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SUPERUOMO O BORGHESE? Ulisse nella concezione di D'Annunzio e Gozzano




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SUPERUOMO O BORGHESE?

Ulisse nella concezione di D'Annunzio e Gozzano


Il mito di Ulisse rimane un punto fermo nella tradizione letteraria italiana e si inserisce in un processo di rigenerazione e innovazione continua che ci permette di confrontarci ogni volta con un prodotto attuale, creato a partire da materiali già più volte utilizzati nel corso del tempo.

La figura di Odisseo nella letteratura del Novecento incarna spesso il simbolo dell'inquietudine morale e filosofica dell'uomo contemporaneo e si accompagna in genere ai motivi del viaggio e della ricerca della verità. Il ventaglio di interpretazioni che queste tematiche offrono giustifica quindi la continua fioritura di nuove versioni che si relazionano tra loro in un gioco di rimandi e contrapposizioni di cui uno degli esempi più eclatanti è esemplificato dagli scritti di Gabriele D'Annunzio (1863-1938) e Guido Gozzano (1883-1916): l'interdipendenza dei due autori, infatti, è tale che la loro analisi non può essere condotta singolarmente, ma deve essere effettuata tenendo conto dell'influenza che l'uno ha esercitato sull'altro.

1. Il superuomo dannunziano

Recuperando superficialmente, attraverso la spettacolarizzazione teatrale di Wagner, l'idea dell'Ubermensch di Nietzsche, D'Annunzio crea un eroe inteso come superuomo a cui tutto è lecito, un dominatore a tutti i livelli con il compito di percorrere strade mai battute prima.

In linea con l'estetismo decadente, che ha come obiettivo il vivere inimitabile, il Vate propone Ulisse come modello di vita aristocratica fuori dalla norma e dalla consuetudine borghese, perennemente in bilico tra l'identificarsi completamente con la Natura e il cadere nel baratro.

Il mito diventa pertanto un mezzo per elevarsi al di sopra della mediocrità sociale del suo tempo e per aprirsi all'incontro con un mondo diverso, affascinante ed inespolorato, in cui non esistono confini o limitazioni, se non quelli imposti dalla morte.

1.1. L'Ulisside

Troviamo riferimenti all'avventura di Odisseo in Maia (1903), il primo dei sette libri previsti di Laudi del cielo, del mare, della terra e degli eroi, dove D'Annunzio trae spunto autobiografico da una crociera nell'Egeo fatta sullo yacht di un amico per presentarsi come eroe teso ad esperienze uniche e sublimi.

Ulisse, modello di vitalità e forza inesauribile, è il superuomo per eccellenza, colui che ha rinunciato agli affetti e alla tranquillità in nome di qualcosa di Altro, di inconoscibile: egli è l'esempio che il Vate vuole seguire ed emulare e con cui continuamente confronta se stesso e il suo viaggio. La celebrazione dell'itacese che viene fatta nella Laus Vitae non è altro quindi che un'autocelebrazione dell'io-protagonista dannunziano e del suo essere eccezionale.

Il viaggio dell'autore nel mondo greco simboleggia un'immersione in un passato mitico, contrapposto alla realtà moderna e alla civiltà industriale da cui l'eroe fugge: D'Annunzio ambisce a far rinascere l'antichità in una fusione poetica ancora più alta, cercando di correggere l'"errore del tempo"[1] che lo ha condannato a vivere una contemporaneità impoetica, piuttosto che un'età dell'oro creatrice di bellezza.



1.2. Il topoV letterario del riconoscimento


Incontrammo colui                      
che i Latini chiamano Ulisse,
nelle acque di Leucade, sotto
le rogge e bianche rupi
che incombono al gorgo vorace,
presso l'isola macra
come corpo di rudi
ossa incrollabili estrutto
e sol d' argentea cintura             

precinto. Lui vedemmo
su la nave incavata. E reggeva
ei nel pugno la scotta
spiando i volubili venti,
silenzioso; e il pileo
tèstile dei marinai
coprivagli il capo canuto,
la tunica breve il ginocchio
ferreo, la palpebra alquanto
l'occhio aguzzo; e vigile in ogni  

muscolo era l'infaticata
possa del magnanimo cuore.      

E non i tripodi massicci,
non i lebeti rotondi
sotto i banchi del legno
luceano, i bei doni
d'Alcinoo re dei Feaci,
né la veste né il manto
distesi ove colcarsi
e dormir potesse l'Eroe;             

ma solo ei tolto s'avea l'arco
dall'allegra vendetta, l'arco
di vaste corna e di nervo
duro che teso stridette
come la rondine nunzia
del dì, quando ei scelse il quadrello
a fieder la strozza del proco.

Sol con quell'arco e con la nera
sua nave, lungi dalla casa
d'alto colmigno sonora             

d'industri telai, proseguiva
il suo necessario travaglio
contra l'implacabile Mare.

- O Laertiade- gridammo,
e il cuor ci balzava nel petto      
come ai Coribanti dell'Ida
per una virtù furibonda
e il fegato acerrimo ardeva
- O Re degli Uomini, eversore
di mura, piloto di tutte

le sirti, ove navighi? A quali
meravigliosi perigli
conduci il legno tuo nero?
Liberi uomini siamo
e come tu la tua scotta                
noi la vita nostra nel pugno
tegnamo, pronti a lasciarla
in bando o a tenderla ancora.
Ma, se un re volessimo avere,
te solo vorremmo

per re, te che sai mille vie.
Prendici nella tua nave
tuoi fedeli insino alla morte!-
Non pur degnò volgere il capo.

Come a schiamazzo di vani        
fanciulli, non volse egli il capo
canuto; e l'aletta vermiglia
del pileo gli palpitava
al vento su l'arida gota
che il tempo e il dolore

solcato avean di solchi

venerandi. -Odimi- io gridai
sul clamor dei cari compagni
-odimi, o Re di tempeste!
Tra costoro io sono il più forte.
Mettimi a prova. E, se tendo
l'arco tuo grande,
qual tuo pari prendimi teco
ma, s'io nol tendo, ignudo           
tu configgimi alla tua prua-.

Si volse egli men disdegnoso
a quel giovine orgoglio
chiarosonante nel vento;
e il folgore degli occhi suoi
mi ferì per mezzo alla fronte.

Poi tese la scotta allo sforzo
del vento; e la vela regale
lontanar pel Ionio raggiante
guardammo in silenzio adunati.
Ma il cuor mio dai cari compagni

partito era per sempre;
ed eglino ergevano il capo
quasi dubitando che un giogo
fosse per scender su loro
intollerabile. Io tacqui
in disparte, e fui solo;
per sempre fui solo sul mare.
E in me solo credetti.
Uomo, io non credetti ad altra
virtù se non a quella                   

inesorabile d'un cuore
possente. E a me solo fedele
io fui, al mio solo disegno.
O pensieri, scintille
dell'Atto, faville del ferro
percosso, beltà dell'incude!

(G.D'Annunzio, Maia, IV)



"Qual tuo pari prendimi teco"[2] esclama l'eroe moderno D'Annunzio, nel canto IV dell'opera, in direzione di Ulisse, chiedendo di essere consacrato suo pari tramite un segno che confermi ulteriormente la sua certezza di essere il prescelto successore dell'itacese: entrambi sono pronti ad accettare senza paura il futuro e a staccarsi dal passato. Come, infatti, Ulisse non ha avuto bisogno di niente e ha liberamente deciso di abbandonare Penelope e Telemaco per gettarsi alla ricerca di nuove avventure, così il Vate è pronto a sganciarsi dai vincoli affettivi e materiali per abbracciare quella solitudine, continuamente ribadita nei versi conclusivi della sezione analizzata, che ormai diventa la condizione esistenziale della sua eroicità: la sua grandezza non può più venire sostenuta dall'umanità dei compagni, ma solo dalla forza e dalla volontà del suo animo ( "Sii solo della tua specie, e nel tuo cammino sii solo, sii solo nell'ultima altura. Il cuore è il compagno più forte" ).

Se nell'Odissea e nella Divina Commedia Ulisse era obbligato a sottostare alla legge divina e proprio per la sua incapacità di seguirla riceveva la punizione (dieci anni di peregrinazioni nel primo caso, la condanna all'Inferno nel secondo), in D'Annunzio questi vincoli non esistono più.

"O Galileo, men vali tu che nel dantesco fuoco il piloto re d'Itaca Odisseo"[4] dice la voce narrante nell'invocazione premessa a Maia: Ulisse è il paradigma da seguire, più forte addirittura del Cristo, maestro d'amore; non ci si può dunque più accontentare del porto sicuro della Fede, ma è necessario lanciare continuamente una sfida ai mari, proprio per la bellezza dell'impresa in sé più che per il desiderio di raggiungere un determinato obiettivo.

Il poeta chiede all'eroe antico il riconoscimento della sua natura e della sorte che accomuna chi segue l'impulsività e lo spirito che lo governa internamente. E questa investitura gli arriva silenziosamente, ferendolo "per mezzo alla fronte" e lo rende subito diverso e lontano dagli altri suoi compagni, che non erano stati minimamente presi in considerazione dal greco poiché volevano solo essere seguaci del "Re degli Uomini" e non dimostrare di essere alla sua altezza tramite il compimento di una prova. Dopo che Ulisse ha rivolto lo sguardo verso di lui, il poeta proclama il suo superomismo e la sua volontà di valicare ogni limite, mettendo in evidenza, con grande atto di superbia, la sua condizione di uomo solo tra le genti contemporanee. L'eroe dannunziano è infatti inserito nel suo tempo, ma proiettato in un'esperienza assolutamente individuale, inaccessibile alla plebe.

2. L'ipotesi di Gozzano

Lo scrittore crepuscolare Guido Gozzano nel poemetto L'Ipotesi, sollecitato dalla curiosità della sua presunta consorte ignorante, offre un'ironica ricostruzione del mito di Odisseo, attraverso cui intende celebrare un mondo banale e monotono e demolire la concezione del vivere inimitabile proposta da D'Annunzio. Nonostante, infatti, un inizio da imitatore del Vate, Gozzano progressivamente se ne distacca e va ad attestarsi sulle posizioni di fervente oppositore: svanisce l'obiettivo del poeta di fare della propria vita un'opera d'arte e di ergersi a modello per il pubblico e si prende coscienza del fatto che l'esistenza sia priva di qualsiasi elemento eroico.

Il mito è ormai inadeguato per la realtà novecentesca e pertanto quest'autore distrugge la maschera epica dei protagonisti, inserendoli in un contesto degradato e comico che si oppone nettamente non solo all'estetismo dannunziano, ma anche al magistero dantesco e omerico.

2.1. La favola di Ulisse

Per favorire l'intento demitizzante dello scrittore, l'avventura di Ulisse viene ridotta a una filastrocca con cadenza cantilenante e rime infantili che riecheggiano e capovolgono gli stilemi tradizionali, annullando le valenza simbolica del linguaggio.

L'eroe omerico, capace di resistere ad ogni tentazione e di continuare imperterrito sulla sua strada, viene, fin dall'inizio, ridotto a un tale, dissoluto e vizioso, che viaggia per turismo a bordo di uno yacht, elemento che rimanda sarcasticamente alla crociera di D'Annunzio tra le isole greche.

Il testo continua con una palese parodia di Dante: l'itacese rinuncia al lieto fine delle sue vicissitudini ed intraprende il fatidico ultimo viaggio, non più spinto dal nobile, seppur folle "ardore (.) a divenir del mondo esperto"[7], ma solo dalla sete di guadagno. Ulisse, moderno Colombo, e i suoi inseguono l'illusorio sogno americano nel tentativo di risollevarsi dalla condizione di indigenza a cui sperperi e vizi li hanno condotti. Essi rappresentano i milioni di emigranti che, proprio agli albori del secolo scorso, intraprendevano la traversata transoceanica sperando in una vita diversa da quella serena e semplice nella loro terra d'origine. Il peccato di ubriV di Ulisse non si configura più come l'aver tentato di valicare il limite imposto dalla divinità facendosi guidare unicamente da "virtute e conoscenza"[8], ma nell'aver intrapreso la ricerca di molti danari, violando la mentalità borghese incentrata sulla laboriosità e l'equilibrio: se in Dante la "semenza" proiettava l'uomo in una dimensione continua di ricerca della verità, qui essa riduce tutto in una prospettiva economica. Ulisse diventa emblema di una società travolta dal desiderio del profitto che si chiude nei suoi interessi privati. Il potere persuasivo dell'"orazion picciola" non è finalizzato a spronare l'equipaggio ad un atto di eroismo gratuito, ma è asservito unicamente al principio del guadagno materiale e non intellettuale.

Ed è proprio questa avidità a provocare il naufragio di Ulisse: la sua è una fine tragicomica che perde tutta l'aura di mistero e di pathos delle terzine dantesche; la tensione che là culminava nella comparsa della montagna bruna si dissolve qui con la vista di un'alta montagna selvaggia che richiama alla memoria prima la selva con cui si apre la Divina Commedia e subito dopo il wild west americano, prendendo in contropiede il lettore e suscitando in questi la risata per aver rovesciato la solenne poeticità che chiude il XXVI canto dell'Inferno.


Allora, tra un riso confuso (con pace d'Omero e di Dante)
diremmo la favola ad uso della consorte ignorante.

Il Re di Tempeste era un tale
che diede col vivere scempio
un bel deplorevole esempio
d'infedeltà maritale,
che visse a bordo d'uno yacht
toccando tra liete brigate
le spiaggie più frequentate
dalle famose cocottes
Già vecchio, rivolte le vele
al tetto un giorno lasciato,
fu accolto e fu perdonato
dalla consorte fedele

Poteva trascorrere i suoi
ultimi giorni sereni,
contento degli ultimi beni
come si vive tra noi
Ma né dolcezza di figlio,
né lagrime, né pietà
del padre, né il debito amore
per la sua dolce metà
gli spensero dentro l'ardore
della speranza chimerica
e volse coi tardi compagni
cercando fortuna in America
- Non si può vivere senza
danari, molti danari
Considerate, miei cari
compagni, la vostra semenza! -

Vïaggia vïaggia vïaggia
vïaggia nel folle volo
vedevano già scintillare
le stelle dell'altro polo
vïaggia vïaggia vïaggia
vïaggia per l'alto mare:
si videro innanzi levare
un'alta montagna selvaggia
Non era quel porto illusorio
la California o il Perù,
ma il monte del Purgatorio
che trasse la nave all'in giù.
E il mare sovra la prora
si fu rinchiuso in eterno.
E Ulisse piombò nell'Inferno
dove ci resta tuttora

(L'Ipotesi, vv. 109-154)


2.2. Linguaggio stravolto

Il ribaltamento dell'avventura di Odisseo non avviene unicamente a livello di contenuti o di riferimenti intertestuali, ma è ancora più accentuato a livello formale da termini ed espressioni che abbassano il livello del racconto e lo rendono comico. Elementi e figure affascinanti e straordinari nei poemi omerici vengono ora rinominati con parole acquisite dall'inglese e dal francese. Non c'è più epos, ma solo favola: l'anaforico viaggia ricorda i racconti per bambini e non i canti degli aedi o le profezie degli indovini. Tutto è ridotto ad una prospettiva paesana e quotidiana in cui l'eroe vero è il borghese che si sa accontentare, mentre il misero è Ulisse, l'eroe irresponsabile che abbandona il suo piccolo mondo chiuso per affrontare la chimerica traversata atlantica sull'onda del sogno californiano. Gozzano riesce con poco ad abbattere in un solo colpo le fantasie e i desideri che hanno alimentato la cultura occidentale per secoli: l'America, il Nuovo Mondo, rima con chimerica; cari con danari; semenza con senza. L'autore demolisce tutte le prospettive esterne di speranza: si può vivere felici solo nella propria singola realtà, senza preoccuparsi di aspetti troppo grandi o complicati, proprio come fa la Signorina Felicita (che nella finzione narrativa del poemetto è la "consorte ignorante" cui la storia è dedicata). Non devono esserci struggimento in vista di qualcosa di superiore o inquietudine per l'incapacità di rapportarsi all'universale: si trovano molta più dolcezza e appagamento nella semplicità della vita di tutti i giorni che nello slancio temerario verso l'ignoto.

3. Il sentimento di inadeguatezza

In Maia il Vate celebra più se stesso che l'Odisseo consegnatoci dalla tradizione omerica: ne esalta sì le doti che lo hanno sempre contraddistinto, ma allo stesso tempo lo usa per farne il modello di superuomo da seguire, il simbolo di una vita diversa a cui egli ha aderito.

Gozzano scrive in aperta opposizione a quest'idea e costruisce non solo una parodia dell'Ulisse di Maia, ma una parodia dell'uomo Gabriele D'Annunzio e del suo estetismo esagerato: spogliando il mito delle strutture eroiche, lo presenta nudo e crudo in tutta la sua banalità, rifiutando quindi la concezione dell'artista-poeta come essere privilegiato e superiore. La letteratura viene fatta rientrare nelle "cose obsolete"[11], stupendo e stordendo il lettore dotto: la detronizzazione di Ulisse e la conseguente diminuzione del valore della sua impresa rispecchiano la perdita di funzione del mito e denunciano i "desideri patetici della società" contemporanea che portano i fruitori dell'opera a un riso confuso e non al pessimismo cosmico o al superomismo. D'Annunzio vuole cambiare, sovvertire, esagerare; in Gozzano invece non c'è desiderio di rivoluzione, non critica graffiante e chirurgica, ma ironia leggera che ritrae una società decaduta, ma tuttavia da accettare.

Il Vate si proietta in una dimensione mitica e solitaria con l'obiettivo di fondersi con la Natura; Gozzano, al contrario, rifiuta l'unione panica e si rifugia nella bellezza delle piccole cose quotidiane che gli danno sicurezza: entrambi però, l'uno proiettandosi nel macrocosmo, l'altro chiudendosi nel suo microcosmo, dimostrano la stessa incapacità di inserirsi nel presente (nel cosmo) e di agire nella realtà quale è.




L. Zampese, Ulisse: il ritorno e il viaggio, Libri Liberi, Firenze 2003, p. 92.

G. D'Annunzio, Maia, a cura di A, Andreoli, Mondadori, Milano 1995, Cap. IV, v. 77.

Ibidem, vv. 1014 -1017.

Ibidem, vv. 31-33.

Ibidem, v. 105.

Ibidem, v. 69.

D. Alighieri, La Divina Commedia, Inferno, Canto XXVI, vv. 97-98.

Ibidem, v. 120.

Ibidem, v. 118.

Ibidem, v. 122.

E. Sanguineti, "Guido Gozzano", in P. Boitani, L'ombra di Ulisse, Il Mulino, Bologna 1992, p. 163

F. Longo, L'ipotesi demitizzante di Gozzano. Ulisse tra Yacht e cocottes, in https://www.disp.let.uniroma1.it.

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