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Sera del dì di festa
La poesia si apre con un notturno lunare che è una di quelle immagini vaghe e indefinite che danno all'uomo l'illusione di attingere all'infinito. Leopardi è convinto che nel mondo moderno, la poesia immaginosa e fanciullesca degli antichi non sia più possibile, per colpa dell'avanzamento della civiltà e della ragione. Nel corpo della poesia si colgono due temi fondamentali, trattati successivamente in due parti distinte. Nella prima (versi 4-24) si ha la contrapposizione tra due figure giovanili: quella della fanciulla che si abbandona fiduciosa alle sue gioie e alle sue speranze, in armonia con la quiete notturna della natura, e quella del poeta che la natura ha creato per essere infelice. L'io lirico sottolinea la propria diversità che lo esclude dall'umanità comune, ma sottolinea anche il contrasto tra la presenza dell'essere infelice e la bellezza quieta e serena della natura. Questa contrapposizione dell'io solitario si manifesta in forme e atteggiamenti di violenta ribellione ("per terra mi getto e grido e fremo"). La seconda parte (versi 24-26) presenta il tema del tempo che nel suo scorrere vanifica "ogni umano accidente"; il canto fa risaltare il silenzio della notte e richiama per contrasto l'animazione e la vita del giorno festivo che in quel silenzio si sono dissolte senza lasciare traccia. Anche il passaggio tra la prima e la seconda parte si colloca alla metà di un verso ("in così verde etate! Ahi per la via."). Il legame è il seguente: i giorni del poeta sono orrendi, ma anche questa infelicità è un nulla, è destinata a vanificarsi nel fluire del tempo. Il pensiero della vanità universale vanifica la disperazione iniziale in una rasserenante contemplazione di universale annullamento.
Operette morali
Dialogo della natura e di un Islandese
L'operetta fu scritta tra il 21 e il 30 maggio 1824. Lo spunto fu offerto da un saggio di Voltaire, in cui si parla delle terribili condizioni degli islandesi, minacciati dal gelo e dal vulcano Hekla. Emrge il passaggio da un pessimismo sensistico-esistenziale ad un pessimismo materialistico e cosmico dalla concezione di una natura benefica a quella di una natura nemica e persecutrice. L'infelicità è fatta dipendere materialisticamente dai mali esterni, fisici, a cui l'uomo non è in grado di sfuggire. L'Islandese ne fa un elenco puntiglioso e ossessivo; i climi avversi, le tempeste, i cataclismi, le bestia feroci, le malattie, la decadenza fisica e la vecchiaia. Di qui l'idea di una natura nemica, che mette al mondo le sue creature per perseguitarle, crudele e indifferente. Leopardi approda così ad un materialismo assoluto e ad un pessimismo cosmico che abbraccia tutti gli esseri, non solo gli uomini e tutti i tempi. L'infelicità non è dovuta solo a cause psicologiche, ma a cause materiali, alle leggi stesse del mondo fisico; anzi il dolore, la distruzione, la morte sono elementi essenziali dell'ordine naturale e il mondo è un ciclo eterno di produzione e distruzione e la distruzione è indispensabile alla conservazione; la sofferenza è la legge stessa dell'universo e nessun essere ne è immune. Lo stile è una requisitoria incalzante e appassionata, diversa dalla contemplazione fredda e distaccata dell'infelicità.
A Silvia
La lirica ha una costruzione rigorosamente simmetrica: la prima strofa ha funzione di proemio e introduce il tema: l'immagine di Silvia che emerge dalla memoria, la seconda e la terza propongono, sempre rievocando il passato, due situazioni parallele: le illusioni giovanili di Silvia e quelle del poeta che si contrappongono alla faticosa realtà quotidiana, rispettivamente alle "opre femminili" e alle "sudate carte". La quarta strofa è un commento desolato alla delusione di quelle speranze. La quinta e la sesta, in simmetria con la seconda e la terza, ripropongono nuovamente un parallelo tra Silvia e il poeta: la fanciulla è morta prima di vedere il fiore dei suoi anni e così la speranza del poeta muore prima che egli possa godere della giovinezza; di tante speranze resta solo la prospettiva della "fredda morte". La lirica non propone una vicenda d'amore, la situazione è lasciata nel vago e nell'indeterminato: ciò che unisce Silvia e il poeta è il parallelismo tra le due condizioni, entrambi sono giovani, pieni di speranze che poi verranno deluse. La figura femminile di Silvia è poverissima di indicazioni concrete: un dato fisico, gli occhi, e uno psicologico, l'atteggiamento lieto e pensoso.
Ancor più vaga è la raffigurazione del mondo esterno: il paesaggio primaverile è poverissimo di indicazioni sensibili, non vi sono descrizioni; questa sobrietà della raffigurazione corrisponde alla tendenza di Leopardi al vago e indefinito, in cui secondo il poeta consiste il bello e il piacevole delle cose e soprattutto della poesia.
Lo spunto da cui prende le mosse la lirica è un dato reale vissuto: il canto della fanciulla che giunge al poeta nel suo studio, ma questa realtà vissuta è sottoposta ad una serie di "filtri" che le tolgono l'urgenza materiale propria dell'arido vero. Il mondo esterno è percepito da leopardi attraverso la finestra della casa paterna che lo allontana e lo separa dal mondo, impedendogli il contatto immediato con la realtà. Il dato fisico del canto delle figlie del cocchiere non è percepito tanto con i sensi, quanto trasfigurato attraverso l'immaginazione. Il canto della fanciulla suscita l'immaginazione perché è già di per sé una di quelle sensazioni "vaghe e indefinite". Il ricordo per Leopardi è essenziale al sentimento poetico e nel caso di A Silvia, la memoria richiama un particolare del passato, il canto della fanciulla e lo trasfigura. Sulla figura di Silvia che canta mentre è intenta al telaio, si sovrappone il ricordo virgiliano del canto di Circe che giunge ai Troiani da lontano nel silenzio notturno (Eneide, VII, vv. 11-14). L'illusione recuperata dalla memoria non può più essere vissuta ingenuamente come negli anni giovanili, ma è accompagnata dalla consapevolezza del vero, dell'infinita vanità del tutto. La poesia leopardiana risulta come una sfida ostinata al silenzio e al nulla, per questo Leopardi è si il poeta del negativo e del nulla, ma è anche il poeta della vita; il suo pessimismo deriva dal bisogno di pienezza vitale , di vita intensa ed energica, di gioia. Il pessimismo è una reazione alla delusione di queste aspirazioni profonde, e non si manifesta come rassegnazione lamentosa, ma come rivendicazione al diritto alla felicità, come protesta generosa ed eroica contro tutte le forze ostili. A Silvia si chiude con l'immagine della fredda morte, ma durante tutta la poesia il poeta evoca immagini di vita e di gioia come protesta contro le forze maligne della natura.
A livello fonico ricorre il gruppo fonetico "vi" (salivi, avevi, solevi.) che è il vi di Silvia e cioè l'indizio della presenza costante di quell'immagine affiorata dalla memoria. Per quanto riguarda il linguaggio dell'immaginar, la sensazione vaga e indefinita del canto è resa mediante la prevalenza della vocale a che è cara al poeta perché dà un'impressione di vastità. A livello morfologico risalta l'opposizione dei tempi verbali imperfetto-presente; l'imperfetto è il tempo che indica continuità nel passato, quindi segna l'immersione nella durata indefinita dei sogni giovanili, è il tempo della memoria e dell'illusione. Nelle strofe 4 e 6 irrompe il presente, il tempo del vero, della consapevolezza, della delusine. A livello lessicale i vocaboli rispondono alla poetica dell'indefinito (fuggitivi, quiete, perpetuo, vago), vi sono anche due termini pellegrini, suggestivi per la loro patina arcaica (veroni, rimembri, ostello). A livello sintattico, i periodi sono brevi con poche subordinate, in gran parte temporali. A livello retorico sono presenti solo alcune metafore e personificazioni: l'identificazione della speranza personificata con la figura di Silvia è del tutto sottintesa e si offre con perfetta naturalezza senza dare l'impressione di alcun artificio retorico. A livello metrico e ritmico è presente l'alternarsi di endecasillabi e settenari senza schema fisso; questa libertà metrica asseconda la tendenza alla vaghezza e all'indefinitezza delle immagini che è il motivo centrale della poetica leopardiana. Le pause sono rare e la scorrevolezza è creata anche dallo scarso uso di enjambement che non a caso sono più frequenti nell'ultima strofa dove, in corrispondenza con il motivo del vero, l'atteggiamento dell'io lirico è più risentito ed il tono si fa più concitato.
La quiete dopo la tempeste
La lirica è nettamente divisa in due parti: la prima descrittiva (strofa 1), la seconda riflessiva (strofa 2 e 3). La descrizione iniziale offre una serie di aspetti del piccolo mondo borghigiano recanatese, ma si tratta di un paesaggio costruito sulla suggestione dei suoni che giungono da lontano e dalla vastità spaziale e indeterminata. La descrizione è tutta legata alla poetica del vago e indefinito, interiorizzata e trasfigurata dall'immaginazione suggestiva.
La seconda parte è filosofica: il concetto centrale è che il piacere è figlio d'affanno e nasce dalla cessazione di un dolore o di un timore; ora la natura appare a Leopardi nemica dispensatrice crudele di affanni e anche il piacere e ormai considerato vano e inesistente nei confronti di questa natura ostile Leopardi è polemico con amaro e disincantato sarcasmo ("o natura cortese.; umana prole cara agli eterni!"). Il senso profondo della lirica consiste nell'adesione al fervore di vita, alle scene animate e luminose, che suscitano vitalità e gioia, adesione che è raggelata dalla desolata consapevolezza del potere invincibile che nega agli uomini la felicità. A livello sintattico la prima parte è limpida e scorrevole, la seconda più tesa e drammatica: frasi brevissime che si alternano con interrogazioni ed esclamazioni. A livello metrico nella prima parte si crea una trama musicale di rime ed assonanze, nella seconda i versi sono più amari e desolati; nella prima parte mancano pause e spezzature interne, presenti invece nella seconda. A livello fonico nella prima parte vi è un largo impiego di vocali "a" che danno un'idea di vastità; nella seconda parte dominano invece i suoni aspri dati da scontri di consonanti, da sibilanti.
Il sabato del villaggio
Fu composto a Recanati nel 29 e pubblicato nel 31. La lirica ha la stessa struttura della quiete dopo la tempesta: una prima parte descrittiva e poi una parte riflessiva. Il quadro paesano si apre con due figure femminili contrapposte, la donzelletta che immagina la gioia del giorno festivo che verrà e la vecchierella che ricorda la gioia delle feste della sua giovinezza. Le due figure rappresentano emblematicamente la speranza giovanile e la memoria; speranza e primavera si concretizzano nel simbolo del "mazzolin di rose e di viole"; la realtà quotidiana con il suo peso di fatiche è rappresentata dal "fascio dell'erbe". La donzelletta rimanda a tutta una serie letteraria di figure femminili che si ornano con ghirlande di fiori (Matelda di Dante), le ombre che si allungano dai colli e dai tetti rimandano a Tetrarca e alla bucolica prima di Virgilio (versi 82-83). Le immagini sono sempre filtrate attraverso l'immaginazione e la memoria e alle sensazioni visive succede una serie di suoni provenienti da lontano che evocano vastità e lontananze indeterminate. La parte riflessiva non è amara e sarcastica, ma pacata e sobria; la conclusione filosofica è affidata ad un colloquio affettuoso con il "garzoncello", si tratta di un invito a non spingere lo sguardo oltre i confini dell'illusione giovanile. Sul piano stilistico emerge un'estrema scorrevolezza musicale dei versi; Anche il lessico rimanda al linguaggio dell'immaginazione, infatti i vocaboli appartengono all'area semantica del "caro immaginar".
Canto notturno di un pastore errante dell'Asia
Fu composto tra il 29 e il 30; L'idea del canto fu suggerita a Leopardi da un articolo del settembre 1826, da cui Leopardi apprendeva che i pastori nomadi dell'Asia centrale trascorrevano le notti seduti su una pietra a guardare la luna e ad improvvisare parole tristissime su arie ugualmente tristi. Il poeta non parla in prima persona: il canto è evocato da un uomo primitivo, semplice ed ingenuo che è anche filosofo e sente perciò fortemente l'infelicità sua propria e quella universale. È l'indizio più chiaro del passaggio al pessimismo cosmico che concepisce l'infelicità come propria di tutti i tempi, di tutti i luoghi e di tutte le condizioni. Il canto si distingue dagli altri grandi idilli perché non si fonda sulla memoria, sul vagheggiamento dell'immaginazione e sull'effusione degli affetti; è una lucida e ferma riflessione che partendo da interrogativi elementari coinvolge i grandi problemi metafisici: si tratta perciò di poesia filosofica fondata sul vero. Il paesaggio non è quello idillico ma è un paesaggio astratto e metafisico. Lo spazio è confinato e il tempo infinito, ma non si tratta di un infinito creato dall'immaginazione, è infatti contemplato dalla ragione e rimane la percezione della sofferenza e della mancanza di senso dell'universo. Il canto notturno chiude la stagione dei grandi idilli e fa presentire la stagione del ciclo di Aspasia, una poesia nuda e severa di puro pensiero.
Il passero solitario
La lirica è collocata all'interno dei Canti prima dell'Infinito, ma presumibilmente Leopardi la riprese e la elaborò più tardi: la composizione, infatti deve essere posteriore a quella dei grandi idilli. Il canto è impostato su una similitudine tra il passero e il poeta: come il passero vive solitario non partecipando ai giochi degli altri uccelli, così il poeta si isola dagli altri giovani e non cura i loro divertimenti. La costruzione è simmetrica: la prima strofa è dedicata al passero, la seconda al poeta, la terza riprende il confronto ponendo a contrasto la vecchiaia di entrambi. Al clima degli idilli questa lirica appartiene soprattutto per la fitta presenza di immagini vaghe e indefinite: il passero canta in uno spazio indeterminato e il suono e ripreso poi dal belar delle greggi e dal muggir degli armenti. L'impressione di vastità è resa mediante la presenza di vocali "a" (passero, solitario, campagna, cantando, etc.). Anche la torre che si alza nel cielo evoca un'idea di infinito e alla suggestione contribuisce anche l'antichità della torre, infatti l'antico produce l'idea di un tempo indeterminato dove l'anima si perde. All'area dell'idillio rimandano anche l'insieme dei temi: giovinezza, gioia, festa, primavera e nella seconda strofa ritornano le sensazione vaghe e indefinite, soprattutto i suoni lontani che si diffondono nell'aria: (il suon di squilla, il tonar di ferree canne). L'ultima parte della seconda segna un forte contrasto. Fra la solitudine del poeta e la gioia giovanile della festa; qui predomina il linguaggio dell'immaginazione e ricorrono termini poetici per le idee vaghe e indefinite che suscitano (solitario, remota, lontani). Ritorna il complemento di luogo indeterminato (alla campagna) e si ripresenta il suono ampio delle "a" seguite da nasali o vibranti (solitario, aprica.). Le soluzioni stilistiche esprimono il concetto di giovinezza che per Leopardi è pur sempre la stazione privilegiata, unico fiore dell'arida vita. L'età del vero è la vecchiaia e infatti nella seconda parte dell'ultima strofa compare il linguaggio del vero espressa con una sintassi ampia e complessa interrogazioni, esclamazioni, anafore (che, che, che). Le parole appartengono all'area semantica del negativo: vecchiezza, detestata, muti, vuoto, noioso, tetro, sconsolato.
La ginestra
È un ampio poemetto di 317 versi composto nel 1836 a torre del greco in una villa alle falde del Vesuvio, pubblicata da Antonio Ranieri nel 1845. Nella prima strofa Leopardi insiste sull'opposizione deserto-ginestra, aridità-profumo (uguale vita). Il primo elemento dell'opposizione, il deserto propone un paesaggio radicalmente antidillico che si costituisce di tre quadri: il "formidabil monte", in cui si concreta l'immagine della potenza distruttiva della natura, le solitarie contrade intorno a Roma che stanno a significare desolazione e abbandono oltre che l'azione corrosiva del tempo e il dissolversi irrimediabile di tutte le cose; le ceneri infeconde e l'impietrata lava, immagini di morte e metafora del destino degli uomini, vittime della malvagia potenza di Arimane.
Le connotazione della ginestra sono 5: è contenta dei deserti e li abbellisce; è sempre compagna di sorti afflitte, è gentile; commisera i danni altrui; consola con il suo profumo la desolazione del deserto. Essa assume un valore simbolico, rappresenta la pietà verso la sofferenza degli esseri umani perseguitati dalla natura, si tratta di una pietà che si esprime soprattutto attraverso la poesia che per Leopardi è l'unico conforto all'infelicità umana. " per conforto di questa infelicità.mi sembra che valgano ogni cosa gli studi del bello, gli affetti, le immaginazioni, le illusioni", che sono ben più utili delle scienze considerate capaci di migliorare le condizioni sociali e politiche dell'uomo.
Nella ginestra Leopardi proietta soprattutto la sua pietà per le vittime di Arimane e viene così anticipato, sin dalla prima strofa il motivo della solidarietà fra gli uomini; la ginestra rappresenta inoltre la vita che resiste ad ogni costo al deserto, alla potenza devastante della natura ed ha lo stesso atteggiamento coraggioso e non rassegnato che caratterizza l'ultimo Leopardi. L'immagine del monte distruttore e dei deserti di cenere e di lava e caratterizzata dallo scontro di suoni secchi e aspri, mentre i versi dedicati alla ginestra sono caratterizzati da una delicata musicalità. Nell'ultima parte della strofa si ha un passaggio al motivo polemico con toni sarcastici e lo stacco è collocato a metà del verso 37. Il paesaggio di desolazione e morte prodotto dal vulcano e chiamato a smentire chi esalta la potenza dell'uomo, perché lo considera creatura prediletta della natura. Seguono due ampie strofe di argomento polemico: bersaglio della polemica è il ritorno di concezioni di tipo spiritualistico e religioso dell'epoca presente. Per Leopardi che è un materialista questo significa abbandonare la via seguita dal pensiero moderno dal Rinascimento all'Illuminismo, grazie al quale la civiltà si era risollevata dalla barbarie e tornare all'oscurantismo superstizioso del medioevo. Leopardi denuncia come in questa età si esalti il progresso, si inneggi alla libertà e si voglia però che il pensiero sia di nuovo schivo del dogma e dell'autorità, mentre solo il pensiero libero può migliorare il destino pubblico degli uomini. L'età attuale non ha il coraggio di guardare in volto la sorte infelice assegnata all'uomo dalla natura e si aggrappa all'inganno della religione. Il poeta ritiene che il trionfo delle concezioni religiose sia per gran parte frutto di calcoli interessati. Egli contrappone la propria figura eroica e solitaria caratterizzata da un atteggiamento combattivo e orgoglioso che si esprime stilisticamente al verso 63 con lo stacco fortissimo segnato dalla negazione e dal pronome personale ".non io .".
Il motivo sviluppato nella terza strofa è quello della nobiltà spirituale che consiste nel guardare coraggiosamente in faccia il destino comune e nel dire il vero sulla condizione infelice ed effimera dell'uomo, mostrandosi forte nel soffrire e fraternamente solidale con gli altri uomini. A questo punto si colloca una svolta fondamentale nel pensiero leopardiano: egli propone una parte costruttiva, una alternativa all'idee che combatte. Il pessimismo assoluto non induce Leopardi alla rassegnazione e all'inerzia di fronte alla potenza ostile della natura né all'indifferenza verso i mali dell'umanità, il suo è un pessimismo combattivo ed eroico aperto alla solidarietà verso gli altri uomini. Nella ginestra il poeta continua ad escludere la felicità ma afferma la possibilità di un progresso che assicuri una società più giusta, con rapporti più umani tra gli uomini. Se prima negava il progresso assoluto ora ne ammette una forma e propone quello che per lui è il progresso autentico di tipo civile e morale: esso si fonda sulle ingannevoli opinioni ottimistiche intorno la grandezza dell'uomo, ma al contrario sul pessimismo sulla lucida consapevolezza della tragica condizione dell'umanità. Se gli uomini avessero coscienza della loro infelicità e miseria e del fatto che la responsabilità di ciò è la natura, sarebbero indotti a coalizzarsi contro la loro implacabile nemica. Questo rinsalderebbe i legami sociali "la social catena" e invece di combattersi e di sopraffarsi a vicenda per egoismo ed avidità, si unirebbero contro la natura. Di qui nascerebbe "vero amor" tra gli uomini, ma anche giustizia e pietà, rapporti civili onesti e retti. Questa società avrebbe un solido fondamento nel bisogno degli uomini di salvaguardare la propria sopravvivenza e il progresso non si baserebbe su miti e "superbe fole". Ciò non assicurerebbe affatto agli uomini la felicità che è impossibile, ma garantirebbe una società più giusta e civile in cui gli uomini non sarebbero più aggressivi gli uni contro gli altri e verrebbe meno quindi l'infelicità addizionale che nasce dall'ostilità degli altri uomini anzi l'uomo sarebbe soccorso e confortato dai suoi simili quando la natura malvagia si accanirà contro di lui.
Leopardi delinea esplicitamente il compito dell'intellettuale nella creazione di questa società: rendere chiari al popolo questi concetti, diffondere la consapevolezza del vero, indicare il vero nemico contro cui combattere, spingendo così gli uomini alla fraternità.
La 4 strofa si apre con uno scorcio paesaggistico, è lo stesso paesaggio della prima strofa, la distesa di lava pietrificata di colore bruno che evoca immagini di lutto. L'io lirico è immerso nella realtà esterna, non la sfugge più, la affronta eroicamente. Si tratta di una realtà orrida, funebre che rappresenta la vera condizione dell'uomo. La prospettiva paesistica si allarga poi alla volta stellata "voto sere", questo cielo induce l'io lirico ad una vasta meditazione sulla nullità della terra e dell'uomo nell'universo, non è più l'infinito dell'immaginazione, ma l'infinito del vero. L'atteggiamento del poeta è incerto tra il riso e la pietà, il riso per la stoltezza, la pietà per le sofferenze dell'umanità.
Nella quinta strofa Leopardi riprende il motivo della prima, la potenza distruttiva della natura che non si cura dell'uomo più di quanto si curi delle formiche e come un frutto cadendo da un albero schiaccia un formicaio, così il vulcano con la sua eruzione nel primo secolo d.C. distrusse Pompei ed Ercolano. La descrizione del cataclisma è resa da polisindeti, gruppi di nasali più consonti, e dalla metafora dell' "utero tonante". L'immagine dell' "utero" rende l'idea di una natura dal cui grembo esce la vita, ma anche la morte.
La 6 strofa è tutta incentrata sul motivo del tempo, sul contrasto tra la variabilità del tempo umano e l'immobilità del tempo della natura; mentre il tempo umano scorre vario, trasformando incessantemente le cose, la natura maligna incombe ferrea nella sua minaccia. Nella prima parte della strofa emerge il contrasto fra un quadro potenzialmente idillico e l'immagine della natura distruttrice che nega ogni quiete idillica. La seconda parte insiste sul motivo delle rovine delle antiche città che tornano alla luce grazie agli scavi archeologici, ma torna anche insistente il motivi del tempo. Nella conclusione la natura resta immobile mentre cadono i regni, passano i popoli e i linguaggi.
Nell'ultima strofa, in corrispondenza circolare con la prima ritorna in primo piano la ginestra di cui viene richiamato il significato simbolico, cioè la pietà per la desolata condizione delle creature. La ginestra diventa un modello di comportamento nobile ed eroico per l'uomo, essa infatti non ha mai piegato codardamente il capo per supplicare l'oppressore e nemmeno lo ha orgogliosamente eretto per rendersi uguali al cielo, non ha mai voluto imporre il suo dominio sulle altre creature; nella ginestra si proietta dunque l'immagine ideale della nobiltà dell'uomo.
A se stesso
Composto nel 1835 in seguito alla delusione d'amore ricevuta da Fanny Targioni Tozzetti, il componimento chiude il ciclo dei canti di Aspasia, in esso si afferma la scomparsa dell'inganno estremo, l'amore; la lirica segna perciò il distacco definitivo alla fase giovanile dell'illusione. Dinanzi al vero compare un atteggiamento di contegno eroico che si esprime sia nel disprezzo nei confronti di quella parte di sé che aveva ceduto all'amore, sia nei confronti della natura e della forza malefica del fato. La percezione dell'infinità vanità del tutto determina una reazione sprezzante e orgogliosa. La lirica ha una struttura metrica suddivisa in tre membri di cinque versi ciascuno (1-5, 6-10, 11-15) ognuno dei quali è aperto dalla ripetizione dello stesso concetto, il discorso poetico ha un andamento spezzato, senza legami sintattici, dato da numerosi enjambements. Il lessico è spoglio, gli aggettivi sono rari e il discorso si costituisce essenzialmente di verbi e sostantivi, si tratta di una poesia totalmente nuova e sicuramente diversa da quella degli idilli.
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