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Tesina di maturità- Il mistero della parola




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LICEO CLASSICO "V. ALFIERI"

Bologna






Tesina di maturità










Il mistero della parola






Sommario




Italiano         

Dante e la retorica dell'oblio

L'ineffabilità della parola in Giacomo Leopardi


Storia

La propaganda durante la Prima Guerra Mondiale


Arte

La tela di Guernica: Pablo Ricasso


Filosofia        

L'inesauribile complessità dell'esistenza secondo Kierkegaard


Latino           

S. Agostino


Inglese

George Orwell: language as the "Ultimate Weapon" in Nineteen Eighty-Four


Allegati

Canto XXXIII

Infinito

Storia: manifesti di propaganda

S. Agostino: passi scelti



Bibliografia










Italiano



Dante e la retorica dell'oblio


Il motivo tradizionale dell'incapacità di parlare degnamente dell'argomento, ritorna costantemente nella poesia dantesca, in particolare nell'ultima cantica della Commedia, autentico regno dell'ineffabile, a indicare la consapevolezza della sproporzione tra vis intellettiva e verbum oris. Non per nulla l'ascesa al Paradiso si annuncia proprio con il riconoscimento di un'insufficienza mnemonica, e quindi espressiva, attraverso il quale l'autore dichiara un principio fondamentale di poetica:


Nel ciel che più de la sua luce prende


fu'io, e vidi cose che ridire


né sa né può chi di là sù discende;


perché appressando sé al suo disire


nostro intelletto si profonda tanto,


che dietro la memoria non può ire[1].


Ma rispetto alla topica dell'ineffabile, la quale da Omero in poi si configura perlopiù come difficoltà di celebrare degnamente i pregi e le virtù di un sovrano, qui l'idea dantesca dell'inadeguatezza del dire, inscindibile dal concetto della memoria, acquista caratteri del tutto nuovi che la distinguono dalla tematica consueta dell'elogio. In particolare il meccanismo della dimenticanza che segue la visione generando l'impotenza espressiva viene descritto con precisione nella pagina dell'Epistola a Cangrande dedicata all'esordio del Paradiso:


Vidit ergo, ut dicit, aliqua que referre nescit et nequit rediens. Diligenter quippe notandum est quod dicit "nescit et nequit": nescit quia oblitus, nequit quia, si recordatur et contentum tenet, sermo tamen deficit. Multa namque per intellectum videmus quibus signa vocalia desunt.


Emerge qui il tema dell'incomunicabilità della materia quando l'elevazione trascende l'humanum modum, che si presenta essenzialmente come problema mnemonico connesso alla difficoltà di tradurre in parole il contenuto della visione. In altri termini Dante avverte che all'esperienza del vedere per intellectum sovente non corrispondono le possibilità linguistiche, cioè i signa vocalia non soccorrono il processo compositivo nel momento in cui il poeta tenta di afferrare l'inattingibile. In questo senso la poesia del Paradiso contiene una riflessione fondamentale sulla possibilità di manifestare linguisticamente l'esperienza mistica, autentico dramma della parola sempre tesa all'espressione dell'indicibile nella consapevolezza dei propri limiti.


Ma il topos dell'inesprimibile che nell'ultimo regno si congiunge più intimamente alla materia teologica, assumendo una connotazione metafisica, costituiva una costante della poesia giovanile di Dante, dove affiora soprattutto

nelle iperboli elogiative delle rime della loda, secondo un meccanismo psicologico in parte illustrato nel Convivio attraverso le chiose sulla canzone Amor che nella mente mi ragiona, pagina che può illuminare la questione dell'ineffabilitade:


E veramente dico; però che li miei pensieri, di costei ragionando, molte fiate voleano cose conchiudere di lei, che io non le potea intendere, e smarrivami sì che quasi parea di fuori alienato: come chi guarda col viso anco 'n una retta linea, prima, vede le cose prossime chiaramente; poi, procedendo, meno le vede chiare; poi, più oltre, dubita; poi, massimamente oltre procedendo, lo viso disgiunto, nulla vede.[2]


Qui Dante descrive uno smarrimento del tutto simile all'alienatio mentis dei mistici, condizione estatica contraddistinta dal cedimento della facoltà visiva e razionale che rappresenta il presupposto dell'indicibilità, poiché "la lingua non è, di quello che lo 'ntelletto vede, compiutamente seguace".

L'altezza dell'argomento trascende vertiginosamente le risorse espressive, determinando un sentimento di insufficienza, "però che la lingua mai non è di tanta facundia che dire potesse ciò che nel pensiero mio se ne ragiona; per che è da vedere che, a rispetto de la veritade, poco fia quel che dirà".[3]

In questo modo, mentre riconosce i limiti dell'abilità retorica o facundia, il poeta sottolinea al tempo stesso l'ardua impresa di rinvenire nella "fabrica del retorico" parole adeguate alla "dignitade" della donna gentile, scusandosi poi per il "difetto" delle rime:


e dico che, se difetto fia ne le mie rime, cioè ne le mie parole che a trattare di costei sono ordinate, di ciò è da biasimare la debilitade de lo 'ntelletto e la cortezza del nostro parlare, lo quale per lo pensiero è vinto, sì che seguire lui non puote a pieno, massimamente là dove lo pensiero nasce da amore, perché quivi l'anima profondamente più che altrove s'ingegna.[4]


Il fenomeno dell'indebolimento della facoltà intellettiva dinanzi al sorriso di Beatrice sarà ribadito anche nell'Empireo, dove il poeta celebra la sua bellezza attraverso il paradosso retorico dell'apparente rinuncia al canto:


Se quanto infino a qui di lei si dice

fosse conchiuso tutto in una loda,

poca sarebbe a fornir questa vice.

La bellezza ch'io vidi si trasmoda

non pur di là da noi, ma certo io credo

che solo il suo fattor tutta la goda.

Da questo passo vinto mi concedo

più che già mai da punto di suo tema

soprato fosse comico o tragedo:

ché, come sole in viso che più trema,

così lo rimembrar del dolce riso

la mente mia da me medesmo scema.[5]



L'immagine iperbolica di un'impresa poetica senza precedenti prelude alla retorica dell'ultimo canto, dove la scrittura affronta l'estrema navigazione fino alle Colonne d'Ercole della parola, misurandosi con l'inattingibile divino.




L'ineffabilità della parola in Giacomo Leopardi

L'infinito di Leopardi è un infinito 'negativo', nel senso che è un infinito creato dall'immaginazione e dal desiderio, un puro prodotto della mente umana. E' chiaro che il suo modo di porsi di fronte al 'problema infinito' è di tipo metafisico, è la ricerca del rapporto tra infinito come spazio assoluto e tempo assoluto e la nostra cognizione del tempo e dello spazio empirici. Ma nella sua riflessione inserisce il suo particolare modo di interpretare l'infinito, o meglio l'indefinito, come fluttuare di sensazioni.

Nello 'Zibaldone' Leopardi afferma che

L'infinito è un parto della nostra immaginazione, della nostra piccolezza ad un tempo e della nostra superbia [.] l'infinito è un'idea, un sogno, non una realtà: almeno niuna prova abbiamo noi dell'esistenza di esso, neppur per analogia.

Per Leopardi l'infinito coincide con lo slancio vitale, con lo spasimo, la tensione che l'uomo ha connaturata in sé verso la felicità. L'infinito diventa il principio stesso del piacere, e il fine stesso a cui tende questo slancio dell'uomo.

E' il desiderio assoluto di felicità che porta l'uomo a ricercare il piacere in un numero sempre crescente di sensazioni, nella speranza vana della sua completezza; è una tensione che non ha limiti, né per durata nel tempo, né per estensione, per questo si scontra irrevocabilmente con la vita umana, lo spazio, il tempo, la morte. Infatti

l'anima umana desidera sempre essenzialmente e mira unicamente, benché sotto molti aspetti, al piacere, ossia alla felicità [.] Questo desiderio e questa tendenza non ha limiti, perché è ingenita e congenita con l'esistenza, e perciò non può avere fine in questo o in quel piacere che non può essere infinito, ma solamente, termina con la vita.

Per Leopardi, questa tensione può spegnersi solo nel momento della morte perché è uno slancio connaturato alla vita stessa,

l'anima, amando sostanzialmente il piacere, abbraccia tutta l'estensione immaginabile di questo sentimento, senza poterla neppure concepire, perché non si può formare idea chiara di una cosa che ella desidera illimitatamente.

Per superare i limiti fisici della natura umana interviene l'immaginazione, che ha come 'attività' principale la raffigurazione del piacere:

Il piacere infinito non si può trovare nella realtà, si trova così nell'immaginazione, dalla quale derivano la speranza, le illusioni, ecc.'. Ma l'immaginazione ha bisogno di stimoli e perciò 'l'anima si immagina quello che non vede, che quell'albero, quella siepe, quella torre gli nasconde, e va errando in uno spazio immaginario, e si figura cose che non potrebbe se la sua vita si estendesse dappertutto, perché il reale escluderebbe l'immaginario.

E dunque

la molteplicità delle sensazioni confonde l'anima, gli impedisce di vedere i confini di ciascheduna, toglie l'esaurimento subitaneo del piacere, la fa errare da un piacere in un altro senza poterne approfondire nessuno, e quindi si rassomiglia in certo modo ad un piacere infinito.

Resta quindi nell'animo un senso di inappagamento, di insoddisfazione perché non si riesce effettivamente a concepire l'infinitudine, ma solo l'indefinito, che è un'idea inadeguata, approssimata, vaga: e questa insoddisfazione conduce al tedio, alla noia spirituale.

Ci sono però immagini, sensazioni che suscitano nell'animo l'idea di infinito, ad esempio la visione di una torre antica, perché

il concepire uno spazio di molti secoli produce una sensazione indefinita, l'idea di un tempo indeterminato, dove l'anima si perde e sebbene sa che non ci sono confini, non li distingue e non sa quali sieno,

oppure le immagini

di una campagna ad andamento declive in guisa che la vista in certa lontananza non arrivi alla valle, e quella di un filare di alberi, la cui fine si perde di vista

o, infine

una fabbrica, una torre veduta in modo che paia innalzarsi sola sopra l'orizzonte e questo non si vede, produce un contrasto efficacissimo e sublimissimo tra finito e indefinito.

Ovviamente, a questo proposito, l'immagine che meglio ha esemplificato questa concezione leopardiana dell'indefinito è senz'altro costituita dagli 'interminati spazi' della famosa poesia intitolata, appunto, 'L'infinito'.


'L'infinito' di Leopardi è forse uno degli idilli più organici per quanto riguarda significato-struttura-significante, la disposizione delle parole, il loro potere semantico, l'uso stesso che ne fa il poeta contribuiscono a rendere questa poesia un 'viaggio interiore', una scoperta dello spirito, una illuminazione.

L'infinito di cui parla è temporale e spaziale e viene evocato tramite il limite fisico (la siepe, il fruscio del vento) che porta il poeta da una dimensione fisica e sensoriale ad una 'metafisica'. I sensi, in questo caso la vista e l'udito, conducono alla intuizione di qualcosa che è al di là.

L'osservazione del paesaggio si svolge in meditazione: il paesaggio, la natura, la fisicità vengono interiorizzati ed entrano a far parte dello 'spirito' del poeta, o meglio: il poeta riesce a calarsi nell'infinito.

Parte da una visione familiare, la vista del colle, il Monte Tabor, ermo, ma caro, ovvero solitario ma già appartenente alla esperienza personale del poeta, spettatore ma anche compartecipe della sua vita, così come familiare è la siepe.

Una siepe che diventa un limite, che evoca il desiderio, l'immaginazione di ciò che il guardo esclude, di ciò che non si può raggiungere con il solo ausilio dei sensi. Da un connotato fisico di realtà, si risveglia l'immaginazione di uno spazio ben più intimo.

Ed ecco che sia il colle che la siepe prima indicati con gli aggettivi questo/questa ad indicarne la vicinanza sia fisica che spirituale, diventano la porta per l'infinito. La siepe diventa quella, è già posta in un'altra dimensione, decisamente diversa da quella fisica.

Il poeta siede e guarda, in uno spazio senza tempo, e la sua immaginazione coglie e crea (io nel pensier mi fingo) irterminati spazi, sovrumani silenzi e profondissima quiete.

Leopardi ha colto, ha intuito l'infinito spaziale, che viene visto nella negazione della realtà fisica a cui è sempre abituato. Infatti gli spazi sono interminati, i silenzi sono sovrumani, la quiete è profondissima. Danno l'idea di una dimensione impossibile da paragonare con quella 'solita', 'abituale'.

Anche la disposizione nel verso, con l'enjambemant tra interminati e spazi e tra sovrumani e silenzi e la dieresi su quiete danno la sensazione di una vastità infinita; inoltre sono tutte parole polisillabe: tutto acquista una dilatazione inusitata in tutte le direzioni.

Portando all'interno del suo animo questi pensieri, rivelano il confine tra la limitatezza della vita umana e l'immensità della Natura, di cui l'uomo fa parte, ma che non può cogliere appieno .

Questa intuizione gli dà un senso di paura (ove per poco il cor non si spaura), un senso di smarrimento in una dimensione mai conosciuta prima, mai immaginata con tale chiarezza. Il cuore quasi non riesce a sostenere la potenza di questa visione, è uno sgomento dato dalla consapevolezza di aver superato i suoi limiti, di aver trasceso la sua quotidianità e di aver partecipato ad un evento ai confini della religiosità.

Ma il vento, espressione della sua limitatezza fisica, lo riporta all'esistenza terrena e non più cosmica; tuttavia gli dà l'impulso per spaziare di nuovo nell'infinito temporale perché la voce della realtà (odo stormir tra queste piante) viene paragonata al silenzio dell'infinito (da notare quello infinito, cioè appartenente all'altra dimensione).

Il senso della vita terrena si rianima nel vento, e con esso il limite temporale dell'uomo, la morte. Ma il pensiero riprende il suo corso e fluisce (l'affollarsi dei pensieri è sottolineato dall'anafora della 'e') nell'eterno, nella distensione temporale della vita dal passato al presente, che è vivo, mentre il passato è morto. Tutto si riduce a un suono, è il respiro della vita universale, il suo battito eterno, smorzato, affievolito e quindi morto nel passato e invece vivo e prepotente nel presente.

Il pensiero e l'uomo vengono sommersi da questa immensità, da questa incommensurabilità e il mare, simbolo della vastità (come riprenderà Montale), fa annegare il suo pensiero, la sua mente, la sua razionalità, lo fa perdere, obliare in una dimensione universale in comunione con l'infinito, tanto più dolce perché insperata, inaspettata.

E' la pace dell'uomo che ha abbandonato l'umanità per il non-limite, anche se è consapevole di aver creato egli stesso questa dimensione: non riesce a darne una consistenza reale, è un infinito del pensiero, ma ugualmente dolce e potente.

Di questo mare, nell'animo dell'uomo resta la consapevolezza di poter annegare in esso solo per il breve istante di una illuminazione, perché come basta una siepe ad evocarlo, è altresì bastante un soffio di vento per riportarlo alla sua essenza limitata.










Storia

Come gli altri paesi liberali, l'Italia si dotò di un sistema di propaganda a favore della guerra e represse severamente (anche con la fucilazione) i tentativi dei soldati di sottrarsi agli attacchi sotto il fuoco delle mitragliatrici.

Non era facile motivare al combattimento una massa di contadini semianalfabeti, parlanti dialetti diversi e rimasti sostanzialmente estranei alla vita nazionale. Il tema principale fu quello della conquista di Trento e Trieste, oppresse, si diceva, dalla dominazione austriaca.

L'altro grande tema era il carattere barbarico, incivile e inumano degli imperi tedesco, austriaco e turco. Su questo tema le autorità italiane potevano attingere dal repertorio di invenzioni spudorate messo insieme alla propaganda inglese, allora forse la più potente e organizzata del mondo.

Dice un volantino del 1917:


Perché tutte e cinque le parti del mondo sono contro la Germania?

Perché la Germania ha provocato e straziato il mondo.

La Germania voleva con la prepotenza trascinare nella schiavitù tutte le nazioni. Perché la Germania ricorre, per vincere, ai delitti più atroci e alle frodi più basse? Perché la Germania ha paura della Giustizia.


Dopo un lungo elenco di crimini di guerra tedeschi contro i civili (campi di lavoro forzato in Belgio, siluramento di navi neutrali, cannoneggiamento di città, ecc.) ma senza mai far riferimento a ciò che i tedeschi avevano dovuto subire dagli alleati (uso di gas tossici, blocco navale che aveva ridotto alla fame milioni di persone, ecc.), il volantino conclude


Uomini tutti! Se volete la vera Pace, che duri,

strappate alla Germania le sue armi assassine.


La guerra in corso è presentata non come uno scontro tra interessi diversi (l'Italia ad esempio, oltre al Trentino e alla Venezia Giulia, voleva la Dalmazia, parte dell'impero turco e dell'impero coloniale tedesco), ma come lotta tra la vera Umanità (noi e i nostri alleati) e la totale inumanità (il nemico).

Questa è la dimensione ideologica della guerra totale, che da allora sembra non aver più abbandonato i conflitti del secolo XX e, come sembra, anche del XXI secolo.






Arte


La storia della celeberrima tela di Pablo Picasso (Malaga, 1895-Parigi, 1973) Guernica è una delle parabole più affascinanti della storia dell'arte del Novecento.  

L'opera ha avuto un'importanza storica, artistica, culturale ma anche sociale e politica ineguagliabile, diventando fin dall'Esposizione Internazionale di Parigi in cui fu presentata per la prima volta, un simbolo di tutte le guerre, l'immagine archetipica dell'homo hominis  lupus. Fu subito evidente che il soggetto non era solo ciò che era avvenuto a Gernika pochi mesi prima e che la guerra rappresentata non era solo la Guerra civile spagnola. Il respiro di questa tela era molto più ampio, non circoscrivibile a un singolo episodio. Era una rappresentazione del dolore degli inermi causato dalle barbarie della guerra, della disperazione, un monito, una profezia di ciò che avrebbe sconvolto l'Europa intera pochi anni dopo.  


IL BOMBARDAMENTO di Guernica (1937)


Il 26 Aprile 1937, l'aviazione falangista, con aerei e piloti tedeschi, attaccò e rase al suolo la cittadina basca di Guernica, uccidendo in tre ore e mezza circa 2000 persone. Dal punto di vista militare, Guernica era un obbiettivo del tutto insignificante; l'azione, svoltasi in un giorno di mercato, fu una strage compiuta per seminare terrore nella popolazione civile e sperimentare una nuova tattica di guerra aerea: il bombardamento a tappeto.

Così racconta l'episodio il quotidiano britannico Times del 28 aprile 1937: 'Il lunedì a Guernica è giorno di mercato per la gente delle campagne. Alle 16,30, quando la piazza era affollata, e molti contadini stavano ancora arrivando, la campana diede l'allarme . Cinque minuti dopo un bombardiere tedesco volteggiò sulla città a bassa quota, quindi lanciò le bombe mirando alla stazione. Dopo altri cinque minuti ne comparve un secondo, che lanciò sul centro un egual numero di esplosivi. Un quarto d'ora più tardi tre Junker continuarono l'opera di demolizione e il bombardamento si intensificò ed ebbe termine solo alle 19,45, con l'approssimarsi dell'oscurità. L'intera cittadina, con settemila abitanti e oltre tremila profughi, fu

ridotta sistematicamente a pezzi. Per un raggio di otto chilometri, tutt'intorno, gli incursori adottarono la tecnica di colpire fattorie isolate. Nella notte esse ardevano come candele accese sulle colline.


Macerie della città distrutta.

IL QUADRO. Guernica, 1937, tempera su tela, 349 x 776,5 cm

Fin dagli inizi della guerra, Picasso si era infatti dichiarato a favore del governo repubblicano, e Guernica rappresenta quindi il momento del dolore e dell'ira. L'opera, di effetto monumentale, venne realizzata dopo la distruzione della cittadina basca, in meno di due mesi. Abbiamo diverse versioni del quadro. Picasso studiò febbrilmente la scena in un centinaio di disegni preparatori datati tra il primo ed il nove maggio del 1937. L'emozione e la collera di Picasso per il massacro viene espressa nel quadro con una visione drammatica di corpi sfatti, visi stravolti, in uno sfondo privo di colore in cui echeggiano urla lancinanti.

STUDI PREPARATORI PER GUERNICA


Madre con bambino morto, Pa-
rigi, 28 maggio 1937. Matita,
gessetto colorato e gouache e
collage su carta.


Testa di donna che piange, Pa-
rigi, 3 giugno 1937. Matita, ges-
setto colorato e gouache su
carta.


Testa di guerriero, Parigi, 4
giugno 1937. Matita e gouache
su carta.

L'autore è all'apice della sua tensione creativa. La novità di quest'opera consiste nella sintassi cromatica che ammette solamente il bianco e il nero, suggerita dalle immagini di distruzione apparse sui giornali. Si può dire, dunque, che la scena non è ambientata né dentro né fuori, bensì ovunque, poiché diverse linee guidano lo sguardo in profondità, accorciamenti prospettici irregolari confondono il dato spaziale, e non si può stabilire un'unica fonte di luce. La composizione, che si allunga orizzontalmente, riunisce sette gruppi di personaggi, e presenta un'articolazione chiara e raffinata. Due scene occupano le superfici laterali di destra e di sinistra; tra queste, secondo una struttura triangolare, si sviluppa una terza scena. Al centro, in una posizione innaturale, si vede un cavallo ferito che si volge a sinistra; dalle fauci dolorosamente spalancate fuoriescono strazianti nitriti. A destra si allungano il profilo stilizzato di una testa umana e un braccio che tiene accesa sulla scena una lampada a petrolio. Sopra la testa del cavallo s'innalza un grande 'occhio di Dio' inserito al posto della pupilla, che presenta una lampadina e che è simbolo allo stesso tempo del sole e della luce elettrica. A destra del cavallo una donna inginocchiata conclude il gruppo compositivo centrale. A sinistra e sotto il cavallo ferito giace, al suolo con le braccia aperte quasi fosse crocefisso, la statua di un guerriero, che stringe con la mano destra una spada spezzata. Sopra la statua del guerriero della parte sinistra vi sono, tra le macerie fumanti, un toro e una madre urlante che tiene tra le braccia il figlio morto. Sul margine destro ,invece, vi è una figura col capo rovesciato all'indietro, la bocca spalancata in un grido di agonizzante dolore poiché avvolta dalle fiamme.

STUDI PREPARATORI PER GUERNICA


Toro, Parigi,20 maggio1937.
Matita e gouache su carta.


Testa di cavallo, Parigi, 20 maggio
1937. Matita e gouache su carta.







Filosofia

La comprensione del pensiero di Kierkegaard si presenta agli occhi del lettore odierno tutt'altro che facile poiché presenta caratteristiche del tutto nuove rispetto ai pensatori precedenti:

non si tratta né di un semplice giro di pensiero che si svolge come un Tutto (Spinoza, Hegel), né di una intuizione che si dilata da se stessa in sistema (Fichte, Schelling)

e neppure di una vita che si fa riflessione di pensiero (Pascal)

o di un pensiero che scandaglia gli abissi della vita

(Agostino)


La figura di Kierkegaard è certamente enigmatica e complesso risulta il dominare la vastità delle sue opere; le varie interpretazioni date al suo pensiero, inoltre, non fanno altro che allontanare il lettore dalla decifrazione del lavoro di questo genio.

Quale è la causa di tutte queste difficoltà? Sicuramente il fatto che il pensiero di Kierkegaard parte dalla inesauribile complessità dell'esistenza la quale non può essere mai racchiusa in un sistema; ecco perché è un 'pensatore oscuro e complesso, labirintico e abissale'.

A questo si aggiunge il fatto che le letture del filosofo danese appaiono molteplici, Kierkegaard era solito nascondersi sotto vari e numerosi pseudonimi, fino al punto di disegnare più figure dell'autore, letture tutte parziali che sono strutturalmente incapaci di restituircene l'immagine intera.


Esistono principalmente due ordini di difficoltà per comprendere il pensiero del filosofo danese:


1. la sua lingua che risulta essere complessa e disarmante anche per gli stessi danesi; infatti,   per capire Kierkegaard non basta conoscere le sue opinioni, 'ma bisogna anche studiare la   forma letteraria con la quale egli riveste i suoi pensieri';


2. la triplicità dei piani con cui si presenta la produzione letteraria kierkegaardiana suddivisa   in: scritti pseudonimi, scritti edificanti e 'Carte' del Diario, quest'ultime ormai   unanimemente riconosciute come fonte primaria e riferimento diretto dell'espressione   originaria dei suoi pensieri.


Detto ciò si comprende come mai 'la chiave ermeneutica dell'interpretazione oggettiva della produzione di Kierkegaard è soggettiva, ossia anch'essa dipende da una decisione radicale da parte del lettore di mettersi in sintonia con la sua scelta'.

Ma i problemi non finiscono qui; Kierkegaard è, in sostanza, un pensatore inattuale, ma proprio in questa inattualità sta la forza dell'universalità del suo messaggio: 'estraneo al suo tempo, Kierkegaard rimane ancor più estraneo al nostro che pullula di lassismo morale e religioso e di mediocrità speculativa, mentre si compiace di facili etichette cambiando ideologia a ogni stagione'.


'La mia disgrazia, ovvero ciò che rende la mia vita così ardua, è il fatto che la mia     tensione è di un tono più alta di quella degli altri uomini; e dove sono io, ciò che     intraprendo non ha niente a che fare con la cosa singola, ma sempre con un principio e un'idea' (Diario 1849).


Nel segno dell'ironia, dunque, si svolge e si consuma la dialettica della pseudonimia kierkegaardiana. L'assoluto sembra coincidere con l'incessante sottrarsi dell'orizzonte appena si tenti di oggettivarlo, di afferrarlo col pensiero, di dar forma al desiderio; ma l'ineludibilità di questo scacco a livello concettuale, lungi dall'annullare la situazione ironica, la intensifica proiettandola a livello esistenziale, dove lo scacco non si risolve affatto nel semplice errore teoretico, ma si presentifica in un'inesauribile dialettica della negatività.

L'ironia è infatti per lui molto più che una figura retorica: è una posizione esistenziale, un punto di vista sulle cose, una scelta comunicativa. L'interesse per l'ironia viene a Kierkegaard dall'ammirazione per Socrate.

Nell'ironia di Socrate Kierkegaard vede il metodo dell'interrogazione che mira a mettere in discussione le convinzioni dell'interlocutore e quindi a creare un "vuoto" da cui può originarsi un nuovo processo: è un momento critico-negativo, non un risultato. L'ironia relativizza, limita e insieme impedisce di adagiarsi nel risultato, stimolando l'appropriazione personale della verità.

Essa conduce il suo gioco di simulazione nello spazio che si apre tra essenza e apparenza, mostrando qualcosa che rimanda ad altro o addirittura all'opposto di ciò che sembra essere. Lo stesso testo ironico non deve perciò farsi riconoscere immediatamente come tale. La comunicazione ironica è sempre indiretta, richiede di essere interpretata. Essa nasconde e maschera, e nello stesso tempo rivela, proprio attraverso la distanza fra il significato letterale o immediato e l'intenzione comunicativa. Socrate può usare l'ironia perché la sua esistenza stessa è ironica, ovvero costruita sulla distanza dalle cose, sulla singolarità, sull'essere "straniero" nel suo stesso mondo. L'ironia, osserva Kierkegaard, "è un essere per sé della soggettività" in quanto il soggetto ironico si pone in modo riflesso, non immediato, di fronte al mondo.









Latino



Il mistero dell'anima umana


I brani che ho riportato si trovano all'inizio delle Confessiones.

Il primo di essi si apre con una domanda destinata a non trovare risposta: come può l'uomo invocare Dio e quindi chiedergli di entrare in lui? Come potrà l'anima dell'uomo contenere Dio, onnipotente e infinito?

A fronte di questo problema, razionalmente insolubile, sta l'esperienza della fede; essa ci dice che, in realtà, Dio è già dentro l'uomo, anzi che è presente in tutto ciò che esiste. Se così è, invocare Dio potrebbe apparire addirittura superfluo, poiché egli è già in noi.

Ma non si può illustrare il discorso di Agostino facendo esclusivamente ricorso a categorie logiche. La novità della prospettiva di Agostino consiste nel mettere in primo piano l'uomo e portare alla luce la scissione interiore che fa parte dell'esperienza di vita quotidiana del cristiano. La domanda che l'uomo si pone è rivolta a se stesso; a differenza di quanto faceva la cultura classica, che riteneva i conflitti interiori come un'"occupazione" dell'animo da parte delle passioni (quasi che queste fossero forze esterne che dovessero essere dominate dalla ragione) Agostino pone al centro della riflessione la coscienza soggettiva.

Sul piano stilistico risalta l'uso di una prosa franta in brevi periodi giustapposti, fitta di richiami anaforici e di effetti fonico-ritmici, altamente suggestivi.

L'inadeguatezza della ragione


Questa centralità dell'uomo trova conferma nel secondo brano.

La cifra stilistica delle Confessiones è l'uso del vocativo e delle interrogative dirette, che mostrano un'appassionata inquietudine espressiva; una tale urgenza è direttamente legata al desiderio di definire verbalmente condizioni dello spirito sondate con una straordinaria capacità d'introspezione.

Sul piano letterario si tratta di una scelta completamente originale, che congiunge l'epistola e la preghiera (cioè il colloquio diretto con Dio). Per dare all'opera una tonalità "orante", di colloquio interiore e di preghiera, Agostino usa citazioni e riferimenti espliciti ed impliciti alle Scritture.

In tal modo, d'altra parte, cerca di assicurare valore di verità alle proprie affermazioni in un campo di ricerca assolutamente nuovo ed esposto ad un rischio di errore che varrebbe, oltre che il naufragio gnoseologico, la disperazione esistenziale. In questo brano, ad esempio, l'interrogativo iniziale, tratto dal Salmo 18, sottolinea come Dio, trascendendo le possibilità dell'umana comprensione, sia definibile solo per tautologia («chi è il Signore se non il Signore? Chi è Dio se non il nostro Dio?»).

Nonostante ciò Agostino prova a elencare gli attributi di Dio. Ma non ne scaturisce una definizione razionale della sua essenza, bensì un tentativo di evocarla in forma connotativa. Il testo cerca di suggerire l'idea di Dio innanzitutto attraverso l'accumulo di superlativi («sommo, ottimo, potentissimo, onnipotentissimo, misericordiosissimo e giustissimo»); ma è significativo il fatto che, via via che le lodi si accumulano, esse tendano a disporsi per coppie ossimoriche, secondo antitesi che, come anche la struttura elencativa, si rifanno ancora allo stile della Bibbia.



















Inglese

George Orwell: language as the "Ultimate Weapon" in Nineteen Eighty-Four

George Orwell, like many other literary scholars, is interested in the modern use of the English language and, in particular, the abuse and misuse of English. He realises that language has the power in politics to mask the truth and mislead the public, and he wishes to increase public awareness of this power. He accomplishes this by placing a great focus on Newspeak and the media in his novel Nineteen Eighty-Four.

Demonstrating the repeated abuse of language by the government and by the media in his novel, Orwell shows how language can be used politically to deceive and manipulate people, leading to a society in which the people unquestioningly obey their government and mindlessly accept all propaganda as reality.

Language becomes a mind-control tool, with the ultimate goal being the destruction of will and imagination. As John Wain says in his essay, "[Orwell's] vision of 1984 does not include extinction weapons . . . He is not interested in extinction weapons because, fundamentally, they do not frighten him as much as spiritual ones".

The language theme in Orwell's novel has its roots in the story of the Tower of Babel. When God destroys the Towel of Babel, the civilizations which have contributed to the construction of the Tower suffer ever-after from the Curse of Confusion. The Curse both makes languages "mutually unintelligible", and alters their nature so that "they no longer lucidly [express] the nature of things, but rather [obscure] and [distort] them".

Orwell's Newspeak, the ultra-political new language introduced in Nineteen Eighty-Four, does precisely that: it facilitates deception and manipulation, and its purpose is to restrict understanding of the real world. A corollary to this is that "each post-Babel language [becomes] a closed system containing its own untranslatable view of the world".

Certainly, the ultimate aim of Newspeak is to enclose people in an orthodox pseudo-reality and isolate them from the real world.

Whereas people generally strive to expand their lexicon, the government in Nineteen Eighty-Four actually aims to cut back the Newspeak vocabulary. One of the Newspeak engineers says, "[we're] cutting the language down to the bone . . . Newspeak is the only language in the world whose vocabulary gets smaller every year".

By manipulating the language, the government wishes to alter the public's way of thinking. This can be done, psychologists theorise, because the words that are available for the purpose of communicating thought tend to influence the way people think. The linguist Benjamin Lee Whorf was a firm believer in this link between thought and language, and he theorised that "different languages impose different conceptions of reality".

So when words that describe a particular thought are completely absent from a language, that thought becomes more difficult to think of and communicate. For the Inner Party, the goal is to impose an orthodox reality and make heretical thought ('thoughtcrime') impossible. "In the end we shall make thoughtcrime literally impossible," explains the Newspeak engineer, "because there will be no words in which to express it".

Orwell's novel carries a well-founded warning about the powers of language. It shows how language can shape people's sense of reality, how it can be used to conceal truths, and even how it can be used to manipulate history. "Language is one of the key instruments of political dominations, the necessary and insidious means of the 'totalitarian' control of reality".

While language in the traditional sense can expand horizons and improve our understanding of the world, Orwell's novel demonstrates that language, when used in a maliciously political way, can just as easily become "a plot against human consciousness".


















Allegati

Dante - Canto XXXIII

Paradiso

Canto XXXIII

'Vergine Madre, figlia del tuo figlio,

umile e alta più che creatura,

3     termine fisso d'etterno consiglio,

tu se' colei che l'umana natura

nobilitasti sì, che 'l suo fattore

6     non disdegnò di farsi sua fattura.

Nel ventre tuo si raccese l'amore,

per lo cui caldo ne l'etterna pace

9     così è germinato questo fiore.

Qui se' a noi meridïana face

di caritate, e giuso, intra ' mortali,

12     se' di speranza fontana vivace.

Donna, se' tanto grande e tanto vali,

che qual vuol grazia e a te non ricorre,

15     sua disïanza vuol volar sanz'ali.

La tua benignità non pur soccorre

a chi domanda, ma molte fïate

18     liberamente al dimandar precorre.

In te misericordia, in te pietate,

in te magnificenza, in te s'aduna

21     quantunque in creatura è di bontate.

Or questi, che da l'infima lacuna

de l'universo infin qui ha vedute

24     le vite spiritali ad una ad una,

supplica a te, per grazia, di virtute

tanto, che possa con li occhi levarsi

27     più alto verso l'ultima salute.

E io, che mai per mio veder non arsi

più ch'i' fo per lo suo, tutti miei prieghi

30     ti porgo, e priego che non sieno scarsi,

perché tu ogne nube li disleghi

di sua mortalità co' prieghi tuoi,

33     sì che 'l sommo piacer li si dispieghi.

Ancor ti priego, regina, che puoi

ciò che tu vuoli, che conservi sani,

36     dopo tanto veder, li affetti suoi.

Vinca tua guardia i movimenti umani:

vedi Beatrice con quanti beati

39     per li miei prieghi ti chiudon le mani!'.

Li occhi da Dio diletti e venerati,

fissi ne l'orator, ne dimostraro

42     quanto i devoti prieghi le son grati;

indi a l'etterno lume s'addrizzaro,

nel qual non si dee creder che s'invii

45     per creatura l'occhio tanto chiaro.

E io ch'al fine di tutt'i disii

appropinquava, sì com'io dovea,

48     l'ardor del desiderio in me finii.

Bernardo m'accennava, e sorridea,

perch'io guardassi suso; ma io era

51     già per me stesso tal qual ei volea:

ché la mia vista, venendo sincera,

e più e più intrava per lo raggio

54     de l'alta luce che da sé è vera.

Da quinci innanzi il mio veder fu maggio

che 'l parlar mostra, ch'a tal vista cede,

57     e cede la memoria a tanto oltraggio.

Qual è colüi che sognando vede,

che dopo 'l sogno la passione impressa

60     rimane, e l'altro a la mente non riede,

cotal son io, ché quasi tutta cessa

mia visïone, e ancor mi distilla

63     nel core il dolce che nacque da essa.

Così la neve al sol si disigilla;

così al vento ne le foglie levi

66     si perdea la sentenza di Sibilla.

O somma luce che tanto ti levi

da' concetti mortali, a la mia mente

69     ripresta un poco di quel che parevi,

e fa la lingua mia tanto possente,

ch'una favilla sol de la tua gloria

72     possa lasciare a la futura gente;

ché, per tornare alquanto a mia memoria

e per sonare un poco in questi versi,

75     più si conceperà di tua vittoria.

Io credo, per l'acume ch'io soffersi

del vivo raggio, ch'i' sarei smarrito,

78     se li occhi miei da lui fossero aversi.

E' mi ricorda ch'io fui più ardito

per questo a sostener, tanto ch'i' giunsi

81     l'aspetto mio col valore infinito.

Oh abbondante grazia ond'io presunsi

ficcar lo viso per la luce etterna,

84     tanto che la veduta vi consunsi!

Nel suo profondo vidi che s'interna,

legato con amore in un volume,

87     ciò che per l'universo si squaderna:

sustanze e accidenti e lor costume

quasi conflati insieme, per tal modo

90     che ciò ch'i' dico è un semplice lume.

La forma universal di questo nodo

credo ch'i' vidi, perché più di largo,

93     dicendo questo, mi sento ch'i' godo.

Un punto solo m'è maggior letargo

che venticinque secoli a la 'mpresa

96     che fé Nettuno ammirar l'ombra d'Argo.

Così la mente mia, tutta sospesa,

mirava fissa, immobile e attenta,

99     e sempre di mirar faceasi accesa.

A quella luce cotal si diventa,

che volgersi da lei per altro aspetto

102     è impossibil che mai si consenta;

però che 'l ben, ch'è del volere obietto,

tutto s'accoglie in lei, e fuor di quella

105     è defettivo ciò ch'è lì perfetto.

Omai sarà più corta mia favella,

pur a quel ch'io ricordo, che d'un fante

108     che bagni ancor la lingua a la mammella.

Non perché più ch'un semplice sembiante

fosse nel vivo lume ch'io mirava,

111     che tal è sempre qual s'era davante;

ma per la vista che s'avvalorava

in me guardando, una sola parvenza,

114     mutandom'io, a me si travagliava.

Ne la profonda e chiara sussistenza

de l'alto lume parvermi tre giri

117     di tre colori e d'una contenenza;

e l'un da l'altro come iri da iri

parea reflesso, e 'l terzo parea foco

120     che quinci e quindi igualmente si spiri.

Oh quanto è corto il dire e come fioco

al mio concetto! e questo, a quel ch'i' vidi,

123     è tanto, che non basta a dicer 'poco'.

O luce etterna che sola in te sidi,

sola t'intendi, e da te intelletta

126     e intendente te ami e arridi!

Quella circulazion che sì concetta

pareva in te come lume reflesso,

129     da li occhi miei alquanto circunspetta,

dentro da sé, del suo colore stesso,

mi parve pinta de la nostra effige:

132     per che 'l mio viso in lei tutto era messo.

Qual è 'l geomètra che tutto s'affige

per misurar lo cerchio, e non ritrova,

135     pensando, quel principio ond'elli indige,

tal era io a quella vista nova:

veder voleva come si convenne

138     l'imago al cerchio e come vi s'indova;

ma non eran da ciò le proprie penne:

se non che la mia mente fu percossa

141     da un fulgore in che sua voglia venne.

A l'alta fantasia qui mancò possa;

ma già volgeva il mio disio e 'l velle,

144     sì come rota ch'igualmente è mossa,

l'amor che move il sole e l'altre stelle.






Giacomo Leopardi - Infinito

Sempre caro mi fu quest'ermo colle
e questa siepe che da tanta parte
dell'ultimo orizzonte il guardo esclude.
Ma sedendo e mirando, interminati
spazi di là da quella, e sovrumani
silenzi, e profondissima quïete
io nel pensier mi fingo; ove per poco
il cor non si spaura. E come il vento
odo stormir tra queste piante, io quello
infinito silenzio a questa voce
vo comparando: e mi sovvien l'eterno,
e le morte stagioni e la presente
e viva
, e il suon di lei: Così tra questa
immensità s'annega il pensier mio:
e il naufragar m'è dolce in questo mare.

Storia - Manifesti e pubblicità di propaganda (prima guerra mondiale)

L'Italia corteggiata prima dell'intervento.

A sinistra: l'Imperatore tedesco Guglielmo II e l'Imperatore austriaco Francesco Giuseppe.

A destra: il Re di Inghilterra Giorgio V, il Presidente francese Poincare (con il rosso cappello frigio), lo Zar russo Nicola II

 


Il fante ha lo sguardo preoccupato.

L'asta della bandiera gli fiorisce fra le mani

La Ghirba era un giornalino distribuito nelle trincee.

La vignetta firmata da Ardengo Soffici avrebbe voluto far ridere:


STRATEGIA TEDESCA

           - Trecentomila morti tedeschi in un mese, generale! Anche questi erano previsti nei piani?

- Ma certo! I mucchi di cadaveri servono ad ostacolare i contrattacchi nemici.

Signor sì, giornale di trincea: il numero del 20 novembre 1918.

Un soldato esulta sul corpo di un caduto

Richiamare la PAURA in un pezzo di propaganda per soldati al fronte è certamente da idioti. Quanto all'elenco delle doti dei soldati essi potevano fare un confronto diretto con le loro condizioni di vita in trincea (sani, forti, intelligenti )

Appello alle madri affinché mandino in trincea i figli 'imboscati' 

Latino - S. Agostino (passi scelti dalle Confessiones)


Conf. I, 2-3[6]

Et quomodo invocabo deum meum, deum et dominum meum, quoniam utique inme ipsum eum invocabo, cum invocabo eum? et quis locus est in me, quoveniat in me deus meus? quo deus veniat in me, deus, qui fecit caelum et terram? itane, domine deus meus, est quiquam in me, quod capiat te?an vero caelum et terra, quae fecisti et in quibus me fecisti, capiuntte? an quia sine te non esset quidquid est, fit, ut quidquid est capiat te? quoniam itaque et ego sum, quid peto, ut venias in me, quinon essem, nisi esses in me? non enim ego iam in inferis, et tamen etiam ibi es. nam etsi descendero in infernum, ades. non ergo essem, deus meus, non omnino essem, nisi esses in me. an potius non essem, nisi essem in te, ex quo omnia, per quem omnia, in quo omnia? etiam sic, domine, etiam sic. quo te invoco, cum in te sim? aut unde venias in me? quo enim recedam extra caelum et terram, ut inde in me veniat deus meus, qui dixit: caelum et terram ego impleo?

Capiunt ergone te caelum et terra, quoniam tu imples ea? an imples et restat, quoniam non te capiunt? et quo refundis quidquid impleto caeloet terra restat ex te? an non opus habes, ut quoquam continearis, qui contines omnia, quoniam quae imples continendo imples? non enim vasa, quae te plena sunt, stabilem te faciunt, quia etsi frangantur non effunderis. et cum effunderis super nos, non tu iaces, sed erigis nos,nec tu dissiparis, sed colligis nos. sed quae imples omnia, te toto imples omnia. an quia non possunt te totum capere omnia, partem tui capiunt et eandem partem simul omnia capiunt? an singulas singula et maiores maiora, minores minora capiunt? ergo est aliqua pars tua maior, aliqua minor? an ubique totus es et res nulla te totum capit?

















Bibliografia

Federico Repetto, Opinione pubblica, media e potere nel Novecento, Loescher, Torino, 2004

Cioffi, Luppi, Vigorelli, Zanette, Bianchi, De Pasquale, I filosofi e le idee, L'Ottocento e il primo Novecento, Bruno Mondadori, Milano, 2004

TLG, Thesaurus Linguae Graecae





Par. I, vv.4-9

Convivio, III, III, 13. Cfr. Amor, che ne la mente mi ragiona, vv. 9-18: .E certo e' mi conven lasciare in pria, / s'io vo. trattar di quel ch'odo di lei, / ciò che lo mio intelletto non comprende; / e, di quel che s'intende / gran parte, perché dirlo non savrei. / Dunque, se le mie rime avran difetto, / ch'entreran ne la loda di costei, / di ciò si biasmi il debole intelletto / e 'l parlar nostro, che non ha valore / di ritrar tutto ciò che dice Amore.


Convivio, III, IV, 3.

Convivio, III, IV, 4.

Par. XXX, vv. 16-27. Cfr. anche Par. XIV, vv. 79-81: Ma Beatrice sì bella e ridente / mi si mostrò, che tra quelle vedute / si vuol lasciar che non seguir la mente, e Par. XVIII, vv. 7-12: Io mi rivolsi a l'amoroso suono / del mio conforto; e qual io allor vidi / ne li occhi santi amor, qui l'abbandono: / non perch'io pur del mio parlar diffidi, / ma perla mente che non può redire / sovra sé tanto, s'altri non la guidi.

2. E come invocherò il mio Dio, il mio Dio e Signore, se invocarlo è chiamarlo entro di me? E dov'è in me lo spazio per accogliere il mio Dio? Dio entrare in me, quel Dio che ha fatto il cielo e la terra? Come? C'è in me un luogo capace di comprenderti, mio Dio e Signore? Il cielo e la terra, che tu hai fatto e in cui hai fatto anche me, ti comprendono forse? O forse perché senza di te non sarebbe cosa alcuna, avviene che ogni cosa ti comprenda? Ma se anche io per questo esisto, perché mai ti chiedo di venire in me, io che non sarei io, se tu non fossi in me? Già: io non sono ancora all'inferno, eppure tu sei anche là. Sì, quando sarò disceso all'inferno, tu sei là. Io dunque non esisterei, mio Dio, non sarei assolutamente nulla, se tu non fossi in me. O piuttosto, non esisterei se io non fossi in te: perché da te, per te, in te ogni cosa esiste. Sì, mio Signore, eppure, eppure Dove mi volgerò a invocarti se sono già in te, e tu da dove mai verresti in me? In che recessi oltre la terra e il cielo ritirarmi, perché da loro venga in me il mio Dio, che ha detto: io riempio il cielo e la terra?


3. Ti comprendono forse il cielo e la terra, perché tu li riempi? O non li riempi piuttosto eccedendoli, perché non ti comprendono? E dove riversi tutto ciò che resta di te quando hai riempito cielo e terra? O forse non hai bisogno di essere in alcun modo contenuto, tu che contieni ogni cosa, perché per te riempire è contenere? Certo non sono i vasi pieni di te a renderti stabile, perché se anche si spezzassero tu non ti verseresti. E quando ti riversi su di noi tu non ti spandi a terra, ma sollevi noi invece; e non vai perduto tu: ma fai che noi siamo raccolti in te. Pure, ciascuna cosa che riempi, la riempi di tutto te stesso. Forse allora, non potendo ciascuna cosa comprenderti intero, tutte comprendono di te solo una parte, e la stessa? Oppure ciascuna comprende di te una parte maggiore o minore a seconda della sua grandezza? Allora vi sarebbero parti di te maggiori e minori? O sei tutto intero in ogni punto, e nulla ti comprende tutto


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