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Ugo Foscolo il poeta italiano nella cui vita e nelle cui opere si avverte l'eco più profonda ed originale della tumultuosità di idee (crisi dell'Illuminismo, Neoclassicismo, Romanticismo) e di avvenimenti (predominio militare francese, coalizione delle potenze europee, Restaurazione) che caratterizza l'Età napoleonica e quella immediatamente seguente.
Con lui la letteratura italiana esce dal chiuso di una vita autonoma e provinciale e rientra ne1 consesso delle grandi letterature moderne.
Foscolo si ricollega ad Alfieri per l'ideale eroico della vita, ma si contrappone all'astigiano, che vagheggiava astrattamente questo ideale, per una concreta e consapevole valutazione della realtà presente, in virtù della quale preferì, allo sdegnoso ripiegamento su se stesso, l'appassionata partecipazione alle vicende politiche della patria (a differenza di poeti Neoclassici come Monti), con la certezza di chi intravedeva nell'azione l'unica possibilità, per il singolo, di realizzare completamente la sua personalità umana; per l'Italia, di procedere ad una fattiva ricostruzione dell'indipendenza nazionale.
Dell'Illuminismo accolse, sul piano teoretico, la concezione meccanicistica della realtà naturale (tutti i fenomeni si presentano c ordinati da strette leggi di causalità), ma nel contempo, in aderenza alle dottrine romantiche, avvertì l'esigenza di superarla poeticamente attribuendo alla vita ed all'azione, una finalità che sconfina nel mito delle illusioni (amore, bellezza, patria, poesia, eroismo, immortalità).
La vita terrena acquista così per lui il significato di « dovere » e di «conquista»: come uomo non intristisce, al pari di Leopardi, nella ricerca di una fredda e logica dimostrazione del male e della vanità del mondo, ma si redime dalle sue debolezze morali e dalla pessimistica visione della propria e dell'altrui infelicità cercando nei grandi ideali quel conforto e quel rifugio che il Manzoni riporrà nella fede; come poeta, conscio della fugacità delle cose terrestri, travolte da una « forza operosa » a lui ignora, scopre l'esistenza di un mondo superiore, quello della poesia, in cui l'umano può prendere forma di eterno, le passioni comporsi in armonìa di immagini e di sentimenti, le illusioni tramutarsi nella «unica realtà possibile all'uomo». A questo regno della poesia giunge per intima necessità, perché esso assume per lui il valore di «vertice » della vita spirituale, così che il suo canto diventa una « missione eroica », una specie di «messaggio » alle età future, nel quale la ricomparsa degli antichi miti non è più fine a se stessa (come lo è per altri poeti Neoclassici) ma, atteggiandosi romanticamente, offre il più bell'esempio del come la soggettività e la interiorità del poeta possano trasformare e vivificare una materia dominata fino allora da artificiosi princìpi estetici.
Concepita in tal modo, la poesia foscoliana assurge ad inusitate forme artistiche che traggono origine dalla modulazione sempre attenta e sempre eloquente del verso o del periodo, dalla potenza affettiva o pittorica del sentimento, della fantasia, da una sintesi di Neoclassicismo e di Romanticismo, la quale raggiunge nelle Grazie la sua più perfetta espressione.
La vita di Ugo Foscolo è la vita-tipo del poeta romantico: nato a Zacinto, allora colonia Veneziana, nel 1778, si trasferisce nel 1793, a Venezia e si trova subito coinvolto nel clima di rinnovamento che la rivoluzione francese e il giacobinismo avevano creato.
Dal punto di vista più propriamente letterario e intellettuale, si forma nei salotti illuministi attorno ai quali ruotano personaggi come Pindemonte, Bettinelli e Cesarotti, che rappresentano la crema della cultura illuminista dell'Italia dell'epoca. Contemporaneamente, comincia il suo percorso politico che, nel momento in cui Napoleone cominciava ad esportare in Europa le idee della rivoluzione Francese, non può che essere all'insegna del giacobinismo.
Ne sono una testimonianza le due opere del 1797, l'ode A Bonaparte liberatore e soprattutto la tragedia Tieste, che gli procurerà un certo successo di pubblico nonché indagini sul suo conto da parte della polizia, fino a dover fuggire a Milano all' indomani del trattato di Campoformio. L'anno successivo lo troviamo a Bologna, dove si arruola nella guardia nazionale e comincia a scrivere Le ultime lettere di Jacopo Ortis, che verranno stampate nello stesso periodo, in un'edizione riveduta e completata da un certo Savoli.
Gli anni successivi li divide tra l'impegno nell'esercito napoleonico e il girovagare per l'Italia a seguito di vari incarichi amministrativi che gli vengono affidati (nel 1799 combatte prima a Cento e poi a Genova, nell'anno successivo è a Milano e poi a Firenze). Sono anche anni di intensa maturazione personale e letteraria: del 1800 è l'ode A Luigia Pallavicina caduta da cavallo, del 1802, l'ode All'amica risanata, le Poesie, che comprendono le due odi più dodici sonetti, tra cui i famosissimi Alla sera, A Zacinto, In morte del fratello Giovanni. Quasi contemporaneamente, nel 1802, esce la prima edizione delle Ultime lettere di Jacopo Ortis. L'esilio, le speranze che Napoleone aveva fatto nascere, la nuova sensibilità nei confronti della vita e dell'amore: gli elementi del percorso che Foscolo ha seguito fino a questo punto ci sono tutti, così come nel percorso di tutta la sua generazione che finirà per riconoscersi in questo romanzo.
Negli anni successivi (dal 1804 al 1806) è in Francia al seguito dell' armata, che sta progettando l'invasione dell'Inghilterra, e inizia a tradurre Il viaggio sentimentale di Sterne . Si tratta della fine definitiva della sua adesione agli ideali napoleonici; gli anni successivi saranno tutti improntati alla critica e al ripensamento di questo periodo.
I Sepolcri escono nel 1807; nell'anno successivo ottiene la cattedra di eloquenza all'università di Pavia, ma non è più in linea con la politica di Napoleone, e la cattedra viene soppressa. Nel 1809 rappresenta l'Aiace alla scala, tragedia ritenuta antinapoleonica e che dunque viene vietata, al Foscolo non resta che ricominciare la sua carriera di perseguitato politico nell'impero Napoleonico che ha tradito i suoi ideali. Nel periodo seguente scrive il suo ultimo capolavoro (Le Grazie, nel 1812), e segue le alterne vicende dell'impero fino a Waterloo, quando l'Austria, che ha ottenuto il Lombardo-Veneto, chiede agli ex ufficiali Napoleonici il giuramento di fedeltà.
Foscolo si rifiuta e abbandona, per sempre l'Italia, rifugiandosi prima in Svizzera e poi in Inghilterra. Comincia così il periodo più difficile della sua vita, nel corso del quale riscrive l'Ortis (pubblicato, nella sua versione definitiva, nel 1816) e vari saggi di letteratura Italiana per riviste Inglesi, unico modo, insieme ad alcune lezioni private di Italiano, per mantenersi da vivere. Va avanti così fino alla morte, nel 1827, nei pressi di Londra, a Turnham Green.
Arcadico e privo di originalità fu il primo avviamento foscoliano alla poesia: fonte d'ispirazione degli inni, delle elegie, delle odi composte nei primi due anni è in prevalenza l'amore, ma un amore ancora configurato letterariamente.
La comparsa del tema della morte segna il punto di partenza di un processo evolutivo nella giovanile poesia del Foscolo, che, da imitativa, comincia ad apparire soggettiva.
Ne sono elementi dominanti il primo turbamento spirituale ad opera di una sincera passione amorosa, quella per la Teotochi; una maggiore sensibilità di fronte alla Natura, non più idillicamente serena, ma partecipe della sua solitudine e della sua malinconia; il fervore giacobino e patriottico, che si esprime in retorici accenti alfieriani. Leggendo le Rimembranze, gli sciolti Al sole, l'ode A Bonaparte liberatore, le cose migliori di questo secondo periodo, si ha l'impressione che il poeta dia ascolto a se stesso più che alla convenzionalità scolastica, alla propria tristezza che ai ricordi letterari, alla tendenza contemplativa del suo spirito ed all'entusiasmo politico del rivoluzionario più che alla imitazione di modelli italiani e stranieri. Comincia cioè a fare la sua prima comparsa quella personalità poetica destinata a prendere il `sopravvento su ogni altro ricordo od atteggiamento letterario. Questo breve ciclo della formazione poetica del Foscolo si conclude con il Tieste, tragedia in cinque atti di argomento classico piegato a fini patriottici. Nel drammatico contrasto fra Atreo, che incarna la fredda ragione di stato e l'ambizione sfrenata di potere, e Tieste, l'esule ribelle al quale il fratello spietato e violento ha tolto il regno, non si avverte soltanto una esteriore derivazione alfieriana, ma una impetuosa passione politica che induce il giovane giacobino a gridare morte ai tiranni. Foscolo giudicò in seguito questa tragedia un "pasticcio teatrale" perché ricolma di tutti i difetti della poesia giovanile, ma con essa noi siamo già alle soglie del suo primo capolavoro, le Ultime lettere che tanta risonanza ebbero in Italia e fuori d'Italia e che possono essere considerate il rimo romanzo italiano moderno.
Poche opere letterarie hanno subìto, nella loro ideazione e composizione una storia così romanzesca: essa va dal primo abbozzo Laura, lettere, alla Vera storia di due amanti infelici, del 1799, titolo abusivamente attribuito da certo Angelo Sassoli che per incarico dell'editore Marsili di Bologna aveva portato in qualche modo a termine il romanzo bruscamente interrotto dal Foscolo per l'avvicinarsi vittorioso degli Austro-Russi, all'edizione pressoché definitiva del 1802, a Milano, con il titolo di Ultime lettere di Jacopo Ortis, all'edizione zurighese, del 1816, nella quale viene riportata per la prima volta la lettera del 17 marzo, all'ultima edizione di Londra, del 1817.
Trama:
Dopo la cessione di Venezia all'Austria, Jacopo si rifugia sui Colli Euganei: qui conosce Teresa e se ne innamora, ma essa è già promessa al ricco Odoardo. Jacopo non tarda a comprendere che la fanciulla non è felice e che il matrimonio le è imposto dal padre per ragioni economiche,: sogna di poter trovare corrispondenza nel cuore della donna amata; ma allorché si rende conto della irrealtà di questa sua illusione, abbandona i Colli Euganei e va ramingo per diverse regioni d'Italia, a Firenze, a Milano, nella valle del Roja, a Ravenna, quasi in doloroso pellegrinaggio.
Rientra, infine, disperato nel Veneto, rivede Teresa ormai sposa di Odoardo, corre a Venezia a riabbracciare la madre, quindi, riportandosi sui Colli Euganei, si uccide con una pugnalata al cuore. L'amico Lorenzo provvede a farne seppellire il corpo sul monte dei pini » ed a pubblicare le sue lettere
Come storia d'amore, l'opera rientra nel quadro di una particolare letteratura sentimentale di fine secolo che aveva avuto nella Nouvelle Héloϊse di Rousseau e ne I dolori del giovane Werther del Goethe (romanzi epistolari definiti "di formazione") la sua migliore espressione: il suicidio del protagonista rappresenta, per Foscolo, adolescente ed inquieto, la soluzione naturale di un amore ossessivo, incapace di prolungarle la sofferenza derivante dalla irrealizzabilità del bene desiderato.
Tuttavia Jacopo, a differenza di Werther, è un personaggio più statico, non evolve nel corso del romanzo. Altra differenza sostanziale, come vedremo, è data dall'elemento politico (assente negli altri)
La natura perde la sua tradizionale funzione decorativa per assumere romanticamente, via via, le diverse tonalità sentimentali di chi vi si riflètte come in uno specchio (aspetto preromantico).
Nella formulazione esteriore, talora si avverte, scorrendo le descrizioni della luna, del salice piangente, dell'alba, del tramonto, la presenza di ricordi letterari, classici o romantici, ma se non ci si sofferma sulla, precisazione del particolare, o sul pittoresco del disegno, si ravvisa un indefinito senso del divino e dell'armonia dell'universo che sconfina in un altrettanto indefinito panteismo. Di questa romantica religiosità rimarranno tracce inconfondibili nella susseguente produzione foscoliana.
L'Ortis, tuttavia, non sarebbe riuscito un libro di confessioni se, ripresolo e rielaboratolo dopo l'esperienza militare, Foscolo non avesse sovrapposto, all'originario romanzo di una passione amorosa, il «diario » della sua delusione politica.
Jacopo non è più così un fantasma della sua immaginazione letteraria, perde la sua identità personale ed assume in tutto e per tutto, quella di Foscolo, tanto che potrebbe addirittura mutare il proprio nome in quello di Ugo: il poeta e Jacopo subiscono quindi un'identificazione, ma Ortis resta pur sempre un personaggio di finzione, quindi sarebbe errato affermare che l'Ortis è un romanzo autobiografico.
Nell'atteggiamento politico di Jacopo è facile scorgere lo stesso dramma spirituale di tutti gli eroi alfieriani, dramma implicito nella coscienza dell'impossibilità dell'azione vagheggiata. A1 giovane che sotto i tigli di Porta Orientale grida fremente "Ché non si tenta ? morremo ? ma frutterà dal nostro sangue il vendicatore", risponde con pacata rassegnazione il vecchio Parini: « E pensi tu, che s'io discernessi un barlume di libertà mi perderei, ad onta della mia inferma salute, in questi vani lamenti ? ». Ma l'accettazione filosofica è propria della saggezza senile, non dell'impetuosità giovanile che aspira soltanto all'eroismo. Ed eroe Jacopo vuol essere, incalzato dal demone patria-amore, ma soprattutto costretto da una ferrea logicità alfieriana: ai disperati affetti, unico placamento è la morte
La sua rinuncia alla vita procede da lirica tensione verso la libertà, anzi che da scettica negazione dei valori umani.
Letterariamente ed umanamente era necessario che Foscolo conducesse all'esasperazione i motivi più cupi «dell'umano disinganno » per comprendere che non si possono distruggere i valori più sacri della vita: placatasi la giovanile tumultuosità del sentimento, saranno il mito della bellezza rasserenatrice, nel quale l'ansia della passione si compone attraverso luminose immagini di donne e di paesi, il mito della tomba, fonte non più di disperazione, ma di celeste « corrispondenza d'amorosi sensi » e di incitamento ad «egregie cose », il mito stesso della poesia, che torna a riprendere il suo alto ufficio di celebrazione dell'umano eroismo e delle patrie-virtù, a suggerire i temi delle Odi, dei Sepolcri, delle Grazie.
Jacopo, morendo, si colloca letterariamente accanto al Werther del Goethe, ma la sua fine segna l'inizio della più feconda lirica foscoliana (vedi in seguito la differenza tra Sonetti minori e maggiori, non a caso divisi cronologicamente proprio dalla stesura definitiva dell'Ortis, conclusione di una fase artistica, da cui la notevole differenza tra i primi sonetti e i 4 successivi)
Nello stesso tempo in cui Jacopo rivivèva passionalmente le delusioni amorose e politiche di Ugo, questi veniva fissando nei Sonetti le più intense vibrazioni del suo mondo interiore: alcune di esse hanno in comune la tumultuosità dei sentimenti ispiratori del romanzo, e danno vita agli otto sonetti dell'edizione pisana del 1802; altre si risolvono in immagini di composta e serena bellezza, ed animano i quattro sonetti Maggiori che completano le due edizioni milanesi del 1803 ; tra i due gruppi vi è qualcosa di più del non ampio spazio di tempo che li divide, vi è la redazione definitiva dell'Ortis.
Tra i primi si segnalano quelli ispirati dall'amore per la Concioni (E tu ne' carmi, Perché taccia, Così gli interi giorni, Meritamente): si avverte in essi una maggiore scioltezza di ritmo, una più sincera risonanza di moti affettivi, un lirismo nuovo che separa questi, dai versi giovanili.
Di gran lunga superiori gli ultimi otto: Alla Musa, A Zacinto, In morte del fratello Giovanni, Alla sera.
In essi forma e contenuto costituiscono una cosa sola, ed il poeta, innalzandosi al di sopra del tumulto delle passioni, esprime liricamente sentimenti di valore universale: a ragione sono annoverati fra i più belli della letteratura italiana.
Invocazione appassionata alla poesia che ne allietò l'adolescenza, è il primo; poesia di-contemplazione, quella degli altri tre, sia che il Foscolo evochi l'immagine dell'isola natìa, inserita in un quadro di luminose bellezze naturali ed in una commossa rievocazione della mitologia; della leggenda, della poesia greca; sia che, vagheggiando la speranza di un mesto pellegrinaggio sulla tomba del fratello, si abbandoni alla suggestiva e possente visione della madre dolente che al figlio morto parla del figlio lontano; sia ancora che, nella serena pace della sera, si diletti a vagare dolcemente con i suoi pensieri "su 1'orme che vanno al nulla eterno".
Ancor prima, però, che il Foscolo giungesse nei sonetti «maggiori » a contemplare la vita e la morte congiunte nell'immagine del sepolcro, era balenato a1 suo spirito il mito della Bellezza come elemento ristoratore dell'umana sofferenza.
Era il mondo neoclassico che tentato di descrivere all'amico Lorenzo in una lettera memorabile ("Beati gli antichi che si credeano degni de' baci delle immortali dive del cielo; che sacrificavano alla Bellezza ed alle Grazie; che diffondevano lo splendore della divinità su le imperfezioni dell'uomo, e che trovavano il Bello ed il Vero accarezzando gli idoli della fantasia!").
Primo frutto di questa ispirazione neoclassica, che per ora si colloca in posizione parallela, e non antitetica od evolutiva rispetto a quella romantica dell'Ortis e dei Sonetti, è l'Ode A Luigìa Pallavicini caduta da cavallo, composta a Genova nel 1800. Ne è apparentemente soggetto l'infelice caso occorso ad una avvenente gentildonna ligure, disarcionata da un infedele corsiero; in realtà è un inno all'amabile e voluttuosa bellezza femminile, a liberare la quale dalla sua fragilità e caducità non vi è che un mezzo: divinizzarla. E dea la Pallavicini diventa, non per gioco di galanteria settecentesca, ma perché la sua trasposizione nel mondo delle Grazie e di Venere, di Pallade e di Diana, è operata attraverso il caratteristico procedimento che alle dee attribuisce atteggiamenti e sentimenti umani, alla donna mortale movenze e grazia divine, così da annullare, come nell'antica poesia greca, ogni linea di demarcazione fra l'eterno ed il transeunte, assecondando l'illusione di vivere, sia pure per brevi istanti, nell'atmosfera del mito.
Strettamente congiunta a questa è l'altra ode, All'amica risanata, perché presenta lo stesso stato d'animo verso la bellezza muliebre; il processo "magico-poetico" della sua divinizzazione è però qui più chiaramente delineato, identificato com'è nella potenza eternatrice della poesia, uno dei grandi motivi della lirica foscoliana. Alla precedente trepidazione per la bellezza minacciata, succede ora l'esultanza per la bellezza che risorge: l'immagine della Fagnani Arese, più bella che mai dopo la breve parentesi del male, resa ancor più affascinante dai mille oggetti che ne mettono in luce la sovrumana bellezza (i monili, i candidi coturni, gli amuleti, il facile bisso, le trecce nitide per ambrosia recente, l'aureo pettine, la rosea ghirlanda).
La Bellezza è immortale, quando è fatta oggetto di canto dalla poesia: donne mortali erano Artemide, Bellona, Afrodite; esse entrarono nelle regioni luminose _del mito perché cantate dai poeti greci; ma Foscolo appartiene, per nascita, al mondo dell'Ellade, cosicché, « pien del nativo aer sacro », e superando ogni avversità del presente, eterna in una perenne immagine di bellezza l'amica milanese.
Dalla pubblicazione dei Sonetti e delle Odi e la composizione dei Sepolcri, intercorrono tre anni che potremmo definire, rimanendo nel campo della poesia, di silenzio meditativo che prelude al capolavoro.
Oltre alla traduzione della Chioma di Berenice, di Callimaco, procedette ai primi tentativi di volgarizzazione dell'Iliade, stese un abbozzo di poema sull'Oceano, indirizzò un'epistola a Monti e progettò di tracciare una «Storia della letteratura in Italia dalle rovine dell'impero d'Oriente ai dì nostri», ma della quale scrisse solo un frammento, 1'Inno alla Nave delle Muse.
Tutto ciò servì ad allontanarlo in maniera definitiva dall'autobiografismo delle opere giovanili, ad affinare nella sua arte l'eleganza descrittiva e la raffinatezza formale con una prima sintesi della passionalità romantica e della compostezza classica, a popolare la sua tormentata solitudine con le figure degli antichi eroi omerici, particolarmente di quelli a lui più vicini, per la brevità ed infelicità della loro eroica esistenza (Achille, Aiace).
I duecentonovantacinque versi sciolti dei Sepolcri furono scritti di getto negli ultimi mesi del 1806 e pubblicati a Brescia nell'aprile del 1807.
A nessuna delle cosiddette "cause occasionali" può essere attribuita un'importanza tale da infirmare 1'originalità del carme: ferma restando la conversazione con Pindemonte, a Venezia. sul tema dei « sepolcri domestici », Foscolo nulla sottrasse al poeta veronese, che nel progettato poemetto I Cimiteri pensava di mettere in rilievo l'importanza spirituale e religiosa delle tombe in opposizione alle teorie materialistiche del tempo.
Comparso il 5 settembre del 1806 sul Giornale ufficiale italiano il decreto napoleonico sui cimiteri (editto di Saint Cloud, per il quale i cimiteri dovevano essere posti fuori dalle mura cittadine, per ragioni igieniche, e le lapidi dovevano essere uguali per ragioni egualitarie) e divenuto esecutivo in tal modo in Italia, Foscolo scriveva il giorno seguente alla non mai dimenticata Teotochi Albrizzi di avere già pronta «una epistola sul Sepolcri da stamparsi lindamente ».
Rispondendo infine ad un critico francese, l'abate Silvestro Guillon, ancora Foscolo precisava la sua posizione di fronte alla letteratura sepolcrale settecentesca (di questa è sufficiente ricordare la Notti di Joung e le Notti romane di Alessandro Verri, l'Elegia sopra un cimitero campestre di Gray):
« Joung ed Hervey meditarono sui sepolcri da cristiani: i loro libri hanno per iscopo la rassegnazione alla morte e il conforto d'un'altra vita. Gray scrisse da filosofo: la sua Elegia ha per scopo di persuadere l'oscurità della vita e la tranquillità della morte, L'autore (vale a dire il Foscolo stesso) considera i seplocri politicamente, ed ha per iscopo di animare l'emulazione politica degli italiani con l'esempio delle nazioni che onorano la memoria e i sepolcri degli uomini grandi ».
Anziché la sollecitazione esterna, il Carme è quindi da ascrivere ad improvvisa confluenza, per una causa occasionale, di tutti gli "affetti" della precedente esperienza umana del poeta:
dagli aspetti altamente passionali dell'Ortis a quelli tristemente o serenamente contemplativi dei Sonetti e delle Odi.
Tali affetti sono identificabili nel senso della morte, nei miti della patria e della bellezza, nel vincolo dell'amicizia, si ricongiungono ora, di fronte ad una rinnovata immagine del sepolcro, in un desiderio confinato di sopravvivenza al nulla eterno e superamento dei freddi confini della materia.
Già nelle Ultime lettere il sepolcro aveva rappresentato per Jacopo, oltre che l'alfieriana soluzione al suo dramma di esule, la speranza di un costante ricordo da parte della donna amata; nei Sonetti maggiori l'immagine del sepolcro e della morte aveva rappresentato un'oasi di serenità.
La trasposizione del mondo terreno nel regno della fantasia, operata nelle Odi, aveva fatto balenare alla mente di Foscolo la possibilità di annullare i confini del tempo e di far dono della immortalità alla bellezza della donna.
Si aggiunga che, negli anni immediatamente precedenti, il poeta aveva fortemente sentito l'influsso delle teorie vichiane (perenne continuazione, nel tempo, di quanto hanno fatto, gli uomini in ordine allo sviluppo della civiltà) e che il culto della patria si era venuto man mano trasformando, nel suo spirito, in culto delle tradizioni nazionali, civili, letterarie: il mito della immortalità, intesa come sopravvivenza nella memoria dei viventi, non gli apparve perciò quale improvvisa folgorazione, ma come conseguente proiezione dell'eroe, dell'uomo di magnanimi sensi, del letterato, in una parola, del superuomo alfieriano, nel tempo futuro.
Questa immortalità aristocratica ed umana dei grandi spiriti (concezione erorica) ubbidisce al desiderio di infrangere la fredda legge della morte creando, in opposizione all'arido materialismo del Settecento, una nuova religione dello spirito, che pone la sua fede nelle illusioni, il suo tempio nel pantheon ove sono accolte le glorie nazionali (Santa Croce a Firenze), i suoi sacerdoti nei poeti che celebrano i grandi del passato e del presente: il ricordo di questi, grazie ad essa, rimarrà imperituro nella tradizione dei popoli «finché il sole risplenderà sulle sciagure umane ».
Il carme si apre con una domanda retorica ("All'ombra dei cipressi e dentro l'urne/confortate di pianto è forse il sonno/ della morte men duro?..") cui segue un'introduzione che ricalca la prima posizione assunta da Foscolo, nella disputa con Pindemonte, nei confronti dell'Editto napoleonico. E' la parte più pessimistica, in quanto egli riafferma la propria concezione materialistica e meccanicistica dell'esistenza: che senso ha avere un sepolcro, una lapide, dal momento che la morte è la fine di tutto, è il nulla eterno?
Ma dal "vero è ben, Pindemonte" (v. 16) il discorso si solleva: è vero che meccanicisticamente il tempo distrugge e trasforma tutto, ma perché l'uomo deve togliersi l'illusione di sopravvivere alla morte quando è ancora in vita? (si badi bene, l'illusione di sopravvivere, quindi la concezione foscoliana resta sempre e comunque materialistica: il ripensamento circa le sue posizioni iniziali riguarda solo l'utilità dei sepolcri, non la sua concezione della vita in senso materialistico).
Di qui le 4 giustificazioni dei Sepolcri, illustrate nel corso del carme:
Sentimentale (vv 23 - 90)
Storica e civile (vv 91 - 150)
Eroica e patriottica (vv 151 - 212)
Poetica (vv 213 - 295)
Il sepolcro assume la funzione di suscitare nei superstiti quella "corrispondenza di amorosi sensi" che li illude di continuare a vivere con gli estinti. Attraverso le "pietose cure" che i familiari avranno dei suoi resti l'uomo potrà coltivare l'illusione di sopravvivere alla morte, perché gli sopravvivranno quei sentimenti che lo legavano ai suoi congiunti in vita. Questo, ossia la "corrispondenza di amorosi sensi", è però possibile solo a condizione che: si abbia sepoltura in patria, si abbia una lapide che consenta di distinguere la propria sepoltura da quella di altri, si abbia un albero amico a consolare con il suo verde perenne la tomba, si lascino affetti (vv. 29 - 50). In tal senso quindi Foscolo critica l'Editto napoleonico, che prevede che i cimiteri siano distanti dai propri cari (ma non è da considerare un punto di grande rilievo in realtà) e soprattutto che le tombe siano anonime e tutte uguali; a tal fine riporta l'esempio di Parini, che morto durante il rientro degli austriaci a Milano, quindi morto in patria, non ha però potuto avere degna sepoltura (vv 51-69). Immagina che Talia, musa della poesia satirica, cerchi disperatamente il suo poeta e sacerdote tra i resti di altri estinti (vv. 70 - 90), e non riesca a trovarlo, non essendovi una lapide che consenta di individuarne la sepoltura. E' questa la parte più controversa dei Sepolcri, per gli elementi macabri tipici della poesia notturna e sepolcrale. Si noti come, benché di formazione ancora illuministica, Foscolo superi l'egualitarismo in funzione di una concezione eroica: non è giusto, a suo avviso, che tutte le tombe siano uguali e che un grande come Parini sia stato sepolto, magari, insieme ad un comune ladro (vv. 75 - 77).
Da un punto di vista storico e civile i sepolcri hanno una loro importante funzione: sono indice di civiltà e testimoniano la storia di un popolo, incivile è un Editto che ne impedisca la realizzazione. Questa seconda parte è quella più "vichiana".
Se l'affetto per i propri congiunti ha alimentato il culto dei morti come religione, l'amore per la patria a sua volta spinge questa religione a livelli ancora più alti: ecco perché in paesi come l'Inghilterra le giovani donne (vv 129 - 136) si recano nei cimiteri a pregare i propri defunti per la sorte dei propri eroi (come Nelson).
Vi è una duplice contrapposizione:
cimitero-pavimento (vv 104 -114) del culto cristiano, culto che alimenta il timore della morte ed è descritto con toni cupi e macabri;
cimitero- giardino (vv 114 -129) del culto pagano, che propone una visione più serena della morte stessa e favorisce quindi proprio quella "corrispondenza di amorosi sensi" che permette la sopravvivenza attraverso il ricordo.
E Cimitero- giardino è anche quello Inglese: la seconda contrapposizione riguarda infatti l'Inghilterra (vv 129 - 136), paese in cui è ancora vivo il valore civile e l'amor patrio e l'Italia, dove "dorme il furor d'inclite gesta" (v. 137) e il sepolcro è solo uno sfarzo inutile; dove gli elettori ("il dotto, il ricco, e il patrizio vulgo" v. 143) si disinteressano delle sorti del proprio paese, rinchiudendosi nei palazzi ad adulare i propri "padroni". E' questo un punto di ispirazione pariniana (si ricordi la critica fatta alla nobiltà per il disimpegno civile). Siamo agli antipodi della "corrispondenza di amorosi sensi" per la quale il morto sopravviveva attraverso il ricordo: qui invece coloro che dovrebbero seguire le sorti del proprio paese sono "morti", perché dimenticati, già da vivi.
Foscolo conclude quindi anticipando il tema della parte seguente (vv. 145 -150): prendendo le distanze da quanti aveva criticato per il disimpegno politico e civile, chiede di avere la possibilità di sopravvivere alla morte negli affetti ("corrispondenza di amorosi sensi"), ma anche attraverso l'esempio, per i posteri, di una poesia veramente libera (vedi Alfieri).
Nella terza parte si sviluppa la giustificazione patriottica: è la parte più eroica ed alfieriana. Alfieri stesso fa la sua apparizione come un fantasma che vaga sul Lungarno, pallido e deluso per le sorti del suo paese (vv. 188 -195). Il carme si apre ricordando come le tombe dei grandi accendano l'animo dei più alti intelletti e li spingano a grandi imprese. E pertanto è sacro un luogo come Santa Croce, tempio delle "itale glorie", in cui sono sepolti Machiavelli, Galileo, Michelangelo (vv. 154 - 167, descritti attraverso lunghe perifrasi) e lo stesso Alfieri. Lì dovranno recarsi gli intelletti più coraggiosi a trarre ispirazione per il riscatto dell'Italia, guidando quindi gli altri vv. 186- 188 (concezione eroica). La parte si conclude con la rievocazione della battaglia di Maratona, esempio storico dell'amor patrio dei greci contro i persiani (vv. 199- 201). Si noti quindi come i miti, per Foscolo, diventino esempio per il presente, a differenza dell'imitazione e rievocazione "ornamentale" e sterile di altri poeti Neoclassici. Suggestiva la rievocazione della battaglia di Maratona (sensistica per le immagini e suoni che rievoca), con cui si conclude questa terza parte, ricollegandosi alla successiva (vv. 202 -212: il navigante che passi in quelle zone può ancora oggi avvertirne la suggestività e rivedere con la fantasia le immagini della battaglia) .
Infatti l'ultima parte è introdotta da un riferimento al viaggio in Grecia di Pindemonte, che avrà di certo avvertito la suggestione delle leggende e dei miti ancora fortemente vivi in quelle terre. E si apre con "Felice te!" in contrapposizione al seguente "E me che i tempi e il desio d'onore/ fan per diversa terra ir fuggitivo" (vv. 226 -227), verso simile a quello che troviamo nel sonetto "In morte del fratello Giovanni" ("Un dì, s'io non andrò sempre fuggendo/ di gente in gente.") che esprime la tristezza dell'esilio e la consapevolezza di una sepoltura in terra straniera. Da questa constatazione è introdotta l'ultima giustificazione dei sepolcri (poetica): Foscolo chiede che, se proprio non potrà tornare in patria, almeno possa essere chiamato come "poeta - vate" a celebrare le gesta degli eroi, eternandone il ricordo per i posteri attraverso la poesia.
E' questo il concetto della poesia esternatrice quando il tempo avrà distrutto tutto, anche le tombe, la poesia avrà il compito e il merito di rendere eterno il ricordo ("l'armonia vince di mille secoli il silenzio" v. 234).
Foscolo rievoca, quindi, il mito di Elettra (vv. 241 -253) che chiede l'immortalità a Giove e la sua tomba diventa meta di pellegrinaggio di tanti eroi e delle donne di Troia; della stessa Cassandra che ne aveva previsto, non creduta, la fine. La fanciulla eleva una preghiera, chiede protezione per gli eroi e per i suoi padri, e pronuncia al contempo una profezia: un giorno un cieco, Omero, giungerà sulle tombe degli eroi troiani e vi trarrà ispirazione per la sua opera immortale, eternando le gesta di quei valorosi, tanto che Ettore avrà "onore di pianti" ovunque sia ritenuto sacro il sangue versato per la patria "finché il Sole/ risplenderà sulle sciagure umane" (v. 295).
I punti cardine dei Sepolcri possono essere considerati:
La Morte intesa in senso materialistico, come fine di tutto, come "nulla eterno" può essere sconfitta solo grazie al ricordo, alimentato dalla Tomba. Gli affetti possono così protrarsi anche dopo la morte; la tomba alimenta il culto dei morti che diventa una religione e testimonia la stessa civiltà di un popolo. Le tombe dei grandi, in particolar modo, alimentano l'amore per la patria e spingono a grandi imprese gli animi forti e coraggiosi. Tuttavia il Tempo, meccanicisticamente concepito, distrugge tutto, anche le tombe. Si eleva allora la Poesia ad eternare il ricordo di quei grandi, anche quando le sepolture non ci saranno più, svolgendo un'importante funzione civile per le generazioni future.
Dirà Francesco De Santis, nella sua Storia della Letteratura Italiana: "Quando comparvero i Sepolcri, fu come si fosse tocca una corda, che vibrava in tutti i cuori. E non minore fu l'impressione sui letterati". Era evidente il suo contenuto politico.
Benché apparentemente il tema predominante sia quello della morte, l'opera è alla fine un inno alla vita.
E Benedetto Croce affermerà, infatti: "L'impressione finale non è il distacco dalla vita, ma l'accresciuto amore della vita: pensare, operare, godere e saper morire, affidando se medesimi all'affetto dei cari sopravviventi e ai cuori dei poeti" (B. Croce, Poesia e non poesia, 1935)
In conclusione si ricorda che la forma è sempre rigorosamente Neoclassica, ricca di latinismi e di perifrasi. Il linguaggio accademico è evidentemente di carattere elitario: siamo ancora lontani da finalità popolari (che troveremo a partire dal Romanticismo in poi), così come lo siamo anche da quell'Illuminismo che si proponeva finalità didascaliche.
Foscolo anche in tal senso esprime una concezione aristocratica, non a caso il carme è privo di similitudini (come è stato giustamente notato).
Ai Sepolcri fece seguito un'attività letteraria minore, ma pur significativa
Dopo quattordici anni (il Tieste è del 1797), il Foscolo tornò alla tragedia con l'Aiace, rappresentato alla Scala nel dicembre del 1811: ne è soggetto la contesa per il possesso delle armi di Achille caduto sul campo di battaglia, ma lo spirito animatore déll'azione scenica è accentrato sul contrasto alfieriano tra libertà e tirannide, tra l'eroismo di Aiace e la sconfinata ambizione di Agamennone, che aspira al dominio assoluto della Grecia. Più che di sentimenti antinapoleonici, si può parlare, a proposito dell'Aiace, dell'inizio di quel disimpegno politico del Foscolo, di fronte ad un mondo ormai asservito alla sopraffazione ed alla viltà, che culminerà nelle Grazie.
Tragedia invece d'amore è e di odio è la Ricciarda di due anni posteriore, con la quale il Foscolo passa dal mondo omerico al mondo medievale (aspetto che anticipa il Romanticismo), già rappresentato dall'Alfieri nella Rosmunda: significativa, nell'atto secondo, la fiera condanna del passato e la calda esortazione all'Italia « a far da sé».
Del medesimo anno della Ricciarda è la Notizia intorno a Didimo Chierico che Foscolo premise alla traduzione del Viaggio sentimentale dello Sterne (1813). Nei sedici brevi paragrafi di cui si compone l'operetta, il Foscolo immagina di aver conosciuto questo curiosissimo personaggio, controfigura di se stesso, in Francia, e ne descrive il carattere chiuso e solitario, le passioni illanguidite dal disinganno e da un superiore equilibrio, le predilezioni letterarie, le idee estetiche e politiche (chierico equivale, nell'accezione medievale, a « goliardo vagante »): a lui, attribuisce la sua finissima traduzione.
È da questo Didimo-Foscolo, che si presenta come « 1'anti-Ortis, o per meglio dire l'Ortis sopravvissuto, divenuto letterato, traduttore, commentatore, meglio disposto all'indulgenza verso di sé e gli altri » (M. Fubini); che supera il tono elegiaco e disperato di Jacopo con un atteggiamento distaccato; a volte ironico, a volte umoristico, che nasceranno le Grazie, la realizzazione più alta del movimento neoclassico italiano.
La tendenza a ritirarsi delle proprie vicende per vagheggiare immagini di sogno si era già rivelata nella Odi, ma essa si era manifestata come urgenza artistica a liberarsi dalla triste realtà con l'incanto delle illusioni.
Acquistata con i Sepolcri la certezza che la poesia «riscatta dal dolore e dalla morte », l'animo del avvertì la possibilità di rappresentare i propri affetti facendoli partecipi dell'armonia che scaturisce dall'universo.
Pensò quindi di comporre un poema sulle Grazie, anche dopo aver visto la Venere di Canova e aver saputo che lo scultore aveva in progetto, appunto, un gruppo marmoreo dedicato alle Grazie.
Le grazie sono dee intermedie tra cielo e terra, che hanno il compito di suscitare negli uomini i sentimenti più puri ed elevati attraverso il senso della bellezza, inducendoli a superare la feroce bestialità della loro natura originaria e portandoli alla civiltà
L'idea che bellezza e arte abbiano la funzione di purificare e ingentilire le passioni è un tema caro alla cultura neoclassica.
Inizialmente il poeta pensò di scrivere solo un Inno a Venere, ma il disegno si ampliò in tre Inni. Foscolo lavora all'opera a più riprese senza mai finirla. Pochi sono i frammenti da lui pubblicati in vita; a questi si aggiungono le parti inedite, gli abbozzi, i commenti in prosa, utili per la ricostruzione dell'opera.
La genesi iniziale di questo poema può essere fatta risalire al 1803, quando Foscolo aveva inserito in un commento alla traduzione catulliana della Chioma di Berenice di Callimaco alcuni frammenti del poema, che fingeva di aver tradotto da un inno alle Grazie di un antico poeta greco.
Scrisse una lettera al Monti dove annunciava il progetto di un inno alle Grazie nel quale dovevano essere idoleggiate tutte le idee metafisiche del bello. Il progetto è nella sua fase centrale a Firenze, nel 1812 - 1813, quando Foscolo aveva 34-35 anni ed erano passati 6-7 anni dalla stesura dei Sepolcri. Il poeta lavorò ancora alle Grazie, fino alla morte, rivedendone più volte la stesura. Alcuni brani comparvero in una Dissertazione di un antico inno alle Grazie, pubblicata a Londra nel 1822, ma l'opera rimase incompiuta.
L'opera si articola in tre inni, dedicati a:
Venere, dea della bella natura e che spinge la natura a riprodursi;
Vesta, custode del fuoco eterno che anima i cuor gentili (più venerata a Roma che in Grecia);
Pallade, dea delle arti consolatrici della vita e maestra degli ingegni.
Il primo inno narra la nascita di Venere e delle Grazie dal mar Ionio. Gli uomini subiscono il fascino della bellezza e percepiscono l'armonia dell'Universo disponendosi a coltivare le arti civili.
Nel secondo inno la scena è sui colli di Bellosguardo, in cui vi è un rito a favore delle Grazie fatto da tre donne gentili, Eleonora Nencini, Cornelia Martinetti, Maddalena Bignami, che rappresentano la musica, la poesia e la danza.
Il terzo inno è collocato nell'isola di Atlantide, inaccessibile agli uomini, dove Pallade cerca rifugio quando le loro passioni ferine scatenano la guerra. Atlantide è un mondo ideale di suprema armonia, lontano dai conflitti della storia umana. Pallade fa tessere da una schiera di dee minori un VELO che difenda le Grazie dalle passioni degli uomini. Sul velo sono effigiati i sentimenti più miti ed elevati.
I mutamenti di scena rappresentano il passaggio delle Grazie dalla Grecia, dove nacque la prima forma di civiltà, all'Italia, che raccoglie l'eredità della cultura classica. Il terzo paesaggio rappresenta il potere delle arti sulle umane passioni.
Il tema centrale è l'idea della bellezza serena e dell'armonia.
Foscolo riprende la linea già intrapresa nelle odi portandola alle estreme conseguenze. Dal punto di vista stilistico gli inni si rifanno alle odi. C'è la ricerca di una estrema armoniosità musicale, ben diversa dai Sepolcri, dove si passa da una oratoria passionata alla vibrante tensione dell'inno fino alla solennità dell'epica.
Foscolo vuole aggiungere anche una grande forza di suggestione visiva: la poesia tende ad evocare immagini vivide, plastiche e colorite. A tal proposito è significativo che l'opera sia dedicata allo scultore Canova, il massimo esponente dell'arte neoclassica in Italia.
In queste figurazioni devono prendere posto i concetti: il poeta mira intenzionalmente ad una poesia allegorica. Rivaluta l'allegoria che personificando in figure le idee astratte fa sì che queste agiscano più fortemente e più facilmente sui sensi e sull'immaginazione. I
l vagheggiamento della bellezza, la ricerca di immagini squisite, non devono fare pensare che le Grazie rappresentino la fuga in un mondo di bellezza e di armonia remoto dalla realtà e dalla storia.
Foscolo non abbandona il suo ideale di poesia civile. Riaffiorano rimandi alla realtà attuale, allo scatenarsi delle passioni feroci e degli istinti aggressivi dell'uomo in concomitanza con le guerre imperialistiche di Napoleone.
L'idoleggiamento della bellezza ha senso in riferimento a quel periodo storico libero da tendenze feroci e aggressive, dominato da sentimenti più miti, di pietà, di compassione, di pace. Foscolo è convinto della funzione civilizzatrice della poesia e delle arti, della loro possibilità di agire sul mondo sociale e di renderlo veramente più umano.
A tal proposito si può accennare al problema delle tendenze romantiche e delle tendenze neoclassiche, che non sono contraddittorie, ma nascono da una stessa radice e sono complementari: la radice consiste nel rapporto traumatico con il reo tempo, nella situazione storica convulsa e nei conflitti dell'Italia nell'età napoleonica.
Le tendenze romantiche sono espressione diretta della delusione storica, dei traumi, delle lacerazioni, dei conflitti tra il soggetto e la realtà esterna; le tendenze neoclassiche sono il tentativo di opporre ad essi un mondo alternativo di equilibrio, armonia e bellezza e scaturiscono da una matrice romantica.
Ne parleremo più approfonditamente in seguito.
Da' colli Euganei, 11 Ottobre 1797
Il sacrificio della patria nostra è consumato: tutto è perduto; e la vita, seppure ne verrà concessa, non ci resterà che per piangere le nostre sciagure, e la nostra infamia. Il mio nome è nella lista di proscrizione, lo so: ma vuoi tu ch'io per salvarmi da chi m'opprime mi commetta a chi mi ha tradito? Consola mia madre: vinto dalle sue lagrime le ho obbedito, e ho lasciato Venezia per evitare le prime persecuzioni, e le più feroci. Or dovrò io abbandonare anche questa mia solitudine antica, dove, senza perdere dagli occhi il mio sciagurato paese, posso ancora sperare qualche giorno di pace? Tu mi fai raccapricciare, Lorenzo; quanti sono dunque gli sventurati? E noi, purtroppo, noi stessi italiani ci laviamo le mani nel sangue degl'italiani. Per me segua che può. Poiché ho disperato e della mia patria e di me, aspetto tranquillamente la prigione e la morte. Il mio cadavere almeno non cadrà fra le braccia straniere; il mio nome sarà sommessamente compianto da' pochi uomini, compagni delle nostre miserie; e le mie ossa poseranno su la terra de' miei padri.
13 Ottobre
Ti scongiuro, Lorenzo; non ribattere più. Ho deliberato di non allontanarmi da questi colli. È vero ch'io aveva promesso a mia madre di rifuggirmi in qualche altro paese; ma non mi è bastato il cuore: e mi perdonerà, spero. Merita poi questa vita di essere conservata con la viltà, e con l'esilio? Oh quanti de' nostri concittadini gemeranno pentiti, lontani dalle loro case! perché, e che potremmo aspettarci noi se non se indigenza e disprezzo; o al più, breve e sterile compassione, solo conforto che le nazioni incivilite offrono al profugo straniero? Ma dove cercherò asilo? in Italia? terra prostituita premio sempre della vittoria. Potrò io vedermi dinanzi agli occhi coloro che ci hanno spogliati, derisi, venduti, e non piangere d'ira? Devastatori de' popoli, si servono della libertà come i Papi si servivano delle crociate. Ahi! sovente disperando di vendicarmi mi caccerei un coltello nel cuore per versare tutto il mio sangue fra le ultime strida della mia patria.
E questi altri? - hanno comperato la nostra schiavitù, racquistando con l'oro quello che stolidamente e vilmente hanno perduto con le armi. - Davvero ch'io somiglio un di que' malavventurati che spacciati morti furono sepolti vivi, e che poi rinvenuti, si sono trovati nel sepolcro fra le tenebre e gli scheletri, certi di vivere, ma disperati del dolce lume della vita, e costretti a morire fra le bestemmie e la fame. E perché farci vedere e sentire la libertà, e poi ritorcerla per sempre? e infamemente!
26 Ottobre
La ho veduta, o Lorenzo, la divina fanciulla; e te ne ringrazio. La trovai seduta miniando il proprio ritratto. Si rizzò salutandomi come s'ella mi conoscesse, e ordinò a un servitore che andasse a cercar di suo padre. Egli non si sperava, mi diss'ella, che voi sareste venuto; sarà per la campagna; né starà molto a tornare. Una ragazzina le corse fra le ginocchia dicendole non so che all'orecchio. È un amico di Lorenzo, le rispose Teresa, è quello che il babbo andò a trovare l'altr'jeri. Tornò frattanto il signor T***: m'accoglieva famigliarmente, ringraziandomi che io mi fossi sovvenuto di lui. Teresa intanto, prendendo per mano la sua sorellina, partiva. Vedete, mi diss'egli, additandomi le sue figliuole che uscivano dalla stanza; eccoci tutti. Proferì, parmi, queste parole come se volesse farmi sentire che gli mancava sua moglie. Non la nominò. Si ciarlò lunga pezza. Mentr'io stava per congedarmi, tornò Teresa: Non siamo tanto lontani, mi disse; venite qualche sera a veglia con noi.
Io tornava a casa col cuore in festa. - Che? lo spettacolo della bellezza basta forse ad addormentare in noi tristi mortali tutti i dolori? vedi per me una sorgente di vita: unica certo, e chi sa! fatale. Ma se io sono predestinato ad avere l'anima perpetuamente in tempesta, non è tutt'uno?
1 Novembre
Io sto bene, bene per ora come un infermo che dorme e non sente i dolori; e mi passano gl'interi giorni in casa del signore T*** che mi ama come figliuolo: mi lascio illudere, e l'apparente felicità di quella famiglia mi sembra reale, e mi sembra anche mia. Se nondimeno non vi fosse quello sposo, perché davvero - io non odio persona del mondo, ma vi sono cert'uomini ch'io ho bisogno di vedere soltanto da lontano. - Suo suocero me n'andava tessendo jer sera un lungo elogio in forma di commendatizia: buono - esatto - paziente! e niente altro? possedesse queste doti con angelica perfezione, s'egli avrà il cuore sempre così morto, e quella faccia magistrale non animata mai né dal sorriso dell'allegria, né dal dolce silenzio della pietà, sarà per me un di que' rosaj senza fiori che mi fanno temere le spine. Cos'è l'uomo se tu lo abbandoni alla sola ragione fredda, calcolatrice? scellerato, e scellerato bassamente. - Del resto, Odoardo sa di musica; giuoca bene a scacchi; mangia, legge, dorme, passeggia, e tutto con l'oriuolo alla mano; e non parla con enfasi se non per magnificare tuttavia la sua ricca e scelta biblioteca. Ma quando egli mi va ripetendo con quella sua voce cattedratica, ricca e scelta, io sto lì lì per dargli una solenne smentita. Se le umane frenesie che col nome di scienze e di dottrine si sono iscritte e stampate in tutti i secoli, e da tutte le genti, si riducessero a un migliajo di volumi al più, e' mi pare che la presunzione de' mortali non avrebbe da lagnarsi - e via sempre con queste dissertazioni.
Frattanto ho preso a educare la sorellina di Teresa: le insegno a leggere e a scrivere. Quand'io sto con lei, la mia fisonomia si va rasserenando, il mio cuore è più gajo che mai, ed io fo mille ragazzate. Non so perché, tutti i fanciulli mi vogliono bene. E quella ragazzetta è pur cara! bionda e ricciuta, occhi azzurri, guance pari alle rose, fresca, candida, paffutella, pare una Grazia di quattr'anni. Se tu la vedessi corrermi incontro, aggrapparmisi alle ginocchia, fuggirmi perch'io la siegua, negarmi un bacio e poi improvvisamente attaccarmi que' suoi labbruzzi alla bocca! Oggi io mi stava su la cima di un albero a cogliere le frutta: quella creaturina tendeva le braccia, e balbettando pregavami che per carità non cascassi. Che bell'autunno! addio Plutarco! sta sempre chiuso sotto il mio braccio. Sono tre giorni ch'io perdo la mattina a colmare un canestro d'uva e di pesche, ch'io copro di foglie, avviandomi poi lungo il fiumicello, e giunto alla villa, desto una famiglia cantando la canzonetta della vendemmia.
3 Dicembre
Stamattina io me n'andava un po' per tempo alla villa, ed era già presso alla casa T***, quando mi ha fermato un lontano tintinnio d'arpa. O! io mi sento sorridere l'anima, e scorrere in tutto me quanta mai voluttà allora m'infondeva quel suono. Era Teresa - come poss'io immaginarti, o celeste fanciulla, e chiamarti dinanzi a me in tutta la tua bellezza, senza la disperazione nel cuore! Pur troppo! tu cominci a gustare i primi sorsi dell'amaro calice della vita, ed io con questi occhi ti vedrò infelice, né potrò sollevarti se non piangendo! io; io stesso ti dovrò per pietà consigliare a pacificarti con la tua sciagura.
Certo ch'io non potrei né asserire né negare a me stesso ch'io l'amo; ma se mai, se mai! - in verità non d'altro che di un amore incapace di un solo pensiero: Dio lo sa! -
Io mi fermava, lì lì, senza batter palpebra, con gli occhi, le orecchie, e i sensi tutti intenti per divinizzarmi in quel luogo dove l'altrui vista non mi avrebbe costretto ad arrossire de' miei rapimenti. Ora ponti nel mio cuore, quand'io udiva cantar da Teresa quelle strofette di Saffo tradotte alla meglio da me con le altre due odi, unici avanzi delle poesie di quella amorosa fanciulla, immortale quanto le Muse. Balzando d'un salto, ho trovato Teresa nel suo gabinetto su quella sedia stessa ove io la vidi il primo giorno, quand'ella dipingeva il proprio ritratto. Era neglettamente vestita di bianco; il tesoro delle sue chiome biondissime diffuse su le spalle e sul petto, i suoi divini occhi nuotanti nel piacere, il suo viso sparso di un soave languore, il suo braccio di rose, il suo piede, le sue dita arpeggianti mollemente, tutto tutto era armonia: ed io sentiva una nuova delizia nel contemplarla. Bensì Teresa parea confusa, veggendosi d'improvviso un uomo che la mirava così discinta, ed io stesso cominciava dentro di me a rimproverarmi d'importunità e di villania: essa tuttavia proseguiva ed io sbandiva tutt'altro desiderio, tranne quello di adorarla, e di udirla. Io non so dirti, mio caro, in quale stato allora io mi fossi: so bene ch'io non sentiva più il peso di questa vita mortale.
S'alzò sorridendo e mi lasciò solo. Allora io rinveniva a poco a poco: mi sono appoggiato col capo su quell'arpa e il mio viso si andava bagnando di lagrime - oh! mi sono sentito un po' libero.
14 Maggio, a sera
O quante volte ho ripigliato la penna, e non ho potuto continuare: mi sento un po' calmato e torno a scriverti. - Teresa giacea sotto il gelso - ma e che posso dirti che non sia tutto racchiuso in queste parole? Vi amo. A queste parole tutto ciò ch'io vedeva mi sembrava un riso dell'universo: io mirava con occhi di riconoscenza il cielo, e mi parea ch'egli si spalancasse per accoglierci! deh! a che non venne la morte? e l'ho invocata. Sì; ho baciato Teresa; i fiori e le piante esalavano in quel momento un odore soave; le aure erano tutte armonia; i rivi risuonavano da lontano; e tutte le cose s'abbellivano allo splendore della Luna che era tutta piena della luce infinita della Divinità. Gli elementi e gli esseri esultavano nella gioja di due cuori ebbri di amore - ho baciata e ribaciata quella mano - e Teresa mi abbracciava tutta tremante, e trasfondea i suoi sospiri nella mia bocca, e il suo cuore palpitava su questo petto: mirandomi co' suoi grandi occhi languenti, mi baciava, e le sue labbra umide, socchiuse mormoravano su le mie - ahi! che ad un tratto mi si è staccata dal seno quasi atterrita: chiamò sua sorella e s'alzò correndole incontro. Io me le sono prostrato, e tendeva le braccia come per afferrar le sue vesti - ma non ho ardito di rattenerla, né richiamarla. La sua virtù - e non tanto la sua virtù, quanto la sua passione, mi sgomentava: sentiva e sento rimorso di averla io primo eccitata nel suo cuore innocente. Ed è rimorso - rimorso di tradimento! Ahi mio cuore codardo! - Me le sono accostato tremando. - Non posso essere vostra mai! - e pronunciò queste parole dal cuore profondo e con una occhiata con cui parea rimproverarsi e compiangermi. Accompagnandola lungo la via, non mi guardò più; né io avea più cuore di dirle parola. Giunta alla ferriata del giardino mi prese di mano la Isabellina e lasciandomi: Addio, diss'ella; e rivolgendosi dopo pochi passi, - addio.
Io rimasi estatico: avrei baciate l'orme de' suoi piedi: pendeva un suo braccio, e i suoi capelli rilucenti al raggio della Luna svolazzavano mollemente: ma poi, appena appena il lungo viale e la fosca ombra degli alberi mi concedevano di travedere le ondeggianti sue vesti che da lontano ancor biancheggiavano; e poiché l'ebbi perduta, tendeva l'orecchio sperando di udir la sua voce. - E partendo, mi volsi con le braccia aperte, quasi per consolarmi, all'astro di Venere: era anch'esso sparito.
25 Maggio
Ti ringrazio, eterno Iddio, ti ringrazio! Tu hai dunque ritirato il tuo sospiro, e Lauretta ha lasciato alla terra le sue infelicità: tu ascolti i gemiti che partono dalle viscere dell'anima, e mandi la Morte per isciogliere dalle catene della vita le tue creature perseguitate ed afflitte. Mia cara amica! il tuo sepolcro beva almeno queste lagrime, sole esequie ch'io posso offerirti: le zolle che ti nascondono sieno coperte di fresca erba, e dalle benedizioni di tua madre e dalla mia. Tu vivendo speravi da me qualche conforto; eppure! non ho potuto nemmeno prestarti gli ultimi ufficj; ma - ci rivedremo - sì.
Quand'io, caro Lorenzo, mi ricordava di quella povera innocente, certi presentimenti mi gridavano dentro l'anima: È morta. Pure se tu non me ne avessi scritto, io certo non lo avrei saputo mai; perché, e chi si cura della virtù quand'è ravvolta nella povertà? Spesso mi sono accinto a scriverle. M'è caduta la penna, e ho bagnato la carta di lagrime: temeva non mi raccontasse de' nuovi martirj, e mi destasse nel cuore una corda la cui vibrazione non sarebbe cessata sì tosto. Pur troppo! noi sfuggiamo d'intendere i mali de' nostri amici; le loro miserie ci sono gravi, e il nostro orgoglio sdegna di porgere il conforto delle parole, sì caro agli infelici, quando non si può unire un soccorso vero e reale. Ma - fors'ella e sua madre mi annoveravano fra la turba di coloro che ubbriacati dalla prosperità abbandonano gli sventurati. Lo sa il cielo! Frattanto Dio ha conosciuto che non poteva reggere più: Ei tempera i venti in favore dell'agnello recentemente tosato; e - tosato al vivo! E ti dee pur ricordare com'essa un giorno tornò a casa sua, portando chiuso nel suo canestrino da lavoro un cranio di morto; e ci scoverse il coperchio, e rideva; e mostrava il cranio in mezzo a un nembo di rose. - E le sono tante e tante, diceva a noi, queste rose; e le ho rimondate di tutte le spine: e domani le si appassiranno: ma io ne compererò ben dell'altre perché ogni giorno, ogni mese crescono rose, e la morte se le piglia tuttequante. - Ma che vuoi tu farne, o Lauretta; io le dissi. - Vo' coronare questo cranio di rose, e ogni giorno di rose fresche; - e rispondendo rideva pur sempre con soave amabilità. E in quelle parole e in quel riso e in quell'aria di volto demente e in quegli occhi fitti sul cranio e in quelle sue dita pallide e tremanti che andavano intrecciando le rose - tu ti se' pur avveduto come alle volte il desiderio di morire è necessario insieme e dolcissimo; ed eloquente fin anche sul labbro d'una fanciulla impazzata.
Tornerò, Lorenzo: conviene ch'io esca; il mio cuore si gonfia e geme come se non volesse starmi più in petto: su la cima di un monte mi sembra d'essere alquanto più libero; ma qui nella mia stanza - sto quasi sotterrato in un sepolcro. -
Sono salito su la più alta montagna: i venti imperversavano; io vedeva le querce ondeggiar sotto a' miei piedi; la selva fremeva come mar burrascoso, e la valle ne rimbombava; su le rupi dell'erta sedeano le nuvole - nella terribile maestà della Natura la mia anima attonita e sbalordita ha dimenticato i suoi mali, ed è tornata alcun poco in pace con se medesima.
Vorrei dirti di grandi cose: mi passano per la mente; vi sto pensando! - m'ingombrano il cuore, s'affollano, si confondono: non so più da quale io mi debba incominciare; poi tutto a un tratto mi sfuggono, e prorompo in un pianto dirotto. Vado correndo come un pazzo senza saper dove, e perché: non m'accorgo, e i miei piedi mi trascinano fra precipizj. Io domino le valli e le campagne soggette; magnifica ed inesausta creazione! I miei sguardi e i miei pensieri si perdono nel lontano orizzonte. - Vo salendo, e sto lì - ritto - anelante - guardo ingiù; ahi voragine! - alzo gli occhi inorridito e scendo precipitoso appiè del colle dove la valle è più fosca. Un boschetto di giovani querce mi protegge dai venti e dal sole; due rivi d'acqua mormorano qua e là sommessamente: i rami bisbigliano, e un rosignuolo - ho sgridato un pastore che era venuto per rapire dal nido i suoi pargoletti: il pianto, la desolazione, la morte di quei deboli innocenti dovevano essere venduti per una moneta di rame; così va! or bench'io l'abbia compensato del guadagno che sperava di trarne e mi abbia promesso di non disturbare più i rosignuoli, tu credi ch'ei non tornerà a desolarli? - e là io mi riposo. - Dove se' ito, o buon tempo di prima! la mia ragione è malata e non può fidarsi che nel sopore, e guai se sentisse tutta la sua infermità! Quasi quasi - povera Lauretta! tu forse mi chiami - e forse fra non molto io verrò. Tutto, tutto quello ch'esiste per gli uomini non è che la lor fantasia. Dianzi fra le rupi la morte mi era spavento; e all'ombra di quel boschetto io avrei chiusi gli occhi volentieri in sonno eterno. Ci fabbrichiamo la realtà a nostro modo; i nostri desideri si vanno moltiplicando con le nostre idee; sudiamo per quello che vestito diversamente ci annoja; e le nostre passioni non sono alla stretta del conto che gli effetti delle nostre illusioni. Quanto mi sta d'intorno richiama al mio cuore quel dolce sogno della mia fanciullezza. O! come io scorreva teco queste campagne aggrappandomi or a questo or a quell'arbuscello di frutta, immemore del passato, non curando che del presente, esultando di cose che la mia immaginazione ingrandiva e che dopo un'ora non erano più, e riponendo tutte le mie speranze ne' giuochi della prossima festa. Ma quel sogno è svanito! e chi m'accerta che in questo momento io non sogni? Ben tu, mio Dio, tu che creasti gli umani cuori, tu solo, sai che sonno spaventevole è questo ch'io dormo; sai che non altro m'avanza fuorché il pianto e la morte.
Così vaneggio! cangio voti e pensieri, e quanto la Natura è più bella tanto più vorrei vederla vestita a lutto. E veramente pare che oggi m'abbia esaudito. Nel verno passato io era felice: quando la Natura dormiva mortalmente la mia anima pareva tranquilla - ed ora?
Eppur mi conforto nella speranza di essere compianto. Su l'aurora della vita io cercherò forse invano il resto della mia età che mi verrà rapito dalle mie passioni e dalle mie sventure; ma la mia sepoltura sarà bagnata dalle tue lagrime, dalle lagrime di quella fanciulla celeste. E chi mai cede a una eterna obblivione questa cara e travagliata esistenza? Chi mai vide per l'ultima volta i raggi del Sole, chi salutò la Natura per sempre, chi abbandonò i suoi diletti, le sue speranze, i suoi inganni, i suoi stessi dolori senza lasciar dietro a sé un desiderio, un sospiro, uno sguardo? Le persone a noi care che ci sopravvivono, sono parte di noi. I nostri occhi morenti chiedono altrui qualche stilla di pianto, e il nostro cuore ama che il recente cadavere sia sostenuto da braccia amorose, e cerca un petto dove trasfondere l'ultimo nostro respiro. Geme la Natura perfin nella tomba, e il suo gemito vince il silenzio e l'oscurità della morte.
M'affaccio al balcone ora che la immensa luce del Sole si va spegnendo, e le tenebre rapiscono all'universo que' raggi languidi che balenano su l'orizzonte; e nella opacità del mondo malinconico e taciturno contemplo la immagine della Distruzione divoratrice di tutte le cose. Poi giro gli occhi sulle macchie de' pini piantati dal padre mio su quel colle presso la porta della parrocchia, e travedo biancheggiare fra le frondi agitate da' venti la pietra della mia fossa. E mi par di vederti venir con mia madre, a benedire, o perdonar non foss'altro alle ceneri dell'infelice figliuolo. E predico a me, consolandomi: Forse Teresa verrà solitaria su l'alba a rattristarsi dolcemente su le mie antiche memorie, e a dirmi un altro addio. No! la morte non è dolorosa. Che se taluno metterà le mani nella mia sepoltura e scompiglierà il mio scheletro per trarre dalla notte in cui giaceranno, le mie ardenti passioni, le mie opinioni, i miei delitti - forse; non mi difendere, Lorenzo; rispondi soltanto: Era uomo, e infelice.
Milano, 4 Dicembre
Siati questa l'unica risposta a' tuoi consiglj. In tutti i paesi ho veduto gli uomini sempre di tre sorta: i pochi che comandano; l'universalità che serve; e i molti che brigano. Noi non possiam comandare, né forse siam tanto scaltri; noi non siam ciechi, né vogliamo ubbidire; noi non ci degniamo di brigare. E il meglio è vivere come que' cani senza padrone a' quali non toccano né tozzi né percosse. - Che vuoi tu ch'io accatti protezioni ed impieghi in uno Stato ov'io sono reputato straniero, e donde il capriccio di ogni spia può farmi sfrattare? Tu mi esalti sempre il mio ingegno; sai tu quanto io vaglio? né più né meno di ciò che vale la mia entrata: se per altro io non facessi il letterato di corte, rintuzzando quel nobile ardire che irrita i potenti, e dissimulando la virtù e la scienza, per non rimproverarli della loro ignoranza, e delle loro scelleraggini. Letterati! - O! tu dirai, così da per tutto. - E sia così: lascio il mondo com'è; ma s'io dovessi impacciarmente vorrei o che gli uomini mutassero modo, o che mi facessero mozzare il capo sul palco; e questo mi pare più facile. Non che i tirannetti non si avveggano delle brighe; ma gli uomini balzati da' trivj al trono hanno d'uopo di faziosi che poi non possono contenere. Gonfj del presente, spensierati dell'avvenire, poveri di fama, di coraggio e d'ingegno, si armano di adulatori e di satelliti, da' quali, quantunque spesso traditi e derisi, non sanno più svilupparsi: perpetua ruota di servitù, di licenza e di tirannia. Per essere padroni e ladri del popolo conviene prima lasciarsi opprimere, depredare, e conviene leccare la spada grondante del tuo sangue. Così potrei forse procacciarmi una carica, qualche migliajo di scudi ogni anno di più, rimorsi, ed infamia. Odilo un'altra volta: Non reciterò mai la parte del piccolo briccone.
Tanto e tanto so di essere calpestato; ma almen fra la turba immensa de' miei conservi, simile a quegli insetti che sono sbadatamente schiacciati da chi passeggia. Non mi glorio come tanti altri della servitù; né i miei tiranni si pasceranno del mio avvilimento. Serbino ad altri le loro ingiurie e i lor beneficj; e' vi son tanti che pur vi agognano! Io fuggirò il vituperio morendo ignoto. E quando io fossi costretto ad uscire dalla mia oscurità - anziché mostrarmi fortunato stromento della licenza o della tirannide, torrei d'essere vittima deplorata.
Che se mi mancasse il pane e il fuoco, e questa che tu mi additi fosse l'unica sorgente di vita - cessi il cielo ch'io insulti alla necessità di tanti altri che non potrebbero imitarmi - davvero, Lorenzo, io me n'andrei alla patria di tutti, dove non vi sono né delatori, né conquistatori, né letterati di corte, né principi; dove le ricchezze non coronano il delitto; dove il misero non è giustiziato non per altro se non perché è misero; dove un dì o l'altro verranno tutti ad abitare con me e a rimescolarsi nella materia, sotterra.
Aggrappandomi sul dirupo della vita, sieguo alle volte un lume ch'io scorgo da lontano e che non posso raggiungere mai. Anzi mi pare che s'io fossi con tutto il corpo dentro la fossa, e che rimanessi sopra terra solamente col capo, mi vedrei sempre quel lume sfolgorare sugli occhi. O Gloria! tu mi corri sempre dinanzi, e così mi lusinghi a un viaggio a cui le mie piante non reggono più. Ma dal giorno che tu più non sei la mia sola e prima passione, il tuo risplendente fantasma comincia a spegnersi e a barcollare - cade e si risolve in un mucchio d'ossa e di ceneri fra le quali io veggio sfavillar tratto tratto alcuni languidi raggi; ma ben presto io passerò camminando sopra il tuo scheletro, sorridendo della mia delusa ambizione. - Quante volte vergognando di morire ignoto al mio secolo ho accarezzato io medesimo le mie angosce mentre mi sentiva tutto il bisogno e il coraggio di terminarle! Né avrei forse sopravvissuto alla mia patria, se non mi avesse rattenuto il folle timore, che la pietra posta sopra il mio cadavere non seppellisse ad un tempo il mio nome. Lo confesso; sovente ho guardato con una specie di compiacenza le miserie d'Italia, poiché mi parea che la fortuna e il mio ardire riserbassero forse anche a me il merito di liberarla. Io lo diceva jer sera al Parini - addio: ecco il messo del banchiere che viene a pigliar questa lettera; e il foglio tutto pieno mi dice di finire. - Pur ho a dirti ancora assai cose: protrarrò di spedirtela sino a sabbato; e continuerò a scriverti. Dopo tanti anni di sì affettuosa e leale amicizia, eccoci, e forse eternamente, disgiunti. A me non resta altro conforto che di gemere teco scrivendoti; e così mi libero alquanto da' miei pensieri; e la mia solitudine diventa assai meno spaventosa. Sai quante notti io mi risveglio, e m'alzo, e aggirandomi lentamente per le stanze t'invoco! siedo e ti scrivo; e quelle carte sono tutte macchiate di pianto e piene de' miei pietosi delirj e de' miei feroci proponimenti. Ma non mi dà il cuore d'inviartele. Ne serbo taluna, e molte ne brucio. Quando poi il Cielo mi manda questi momenti di calma, io ti scrivo con quanto più di fermezza mi è possibile per non contristarti del mio immenso dolore. Né mi stancherò di scriverti; tutt'altro conforto è perduto; né tu, mio Lorenzo, ti stancherai di leggere queste carte ch'io senza vanità, senza studio e senza rossore ti ho sempre scritto ne' sommi piaceri e ne' sommi dolori dell'anima mia. Serbale. Presento che un dì ti saranno necessarie per vivere, almeno come potrai, col tuo Jacopo.
Jer sera dunque io passeggiava con quel vecchio venerando nel sobborgo orientale della città sotto un boschetto di tigli. Egli si sosteneva da una parte sul mio braccio, dall'altra sul suo bastone: e talora guardava gli storpj suoi piedi, e poi senza dire parola volgevasi a me, quasi si dolesse di quella sua infermità, e mi ringraziasse della pazienza con la quale io lo accompagnava. S'assise sopra uno di que' sedili ed io con lui: il suo servo ci stava poco discosto. Il Parini è il personaggio più dignitoso e più eloquente ch'io m'abbia mai conosciuto; e d'altronde un profondo, generoso, meditato dolore a chi non dà somma eloquenza? Mi parlò a lungo della sua patria, e fremeva e per le antiche tirannidi e per la nuova licenza. Le lettere prostituite; tutte le passioni languenti e degenerate in una indolente vilissima corruzione: non più la sacra ospitalità, non la benevolenza, non più l'amore figliale - e poi mi tesseva gli annali recenti, e i delitti di tanti uomiciattoli ch'io degnerei di nominare, se le loro scelleraggini mostrassero il vigore d'animo, non dirò di Silla e di Catilina, ma di quegli animosi masnadieri che affrontano il misfatto quantunque e' si vedano presso il patibolo - ma ladroncelli, tremanti, saccenti - più onesto insomma è tacerne. - A quelle parole io m'infiammava di un sovrumano furore, e sorgeva gridando: Ché non si tenta? morremo? ma frutterà dal nostro sangue il vendicatore. - Egli mi guardò attonito: gli occhi miei in quel dubbio chiarore scintillavano spaventosi, e il mio dimesso e pallido aspetto si rialzò con aria minaccevole - io taceva, ma si sentiva ancora un fremito rumoreggiare cupamente dentro il mio petto. E ripresi: Non avremo salute mai? ah se gli uomini si conducessero sempre al fianco la morte, non servirebbero sì vilmente. - Il Parini non apria bocca; ma stringendomi il braccio, mi guardava ogni ora più fisso. Poi mi trasse, come accennandomi perch'io tornassi a sedermi: E pensi, tu, proruppe, che s'io discernessi un barlume di libertà, mi perderei ad onta della mia inferma vecchiaja in questi vani lamenti? o giovine degno di patria più grata! se non puoi spegnere quel tuo ardore fatale, ché non lo volgi ad altre passioni?
Allora io guardai nel passato - allora io mi voltava avidamente al futuro, ma io errava sempre nel vano e le mie braccia tornavano deluse senza pur mai stringere nulla; e conobbi tutta tutta la disperazione del mio stato. Narrai a quel generoso Italiano la storia delle mie passioni, e gli dipinsi Teresa come uno di que' genj celesti i quali par che discendano a illuminare la stanza tenebrosa di questa vita. E alle mie parole e al mio pianto, il vecchio pietoso più volte sospirò dal cuore profondo. - No, io gli dissi, non veggo più che il sepolcro: sono figlio di madre affettuosa e benefica; spesse volte mi sembrò di vederla calcare tremando le mie pedate e seguirmi fino a sommo il monte, donde io stava per diruparmi, e mentre era quasi con tutto il corpo abbandonato nell'aria - essa afferravami per la falda delle vesti, e mi ritraeva, ed io volgendomi non udiva più che il suo pianto. Pure s'ella - spiasse tutti gli occulti miei guai, implorerebbe ella stessa dal Cielo il termine degli ansiosi miei giorni. Ma l'unica fiamma vitale che anima ancora questo travagliato mio corpo, è la speranza di tentare la libertà della patria. - Egli sorrise mestamente; e poiché s'accorse che la mia voce infiochiva, e i miei sguardi si abbassavano immoti sul suolo, ricominciò: - Forse questo tuo furore di gloria potrebbe trarti a difficili imprese; ma - credimi; la fama degli eroi spetta un quarto alla loro audacia; due quarti alla sorte; e l'altro quarto a' loro delitti. Pur se ti reputi bastevolmente fortunato e crudele per aspirare a questa gloria, pensi tu che i tempi te ne porgano i mezzi? I gemiti di tutte le età, e questo giogo della nostra patria non ti hanno per anco insegnato che non si dee aspettare libertà dallo straniero? Chiunque s'intrica nelle faccende di un paese conquistato non ritrae che il pubblico danno, e la propria infamia. Quando e doveri e diritti stanno su la punta della spada, il forte scrive le leggi col sangue e pretende il sacrificio della virtù. E allora? avrai tu la fama e il valore di Annibale che profugo cercava per l'universo un nemico al popolo Romano? - Né ti sarà dato di essere giusto impunemente. Un giovine dritto e bollente di cuore, ma povero di ricchezze, ed incauto d'ingegno quale sei tu, sarà sempre o l'ordigno del fazioso, o la vittima del potente. E dove tu nelle pubbliche cose possa preservarti incontaminato dalla comune bruttura, oh! tu sarai altamente laudato; ma spento poscia dal pugnale notturno della calunnia; la tua prigione sarà abbandonata da' tuoi amici, e il tuo sepolcro degnato appena di un secreto sospiro. - Ma poniamo che tu superando e la prepotenza degli stranieri e la malignità de' tuoi concittadini e la corruzione de' tempi, potessi aspirare al tuo intento; di'? spargerai tutto il sangue col quale conviene nutrire una nascente repubblica? arderai le tue case con le faci della guerra civile? unirai col terrore i partiti? spegnerai con la morte le opinioni? adeguerai con le stragi le fortune? ma se tu cadi tra via, vediti esecrato dagli uni come demagogo, dagli altri come tiranno. Gli amori della moltitudine sono brevi ed infausti; giudica, più che dall'intento, dalla fortuna; chiama virtù il delitto utile, e scelleraggine l'onestà che le pare dannosa; e per avere i suoi plausi, conviene o atterrirla, o ingrassarla, e ingannarla sempre. E ciò sia. Potrai tu allora inorgoglito dalla sterminata fortuna reprimere in te la libidine del supremo potere che ti sarà fomentata e dal sentimento della tua superiorità, e della conoscenza del comune avvilimento? I mortali sono naturalmente schiavi, naturalmente tiranni, naturalmente ciechi. Intento tu allora a puntellare il tuo trono, di filosofo saresti fatto tiranno; e per pochi anni di possanza e di tremore, avresti perduta la tua pace, e confuso il tuo nome fra la immensa turba dei despoti. - Ti avanza ancora un seggio fra' capitani; il quale si afferra per mezzo di un ardire feroce, di una avidità che rapisce per profondere, e spesso di una viltà per cui si lambe la mano che t'aita a salire. Ma - o figliuolo! l'umanità geme al nascere di un conquistatore; e non ha per conforto se non la speranza di sorridere su la sua bara. -
Tacque - ed io dopo lunghissimo silenzio esclamai: O Cocceo Nerva! tu almeno sapevi morire incontaminato 17. - Il vecchio mi guardò - Se tu né speri, né temi fuori di questo mondo - e mi stringeva la mano - ma io! - Alzò gli occhi al Cielo, e quella severa sua fisionomia si raddolciva di soave conforto, come s'ei lassù contemplasse tutte le tue speranze. - Intesi un calpestio che s'avanzava verso di noi; e poi travidi gente fra' tiglj; ci rizzammo; e l'accompagnai sino alle sue stanze.
Ah s'io non mi sentissi oramai spento quel fuoco celeste che nel tempo della fresca mia gioventù spargeva raggi su tutte le cose che mi stavano intorno, mentre oggi vo brancolando in una vota oscurità! s'io potessi avere un tetto ove dormire sicuro; se non mi fosse conteso di rinselvarmi fra le ombre del mio romitorio; se un amore disperato che la mia ragione combatte sempre, e che non può vincere mai - questo amore ch'io celo a me stesso, ma che riarde ogni giorno e che s'è fatto onnipotente, immortale - ahi! la Natura ci ha dotati di questa passione che è indomabile in noi forse più dell'istinto fatale della vita - se io potessi insomma impetrare un anno solo di calma, il tuo povero amico vorrebbe sciogliere ancora un voto e poi morire. Io odo la mia patria che grida: - SCRIVI CIÒ CHE VEDESTI. MANDERO LA MIA VOCE DALLE ROVINE, E TI DETTERÒ LA MIA STORIA. PIANGERANNO I SECOLI SU LA MIA SOLITUDINE; E LE GENTI SI AMMAESTRERANNO NELLE MIE DISAVVENTURE. IL TEMPO ABBATTE IL FORTE: E I DELITTI DI SANGUE SONO LAVATI NEL SANGUE. - E tu lo sai, Lorenzo, avrei coraggio di scrivere; ma l'ingegno va morendo con le mie forze, e vedo che fra pochi mesi avrò fornito questo mio angoscioso pellegrinaggio.
Ma voi pochi sublimi animi che solitarj o perseguitati, su le antiche sciagure della nostra patria fremete, se i cieli vi contendono di lottare contro la forza, perché almeno non raccontate alla posterità i nostri mali? Alzate la voce in nome di tutti, e dite al mondo: Che siamo sfortunati, ma né ciechi né vili; che non ci manca il coraggio, ma la possanza. - Se avete braccia in catene, perché inceppate da voi stessi anche il vostro intelletto di cui né i tiranni né la fortuna, arbitri d'ogni cosa, possono essere arbitri mai? Scrivete. Abbiate bensì compassione a' vostri concittadini, e non istigate vanamente le lor passioni politiche; ma sprezzate l'universalità de' vostri contemporanei: il genere umano d'oggi ha le frenesie e la debolezza della decrepitezza; ma l'umano genere, appunto quand'è prossimo a morte, rinasce vigorosissimo. Scrivete a quei che verranno, e che soli saranno degni d'udirvi, e forti da vendicarvi. Perseguitate con la verità i vostri persecutori. E poi che non potete opprimerli, mentre vivono, co' pugnali, opprimeteli almeno con l'obbrobrio per tutti i secoli futuri. Se ad alcuni di voi è rapita la patria, la tranquillità, e le sostanze; se niuno osa divenire marito; se tutti paventano il dolce nome di padre, per non procreare nell'esilio e nel dolore nuovi schiavi e nuovi infelici, perché mai accarezzate così vilmente la vita ignuda di tutti i piaceri? Perché non la consecrate all'unico fantasma ch'è duce degli uomini generosi, la gloria? Giudicherete l'Europa vivente, e la vostra sentenza illuminerà le genti avvenire. L'umana viltà vi mostra terrori e pericoli; ma voi siete forse immortali? fra l'avvilimento delle carceri e de' supplicj v'innalzerete sovra il potente, e il suo futuro contro di voi accrescerà il suo vituperio e la vostra fama.
Ventimiglia, 19 e 20 Febbraro
Tu sei disperatamente infelice; tu vivi fra le agonie della morte, e non hai la sua tranquillità: ma tu dèi tollerarle per gli altri. - Così la Filosofia domanda agli uomini un eroismo da cui la Natura rifugge. Chi odia la propria vita può egli amare il minimo bene che è incerto di recare alla Società e sacrificare a questa lusinga molti anni di pianto? e come potrà sperare per gli altri colui che non ha desiderj, né speranze per sé; e che abbandonato da tutto, abbandona se stesso? - Non sei misero tu solo. - Pur troppo! ma questa consolazione non è anzi argomento dell'invidia secreta che ogni uomo cova dell'altrui prosperità? La miseria degli altri non iscema la mia. Chi è tanto generoso da addossarsi le mie infermità? e chi anco volendo, il potrebbe? avrebbe forse più coraggio da comportarle; ma cos'è il coraggio voto di forza? Non è vile quell'uomo che è travolto dal corso irresistibile di una fiumana; bensì chi ha forze da salvarsi e non le adopra. Ora dov'è il sapiente che possa costituirsi giudice delle nostre intime forze? chi può dare norma agli effetti delle passioni nelle varie tempre degli uomini e delle incalcolabili circostanze onde decidere: Questi è un vile, perché soggiace; quegli che sopporta, è un eroe? mentre l'amore della vita è così imperioso che più battaglia avrà fatto il primo per non cedere, che il secondo per sopportare.
Ma i debiti i quali tu hai verso la Società? - Debiti? forse perché mi ha tratto dal libero grembo della Natura, quand'io non aveva né la ragione, né l'arbitrio di acconsentirvi, né la forza di oppormivi, e mi educò fra' suoi bisogni e fra' suoi pregiudizj? - Lorenzo, perdona s'io calco troppo su questo discorso tanto da noi disputato. Non voglio smoverti dalla tua opinione sì avversa alla mia; vo' bensì dileguare ogni dubbio da me. Saresti convinto al pari di me, se ti sentissi le piaghe mie; il Cielo te le risparmi! - Ho io contratto questi debiti spontaneamente? e la mia vita dovrà pagare, come uno schiavo, i mali che la Società mi procaccia, solo perché gli intitola beneficj? e sieno beneficj: ne godo e li ricompenso fino che vivo; e se nel sepolcro non le sono io di vantaggio, qual bene ritraggo io da lei nel sepolcro? O amico mio! ciascun individuo è nemico nato della Società, perché la Società è necessaria nemica degli individui. Poni che tutti i mortali avessero interesse di abbandonare la vita, credi tu che la sosterrebbero per me solo? e s'io commetto un'azione dannosa a' più, io sono punito; mentre non mi verrà fatto mai di vendicarmi delle loro azioni, quantunque ridondino in sommo mio danno. Possono ben essi pretendere ch'io sia figliuolo della grande famiglia; ma io rinunziando e a' beni e a' doveri comuni posso dire: Io sono un mondo in me stesso: e intendo d'emanciparmi perché mi manca la felicità che mi avete promesso. Che s'io dividendomi non trovo la mia porzione di libertà; se gli uomini me l'hanno invasa perché sono più forti; se mi puniscono perché la ridomando - non gli sciolgo io dalle loro bugiarde promesse e dalle mie impotenti querele cercando scampo sotterra? Ah! que' filosofi che hanno evangelizzato le umane virtù, la probità naturale, la reciproca benevolenza - sono inavvedutamente apostoli degli astuti, ed adescano quelle poche anime ingenue e bollenti le quali amando schiettamente gli uomini per l'ardore di essere riamate, saranno sempre vittime tardi pentite della loro leale credulità. -
Eppur quante volte tutti questi argomenti della ragione hanno trovato chiusa la porta del mio cuore, perch'io tuttavia mi sperava di consecrare i miei tormenti all'altrui felicità! Ma! - per il nome d'Iddio, ascolta e rispondimi. A che vivo? di che pro ti son io, io fuggitivo fra queste cavernose montagne? di che onore a me stesso, alla mia patria, a' miei cari? V'ha egli diversità da queste solitudini alla tomba? La mia morte sarebbe per me la meta de' guai, e per voi tutti la fine delle vostre ansietà sul mio stato. Invece di tante ambasce continue, io vi darei un solo dolore - tremendo, ma ultimo: e sareste certi della eterna mia pace. I mali non ricomprano la vita.
E penso ogni giorno al dispendio di cui da più mesi sono causa a mia madre; né so come ella possa far tanto. S'io mi tornassi, troverei casa nostra vedova del suo splendore. E incominciava già ad oscurarsi, molto innanzi ch'io mi partissi, per le pubbliche e private estorsioni le quali non restano di percuoterci. Né però quella madre benefattrice cessa dalle sue cure: trovai dell'altro denaro a Milano; ma queste affettuose liberalità le scemeranno certamente quegli agi fra' quali nacque. Pur troppo fu moglie mal avventurata! le sue sostanze sostengono la mia casa che rovinava per le prodigalità di mio padre; e l'età di lei mi fa ancora più amari questi pensieri. - Se sapesse! tutto è vano per lo sfortunato suo figliuolo. E s'ella vedesse qui dentro - se vedesse le tenebre e la consunzione dell'anima mia! deh! non gliene parlare, o Lorenzo: ma vita è questa? - Ah sì! io vivo ancora; e l'unico spirito de' miei giorni è una sorda speranza che li rianima sempre, e che pure tento di non ascoltare: non posso - e s'io voglio disingannarla, la si converte in disperazione infernale. - Il tuo giuramento, o Teresa, proferirà ad un tempo la mia sentenza - ma finché tu se' libera; - e il nostro amore è tuttavia nell'arbitrio delle circostanze - dell'incerto avvenire - e della morte, tu sarai sempre mia. Io ti parlo, e ti guardo, e ti abbraccio: e mi pare che così da lontano tu senta l'impressioni de' miei baci e delle mie lagrime. Ma quando tu sarai offerita dal padre tuo come olocausto di riconciliazione su l'altare di Dio - quando il tuo pianto avrà ridata la pace alla tua famiglia - allora - non io - ma la disperazione sola, e da sé, annienterà l'uomo e le sue passioni. E come può spegnersi, mentre vivo, il mio amore? e come non ti sedurranno sempre nel tuo secreto le sue dolci lusinghe? ma allora più non saranno sante e innocenti. Io non amerò, quando sarà d'altri, la donna che fu mia - amo immensamente Teresa; ma non la moglie d'Odoardo - ohimè! tu forse mentre scrivo sei nel suo letto! - Lorenzo! - Ahi Lorenzo! eccolo quel demonio mio persecutore; torna a incalzarmi, a premermi, a investirmi, e m'accieca l'intelletto, e mi ferma perfino le palpitazioni del cuore, e mi fa tutto ferocia, e vorrebbe il mondo finito con me. - Piangete tutti - e perché mi caccia fra le mani un pugnale, e mi precede, e si volge guardando se io lo sieguo, e mi addita dov'io devo ferire? Vieni tu dall'altissima vendetta del Cielo? - E così nel mio furore e nelle mie superstizioni io mi prostendo su la polvere a scongiurare orrendamente un Dio che non conosco, che altre volte ho candidamente adorato, ch'io non offesi, di cui dubito sempre - e poi tremo, e l'adoro. Dov'io cerco ajuto? non in me, non negli uomini: la Terra io la ho insanguinata, e il Sole è negro.
Alfine eccomi in pace! - Che pace? stanchezza, sopore di sepoltura. Ho vagato per queste montagne. Non v'è albero, non tugurio, non erba. Tutto è bronchi; aspri e lividi macigni; e qua e là molte croci che segnano il sito de' viandanti assassinati. - Là giù è il Roja, un torrente che quando si disfanno i ghiacci precipita dalle viscere delle Alpi, e per gran tratto ha spaccato in due questa immensa montagna. V'è un ponte presso alla marina che ricongiunge il sentiero. Mi sono fermato su quel ponte, e ho spinto gli occhi sin dove può giungere la vista; e percorrendo due argini di altissime rupi e di burroni cavernosi, appena si vedono imposte su le cervici dell'Alpi altre Alpi di neve che s'immergono nel Cielo e tutto biancheggia e si confonde - da quelle spalancate Alpi cala e passeggia ondeggiando la tramontana, e per quelle fauci invade il Mediterraneo. La Natura siede qui solitaria e minacciosa, e caccia da questo suo regno tutti i viventi.
I tuoi confini, o Italia, son questi! ma sono tutto dì sormontati d'ogni parte dalla pertinace avarizia delle nazioni. Ove sono dunque i tuoi figli? Nulla ti manca se non la forza della concordia. Allora io spenderei gloriosamente la mia vita infelice per te: ma che può fare il solo mio braccio e la nuda mia voce? - Ov'è l'antico terrore della tua gloria? Miseri! noi andiamo ogni dì memorando la libertà e la gloria degli avi, le quali quanto più splendono tanto più scoprono la nostra abbietta schiavitù. Mentre invochiamo quelle ombre magnanime, i nostri nemici calpestano i loro sepolcri. E verrà forse giorno che noi perdendo e le sostanze, e l'intelletto, e la voce, sarem fatti simili agli schiavi domestici degli antichi, o trafficati come i miseri Negri, e vedremo i nostri padroni schiudere le tombe e disseppellire, e disperdere al vento le ceneri di que' Grandi per annientarne le ignude memorie: poiché oggi i nostri fasti ci sono cagione di superbia, ma non eccitamento dell'antico letargo.
Così grido quand'io mi sento insuperbire nel petto il nome Italiano, e rivolgendomi intorno io cerco, né trovo più la mia patria. - Ma poi dico: Pare che gli uomini sieno fabbri delle proprie sciagure; ma le sciagure derivano dall'ordine universale, e il genere umano serve orgogliosamente e ciecamente a' destini. Noi argomentiamo su gli eventi di pochi secoli: che sono eglino nell'immenso spazio del tempo? Pari alle stagioni della nostra vita normale, pajono talvolta gravi di straordinarie vicende, le quali pur sono comuni e necessarj effetti del tutto. L'universo si controbilancia. Le nazioni si divorano perché una non potrebbe sussistere senza i cadaveri dell'altra. Io guardando da queste Alpi l'Italia piango e fremo, e invoco contro agl'invasori vendetta; ma la mia voce si perde tra il fremito ancora vivo di tanti popoli trapassati, quando i Romani rapivano il mondo, cercavano oltre a' mari e a' deserti nuovi imperi da devastare, manomettevano gl'Iddii de' vinti, incatenevano principi e popoli liberissimi, finché non trovando più dove insanguinare i lor ferri, li ritorceano contro le proprie viscere. Così gli Israeliti trucidavano i pacifici abitatori di Canaan, e i Babilonesi poi strascinarono nella schiavitù i sacerdoti, le madri, e i figliuoli del popolo di Giuda. Così Alessandro rovesciò l'impero di Babilonia, e dopo avere passando arsa gran parte della terra, si corrucciava che non vi fosse un altro universo. Così gli Spartani tre volte smantellarono Messene e tre volte cacciarono dalla Grecia i Messeni che pur Greci erano della stessa religione e nipoti de' medesimi antenati. Così sbranavansi gli antichi Italiani finché furono ingojati dalla fortuna di Roma. Ma in pochissimi secoli la regina del mondo divenne preda de' Cesari, de' Neroni, de' Costantini, de' Vandali, e de' Papi. Oh quanto fumo di umani roghi ingombrò il Cielo della America, oh quanto sangue d'innumerabili popoli che né timore né invidia recavano agli Europei, fu dall'Oceano portato a contaminare d'infamia le nostre spiagge! ma quel sangue sarà un dì vendicato e si rovescierà su i figli degli Europei! Tutte le nazioni hanno le loro età. Oggi sono tiranne per maturare la propria schiavitù di domani: e quei che pagavano dianzi vilmente il tributo, lo imporranno un giorno col ferro e col fuoco. La Terra è una foresta di belve. La fame, i diluvj, e la peste sono ne' provvedimenti della Natura come la sterilità di un campo che prepara l'abbondanza per l'anno vegnente: e chi sa? fors'anche le sciagure di questo globo apparecchiano la prosperità di un altro.
Frattanto noi chiamiamo pomposamente virtù tutte quelle azioni che giovano alla sicurezza di chi comanda e alla paura di chi serve. I governi impongono giustizia: ma potrebbero eglino imporla se per regnare non l'avessero prima violata? Chi ha derubato per ambizione le intere province, manda solennemente alle forche chi per fame invola del pane. Onde quando la forza ha rotti tutti gli altrui diritti, per serbarli poscia a se stessa inganna i mortali con le apparenze del giusto, finché un'altra forza non la distrugga. Eccoti il mondo, e gli uomini. Sorgono frattanto d'ora in ora alcuni più arditi mortali; prima derisi come frenetici, e sovente come malfattori, decapitati: che se poi vengono patrocinati dalla fortuna ch'essi credono lor propria, ma che in somma non è che il moto prepotente delle cose, allora sono obbediti e temuti, e dopo morte deificati. Questa è la razza degli eroi, de' capisette, e de' fondatori delle nazioni i quali dal loro orgoglio e dalla stupidità de' volghi si stimano saliti tant'alto per proprio valore; e sono cieche ruote dell'oriuolo. Quando una rivoluzione nel globo è matura, necessariamente vi sono gli uomini che la incominciano, e che fanno de' loro teschj sgabello al trono di chi la compie. E perché l'umana schiatta non trova né felicità né giustizia sopra la terra, crea gli Dei protettori della debolezza e cerca premj futuri del pianto presente. Ma gli Dei si vestirono in tutti i secoli delle armi de' conquistatori: e opprimono le genti con le passioni, i furori, e le astuzie di chi vuole regnare.
Lorenzo, sai tu dove vive ancora la vera virtù? in noi pochi deboli e sventurati; in noi, che dopo avere sperimentati tutti gli errori, e sentiti tutti i guai della vita, sappiamo compiangerli e soccorrerli. Tu o Compassione, sei la sola virtù! tutte le altre sono virtù usuraje.
Ma mentre io guardo dall'alto le follie e le fatali sciagure della umanità, non mi sento forse tutte le passioni e la debolezza ed il pianto, soli elementi dell'uomo? Non sospiro ogni dì la mia patria? Non dico a me lagrimando: Tu hai una madre e un amico - tu ami - te aspetta una turba di miseri, a cui se' caro, e che forse sperano in te - dove fuggi? anche nelle terre straniere ti perseguiranno la perfidia degli uomini e i dolori e la morte: qui cadrai forse, e niuno avrà compassione di te; e tu senti pure nel tuo misero petto il piacere di essere compianto. Abbandonato da tutti, non chiedi tu ajuto dal Cielo? non t'ascolta; eppure nelle tue afflizioni il tuo cuore torna involontario a lui - va, prostrati; ma all'are domestiche.
O natura! hai tu forse bisogno di noi sciagurati, e ci consideri come i vermi e gl'insetti che vediamo brulicare e moltiplicarsi senza sapere a che vivano? Ma se tu ci hai dotati del funesto istinto della vita sì che il mortale non cada sotto la soma delle tue infermità ed ubbidisca irrepugnabilmente a tutte le tue leggi, perché poi darci questo dono ancor più funesto della ragione? Noi tocchiamo con mano tutte le nostre calamità ignorando sempre il modo di ristorarle.
Perché dunque io fuggo? e in quali lontane contrade io vado a perdermi? dove mai troverò gli uomini diversi dagli uomini? O non presento io forse i disastri, le infermità, e la indigenza che fuori della mia patria mi aspettano? - Ah no! Io tornerò a voi, o sacre terre, che prime udiste i miei vagiti, dove tante volte ho riposato queste mie membra affaticate, dove ho trovato nella oscurità e nella pace i miei pochi diletti, dove nel dolore ho confidato i miei pianti. Poiché tutto è vestito di tristezza per me, se null'altro posso ancora sperare che il sonno eterno della morte - voi sole, o mie selve, udirete il mio ultimo lamento, e voi sole coprirete con le vostre ombre pacifiche il mio freddo cadavere. Mi piangeranno quegli infelici che sono compagni delle mie disgrazie - e se le passioni vivono dopo il sepolcro, il mio spirito doloroso sarà confortato da' sospiri di quella celeste fanciulla ch'io credeva nata per me, ma che gl'interessi degli uomini e il mio destino feroce mi hanno strappata dal petto.
Poiché non ho potuto risparmiarti il cordoglio di prestarmi gli ufficj supremi - e già m'era, prima che tu venissi, risolto di scriverne al parroco - aggiungi anche questa ultima pietà ai tanti tuoi beneficj. Fa ch'io sia sepolto, così come sarò trovato, in un sito abbandonato, di notte senza esequie, senza lapide, sotto i pini del colle che guarda la chiesa. Il ritratto di Teresa sia sotterrato col mio cadavere.
25 Marzo, 1799
L'amico tuo
JACOPO ORTIS
Uscì nuovamente: e trovandosi alle ore 11 appiè di un monte due miglia discosto dalla sua casa, bussò alla porta di un contadino, e lo destò domandandogli dell'acqua, e ne bevve molta.
Ritornato a casa dopo la mezzanotte, uscì tosto di stanza, e porse al ragazzo una lettera sigillata per me, raccomandandogli di consegnarla a me solo. E stringendogli la mano: Addio Michele! amami; e lo mirava affettuosamente - poi lasciatolo a un tratto, rientrò, serrandosi dietro la porta. Continuò la lettera per Teresa.
Ore 1
Ho visitato le mie montagne, ho visitato il lago de' cinque fonti, ho salutato per sempre le selve, i campi, il cielo. O mie solitudini! o rivo, che mi hai la prima volta insegnato la casa di quella fanciulla celeste! quante volte ho sparpagliato i fiori su le tue acque che passavano sotto le sue finestre! quante volte ho passeggiato con Teresa per le tue sponde, mentr'io inebbriandomi della voluttà di adorarla, vuotava a gran sorsi il calice della morte.
Sacro gelso! ti ho pure adorato; ti ho pure lasciati gli ultimi gemiti, e gli ultimi ringraziamenti. Mi sono prostrato, o mia Teresa, presso a quel tronco; e quell'erba ha dianzi bevute le più dolci lagrime ch'io abbia versato mai; mi pareva ancora calda dell'orma del tuo corpo divino; mi pareva ancora odorosa. Beata sera! come tu sei stampata nel mio petto! - io stava seduto al tuo fianco, o Teresa, e il raggio della luna penetrando fra i rami illuminava il tuo angelico viso! io vidi scorrere su le tue guance una lagrima; e la ho succhiata, e le nostre labbra, e i nostri respiri, si sono confusi, e l'anima mia si trasfondea nel tuo petto. Era la sera de' 13 Maggio era giorno di giovedì. Da indi in qua non è passato momento ch'io non mi sia confortato con la ricordanza di quella sera: mi sono reputato persona sacra, e non ho degnata più alcuna donna di un guardo credendola immeritevole di me - di me che ho sentita tutta la beatitudine di un tuo bacio.
T'amai dunque t'amai, e t'amo ancor di un amore che non si può concepire che da me solo. È poco prezzo, o mio angelo, la morte per chi ha potuto udir che tu l'ami, e sentirsi scorrere in tutta l'anima la voluttà del tuo bacio, e piangere teco - io sto col piè nella fossa; eppure tu anche in questo frangente ritorni, come solevi, davanti a questi occhi che morendo si fissano in te, in te che sacra risplendi di tutta la tua bellezza. E fra poco! Tutto è apparecchiato; la notte è già troppo avvanzata - addio - fra poco saremo disgiunti dal nulla, o dalla incomprensibile eternità. Nel nulla? Sì. - Sì, sì; poiché sarò senza di te, io prego il sommo Iddio, se non ci riserba alcun luogo ov'io possa riunirmi teco per sempre, le prego dalle viscere dell'anima mia, e in questa tremenda ora della morte, perché egli m'abbandoni soltanto nel nulla. Ma io moro incontaminato, e padrone di me stesso, e pieno di te, e certo del tuo pianto! Perdonami, Teresa, se mai - ah consolati, e vivi per la felicità de' nostri miseri genitori; la tua morte farebbe maledire le mie ceneri.
Che se taluno ardisse incolparti del mio infelice destino, confondilo con questo mio giuramento solenne ch'io pronunzio gittandomi nella notte della morte: Teresa è innocente. - Ora tu accogli l'anima mia.
Alla sera
Metro: sonetto (ABAB, ABAB, CDC, DCD).
Forse perché della fatal quïete
tu sei l'immago a me sì cara vieni
o Sera! E quando ti corteggian liete
le nubi estive e i zeffiri sereni,
e quando dal nevoso aere inquïete
tenebre e lunghe all'universo meni
sempre scendi invocata, e le secrete
vie del mio cor soavemente tieni.
Vagar mi fai co' miei pensier su l'orme
che vanno al nulla eterno; e intanto fugge
questo reo tempo, e van con lui le torme
delle cure onde meco egli si strugge;
e mentre io guardo la tua pace, dorme
quello spirito guerrier ch'entro mi rugge.
A Zacinto
Metro: sonetto (ABAB, ABAB, CDE, CED). Da notare come le parole-rima delle
quartine, tra l'altro di suggestiva congruenza semantica, si ripercuotano
variamente in rime interne e assonanze nei primi undici versi.
Né più mai toccherò le sacre sponde
ove il mio corpo fanciulletto giacque,
Zacinto mia, che te specchi nell'onde
del greco mar da cui vergine nacque
Venere, e fea quelle isole feconde
col suo primo sorriso, onde non tacque
le tue limpide nubi e le tue fronde
l'inclito verso di colui che l'acque
cantò fatali, ed il diverso esiglio
per cui bello di fama e di sventura
baciò la sua petrosa Itaca Ulisse.
Tu non altro che il canto avrai del figlio,
o materna mia terra; a noi prescrisse
il fato illacrimata sepoltura.
In morte del fratello Giovanni
Metro: sonetto (ABAB, ABAB, CDC, DCD).
Un dì, s'io non andrò sempre fuggendo
di gente in gente, me vedrai seduto
su la tua pietra, o fratel mio, gemendo
il fior de' tuoi gentili anni caduto.
La Madre or sol suo dì tardo traendo
parla di me col tuo cenere muto,
ma io deluse a voi le palme tendo
e sol da lunge i miei tetti saluto.
Sento gli avversi numi, e le secrete
cure che al viver tuo furon tempesta,
e prego anch'io nel tuo porto quïete.
Questo di tanta speme oggi mi resta!
Straniere genti, almen le ossa rendete
allora al petto della madre mesta.
All'ombra de' cipressi e dentro l'urne
confortate di pianto è forse il sonno
della morte men duro? Ove piú il Sole
per me alla terra non fecondi questa
bella d'erbe famiglia e d'animali,
e quando vaghe di lusinghe innanzi
a me non danzeran l'ore future,
né da te, dolce amico, udrò piú il verso
e la mesta armonia che lo governa,
né piú nel cor mi parlerà lo spirto
delle vergini Muse e dell'amore,
unico spirto a mia vita raminga,
qual fia ristoro a' dí perduti un sasso
che distingua le mie dalle infinite
ossa che in terra e in mar semina morte?
Vero è ben, Pindemonte! Anche la Speme,
ultima Dea, fugge i sepolcri: e involve
tutte cose l'obblío nella sua notte;
e una forza operosa le affatica
di moto in moto; e l'uomo e le sue tombe
e l'estreme sembianze e le reliquie
della terra e del ciel traveste il tempo.
Ma perché pria del tempo a sé il mortale
invidierà l'illusïon che spento
pur lo sofferma al limitar di Dite?
Non vive ei forse anche sotterra, quando
gli sarà muta l'armonia del giorno,
se può destarla con soavi cure
nella mente de' suoi? Celeste è questa
corrispondenza d'amorosi sensi,
celeste dote è negli umani; e spesso
per lei si vive con l'amico estinto
e l'estinto con noi, se pia la terra
che lo raccolse infante e lo nutriva,
nel suo grembo materno ultimo asilo
porgendo, sacre le reliquie renda
dall'insultar de' nembi e dal profano
piede del vulgo, e serbi un sasso il nome,
e di fiori odorata arbore amica
le ceneri di molli ombre consoli.
Sol chi non lascia eredità d'affetti
poca gioia ha dell'urna; e se pur mira
dopo l'esequie, errar vede il suo spirto
fra 'l compianto de' templi acherontei,
o ricovrarsi sotto le grandi ale
del perdono d'lddio: ma la sua polve
lascia alle ortiche di deserta gleba
ove né donna innamorata preghi,
né passeggier solingo oda il sospiro
che dal tumulo a noi manda Natura.
Pur nuova legge impone oggi i sepolcri
fuor de' guardi pietosi, e il nome a' morti
contende. E senza tomba giace il tuo
sacerdote, o Talia, che a te cantando
nel suo povero tetto educò un lauro
con lungo amore, e t'appendea corone;
e tu gli ornavi del tuo riso i canti
che il lombardo pungean Sardanapalo,
cui solo è dolce il muggito de' buoi
che dagli antri abdüani e dal Ticino
lo fan d'ozi beato e di vivande.
O bella Musa, ove sei tu? Non sento
spirar l'ambrosia, indizio del tuo nume,
fra queste piante ov'io siedo e sospiro
il mio tetto materno. E tu venivi
e sorridevi a lui sotto quel tiglio
ch'or con dimesse frondi va fremendo
perché non copre, o Dea, l'urna del vecchio
cui già di calma era cortese e d'ombre.
Forse tu fra plebei tumuli guardi
vagolando, ove dorma il sacro capo
del tuo Parini? A lui non ombre pose
tra le sue mura la citta, lasciva
d'evirati cantori allettatrice,
non pietra, non parola; e forse l'ossa
col mozzo capo gl'insanguina il ladro
che lasciò sul patibolo i delitti.
Senti raspar fra le macerie e i bronchi
la derelitta cagna ramingando
su le fosse e famelica ululando;
e uscir del teschio, ove fuggia la luna,
l'úpupa, e svolazzar su per le croci
sparse per la funerëa campagna
e l'immonda accusar col luttüoso
singulto i rai di che son pie le stelle
alle obblïate sepolture. Indarno
sul tuo poeta, o Dea, preghi rugiade
dalla squallida notte. Ahi! su gli estinti
non sorge fiore, ove non sia d'umane
lodi onorato e d'amoroso pianto.
Dal dí che nozze e tribunali ed are
diero alle umane belve esser pietose
di se stesse e d'altrui, toglieano i vivi
all'etere maligno ed alle fere
i miserandi avanzi che Natura
con veci eterne a sensi altri destina.
Testimonianza a' fasti eran le tombe,
ed are a' figli; e uscían quindi i responsi
de' domestici Lari, e fu temuto
su la polve degli avi il giuramento:
religïon che con diversi riti
le virtú patrie e la pietà congiunta
tradussero per lungo ordine d'anni.
Non sempre i sassi sepolcrali a' templi
fean pavimento; né agl'incensi avvolto
de' cadaveri il lezzo i supplicanti
contaminò; né le città fur meste
d'effigïati scheletri: le madri
balzan ne' sonni esterrefatte, e tendono
nude le braccia su l'amato capo
del lor caro lattante onde nol desti
il gemer lungo di persona morta
chiedente la venal prece agli eredi
dal santuario. Ma cipressi e cedri
di puri effluvi i zefiri impregnando
perenne verde protendean su l'urne
per memoria perenne, e prezïosi
vasi accogliean le lagrime votive.
Rapían gli amici una favilla al Sole
a illuminar la sotterranea notte,
perché gli occhi dell'uom cercan morendo
il Sole; e tutti l'ultimo sospiro
mandano i petti alla fuggente luce.
Le fontane versando acque lustrali
amaranti educavano e vïole
su la funebre zolla; e chi sedea
a libar latte o a raccontar sue pene
ai cari estinti, una fragranza intorno
sentía qual d'aura de' beati Elisi.
Pietosa insania che fa cari gli orti
de' suburbani avelli alle britanne
vergini, dove le conduce amore
della perduta madre, ove clementi
pregaro i Geni del ritorno al prode
che tronca fe' la trïonfata nave
del maggior pino, e si scavò la bara.
Ma ove dorme il furor d'inclite gesta
e sien ministri al vivere civile
l'opulenza e il tremore, inutil pompa
e inaugurate immagini dell'Orco
sorgon cippi e marmorei monumenti.
Già il dotto e il ricco ed il patrizio vulgo,
decoro e mente al bello italo regno,
nelle adulate reggie ha sepoltura
già vivo, e i stemmi unica laude. A noi
morte apparecchi riposato albergo,
ove una volta la fortuna cessi
dalle vendette, e l'amistà raccolga
non di tesori eredità, ma caldi
sensi e di liberal carme l'esempio.
A egregie cose il forte animo accendono
l'urne de' forti, o Pindemonte; e bella
e santa fanno al peregrin la terra
che le ricetta. Io quando il monumento
vidi ove posa il corpo di quel grande
che temprando lo scettro a' regnatori
gli allòr ne sfronda, ed alle genti svela
di che lagrime grondi e di che sangue;
e l'arca di colui che nuovo Olimpo
alzò in Roma a' Celesti; e di chi vide
sotto l'etereo padiglion rotarsi
piú mondi, e il Sole irradïarli immoto,
onde all'Anglo che tanta ala vi stese
sgombrò primo le vie del firmamento:
- Te beata, gridai, per le felici
aure pregne di vita, e pe' lavacri
che da' suoi gioghi a te versa Apennino!
Lieta dell'aer tuo veste la Luna
di luce limpidissima i tuoi colli
per vendemmia festanti, e le convalli
popolate di case e d'oliveti
mille di fiori al ciel mandano incensi:
e tu prima, Firenze, udivi il carme
che allegrò l'ira al Ghibellin fuggiasco,
e tu i cari parenti e l'idïoma
désti a quel dolce di Calliope labbro
che Amore in Grecia nudo e nudo in Roma
d'un velo candidissimo adornando,
rendea nel grembo a Venere Celeste;
ma piú beata che in un tempio accolte
serbi l'itale glorie, uniche forse
da che le mal vietate Alpi e l'alterna
onnipotenza delle umane sorti
armi e sostanze t' invadeano ed are
e patria e, tranne la memoria, tutto.
Che ove speme di gloria agli animosi
intelletti rifulga ed all'Italia,
quindi trarrem gli auspici. E a questi marmi
venne spesso Vittorio ad ispirarsi.
Irato a' patrii Numi, errava muto
ove Arno è piú deserto, i campi e il cielo
desïoso mirando; e poi che nullo
vivente aspetto gli molcea la cura,
qui posava l'austero; e avea sul volto
il pallor della morte e la speranza.
Con questi grandi abita eterno: e l'ossa
fremono amor di patria. Ah sí! da quella
religïosa pace un Nume parla:
e nutria contro a' Persi in Maratona
ove Atene sacrò tombe a' suoi prodi,
la virtú greca e l'ira. Il navigante
che veleggiò quel mar sotto l'Eubea,
vedea per l'ampia oscurità scintille
balenar d'elmi e di cozzanti brandi,
fumar le pire igneo vapor, corrusche
d'armi ferree vedea larve guerriere
cercar la pugna; e all'orror de' notturni
silenzi si spandea lungo ne' campi
di falangi un tumulto e un suon di tube
e un incalzar di cavalli accorrenti
scalpitanti su gli elmi a' moribondi,
e pianto, ed inni, e delle Parche il canto.
Felice te che il regno ampio de' venti,
Ippolito, a' tuoi verdi anni correvi!
E se il piloto ti drizzò l'antenna
oltre l'isole egèe, d'antichi fatti
certo udisti suonar dell'Ellesponto
i liti, e la marea mugghiar portando
alle prode retèe l'armi d'Achille
sovra l'ossa d'Ajace: a' generosi
giusta di glorie dispensiera è morte;
né senno astuto né favor di regi
all'Itaco le spoglie ardue serbava,
ché alla poppa raminga le ritolse
l'onda incitata dagl'inferni Dei.
E me che i tempi ed il desio d'onore
fan per diversa gente ir fuggitivo,
me ad evocar gli eroi chiamin le Muse
del mortale pensiero animatrici.
Siedon custodi de' sepolcri, e quando
il tempo con sue fredde ale vi spazza
fin le rovine, le Pimplèe fan lieti
di lor canto i deserti, e l'armonia
vince di mille secoli il silenzio.
Ed oggi nella Troade inseminata
eterno splende a' peregrini un loco,
eterno per la Ninfa a cui fu sposo
Giove, ed a Giove diè Dàrdano figlio,
onde fur Troia e Assàraco e i cinquanta
talami e il regno della giulia gente.
Però che quando Elettra udí la Parca
che lei dalle vitali aure del giorno
chiamava a' cori dell'Eliso, a Giove
mandò il voto supremo: - E se, diceva,
a te fur care le mie chiome e il viso
e le dolci vigilie, e non mi assente
premio miglior la volontà de' fati,
la morta amica almen guarda dal cielo
onde d'Elettra tua resti la fama. -
Cosí orando moriva. E ne gemea
l'Olimpio: e l'immortal capo accennando
piovea dai crini ambrosia su la Ninfa,
e fe' sacro quel corpo e la sua tomba.
Ivi posò Erittonio, e dorme il giusto
cenere d'Ilo; ivi l'iliache donne
sciogliean le chiome, indarno ahi! deprecando
da' lor mariti l'imminente fato;
ivi Cassandra, allor che il Nume in petto
le fea parlar di Troia il dí mortale,
venne; e all'ombre cantò carme amoroso,
e guidava i nepoti, e l'amoroso
apprendeva lamento a' giovinetti.
E dicea sospiranda: - Oh se mai d'Argo,
ove al Tidíde e di Läerte al figlio
pascerete i cavalli, a voi permetta
ritorno il cielo, invan la patria vostra
cercherete! Le mura, opra di Febo,
sotto le lor reliquie fumeranno.
Ma i Penati di Troia avranno stanza
in queste tombe; ché de' Numi è dono
servar nelle miserie altero nome.
E voi, palme e cipressi che le nuore
piantan di Priamo, e crescerete ahi presto
di vedovili lagrime innaffiati,
proteggete i miei padri: e chi la scure
asterrà pio dalle devote frondi
men si dorrà di consanguinei lutti,
e santamente toccherà l'altare.
Proteggete i miei padri. Un dí vedrete
mendico un cieco errar sotto le vostre
antichissime ombre, e brancolando
penetrar negli avelli, e abbracciar l'urne,
e interrogarle. Gemeranno gli antri
secreti, e tutta narrerà la tomba
Ilio raso due volte e due risorto
splendidamente su le mute vie
per far piú bello l'ultimo trofeo
ai fatati Pelídi. Il sacro vate,
placando quelle afflitte alme col canto,
i prenci argivi eternerà per quante
abbraccia terre il gran padre Oceàno.
E tu onore di pianti, Ettore, avrai,
ove fia santo e lagrimato il sangue
per la patria versato, e finché il Sole
risplenderà su le sciagure umane.
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