. 115-122;

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