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Ferdinando galiani




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FERDINANDO GALIANI












FERDINANDO GALIANI figlio di Matteo Galiani e Maria Giamburri di Lucera, é nato per caso a Chieti, ove il padre era impiegato statale il 2 dicembre 1728. Di questo ragazzo si occupò lo zio mons. Celestino che ebbe la fortuna, prima della morte, di vedere il nipote assurgere alle più alte vette della Scienza Economica. Ferdinando, più dello zio Celestino, si é sempre occupato della sua terra di origine, a Foggia e alla Capitanata egli rimase sempre legato. Ne fanno testo i numerosi scritti della maturità, le lettere degli ultimi anni della sua vita, in cui sono descritti fatti, avvenimenti e ricordi che riguardano i costumi, le tradizioni e il dialetto di Foggia e della Puglia. Aveva anche viva la coscienza dei gravi problemi che travagliavano la nostra terra a cui era orgoglioso di appartenere.
Sin da giovanissimo Ferdinando rivelò il suo acuto e precoce ingegno che gli valse la protezione e l'incoraggiamento dello zio Celestino ed anche l'ausilio del Cardinale Lambertini, che diventerà poi Papa col nome di Benedetto XIV. Dallo zio monsignore, che nel 1732 era diventato "Prefetto dei Regi Studi", Ferdinando assimilò l'indirizzo critico, positivo e scientifico, che in seguito caratterizzò la sua opera di scrittore e di economista. Fu un ingegno molto precoce: infatti all'età di 16 anni tradusse e commentò le "Considerazioni delle conseguenze del ribasso dell'interesse e del rialzo della valuta e della moneta" del Locke. In questo periodo prese a frequentare due dottissimi dell'economia e della politica: il marchese Alessandro Rinuccini e l'abate Bartolomeo Intieri che frequentavano il salotto dello zio Celestino. E fu proprio nel giro di queste amicizie che mise a confronto i diversi indirizzi di economia politica. Ed in questo clima Ferdinando maturò l'idea di organizzare razionalmente in un vero e proprio trattato una materia così nuova. Venne fuori il trattato "Della Moneta", che fu ultimato quando Ferdinando non aveva compiuto ancora il ventunesimo anno di età. La pubblicazione fu volutamente anonima. Il trattato ebbe un grande successo anche editoriale. Ricevette gli elogi persino del Papa Benedetto XIV e a Firenze dell'Accademia della Crusca, a Torino da Carlo Emanuele III, a Milano dal Beccaria e dal Verri. Tutti manifestarono il loro apprezzamento per l'acume del giovane autore del "De Moneta". Anche in epoche successive uomini di dottrina ebbero ad esprimere consensi ed attenzione. Le traduzioni in lingua francese e tedesca del trattato dettero grande notorietà a Ferdinando. Ebbe elogi da Ugo Foscolo, da Alessandro Manzoni (vedi Manzoni: "Postille al trattato della moneta") e persino Carlo Marx, in ben quattro note a piè di pagina del suo "Das Capital", riporta alcune considerazioni del Galiani. La seconda importante opera di Ferdinando fu scritta in francese sotto forma di dialogo, infatti essa si intitola "Dialoghi sul commercio dei grani".Ma mentre l'unanime riconoscimento del suo talento si andava diffondendo, due notizie luttuose colpirono Ferdinando Galiani:- la morte dello zio mons. Celestino nel 1753 del quale ebbe a scrivere: "perdita grave ed irreparabile per le lettere, delle quali era stato nella sua patria più illustre che fortunato ristoratore"; - la morte nel 1758 del suo grande protettore: il Papa Benedetto XIV ed ai funerali che si tennero a Napoli fu incaricato Ferdinando di celebrare l'elogio funebre che l'illuminista Diderot qualificò con la seguente espressione: "un morceau plein d'éloquence et de nerf". Nel 1760 l'abate laico Galiani inizia un decennio di vita culturale e mondana. Fu infatti inviato in Francia come aiuto di ambasciata dell'ambasciatore di Napoli, conte Cantillana. A Parigi vi rimase quasi per 10 anni ed ebbe modo di conoscere i più illustri scienziati, scrittori del secolo dei lumi. Scrisse anche "Il dialetto napoletano" ed il "Vocabolario del dialetto napoletano" ed anche una commedia in tre atti musicata da Giovanni Paisiello: "Il Socrate immaginario" che riscosse un grande successo. Nel 1785 scrisse "Galeota in Parnaso venticinque motti di Ferdinando Galiani ed una satira in terza rima". Si ammalò di apoplessia e due anni dopo, il 3 ottobre del 1787, morì in Napoli e fu sepolto nella chiesa dell'Ascensione accanto al sepolcro dello zio mons. Celestino senza una lapide, una epigrafe che lo ricordasse ai posteri.

Per il suo modo di sentire, di comporsi la vita e di gustarla, Ferdinando Galiani entra spesso in rapporto con le idee del suo tempo. Ma, avvertendone il vuoto se ne allontana, e se pure, talvolta, si installa sul proscenio dei fatti contemporanei è solo per esprimere, con divertita forma di sfiducia, il suo giudizio sugli avvenimenti culturali e politici del XVII secolo. Negli anni della sua giovinezza, egli curò soprattutto di migliorare le condizioni economiche della sua posizione di abate, ed ebbe l'appoggio iniziale dello zio mons. Celestino, il quale contribuì ad accrescere l'agiatezza del nipote limitandone di curarne la cultura dell'anima. Nella società napoletana del tempo, dove un fermento di idee si afferma nei nuovi interessi dottrinari, la sua mente vigile ed inquieta cominci con l'accogliere l'insegnamento di Gianbattista Vico e ne conserva una traccia rimasta indelebile fino agli ultimi anni della sua esistenza. Inizia presto l'attività letteraria, dappertutto egli soddisfa la sua naturale curiosità, e si assicura un vero successo che lo introduce presso i letterati d'Italia. Sono queste le premesse dei periodi successivi della sua vita e della sua attività. E infatti non più che curiosità poteva apparire l'amore del vero al Galiani, che volle essere uomo di spirito, brillante ed elegante. Egli fu segretario dell' ambasciata napoletana a Parigi dal 1759, e questo gli consentiva di vivere in questa città, centro dell'illuminismo europeo, di frequentare i salotti di M.me Necker e M.me d'Epinay, e di parlare la lingua universale di Moliere, Voltaire e Rousseau. In quanto uomo di spirito il Galiani fu indubbiamente uomo del settecento. Ma non un illuminista, e spesso anzi con l'illuminismo si trovò in contrasto. La visione del XVIII secolo ci torna viva, modificata attraverso le facezie. Egli non sentiva l'esigenza etica di approfondire i fenomeni della vita. Di ritorno a Napoli egli rimane fedele alla sua indole, burlandosi di tutti. La società colta napoletana, con la quale è costretto a convivere, si trova in gran parte rinchiusa nella scorza del passato, compiaciuta nell'indulgere a pettegolezzi letterari spiccioli. Non tutti lo apprezzavano, a Parigi lo ammiravano e qui si ha il rovescio della medaglia.

La preoccupazione scientifica, però, l'amore per la scienza, come si è rilevato più sopra, non fu mai una qualità dell'abate Galiani. Egli era in fondo uno scettico: l'uomo può solo godere gli effetti delle cose, diceva, ma non conoscerne, e neppure indovinarne le cause. Inutile quindi affaticarsi nel tentativo di studiare a fondo ciò che non può essere approfondito, inutile e dannoso, .che si viene così a limitare la libertà della fantasia. Perciò egli si diverte a criticare l'Illuminismo, che con l'aiuto della ragione pretendeva di conoscere la verità, con i suoi commenti arguti e mordaci : il suo gusto è di smontare le più tronfie professioni di fede, riducendole ai minimi termini della concreta realtà. Ai principi pedagogici. del Rousseau oppone una teoria dell'educazione che si riduce a due punti : insegnare ai giovani a sopportare 1 'ingiustizia e a soffrire la noia. E non teme di scoprire egli stesso il fianco alla critica, la grande arma, dei suoi avversari : l' esprit è il suo scudo, dietro il quale si sente invulnerabile e libero di definire l'agricoltore un giocatore d'azzardo, l'uomo un animale che si crede libero, o di indicare l' origine della società ne « l'accouplement du male avec la femelle » (Lett. alla d'Epinay del 22 gennaio 1774).

L' esprit è dunque la prima impalcatura, il primo sostegno sul quale poggia il Galiani, ma più sotto può scorgersi un moderato scetticismo di marca oraziana (e su Orazio ha lasciato ben due lavori, entrambi naturalmente incompiuti, che ancor oggi si leggono con interesse e profitto), e un profondo bisogno di concretezza derivato in parte dal Machiavelli. Un acuto giudizio su di lui espresse il Marmontel: « L 'abbe Galiani etait de sa personne le plus joli petit Arlequin qu'eut produit l'ltalie; mai sur le epaules decet Arlequin etait la tète de Machiavel ». Privo del senso storico del Vico, egli sente però il valore di ciò che esiste per il semplice fatto che è venuto in essere: « chiunque non sa che dir male e criticare è uno stolto; è il più spregevole degli uomini -scrive nei Dialogues - perché nulla è perfetto in questo mondo e tutto è buono finche non si conosca il meglio ». E cos'è il meglio? « Le mieux - scrive a M.me d'Epinay est une chose qui n'existe que dans notre' tète », non è che l'idea di un rapporto che arbitrariamente si applica al mondo esterno. Ma.il suo scetticismo, il suo bisogno di concretezza, non si esprime in una critica serrata e sistematica dell'astrattismo e del semplicismo degli illuministi. Egli non si impegna perché non sente l'esigenza di approfondire i fenomeni della vita : vuole soltanto, come disse il Settembrini, ridere di tutti e far. ridere tutti. E quando affronta un tema serio si ferma a mezza strada, come negli Studi oraziani, o compie il suo lavoro imperfettamente : è il caso del trattato Del dialetto napoletano, pur non privo di osserva zioni acute, in cui però non mancano giudizi superficiali e addirittura errori imputabili, prima che a lui, a Gian Vincenzo Meola; la cui collaborazione aveva chiesto per risparmiarsi la fatica della ricerca dei materiali.

Diversi effetti ottiene invece negli scritti che più si avvicinano alle tendenze del suo spirito: nei Dialogues sur le commerce des bles e, nella Correspondance francese. In questi anche la sua arte di. scrittori, amante dello stile vivace, agile e fresco della conversazione, si manifesta in chiara luce; l'aneddoto, il paradosso, la caricatura vi, hanno il più ampio spazio Cosi pure nella commedia Socrate immaginario scritta in collaborazione con Gian Battista Lorenzi, benché a quelli inferiore consegue risultati notevoli. Il suo spirito arguto e motteggiatore si diverte a tessere la caricatura di un ambiente e di un uomo (identificato nel professore universitario Saverio Mattei) che, infatuato di grecità e di classicismo, si convince di essere un novello Socrate e socraticamente sopporta le persecuzioni della sua Santippe e quindi addirittura di bere la cicùta, che era però soltanto un potente sonnifero. Non è, in fondo, più di una commediola che si esaurisce nella sterile comicità generata dalla caricatura, ma brillante per l'arguzia, il brio, la vivacità del dialogo.  Ciò che difetta è il contenuto, e non per incapacità del Galiani di dar vita a una costruzione più solida, ma perché il suo fine era soltanto di suscitate il riso dello spettatore, di divertirlo come lui si divertiva. « Dal riso di un Voltaire -scrive esattamente il Flora -poteva nascere un'azione: da quello del Galiani giammai, perché tutta l'azione si esaurisce nella stessa metafora del riso, che è fine a se stesso, puro esprit ».

In realtà il Galiani trovava intollerabili gli eccessi in cui, come in ogni moto di rinnovamento, caddero spesso gli illuministi, e in queLli attingeva la materia per il suo finissimo esprit: su. quegli eccessi ironizzava, indicandoli come motivo di riso, ma non si curava di correggerli. E ciò perché era scettico, e dubitava quindi dell'utilità della rettifica, e perché era pigro: Temeva la noia, .che considerava una piaga della vita umana, ma pOco faceva per evitarla: la sua vita era nel salotto, dove la viva immaginazione la conversazione brillante concentravano su di lui l'attenzione e l'ammirazione di tutti. Fuori di esso avverte appena il bisogno di conoscere il particolare, l'aneddoto, la curiosità. Alieno da ogni entusiasmo non si interessa veramente di nulla; « legge un volume di economia con lo stesso animo col quale leggerebbe una raccolta di aneddoti mondani -scrive ancora il Flora -.Se raccoglie le pietre del Vesuvio o le monete, esercita il mestiere della curiosità che è un modo appassionatissimo di pigrizia, piacere di darsi l'aria di lavorare facendo pure qualcosa, quando ci sarebbe da fare una cosa diversa, e cioè, poniamo il caso, pensare » . Pensare era una delle cose che meno attraevano l'abate. Il Nietzsche 10 definì l'uomo più profondo del suo secolo, molto più profondo, e quindi meno parolaio, dello stesso VoItaire : e può darsi che per acutezza, e forse anche per vivacità d'ingegno fosse superiore al Francese, ma certo molto indietro gli rimase nell'attività del pensiero. Il Croce nega che quella sua apatia intellettuale fosse veramente pigrizia, definendola piuttosto galianisme. Ma c'è gran differenza? In ogni uomo pigro la pigrizia assume un volto particolare, una fisionomia diversa che nell'abate chietino potrà dirsi galianisme. Resta però la sostanza della cosa che interessa non solo come particolare del carattere del Galiani: che è appunto quella sua ritrosia dal pensare che lo rende incapace di comprendere l'apporto del suo secolo, nel quale vive pur avversandolo, al progresso dell'umanità. Acuto nel condannare Ia genericità dottrinaria dell'Illuminismo, l'idolatria della natura, della libertà, dell'umanità, non ne intende tuttavia l'intimo significato e non immagina neppure i frutti che quegli idoli produrranno. Conservatore e reazionario in politica, è ostile alle riforme, scettico sull'utilità di quelle che gli illuministi chiedevano a gran voce e saranno realizZate poi dalla rivoluzione: ma è uno scetticismo che è in fondo incredulità delle possibilità dello Spirito umano. Esattamente ha scritto il Nicolini che. « poter dimostrare di essersi saputo servire, nell'anno di grazia 1750, delle opere del Vico », era « un titolo di gloria almeno eguale a quello di esibire come tutte proprie e tutte originali una serie di conclusioni cui egli non sarebbe di certo pervenuto senza il di lui possente ausilio » (Della Moneta, ed. Nicolini, nota, p. 368) : ma certo egli non comprese il principio fondamentale dell'opera vichiana, che il suo immobilismo politico è in fondo negazione dell'attività creatrice dello spirito umano. A ragione ha scritto il Croce che l'abate « non criticava daVvero i suoi avversari, per che non sapeva,. con ardita anticipazione mentale, sorpassarli » ( op. cit., p. 325) : diversamente dal Vico il quale, estraneo come lui all'epoca in cui visse, riuscì però a superarla elevandosi con audace volo al di sopra di essa. E, fatta eccezione per il cospicuo contributo al progresso della scienza economica, può senz'altro accettarsi il giudizio conclusivo del Croce che compendia ed esprime quello della più oculata critica moderna: « Il Galiani non oltre- passa il secolo decimo-ottavo (col quale ha in comune lo spirito irreligioso, il materialismo e I'edonismo), anzi forse, in alcuni punti, non lo adegua nemmeno; ma si trova tuttavia, di fronte a esso, corno un vecchio il quale, incapace d'intendere le nuove aspirazioni del giovane, ha esperienza e sapienza bastevoli per avvertirne le fanciullaggini, sorridere delle illusioni, e prevedere dove quegli andrà a fiaccarsi il collo; » .





IL GALIANI ECONOMISTA comincia la sua attività a 16 anni. Scrisse in giovane età lo studio sullo Stato della moneta al tempo della guerra di Troia e quello sull' Antichissima navigazione del Mediterraneo. La sua opera più famosa fu il Della moneta, pubblicata anonima nel 1750. Scritta in età giovanissima, dimostra maturità scientifica, ciò che fece dubitare che lo scritto non fosse di suo pugno e dovesse invece essere attribuito a due suoi illustri amici, Intieri e Rinuccini. Ma nella prefazione alla seconda edizione pubblicata con il suo nome Galiani ebbe a dichiarare che l'opera fu scritta senza aiuto alcuno. Nelle sue opere, Galiani sostiene che non si possono fissare norme uniche per tutti i Paesi e per tutte le epoche, ma che secondo le condizioni naturali ed economiche, dei tempi e dei luoghi anche i sistemi annonari devono essere diversi. Nei Paesi poveri di grano l'importazione deve essere lasciata libera, in quelli ricchi invece deve essere libera l'esportazione. Parlando di Napoli, G. ritiene che un dazio sull'esportazione del grano potrà servire a diminuire la domanda degli stranieri cosicché G. critica la « legge di natura » dei fisiocrati: la natura, dice Galiani, non ha da guardarsi da noi, noi invece dobbiamo guardarci da essa; il più delle volte l'uomo deve combattere la natura.

DELLA MONETA. L'opera è un trattato completo sui problemi monetari, che in quell'epoca assumevano grande importanza. soprattutto a Napoli, dove vi fu un'apparenza di benessere con l'avvento dei Borboni, mentre il denaro fu scarso, i cambi malfermi e i prezzi in aumento. Si credeva allora che l'origine di tutti questi mali economici fosse la moneta, i disordini monetari e le alterazioni monetarie, praticate frequentemente.Nella seconda parte di carattere più generale G. discute il problema del valore e dei « principi onde nasce il valore delle cose tutte ». Il valore dipende da molti elementi, in primo luogo dall'utilità e dalla rarità, poi dalla quantità e dalla qualità della fatica e del tempo investito nella lavorazione del prodotto. Il valore e indicato come « un'idea di proporzione tra il possesso di una cosa e quello di un'altra nel concetto dell'uomo », una proporzione d'uguaglianza che spiega lo scambio dei beni fra due contraenti. Sono concetti che anticipano la teoria subbiettiva del valore che sboccherà nell'uguaglianza delle utilità marginali. Come tutte le cose anche i metallI hanno valore Intrinseco che « non dipende ne dall'uso che essi hanno come moneta, ne dal capriccio degli uomini ne dal consenso delle nazioni, ma dipende dall'uso che si fa di essi, in riguardo ,allo struggimento». L 'utilità della moneta è determinata dai servizi che essa rende in commercio. Essa dispensa .dal baratto e garantisce I' interesse privato. La moneta è quindi « una comune misura per conoscere il prezzo della cosa ». In questo senso la moneta è detta « ideale »,mentre la sua funzione di comperare le cose è «reale». Galiani mostra la preferenza per l'oro in confronto ad altri metalli, perché esso è sempre di medesima bontà e qualità. Quando la moneta non corrisponde ad un pezzo di metallo essa è « immaginaria, ovvero moneta di (conto) ». Con essa si stipula, si contrae, si valutano le cose perché il suo valore si proporziona a quello di una moneta reale esistente in commercio. Le monete di conto erano le monete antiche cadute in disuso. Galiani distingue il valore intrinseco della moneta che dipende dal valore del metallo, e il valore estrinseco, attribuito alla moneta .dalla pubblica autorità. Le alterazioni monetarie così frequenti In quell'epoca consistevano nel! attribuire alla moneta un valore estrinseco maggiore di quello intrinseco costruito da metallo. Galiani considera un errore la determinazione per legge del valore delle singole monete senza poterlo mutare secondo i movimenti naturali dell'intrinseco, perché ciò favorisce le falsificazioni. L'alzamento della moneta consiste invece in « quel profitto che il prIncipe e lo Stato traggono dalla lentezza con cui la moltitudine cambia la connessione delle idee intorno ai prezzi delle merci e della moneta ». Si ha l'« alzamento particolare », quando la sproporzione tra due sorta di monete induce varietà nei prezzi, congela una parte di moneta e ritorna a vantaggio dello straniero, perché la moneta migliore viene esportata. Invece con l'« alzamento generale » si ha disparità fra i prezzi antichi delle merci e quello della moneta, ma con il cambiamento di tutti i prezzi l'alzamento si medica da se. Tre grandi utilità possono venire al principe e allo Stato dall'alzamento delle monete: soccorrere a gravi bisogni pubblici, saldare i debiti, scemando il peso dei tributi. Nel paragonare l'alzamento al fallimento Galiani accentua i soli vantaggi che esso presenta con la distribuzione del danno su tutta la cittadinanza.

L 'ultimo libro tratta della quantità della moneta circolante e della velocità della circolazione. G. mostra come la quantità della moneta non crea ricchezza, ma contribuisce solamente ad accrescerla, agevolando gli scambi. La velocità è considerata effetto e non causa della ricchezza. La quantità della moneta deve corrispondere ai bisogni effetti,i del mercato e deve variare secondo che il territorio sia fertile o no. II molto denaro è inutile se lo si tiene, ed è dannoso se lo si spende. « Finche tanto metallo rimane tra noi, non saremo ne più ricchi, ne meglio agiati ». II troppo denaro è di danno alla popolazione, perché fa aumentare i prezzi dei viveri e dei manufatti e favorisce l'emigrazione dei cittadini. Così G. conclude che la ricchezza non consiste nei metalli preziosi, come era considerato dai mercantilisti, ma « nel possesso di alcuna cosa che sia più desiderata da altri che dal possessore »; essa è un rapporto fra due persone. Lo Stato prospera ovunque abbondi l'uomo, che rappresenta esso stesso una « lucrosa mercanzia ». L'oggetto della cura deve essere l'uomo e lo Stato deve curare l'aumento della popolazione. G. è più profondo e più moderno degli altri mercantilisti, le sue vedute sulla ricchezza, sulla moneta e sul valore lo pongono antesignano delle teorie moderne, di quella subbiettiva del valore, e di quella dello scambio, basato sull'uguaglianza delle utilità marginali. II trattato si conclude con una pagina che mostra il suo nobile sentire rispetto alla patria e all'umanità.


SOCRATE IMMAGINARIO: nel 1775 il Galiani ideò il Socrate immaginario, capolavoro dell'opera buffa napoletana,che apparve la prima volta quello stesso anno sulle scene del Teatro Nuovo di Napoli, ma, in seguito all'intervento della giunta dei teatri, provocato dal fatto che nel protagonista Tammaro era stata scoperta la caricatura dell'orientalista Saverio Mattei, professore nell'università. Le rappresentazioni furono sospese e furono poi riprese solo nel 1780.

Nel Socrate immaginario ricompaiono i motivi fondamentali della sua attività letteraria multiforme, e soprattutto del suo arguto abituale motteggiare sulla contemporanea Europa. Quest'opera buffa, ideata per soddisfare il piacere di divertirsi intorno ad una forma di ardore irragionevole, è la caricatura di una società letteraria legata al ridicolo e malaccorto indugio negli stretti confini d'un umanesimo attuato come sforzo erudito verso un mondo concluso e governato da leggi dogmatiche apprese nei libri antichi. Che poi si diriga a Saverio Mattei o ad un altro studioso napoletano del tempo, non importa. Il Socrate colpisce un costume letterario che si perpetua i taluni aspetti. Nella concezione dell'autore, Tammaro dovrebbe apparire un don Chisciotte della cultura. Tammaro è innamorato della Grecia. « Io per Atene mi farei scannare », afferma, e veramente per Atene egli si convince perfino a bere la ciucuta. Ma, come dimostra lo sviluppo della vicenda, egli è legato a tale mania della comune disgrazia, da una vera demenza. Le sue letture di Diogene Laerzio potrebbero far credere di trovarci dinnanzi ad un erudito, mentre poi apprendiamo che, anche al di fuori della modestia socratica di cui ogni tanto fa protesta, egli è veramente quell'asino che di ce di essere, e che « in quattordici anni non passò alla scuola i deponenti ». Spiegare allora il peccato originale delle letture filosofiche è un po' difficile. Pure quest'uomo ha deposto la sua personalità comune per appropriarsene un'altra. I tentativi della mogli Rosa e di altri per farlo ritornare da Socrate a Tammaro rimangono vani, scontrandosi in una remissiva ostinazione. L'immaginario Socrate sovrasta comunque gli altri, anzi a parecchi impone la propria mania. Crea una condizione che si modula preannunziando, benché assai vagamente alcuni contrasti dell' Enrico IV di Pirandello, e quel senso di soggezione che il protagonista ispira ad alcuni nel gioco della finzione e del volersi rinchiudere nel giro di un momento storico passato e ben definito da una tradizione convenuta.



































BIBLIOGRAFIA

L'opera di maggior rilievo è sicuramente il trattato Della Moneta, pubblicato a Napoli nel 1751 con la data del 1750, anonimo perché, come disse più tardi, « un abominevole abuso invalso fa che tutti vogliono .i libri in dono dal loro autore. Chi dona un libro lo perde, chi lo nega perde un amico; quindi per salvare i libri e gli amici li stampavo senza il mio nome. Così potevo anche dallo spaccio inferire in qualche modo il merito del libro, essendo certo che quell'edizione che si sarà tutta venduta si avrebbe potuto tutta donarla, mentre non è sicuro del pari che quella che si è donata si avrebbe potuto vendere tutta » (cfr. la raccolta di aneddoti di R. PALMAROCCHI, P. G. e il suo secolo, Roma, 1930, pp. 46-47); una seconda edizione del trattato, curata dallo stesso Galiani che vi fece interessanti aggiunte, uscì a Napoli -nel 1780 : delle successive edizioni (Milano, 1803. 1831, ecc.) la migliore è quella curata da F. NICOLINI, Bari, 1915. Ancora al primo gruppo appartengono l'orazione Delle /odi di papa Benedetto XIV, Napoli, 1758, ristampata nel 1781 e nel 18~5, e i Dialogues sur le commerce des blis, pubblicati a Parigi (ma datati Londra, 1770) dal Diderot e dalla d'tpinay, più volte tradotti in tedesco: ristampe gerlino, 1795, Milano, 1803, Parigi, 1845; pure notevole è il trattato Dei doveri dei prìncipi neutrali verso i prìncipi guerreggianti e di questi verso i neutrali, Napoli, 1782, tradotto anche in tedesco. Al secondo gruppo appartengono gli StudI oraziani: sotto questo titolo vanno due lavori, entrambi incompiuti, del G, : del primo, in francese, che fu cominciato a Parigi nel 1764, il G. pubblicò solo qualche stralcio nella « Gazette litteraire d'Europe » (voll. V, VI e VIII) e alcuni saggi più ampi nelle Oeuvres d'Horace traduites par MM. Campenon et D'Espris, accompagnies du commentaire de l'Abbi G. (Paris, 1821); il secondo, in italiano, cominciato verso il 1775 e rimasto in forma frammentaria, ha avuto soltanto qualche parziale edizione (v. le antologie segnalate più avanti); oltre agli Studi oraziani notevoli sono il trattato Del dialetto napoletano, Napoli, ] 779 (una seconda edizione uscì postuma nella CoIIezione di tutti i poemi in lingua napoletana del Porcelli, Napoli, 1789, ma molto migliore è la nuova edizione curata da F. NICOLINI, Napoli, 1923, con ampio corredo di note), e la commedia Socrate immaginario, pubblicata e rappresentata al Teatro Nuovo di Napoli nql 1775 (nume- rose le ristampe: Napoli, 1809 -in Opere teatr. di G. B. LORENZI, voI. IV -, e 1825; Milano, }826; Venezia, 1840; Milano, 1886; Roma, 1886; Torino, 1943, ecc.). Il terzo gruppo si divide a sua volta in due sottogruppi, costituiti .il primo dalla corrispondenza del Galiani col Tanucci, di notevole interesse storico, di cui si hanno diverse edizioni parziali: cfr. le Ottantasei lettere inedite dell' abate P. G. al marchese E. Tanucci (m3 sono soltanto 30 lettere, dallO maggio 1759 al 7 aprile }760) in « Il Paese », Napoli, 1869, pp. 29-67 e 101-117; le Lettere di P. G. al marchese E. Tanucci (sono 176 lettere scelte senza ordine) a cura di A. BAZZONI. Firenze, 1880 ( estr .dal!' « Arch. Stor. Ital. », ss. III e IV), ecc.


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