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Sofocle




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Sofocle




Se le infauste vicende dell'umanità rappresentata da Eschilo erano inserite in un preciso disegno della divinità che guidava i mortali alla saggezza attraverso la sof- ferenza, per Sofocle (Colono, 496 a.C. - Atene, 406 a.C.) le vicende umane sono sì governate dagli dèi, ma secondo disegni imperscrutabili, e l'unico mezzo di cui l'uomo dispone per conoscere la volontà divina sono gli oracoli, la cui interpreta- zione però è spesso difficile e fallace. La distanza che separa gli uomini dalla divi- nità pare così farsi maggiore e i primi si trovano ad agire e a compiere delle scelte da soli, nel rapporto e confronto con i propri simili. Una sola generazione separa il secondo grande tragico da Eschilo, ma in questo lasso di tempo molto è già cam- biato e sta cambiando a Atene, con ripercussioni sulle espressioni culturali ed arti- stiche del periodo.

Sofocle fa il suo ingresso nella vita pubblica della città in un momento cruciale: quando gli ateniesi sconfiggono i persiani a Salamina, nel 480 a.C., egli guida il coro dei giovani che cantano il peana inneggiante alla vittoria All'indomani del trionfo bellico, Atene diviene il teatro di diversi mutamenti politici e sociali cui il poeta tragico ha modo di assistere e di prender parte in maniera attiva: l'economia riceve una sferzata energica e la città s'impone come polo di una fitta rete di scambi commerciali che spaziano dalla costa asiatica alla Sicilia, dall'Egitto all'Adriatico; il porto del Pireo diviene lo scalo più importante del Mediterraneo; il centro urbano inizia ad attrarre persone dalle campagne vicine con la prospettiva di diverse possibilità d'impiego nelle botteghe artigianali in pieno fermento; in opposizione all'aristocrazia, legata all'antica classe agraria, emerge un ceto medio con tendenze democratiche che vede progressivamente aumentare il proprio pote- re economico. La vicenda interna di Atene, nel corso del V sec., verte proprio sull'alternanza di successi e sconfitte fra le due opposte forze sociali in campo.

Dopo la riforma in senso democratico del 462, che limita l'Areopago a svolgere il solo potere giudiziario in cause riguardanti il sacrilegio e l'omicidio volontario, per affidare i compiti politici, di custodia e di controllo delle leggi alla boulé e all'assemblea popolare, inizia per la città un trentennio di sostanziale stabilità in- terna sotto la guida di Pericle. In questo periodo la polis, oltre ad essere polo mili- tare e mercantile, costituisce anche un centro nevralgico in campo artistico e cul- turale: la profonda vena intellettualistica radicata nella ideologia periclea contri- buisce a fare della tensione al bello, della discussione filosofica e politica, della ri- flessione mitica e storica del passato, della revisione di concetti appartenenti alla tradizione, eventi stemperati nel quotidiano di larga parte della cittadinanza, modi stessi di concepire e di vivere l'esistenza. Nella città in cui il razionalismo sofisti- co ha ampia diffusione e in cui si muovono molte diverse personalità di rilievo (come Fidia, Erodoto, Anassagora, Protagora, per fare solo qualche esempio), la cultura, già fondamento di ogni creazione artistica, aspira a suggerire anche mo- duli di vita e di convivenza. Sofocle inizia la sua esperienza di poeta nel pieno della politica periclea, vincendo per la prima volta un agone tragico nel 468 a.C. contro l'insigne Eschilo Dalle sue sette tragedie rimaste, emergono protagonisti accomunati da intransigenza, or- goglio, caparbietà, dal fatto di essere votati ad un unico ideale. Diversificati anche grazie all'introduzione sulla scena di un terzo attore, i suoi personaggi più che confrontarsi con la volontà divina, si scagliano bruscamente gli uni contro gli altri esponendo in maniera lucida i propri valori, le proprie passioni, il proprio caratte- re, commentando le rispettive condotte, venendo in tal modo gli uni a conoscenza dell'indole degli altri. In una scena che vede al centro Aiace e Tecmessa, per e- sempio, si assiste a un confronto fra due distinti punti di vista. Il primo, offeso perché le armi di Achille non gli sono state date in premio, essendo invece conse- gnate a Odisseo, ordisce un piano per tentare di uccidere i generali dell'esercito. Atena getta su di lui "visioni asfissianti" Ai., 51-52), altera le sue percezioni e Aiace rivolge la propria furia omicida non su Odisseo, bensì su greggi e armenti. Riacquistato il senno e resosi conto dell'accaduto, egli chiede invano al Coro di dargli la morte e si lascia andare ad insulti tremendi contro la stirpe degli Atridi, poi pronuncia una lunga arringa (430-480) in difesa dell'onore del guerriero che ha come esito conclusivo quello di vedere in una morte eroica l'unica soluzione:



Che posso decidere, ormai? Ho addosso - è lampante - rancore divino. Sono in astio all'armata. Troia, questi luoghi mi son nemici. Che faccio, rientro valicando l'Egeo, tradisco la squadra anco- rata, mi sottraggo agli Atridi? Con che faccia, in che luce compaio a mio padre, a Telamone? Mi frugherà con gli occhi. Non reggerà alla mia nudità che gli brilla davanti, senza fiore di preda. Lui lo seppe far suo, quel fiore, fregio enorme di fama. No, è un agire assurdo. O corro alle torri di Troia, scateno duelli, uomo contro uomo, compio un gesto grandioso e finisco cadendo sul campo? No, darei allegria agli Atridi, lo sento. Assurdo. Devo sforzarmi di trovare un passo, degno, per far luce al padre anziano: che io vengo da lui, e non è senza fegato, no, questa mia tempra. Non è bella l'ansia di esaurire la vita, se c'è solo vicenda ostinata di mali. Cadenza di giorni. Accelera e proro- ga insieme la fine. Può esserci gioia in tutto ciò? Non darei peso all'uomo che si crogiola nell'illu- sione vuota. Chiara vita. O chiaramente morire. E' legge per chi ha sangue eletto. (Ai., 457-480)




Tecmessa risponde a queste parole con la sua estesa supplica (485-524) volta a far desistere Aiace dall'intenzione di infliggersi la morte: è un'arringa in favore della vita nella quale la schiava fa appello ai doveri dell'eroe nei confronti suoi, del loro figlio, dei genitori ormai anziani, e le cui parole conclusive sono un appassionato richiamo all'importanza dei legami:



Sei tu la mia terra, il tesoro. Che avrò se mi manchi? Il futuro è in te, tutto intero. Prova a conside- rare anche me. E' giusto, fa parte dell'uomo ricordare i cari momenti, se mai ne hai provati. Affetto è figlio d'affetto. Chi fa dileguare il ricordo d'un beneficio avuto, non merita stima di persona elet- ta.

(Ai., 518-524)



Tutte le opere di Sofocle a noi pervenute si basano su simili contrasti, dei veri e propri dibattiti nelle cui caratteristiche è rintracciabile l'influsso delle coeve tecni- che messe a punto nei dibattiti giudiziari e nelle dimostrazioni antitetiche dalla re- torica e dalla dialettica. In tali controversie, però, sentimenti ed emozioni non ven- gono ancora espressi direttamente e l'attenzione sembra tutta rivolta al modo in cui bisogna agire. Riprendendo quanto detto da De Romilly se gli eroi omerici si domandavano quale fosse la soluzione migliore e quelli eschilei si chiedevano cosa volessero gli dèi, i personaggi di Sofocle cercano quali siano le buone ragioni d'agire pur non giungendo ancora ad interrogarsi su quali siano le motivazioni in- time che li spingono ad adottare un determinato comportamento. L'etica fornisce dunque il quadro, la cornice del loro dibattere, mentre la retorica e la dialettica forniscono i mezzi che permettono di affinare l'analisi e un timido inizio di descri- zione psicologica si verifica proprio dall'incontro fra queste due voci.

Nell'ambito specifico dell'esperienza d'amore, inoltre, benché tale sentimento venga ancora effigiato come una forza irresistibile che si impone sull'uomo dall'e- sterno, si apre lo spazio per una descrizione di carattere più intimo, segreto, com- plesso. E' il caso di Deianira, che nelle Trachinie si rivolge al Coro delle donne locali atterrita all'idea che suo marito Eracle possa anteporre a lei la bella stranie- ra Iole:



[] E voglio che facciate eco al mio dolore. La giovane - quella? Quella sa bene come stringe un uomo - me la son messa in casa, tra le tante, come il padron di barca un carico qualunque, zavorra che ormai mi devasta, dentro. Oggi due donne siamo, sotto un lenzuolo solo, ad aspettare l'uomo che ci copra. Bella ricompensa per tanti anni chiusa qui, tra quattro mura! Ed è regalo suo, di Era- cle: il fedele, il generoso, mi dicevo! Non so infiammarmi contro di lui che troppo spesso, ormai, ricade in queste crisi: ma che donna accetterebbe di ritrovarsi in casa quella, da pari a pari, e met- tere in comune suo marito? Là vedo una freschezza in pieno slancio, qui stremata: e di queste pre- ferisce il fiore, l'occhio maschile, per capirlo. Non gli interessa il resto, cambia strada. E' il mio in- cubo. La forma sarà salva; Eracle coniuge di Deianira. Ma marito all'altra, la più fresca! Eppure l'ho già detto, è assurdo che io, donna matura, esperta, perda la lucidità. Donne: so come liberarmi, avere tregua. Vi dirò il modo.

(Trach., 513-554)




Ma i personaggi sofoclei denotano spesso anche una tendenza alla libera espres- sione dei propri sentimenti reconditi parlando di sé in forma di monologo. L'esem- pio più significativo di tale modalità espressiva lo troviamo nell Aiace, nel mo- mento in cui l'eroe sta per uccidersi. All'inizio del suo lungo discorso, il guerriero esprime una visione del cosmo in cui il tempo è sinonimo di un incessante muta- mento che travolge ogni cosa, compreso egli stesso: un tempo esempio di impari fermezza, adesso privo di nerbo (646-653). Successivamente, dopo aver indivi- duato il luogo in cui poter realizzare il proprio proposito suicida senza essere visto e aver nuovamente richiamato la norma del cambiamento perpetuo (657-677), Aiace torna a parlare di sé, sentendo l'incombere della fine:

Ed io - ah, l'ho appena compreso: odiando giungiamo ai confini dell'odio, coscienti che un giorno può farsi rapporto d'amore; a chi amo, vorrò fare del bene, appoggiarlo, ma sapendo che l'amore non dura. Per troppi, nel mondo, l'intimità non è altro che un porto insidioso. Si prepara un'ottima fine, per tutto.

(Ai., 678-684)




Aiace allora intima a Tecmessa di rientrare nella tenda e ai suoi uomini di andare con lei: potrebbero sentire ben presto che egli, nonostante tutto gli sia contro, è or- mai in salvo per sempre (684-692). Il Coro non coglie il senso profondo delle ulti- me parole dell'eroe e dà vita ad un intermezzo lirico che crea un'illusoria parente- si di spensierata allegria (693-718). La tragica fine di Aiace, in tal modo, appare ancora più cruda e l'eroe, rimasto solo sulla scena contempla la spada di Ettore conficcata in terra con la punta rivolta verso l'alto, dando nuovamente sfogo ai propri pensieri (815 sgg.): egli invoca gli dèi perché la morte subentri rapidamente e il suo corpo venga composto da Teucro, poi chiama le Erinni perché perseguiti- no la stirpe di Atreo, infine si libera dai suoi vincoli terreni e si congeda da un mondo col quale rifiuta di riconciliarsi senza eccedere nel lamento.

Aiace, però, pur sfogando il suo sentire in forma monologica, si esprime in con- statazioni relative a una realtà di per sé lacerata e tragica, senza ricorrere a nessu- no di quei vocaboli appartenenti al campo della corporeità che abbiamo più volte incontrato in relazione all'espressione dell'interiorità in epoca arcaica. Eppure le sue parole denotano qualcosa di molto significativo.

Innanzi tutto l'eroe, una volta resosi conto di ciò che ha realmente commesso, ma- nifesta apertamente e in maniera appassionata la propria vergogna:



L'eroe, l'uomo di fegato, eccolo qui! Sangue freddo negli scontri di morte!

E ora? Bravo, a colpire domestica preda!


Ridicolo (γέλωτος), noooh! Ah, sì, squilibrato patire! (Ai., 364-367)


Aiace esprime così quella che Williams definisce una "emozione etica" egli sa che il suo éthos di guerriero è inconciliabile con ciò che ha fatto e, non potendo più vivere l'unico tipo di vita che il suo carattere richiede, vede nel suicidio la sola strada percorribile. Nel dire questo, evidentemente, l'immagine che l'eroe ha di sé risulta fortemente legata a valori che danno una grande importanza al modo in cui si è visti. D'altro canto, per arrivare a ritenere di non poter più vivere nei panni di qualcuno che ha commesso una certa azione, pur sotto l'effetto di una malattia, come viene più volte definito lo stato in cui versa l'eroe quando compie l'orrenda strage di pecore occorre aver compreso che le responsabilità del singolo vanno al di là dei suoi normali scopi e di ciò che egli compie intenzionalmente. Inoltre, occorre aver capito che le relazioni sussistenti fra ciò che l'eroe si aspettava dal mondo e ciò che il mondo si aspettava da un uomo con tali aspettative, sono defi- nitivamente compromesse.

Aiace non ritorna mai sul suo proposito suicida: l'intenzione di compiere un tale gesto, che inizialmente poteva apparire come il culmine di uno sfogo disperato dell'eroe resosi conto dell'accaduto, nel corso dei due monologhi si configura sempre più come qualcosa di inevitabile. Al verso 690 egli dice: "Io vado laggiù, dov'è la mia strada" (ὅποι πορευτέον). Il termine poreutéon è un'espressione im- personale di necessità usata frequentemente dai personaggi di Sofocle per manife- stare diverse forme di ostinazione: ma che genere di necessità esprime Aiace usan- do tale termine? Williams cerca di capirlo analizzando il concetto di vergogna e valutandolo al di fuori dei condizionamenti derivanti dalle concezioni kantiane e dalla morale moderna. Egli fa notare, per prima cosa, che "l'esperienza basilare della vergogna consiste nell'esser visto, in modo improprio, dalla persona sbaglia- ta nella condizione sbagliata" e che essa è direttamente connessa con la nudità, specialmente in contesti sessuali, dalla quale deriva la reazione istintiva di volersi coprire o nascondere Nei poemi omerici la vergogna, sotto forma di paura nei confronti di ciò che la gente avrebbe potuto dire delle azioni commesse da qualcuno, veniva utilizzata per incitare un singolo o un gruppo di persone a fare qualcosa. In contesti bellici l'appello all aidós era frequente e costituiva una sorta di "grido di battaglia" usato per spronare i combattenti:




"Siate forti, amici, e abbiate vergogna gli uni degli altri, nella contesa tremenda; se i guerrieri han- no vergogna, sono più i vivi che i morti; ma se si danno alla fuga non c'è più gloria né scampo". (Il., XV, 561-564)



In Omero, inoltre, la reazione nei confronti di qualcuno che aveva fatto qualcosa che la vergogna gli avrebbe dovuto impedire di fare, era violenta, era némesis, e poteva variare dallo sbigottimento, al disprezzo, alla collera.

Ciò non significa, però, che il pudore omerico avesse a che fare solo con un egoi- smo sicuro di sé o con i successi e i fallimenti dell'uomo in competizione e che comportasse semplicemente un adeguamento ai pregiudizi della comunità. Nono- stante la società omerica fosse caratterizzata da una cultura della vergogna che persistette, con alcune modificazioni, anche nei secoli successivi, Williams valuta l'esperienza in questione prescindendo da facili semplificazioni. In particolare, lo studioso britannico mostra che la vergogna e le sue motivazioni, pur implicando sempre l'idea di uno sguardo estraneo, non necessariamente chiamano in causa un altro realmente esistente o riconducibile a uno specifico gruppo sociale. Ci si può vergognare anche al solo pensiero di trovarsi in una determinata situazione, ovve- ro immaginando di essere osservati da un "altro immaginario" D'altro canto, la stessa emozione spesso può non dipendere solo dall'esser visti, bensì dall'esser visti da qualcuno che ha un determinato parere e alla cui stima si tiene molto. Il

provare vergogna, allora, diviene espressione dell'interiorità dell'individuo, dando voce a opinioni che egli ha interiorizzato In questo caso "l'altro interiorizzato", come lo definisce Williams, può essere identificato in termini etici, rappresentando qualcuno le cui reazioni io rispetterei e che ugualmente rispetterebbe queste stesse reazioni qualora gli fossero rivolte da un altro. Pur essendo astratto, generalizzato ed idealizzato, "l'altro interiorizzato" è comunque espressione di qualcosa che sta dentro l'uomo, costituendo potenzialmente qualcuno piuttosto che nessuno, un qualcuno che è diverso dall'individuo in questione e che può rappresentare "il centro delle reali attese sociali, di come vivrò se agisco in un modo piuttosto che in un altro, di come le mie azioni e reazioni modificheranno le mie relazioni con il mondo intorno a me"

L'Aiace che si vergogna e che vede nel suicidio l'unica alternativa plausibile, rap- presenta proprio questa situazione: in lui l'altro interiorizzato non è un altro qual- siasi, bensì è rappresentativo di un mondo reale nel quale è impossibile vivere do- po aver compiuto un'impresa ridicola. L'identità di questo altro risulta chiara tor- nando a considerare una parte dell'arringa, citata in precedenza che l'eroe pro- nuncia in nome dell'éthos guerriero. Aiace si è da poco reso conto di aver rivolto la propria furia omicida su greggi e armenti e nel valutare cosa fare dice:



Con che faccia, in che luce compaio a mio padre, a Telamone? Mi frugherà con gli occhi. Non reggerà alla mia nudità che gli brilla davanti, senza fiore di preda. Lui lo seppe far suo, quel fiore, fregio enorme di fama. No, è un agire assurdo.

(Ai., 462-466)




Come sottolinea Williams, il linguaggio dell'eroe presenta diverse immagini con- nesse all'esperienza basilare della vergogna, come il riferimento alla vista e alla nudità, ma esprime anche la relazione sussistente fra ciò che lui e suo padre non possono sopportare. La figura paterna, però, non rappresenta semplicemente l'idea di un dolore insostenibile, bensì incarna un ideale d'eccellenza cui Aiace non rie- sce più conformarsi. Per questo ai vv. 479-480 egli conclude dicendo: "Chiara vi- ta. O chiaramente morire. E' legge per chi ha sangue eletto (τὸν εὐγενῆ χρή)"

Ecco che genere di necessità esprimeva l'eroe dicendo πορευτέον: "Aiace non conosce altro modo di vivere se non quello rispettato da qualcuno che egli rispet- terebbe, il che significa che egli non può vivere senza autostima"

Alla luce dell'analisi di Williams, le parole pronunciate dall'eroe sofocleo, sorte in un contesto di per sé doloroso e infausto, tratteggiano un'esperienza in cui la vergogna risulta legata a doppio filo a due aspetti egualmente interessanti dell'in- teriorità del personaggio: da un lato la consapevolezza che la responsabilità di Aiace sussiste anche se egli ha compiuto un atto grottesco in uno stato di malattia che ha alterato le sue percezioni; dall'altro l'emergere di una figura interiorizzata (nel caso specifico quella del padre), in relazione alla quale la stessa vergogna dell'eroe si struttura, risultando rappresentativa di una istanza interiore con la qua- le è impossibile conciliarsi.

In sostanza, anche se il dubbio di Aiace pare essere più oratorio che reale, dal mo- mento che egli opta per una morte eroica appena si rende conto dell'accaduto, è pur vero che qualcosa di somigliante a un aspetto conflittuale interno si profila in concomitanza con una presa di coscienza etica: tale aspetto, non essendo più pro- iettato in una realtà meramente esterna, emerge sotto forma di opinioni del mondo esteriore che l'individuo ha interiorizzato. L'instaurazione di una dinamica conflit- tuale interiore, però, si arresta là dove non è possibile l'attivazione della stessa mediante il confronto-scontro fra le diverse istanze in causa: Aiace si arresta ancor prima del dissidio e la sua decisione, come quella di altri personaggi altrettanto in- flessibili e monolitici creati da Sofocle, segue necessariamente la sua intransigenza.

Quindi, nonostante l'ampio spazio dedicato all'esposizione dei sentimenti e nonostante l'estremo rigore e lucidità che caratterizza i contrasti su cui sono incentrate tutte le tragedie di Sofocle a noi pervenute, in nessuna di esse si assiste a una vera e propria svolta psicologica di un personaggio: ciascuno rimane fermo sulle pro- prie posizioni senza lasciarsi persuadere dai convincimenti di colui che gli sta di fronte, uscendo immutato da qualsiasi alterco. Benché si domandino cosa fare, gli eroi sofloclei risultano privi di incertezze, di dubbi, restano sempre identici a se stessi e sono votati ad un unico ideale. Le loro emozioni, scrive De Romilly, non sfociano mai in un'avventura spirituale e non profilano mai una qualche divisione interiore

Ciò vale anche nel caso del Filottete, tragedia incentrata peraltro su un mutamento di Neottolemo, il quale inizialmente si presta all'inganno ordito da Odisseo per e- storcere a Filottete il suo infallibile arco e successivamente torna sui suoi passi. L'antefatto di questa vicenda è il seguente: da anni Filottete è stato abbandonato dai compagni sulla deserta isola di Lemno in quanto afflitto da un'insanabile pia- ga. Nel frattempo i capi greci hanno saputo, per il vaticinio di Eleno, che potranno conquistare Troia solo grazie all'arma magica in possesso dell'esule e per perso- nale intervento di Neottolemo. Odisseo allora convoca quest'ultimo nel tentativo di convincerlo a conquistare la fiducia di Filotette con un inganno per poi riuscire a farsi consegnare l'arco. La narrazione sofoclea parte a questo punto, con Odis- seo che, in vista delle deserte rive di Lemno, tenta di persuadere Neottolemo ap- pellandosi al coraggio, secondo una modalità spesso utilizzata in Omero per scongiurare la vergogna:


Tesoro di trionfo ti rallegra, conquistarlo! Rischia, tieni duro! Brillerà, la nostra probità, ma un al- tro giorno. Oggi, per queste sacre ore, riservati per un gesto sporco. Ti resterà una vita, per guada- gnarti primato d'innocenza, sulle bocche umane.

(Phil., 81-85)




Neottolemo si rifiuta sostenendo di essere portato per natura (ἔφυν) a non far nul- la con vili inganni (88). Tuttavia, il supremo scopo di conquistare Troia e la pro- spettiva della reputazione derivante da tale vittoria, sembrano convincerlo:


Via! M'impegno. Cancellerò il ritegno (πᾶσαν αἰσχύνην ἀφείς). (Phil., 120)


Dopo essere riuscito nell'impresa di conquistarsi la fiducia di Filottete e di farsi affidare l'arco, però, Neottolemo adotta un comportamento diverso. Di fatto, in tutta la prima parte del dramma, si assiste al montare di due sentimenti: la pietà e la vergogna, espresse sia nelle parole del Coro che in quelle dello stesso figlio d'Achille. Di fronte allo strazio dell'esule, alla sua profonda pena, alle sue ripetu- te crisi, Neottolemo si domanda più volte che fare infine svela l'inganno al quale si è prestato (915 sgg.). Entra quindi in scena Odisseo: è indignato e adesso è lui a chiedere al figlio d'Achille "cos'hai in mente?" (975). Quest'ultimo, dopo tale domanda, tace sino al v. 1074 in cui si congeda dal Coro per imbarcarsi. Tor- nerà in scena più tardi, in un aspro confronto con Odisseo, ma a quel punto egli apparirà deciso nel voler rimediare a quanto ha commesso in precedenza (1222 sgg.). C'è quindi una cesura netta fra il momento in cui Neottolemo si domanda cosa fare e il momento in cui torna in scena con l'intento di non voler più agire con l'inganno e di voler restituire l'infallibile arma a Filottete. Ma quando il figlio di Achille ha mutato avviso? Più volte nel testo è utilizzato l'avverbio πάλαι per indicare il fatto che la pietà di Neottolemo nei confronti di colui che ha ingannato non è un fatto nuovo, bensì ha avuto origine anticamente, come se il suo istinto profondo fosse stato presente, seppur in forma latente, fin dall'inizio Lo stesso uso del verbo ἀφίημι, nel momento in cui il figlio d'Achille dà il suo assenso all'inganno ordito da Odisseo (120), può sì voler dire "cancellare", ma può anche significare "tralasciare", "passare oltre", suggerendo l'idea che la cosa che viene oltrepassata sia ancora lì e sia qualcosa a cui prestare attenzione

Di fatto la vera svolta di Neottolemo avviene fuori scena e il pubblico non assiste al processo decisionale bensì all'atto compiuto. L'interiorità del figlio di Achille traluce appena in concomitanza con la compassione e la vergogna che egli prova, ma la sua evoluzione interiore è lasciata comunque sotto silenzio. Il richiamo alla natura di Neottolemo, alla nobiltà della sua stirpe non incline all'inganno e alla viltà, fatta all'inizio del dramma, può far apparire il mutamento di Neottolemo una sorta di ritorno alla sua vera φύσις, secondo una modalità che ricorda il rimando al proprio éthos operato da Aiace, in seguito al quale il rifiuto di vivere risultava

necessario.

In sostanza, come dice De Romilly, Sofocle è riuscito a mostrare l'improvviso mutamento di Neottolemo in atto, lo ha fatto comprendere, ma senza indugiare in un'analisi psicologica o nell'esposizione di un vero e proprio conflitto interiore

Al di là della singola vicenda del protagonista, una sorta di immobilità sembra pervade l'intero svolgimento di questa tragedia: Neottolemo e Filottete si avviano al lido per imbarcarsi ben quattro volte, ma qualcosa o qualcuno impedisce pun- tualmente la loro partenza. Il medesimo motivo, quindi, viene a ripetersi, creando una sorta di attesa esasperata che si interrompe sul finale solo per intervento del deus ex machina, di Eracle che ordina a Filotette di salpare per Troia dove vedrà risanarsi la sua piaga e otterrà fama grandissima.

In conclusione, dando uno sguardo d'insieme a quanto emerso in precedenza, è possibile dire che se da un lato esperienze come la vergogna o la presa di coscien- za delle proprie responsabilità, del proprio éthos, sono espressione di una relazio- ne intercorrente fra il soggetto e il mondo che lo circonda, fra l'io e gli altri, fra il dentro e il fuori, dall'altro queste stesse esperienze si strutturano, nei personaggi sofoclei, in sentimenti e azioni unilaterali. E se nel rapporto col mondo ciò impli- ca l'esclusione di una possibilità di mediazione e d'incontro negli scontri verbali, nel rapporto con se stessi ci si arresta ancor prima del conflitto, giacché la com- prensione che i caratteri sofoclei hanno di sé, esclude che essi possano scorgere interiormente una qualche divisione.


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