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Tradizione Ermetica,magia e religione nel Rinascimento italiano
Il lavoro vuole essere una introduzione - invito alla lettura di quegli inni o brani lirici intestati, insieme con i Trattati in cui sono inseriti, al nome del mitico Ermete Trismegisto. Ciò nella convinzione che, è stato detto, nulla meglio delle preghiere o eulogie in forma di inni e canti può essere fonte testimoniale più istruttiva circa la natura e la qualità di una religione. Nel caso nostro, dell'Ermetismo ma anche per la constatazione della mancanza in Italia di uno studio d'insieme, diretto al grande pubblico, su una innografia, appunto quella dei fedeli di Hermes, che ben merita di avere il suo posto accanto alle più note innografie o greco - romane o egiziane o giudaico - cristiane, testimonianza di una poesia religiosa tanto antica quanto nobile, che in sé assomma, sorprendendoci, valori e idealità di pietà e fratellanza. Ermete Trismegisto, il 'Tre volte grandissimo', è una mitica figura di santo pagano dell'antichità, sotto il cui nome sono state composte opere di filosofia, teurgia, alchimia, astrologia e di vario genere, tutte compenetrate do una stesso fervore al contempo di amore per il sapere e misticismo. La letteratura ermetica è stata la base per lo sviluppo della filosofia rinascimentale, da Marsilio Ficino a Pico, fino a Giordano Bruno. Attraverso gli Inni ermetici, ovvero le manifestazioni più pure della mistica ermetica, il curatore del testo intende proporre anche un ulteriore nuovo approccio dell'ermetismo. E' negli Inni, infatti, che le nozioni di teurgia e teosofia emergono appieno come componenti essenziali della dottrina di Hermes. Attraverso puntuali riferimenti, prevalentemente ai trattati del Corpus Hermeticum e dell'Asclepio, il commento di Antonino Proto mette in evidenzia insieme sia la profonda spiritualità che promana dalla 'parola' del Trismegisto - che, ammaestrando, rivela la 'divina' arte teurgica come pratica teosofica per la Gnosi, unione e contemplazione di Dio - sia la perennità della domanda esistenzialistica e soterica dell'individuo, che, come in ogni epoca di crisi, angosciosamente si volga al misterioso, al 'meraviglioso', al soprannaturale. Inoltre, la parte bibliografica è finalizzata a offrire sia al semplice lettore come allo studioso un panorama per quanto possibile ampio della 'letteratura ermetica', nonché uno strumento di informazione e orientamento per eventuali riscontri e ricerche.
Lo studio, che e' anche un ulteriore nuovo approccio alla figura misteriosa e (forse per cio') sempre affascinante del 'tre volte grandissimo' Ermete, e' diretto a riconsiderare, guardate da un'angolazione diversa rispetto agli studi pre e post-festugieriani, in termini di reciprocita'-identificazione mezzo-fine, le nozioni di teurgia e teosofia come componenti essenziali della dottrina di Hermes.Attraverso puntuali riferimenti, prevalentemente ai trattati del Corpus Hermeticum e dell'Asclepio, la ricerca mette in evidenza insieme sia la profonda spiritualita' che promana dalla 'parola' del Trismegisto, che, ammaestrando,rivela la 'divina' arte teurgica come pratica teosofica per la Gnosi, unione e contemplazione di Dio, sia la perennita' della domanda esistenzialistica e soterica dell'individuo, che, come in ogni epoca di crisi, angosciamente si volge al misterioso, al 'meraviglioso', al soprannaturale. La parte bibliografica e' finalizzata a offrire sia al semplice lettore come allo studioso oltre che un panorama per quanto possibile ampio della 'letteratura ermetica', anche uno strumento di informazione e orientamento per eventuali riscontri e ricerche.
La civiltà rinascimentale, è risaputo, insieme con la nuova visione della natura e l'affermazione della centralità del soggetto umano nel rapporto con l'universo e con Dio, è contrassegnata dalla rivalorizzazione dell'antichità. Si riscoprono, accolte con ammirazione ed entusiasmo, le filosofie antiche e le antiche religioni, e si tentano generosi e temerari progetti di sintesi e armonizzazione di esse con la rivelazione e la tradizione proprie del cristianesimo.
Così, maggiormente a partire dalla seconda metà del secolo XV° e per tutto il secolo XVI° e oltre, anche per l'impulso dato da Marsilio Ficino con la pubblicazione dei Trattati del Corpus Hermeticum e dell ' Asclepio , si ebbe una grande ripresa della tradizione ermetica, cioè di quel filone culturale che si era venuto formando già dai primi secoli dell'era cristiana, e mai del tutto esauritosi nei secoli successivi, attorno alle dottrine, misterico - magico - filosofico - religiose, ascritte al mitico Ermete Trismegisto.
Intorno a costui, in una straordinaria commistione mitologica di lingue e di culti, fiorì quella leggendaria credenza che lo vide, attraverso tutta una serie di identificazioni, dio - Thoth, profeta - Mosè, ermeneuta (interprete e messaggero degli dei) - Ermes e ancora re e legislatore, inventore delle arti e della musica, dei numeri e delle lettere. Quindi non solo degno di essere chiamato 'grande, grande', attributo con cui gli egiziani appellavano i loro dei, bensì Trismegisto, cioè tre volte grandissimo. E, congiuntamente, fiorì fino al Basso Medioevo tutta una 'letteratura' appunto ermetica: scritti di natura la più varia, dotti o popolari, (piccoli trattati di filosofia teosofia storia naturale e cosmogonia; opuscoli di botanica medicina alchimia astrologia magia con i loro ricettari, le loro formule; libri di misteriosofia e iniziazione religiosa con le loro preghiere di scongiuro evocazione ringraziamento ed inni e canti di gloria a Dio o agli Dei), in diverse lingue, copto armeno greco latino e arabo, per lo più 'nobilitati' con l'attribuzione al padre riconosciuto e fondatore della dottrina, al santo profeta sacerdote sapiente Ermete Trismegisto - che, intanto, però, a torto o a ragione, per amore o per odio, da teurgo, operatore di cose divine, diveniva, esaltato o respinto, sempre più semplicemente mago, operatore di cose meravigliose, mirabilia.
Così la magia, che nel Trismegisto, secondo il nostro giudizio, è 'teurgia', operazione divina, rito mistico e comunque attività sacra (ieratikè pragmatèia), si presenta strettamente connessa alla mentalità e alla spiritualità dell ' 'ermetista' dell'età precristiana e cristiana, come ci testimoniano tanto gli autori pagani da Apuleio a Giamblico, Porfirio e Proclo, quanto quelli cristiani, e non solo dei primi secoli, da Clemente Alessandrino a Lattanzio a Sant'Agostino. Di Apuleio sappiamo che tutti i suoi 'distinguo' dell'Apologia rivelano una sua sincera ripugnanza per i sortilegi della 'falsa magia', ma un'altrettanto sincera adesione nei confronti della 'vera magia', alta e nobile, che compie i suoi 'miracoli' ad opera della semplice fede. Giamblico, vissuto in un ambiente e in' epoca in cui la credenza nelle pratiche magiche esercitavano un grande fascino, pur rifiutando, non immemore degli insegnamenti del suo maestro Porfirio, le forme della magia volgare in nome della 'sumpateia' , o vera magia, plotiniana, conclamava la differenza tra 'theològos' ,che si limita a parlare 'degli dei' e che resta puro 'scienziato' della divinità, e il 'theurgós' che invece può 'agire' su di essi. Il teurgo, infatti, attraverso le vie magiche, quali il sacrificio e la divinazione, è capace di 'unificarsi all'Essere supremo', di 'entrare in comunicazione con Esso, di sciogliersi da ogni legame con la materia, di elevarsi, trasfigurandosi, nell'aria. Da qui la esaltazione da parte di Giamblico della figura di quell'Ermete Trismegisto, portatore di quel misterioso fervore religioso dell'antico Egitto, nella cui parola il nuovo misticismo trova riscontro fuso con l'antico naturalismo, che vedeva la presenza e la virtù divina nella luce del cielo, nel movimento degli astri, nei grandi fenomeni naturali. Porfirio, devoto discepolo di Plotino, che pure nell' 'Epistola ad Anebonem' attacca la follia di chi spera di esercitare, per vie magiche, una costrizione sugli dei e ironizza sulla demonologia di Anebo, nel 'De regressu animae' considera la teurgia, forma alta di magia, come momento importante di purificazione, poiché per suo mezzo siamo preparati a ricevere gli spiriti e gli angeli e ad avere la visione di Dio. Su questa scia, ancora nel 5° secolo, il 'razionalista' Proclo dirà che la teurgia è un potere più elevato di qualsiasi umana sapienza, comprendendo essa i benefici della divinazione, le forze purificatrici dell'iniziazione e tutte le operazioni della possessione divina. I padri della Chiesa in genere guardarono con sospetto e avversione alle varie forme espressive della religiosità pagana, fra le quali specialmente il culto e l'uso delle immagini materiali degli dei, specificatamente le statue e le pratiche demonologiche, che nascevano dalla credenza nella esistenza dei demoni, entità reali della presenza divina nelle cose e nell'uomo. Lattanzio nel 'De origine erroris' ('Divinae istitutiones, l. 2°) affronta la questione demonologica e identifica, piuttosto semplicisticamente, il Dèmone con il Demònio (Angelo decaduto) e pertanto, egli dice, vanno respinte come operazioni diaboliche e malefiche le operazioni volte a richiamarne l'intervento e vanno condannati i sostenitori e seguaci della dottrina. Ermete Trismegisto, che nel 'Discorso perfetto' esalta la pietà come unica e vera forma della conoscenza di Dio, però, non solo non è mago, ma anzi è un uomo santo. Ancora più intransigente la linea di attacco di S. Giovanni Crisostomo che parla degli incantesimi e dei mezzi per esercitarli come droga malefica (deletérion phármacon), operazione del diavolo, e dei vari culti magici come idolatria. L'atteggiamento di Sant'Agostino, per come leggiamo ne 'La città di Dio' (libro VIII) è molto duro sia verso le dottrine demonologiche sia verso il culto delle statue, che egli condanna, in uno con gli artefici, come Apuleio e il Trismegisto, in quanto espressione diabolica, frutto di nefasta curiosità, magia, sia che si chiami con nome più detestabile goetia, sia che si chiami con nome più nobile teurgia ('nefariae curiositas, quam vel magiam vel detestabiliore nomine goetiam vel honorabiliore theurgiam vocant').
La fine dell'Impero romano d'Occidente, le stesse invasioni barbariche segnarono un arresto quasi totale di quella circolazione culturale che aveva avuto i suoi centri di elaborazione e propulsione in Atene e Alessandria. La Chiesa ormai vincitrice, compiuto il suo assestamento organizzativo e dottrinale, iniziava un deciso processo di temporalizzazione, che non avrebbe risparmiato neppure i grandi ordini religiosi che pur sorgevano con finalità antisecolari. Ormai, affievolitosi il grande ardore religioso degli Apologisti e dei Padri, guardati con sospetto e combattuti come ereticali lo spontaneismo, il popolarismo, il pauperismo, nessuna possibilità di successo poteva avere qualche tentativo, per altro sporadico, di riportare in vita forme pratiche dell'antica religiosità pagana. D'altra parte anche il clima politico è fortemente mutato tanto nell'Europa cristiana dell'impero carolingio, quanto nel vasto mondo mussulmano dell'Africa e del Medio - Oriente. Nei secoli successivi al VI, perciò, come perduta la memoria del Trismegisto e scomparsa la teurgia come arte ieratica del divino, la Magia, comunque considerata e denominata, dovette continuare (dobbiamo così ritenere, in assenza di precisi riscontri storici) ad essere praticata, anche se certamente spoglia di quel substrato filosofico - religioso che nelle passate epoche l'aveva sostenuta, e che, invece, l'avrebbe giustificata in epoche più recenti. Agli albori del Rinascimento, ma in età ancora medievale, tra il XII e il XIII secolo, la letteratura ci mostra la presenza di una diffusa considerazione, quasi sempre congiunta con l'interesse per l'astrologia e l'alchimia, della magia e del nome di Mercurio Trismegisto, cui ora nelle loro opere fanno riferimento autori cristiani come Teodorico di Chartres, Bernardo Silvestre, Alano di Lilla, vissuti nel XII secolo, o come Vincenzo di Beauvais, Guglielmo d ' Alvernia e Alberto Magno del XIII secolo. Si tratta di una considerazione che, per quanto prevalentemente pseudo - scientifica, poco ha a che fare con la volgare negromanzia e la diffusa pratica dei sortilegi. Traspare, infatti, la figura del 'mago - scienziato'. Questo, se non è più il pio teurgo neoplatonico, sacerdote di Ermete, che o attraverso particolari culti o per determinati comportamenti psicofisici cerca di congiungersi, smaterializzandosi, con il divino, è, però, uno che nel rispetto e nell ' amore di Dio aspira a rendersi perfetto e a esaltare la sua dignità di uomo, acquisendo scienza e facendosi mago: 'Ille est perfectus qui scientiae gradum attingit ultimum [et] ea quae iuvant et nocent cognoscitet invenit magisteria subtiliaet facit miracula et imagines mirabiles et scientiarum formas retinet . Leggendo ci par di vedere in piena attività teorico - pratica talune di quelle straordinarie figure di 'pensatori - riformatori', 'medici', 'scienziati', 'maghi', che operarono tra la seconda metà del secolo XIII e il primo quarto del XIV. Pensiamo a un Ruggero Bacone (1214-1294), il combattivo e ardente francescano iniziatore della scienza sperimentale, che mentre riconosce la inanità di certa magia corrente ai suoi tempi, nella sua instancabile ricerca operava, precorrendo il Ficino, naturaliter da mago, intendendo la magia, quella autentica, né miracolo né inganno, ma scienza e tecnica, ed anche, su questa linea della magia bianca e di sistemazione unitaria del sapere, a un Raimondo Lullo (1235-1315), che col cabalismo magico interno alla sua Ars Magna, faceva da battistrada a Pico della Mirandola e agli altri cabalisti del Quattro - Cinquecento. Pensiamo ancora al medico, astrologo - alchimista e cabalista Arnaldo da Villanova (1240-1312), che pur condannando nel suo De improbatione maleficiorum suggestioni demonologiche e pratiche magiche, non esitava ad applicare tecniche magico - astrologiche nell'esercizio della sua arte medica, o a Pietro d'Abano (1250-1315), altro grande medico di quel tempo, che nella sua principale opera, Conciliator, poggiando sull'autorità di 'Hermes, Enoch o Mercurio', sosteneva la dipendenza del mondo naturale dai corpi celesti e qua e là manifestava credulo interesse a 'sogni, affascinazioni, incantesimi e altre specie di magia'; e, non ultimo, anch'egli instancabile indagatore dei segreti della natura, a Cecco d'Ascoli (Francesco Stabile, 1269-1327), che pagava col rogo sia, probabilmente, la fama di mago che lo circondò, sia la sua passione per lo studio delle influenze astrali sulle cose umane, che lo aveva portato a fondare un'astrologia genetliaca (oroscopia basata sulla posizione degli astri al momento della nascita di un uomo e della fondazione di una città).
E', però, nel periodo rinascimentale, nell'entusiasmo per la riscoperta delle cose antiche e primigenie, nel desiderio di rinnovare la prisca sapienza, che la magia, come soprattutto si desumeva dagli scritti ermetici, conosce il suo splendore massimo. Ecco allora che, come Ermete, l'antichissimo saggio, fu insieme theologus e magus, l'homo novus del XV e del XVI secolo, via anche questa di conoscenza e celebrazione di Dio, si volge, esaltando la sua dignità di essere privilegiato fra tutte le creature, allo studio, e alla pratica persino, della magia e perciò egli, se non sempre arriva ad essere davvero mago 'praticante', non può non sentirsi attratto e coinvolto dalle dottrine magiche o non coltivare, in qualche forma e misura, quell'arte magica che gli consente di penetrare nell'intimo della natura, o per carpire l'essenza delle cose o per cogliervi la presenza del divino. Ora, dunque, la magia per opera di cultori della statura di Marsilio Ficino e Giovanni Pico della Mirandola, di Giordano Bruno e Tommaso Campanella, ma anche di Ludovico Lazzarelli, di Giovanni Reichlin, Cornelio Agrippa, Teofrasto Paracelso e di altri ancora (Girolamo Cardano, Giovanbattista della Porta, Robert Fludd), i quali tutti per l'intero arco dei secoli XV e XVI e oltre, in Europa, se ne occuparono studiandola e scrivendone con convinzione e passione, può tornare ad affermare la sua valenza non solo nel campo della filosofia e della scienza, ma anche della religione.
Noi qui, tuttavia, è doveroso chiarire ed avvertire, nella impostazione del nostro discorso già di per se stessa ristretta al solo Rinascimento italiano, rivolgeremo la nostra attenzione soltanto, come più rappresentativi, ai primi quattro degli autori succitati e cioè Ficino, Pico, Bruno, Campanella .
Di essi, attraverso il diretto riferimento ai loro scritti principali di o su la magia, cercheremo di cogliere le idee, gli atteggiamenti, le ragioni di una scelta 'di campo'.
Marsilio Ficino (1433-1499), nella sua grande ammirazione per l'antichità, nello sforzo formidabile di conciliare il paganesimo con il cristianesimo, si impegnò a fondo non solo a rendere congrue con il cristianesimo le idee del suo 'divino Platone' e ad armonizzare la sapienza di quell'antichissimo saggio che fu per lui Ermete Trismegisto nell'ordine profetico del Vecchio Testamento, ma anche a restituire dignità e ad assegnare positiva funzione alla magia, che, in quanto naturalis, cioè rispettosa del divino processo creativo, non già 'nefaria curiositas', tende ad essere espressione di fede religiosa. L'importanza del Ficino come 'autore magico' è universalmente riconosciuta. Non c'è studioso o cultore di dottrine magiche o, in genere, occulte nel Rinascimento che in qualche modo a lui non si richiami. Nel Ficino, infatti, si ritrovano tutti gli aspetti dell'armamentario tecnico - ideologico (talismani, corrispondenze e attrazioni, incantesimi, evocazioni, etc.), nonché temi e spunti della più generale problematica connessa ai rapporti tra magia e astrologia, magia e medicina, magia e demonologia, magia e teologia. Manca soltanto la Cabala. Figlio di medico e medico egli stesso, il Ficino era portato a ricercare in sede naturale quanto potesse essere utile per la salute corporale e spirituale dell'uomo. E fu con tale animus che si volse alla magia, da credente e da filosofo. Il suo progetto di magia naturalis, perciò, si incontra con quello della ricostruzione della prisca sapienza e della prisca teologia. I libri De Vita, e più particolarmente il terzo dal titolo De Vita coelitus comparanda, un commento, a detta del Ficino, su Plotino, oltre che la traduzione del Pimandro e dell'Asclepio di Ermete Trismegisto, sono documento delle sue idee attorno alla magia. Queste hanno il loro substrato filosofico nella dottrina platonica, che Ficino segue filtrata attraverso Plotino. Da una parte c'è l'Intelletto (nous, mens divina), Mondo Intelligibile, sede delle Idee Intelligibili; dall'altra il Corpus (materia), mondo sensibile (stelle, pianeti, fra cui la Terra) o mondo sublunare. Il tramite è costituito dall'anima universale (anima mundi),che contiene in sé riflessi, sotto forma di immagini, gli intelligibili, che essa, a sua volta riflette nel corpus. Ciò è possibile, teorizza il Ficino, per la presenza dello Spiritus, una via di mezzo tra anima mundi e corpus mundi, tra immateriale e materiale, come dire che nulla è assolutamente immateriale e nulla è assolutamente materiale. Questo spiritus, è per il Ficino una sorta di soffio impalpabile: 'Corpus tenuissimum, quasi non corpus et quasi iam anima; item quasi non anima et quasi iam corpus', permea, esso stesso universale, l'intero universo. Così tutto è 'spiritualizzato', i corpi celesti come quelli terrestri: quelli, anche se sensibili, più rarefatti e più vicini all'intelligibile, questi più densi e più lontani. E tutto è 'armonizzato': come l'anima 'influisce' mediante lo spiritus, sul mondo celeste, così questo, sempre mediante lo spiritus, sul mondo terrestre. Il Ficino, consapevolmente o inconsapevolmente rischiando pericolosi sbocchi deterministici, mostra di credere veramente che gli astri (siano stelle, siano pianeti) influenzino la vita della terra e quindi dell' uomo. Nei tre libri del 'De vita' e in particolare nel terzo, 'De vita coelitus comparanda', per più capitoli il Ficino si diffonde a discettare di influssi stellari e planetari e dei loro diversi effetti, benefici o non, sugli uomini circa il carattere, gli umori, il temperamento, l'intelligenza, le inclinazioni, le azioni fortunate o non e così via. Ecco così l'importanza fondamentale dello studio degli astri accanto a quello della medicina per la salute corporale, accanto alla filosofia e teologia, per la salute mentale e spirituale. Ma se l'astrologia ci insegna a conoscere posizioni siti moti poteri e virtù degli astri, nulla essa può, questo sembra essere l'assioma ficiniano, senza la magia, che 'straordinariamente', studia e opera con 'industria e arte', come 'governare', assecondandoli o modificandoli, gli influssi, poiché 'nessuno deve dubitare che a noi e a tutte le cose che sono attorno a noi, con determinati accorgimenti, è possibile cercare di ottenere per sé le cose celesti'. Questo modo di operare, per il Ficino, è secondo natura e perciò la magia che se ne serve procede secondo natura, è naturalis, quindi 'lecita'. Ora se è vero che gli influssi sono la trasmissione attraverso lo spiritus mundi, sotto forma di immagini, delle 'ragioni' ideali, cioè dei principi di tutte le cose, presenti, perché riflesse dall'Intelletto, nell'anima mundi, l'uso di appropriate immagini, insite nelle cose o opportunamente riprodotte, così come Ermete Trismegisto con l'esempio dell'Asclepio insegnava, la magia si appalesa, al giudizio di Ficino, via quanto mai efficace per stabilire quei 'legami' necessari a propiziare le superiori potenze spirituali. Soccorrono allora i talismani, cioè quegli oggetti particolari anche artisticamente foggiati (lo stesso Ficino ne costruì, adoperò e consigliò), fatti con metalli, nobili (argento, oro) e non (ad esempio stagno), o con pietre preziose (ad esempio zaffiro) in cui erano scolpite immagini stellari planetarie zodiacali, atte a 'captare', convenientemente appropriate e opportunamente adoperate, la 'virtù' propria di questo o quell'altro corpo celeste. I talismani, che tanta parte, ricorda lo stesso Ficino, avevano nei rituali delle pratiche religiose dei popoli antichi, come Egiziani e Caldei, di cui in tarda età medievale appositamente si occupava quello strano e al tempo stesso fortunato trattato detto Picatrix, la cui efficacia, 'experentia confirmata', ancora nel XIV secolo comprovava il famoso medico - mago Pietro d'Abano (Petrus Aponensis), nel pensiero magico del Ficino occupano, in uno con la musica, un posto di preminenza. Correttamente allora sotto questo aspetto la magia propugnata dal Ficino è qualificata come talismanica e astrologica. Se poi si considera il grande ruolo che in questo tipo di operazioni svolge l'organo della vista, senza cui le immagini non potrebbero essere viste, e sarebbe come se non fossero, con evidente ragione quella magia viene detta anche visiva; e ancora, poiché gli 'influssi' si trasmettono non direttamente ma attraverso quel medium che è lo spiritus, come detto soffio impalpabile, aria, ben si addice ad essa anche l'attributo 'pneumatica'. Quindi magia astrologica - talismanica - visiva - pneumatica. Queste idee del Ficino sulla utilità e bontà dei talismani e quindi sul connesso tipo di magia, però, qua e là nel corso della loro esposizione presentano perplessità e tentennamenti e qualche tortuosità, facendo così avvertire che in chi le manifesta c'è la preoccupazione che esse possono essere giudicate non ortodosse e chi le professa sospettato di idolatria. Basta leggere la parte conclusiva del 18° capitolo del 'De v.c.c.', interamente dedicato ai talismani, dove l'autore che volta a volta nella esposizione di quelle idee si è appoggiato alle testimonianze del Trismegisto, di Platone e Tolomeo, di Origene e Sinesio Alkindi e Alberto Magno, ora usbergo più sicuro, sente il bisogno di avere conforto dal nome, non sospettabile e grandemente autorevole, di Tommaso d'Aquino, che in diversi suoi scritti mostra di non essere del tutto contrario all'uso delle immagini (purché non siano demoniche). E con l'Aquinate e da medico arriva a consentire che 'sarebbe più sicuro affidarsi alle medicine più che alle immagini' e a dire di avere il sospetto che 'quelle figure sono inutili'. Ben altra convinzione e linearità il Ficino manifesta nella indicazione e illustrazione di quella magia, che per essere poggiante sulle funzioni dell'organo auditivo, cioè l'orecchio, è auricolare, o sugli incantesimi e le evocazioni messe in opera dalla musica o meglio dalla parola cantata, come Orfeo faceva per sedurre le potenze superiori, ed è incantatoria. Se quanto alla magia visiva o pneumatica per attrarre gli influssi stellari il Ficino proponeva l'uso di cose, diciamo così, 'materiali' (parti di animali, erbe, odori, oggetti particolari = talismani), ora in più luoghi dei suoi scritti raccomanda che per catturare lo spirito planetario occorre soprattutto servirsi di qualcosa quasi di 'immateriale' come suoni e canti, in una parola della musica. Se lì erano impegnati i sensi più bassi, nell'ordine gusto tatto olfatto vista, qui è impegnato il senso più alto, l'udito, che essendo 'aereo', quasi spiritus, può stabilire legami, a differenza degli altri sensi vista compresa, senza intermediari, direttamente. Ne consegue che la via auricolare è la più certa e la più efficace. Se lì lo spirito dell'uomo era colpito da 'immagini', qui è colpito da 'suoni'. Vediamo perché. Ficino, con Pitagora e Platone, vede l'universo nella sua totalità e l'uomo nella sua particolarità, macrocosmo e microcosmo, costituiti con le stesse armoniche proporzioni e perciò come c'è un'armonia delle sfere celesti (musica mondana), c'è un'armonia del corpo, che è spirito e anima, che si esprime nella parola e nel canto (musica umana), e delle cose naturali, in qualche misura 'spirituali', che producono suoni e voci, e artificiali, create ad imitazioni delle naturali, che servono a produrre a loro volta suoni musicali (musica intermedia). Da qui la mirabile virtù del 'concentus' mondano 'di sostenere, muovere, colpire con i suoi numeri e le sue proporzioni, lo spirito e l'anima e il corpo'. Da qui la 'prepotente' forza della musica umana, quella di David che col Salterio placa la furie di Saul e col salmo intona preghiere di lode al Creatore, quella di Orfeo che con la lira incanta le bestie e con l'inno intenerisce gli dei inferi, di sommuovere insieme spirito anima e corpo e di rendersi consonante con quella della sfere celesti. 'Ricordati - dice il Ficino a conclusione del XXI Cap. del De v.c.c. 'De virtute verborum atque cantus ad beneficium coeleste captandum' - che il canto è il più potente imitatore. Esso infatti imita le tensioni, i sentimenti dell'animo e le parole, ripete i gesti e i moti del corpo e gli atti e i comportamenti degli uomini, cosicché spinge a imitae e a fare quelle medesime cose immediatamente sia il cantore che gli ascoltatori. Inoltre la medesima virtù quando il canto imita le cose celesti da una parte spinge il nostro spirito verso il celeste influsso, dall'altra miracolosamente il celeste influsso verso il nostro spirito'. Per chi, dunque, opportunamente la pratica, la musica, 'naturaliter affascinando', svolge la nobile funzione magica di captazione di quelle influenze astrali favorevoli al corso della vita umana; per chi, convenientemente se ne serve, la funzione religiosa della purificazione della mente e dell'anima nella ricerca della verità e di Dio. Magia, dunque, quella del Ficino, talismanica e incantatoria, visiva e auricolare, che però ancora, proprio perché naturalis, nel contesto di una visione della natura tutta vivente, nella quale tutte le cose, spontaneamente e variamente combinandosi e variamente dall'arte sapiente combinate, si attraggono si sostengono si influenzano, non può non essere anche simpatetica.
Giovanni Pico della Mirandola (1463 - 1494), che pur chiudeva la sua brevissima ed intensissima esistenza (moriva a soli trentun anni di età) con la stesura delle 'Disputationes in Astrologiam', cioè con una violenta presa di posizione, quasi una ritrattazione, nei confronti dell'astrologia, nella considerazione della magia come efficace e quasi indispensabile strumento di penetrazione e comprensione della natura e con essa della onnipotenza divina e insieme della centralità e originalità dell'uomo, ebbe indubbiamente comunanza di idee e consonanza di sentimenti con Marsilio Ficino. Di ciò sono documento illuminante il 'De hominis dignitate', le 'Conclusiones', l' 'Apologia'. Partiamo dalla decima Conclusione Magica, che come tutte le altre 899 Giovanni Pico, spavaldamente e solennemente si impegnava a discutere pubblicamente. In essa, infatti, rileviamo, appunto chiaramente espressa, la totale adesione alla filosofia ficiniana della 'magia naturalis': 'Quod magus homo facit per artem, facit natura naturaliter faciendo hominem', afferma, dunque, Pico che ciò che l'uomo - mago fa mediante la via dell'arte, la natura fa 'naturalmente' facendo l'uomo. Magia è ricreare 'artificialmente' (=magicamente) lo stesso processo creativo della natura. Perciò questa magia, essendo così 'parte pratica della scienza della natura', è lecita e non proibita. Essa, infatti, nulla ha a che spartire con quella 'in uso presso i Moderni', inconsistente priva di fondamento e verità, in quanto dovuta alle potenze delle tenebre, nemici della 'verità prima', che 'la Chiesa giustamente condanna'. In questa esplicita dichiarazione di rifiuto della falsa magia, che fa quasi da premessa all'esternazione delle 'idee sue proprie' sulla magia e sulla cabala attraverso ben 26 'Conclusiones magicae' e 72 'cabalisticae', è facile scorgere che Giovanni Pico, che pure a differenza del Ficino procederà nella esposizione senza tentennamenti e senza cercare paraventi e nascondimenti dietro questo o quell'altro autore più o meno antico più o meno autorevole, ha inteso mettere le mani avanti per mettersi al riparo da possibili fraintendimenti e dalle prevedibili reazioni di certi ambienti culturali ed ecclesiastici. E perciò, come a ribadire che la magia di cui è fautore non solo è lecita dal punto di vista della ragione e della morale, ma si muove entro la retta dottrina, nella sesta conclusione magica dirà che 'non c'è opera mirabile, sia magica o cabalistica o di qualsiasi altro genere che non debba in primissimo luogo riferirsi a Dio glorioso e benedetto'. A questo punto Pico può manifestare senza remore le 'conclusioni' a cui studio e riflessione lo hanno portato, baldanzosamente proponendole sotto forma di 'tesi' alla discussione con i dotti di tutta Italia. Ed eccolo, subito dopo aver definito nella quarta conclusione la magia parte la più nobile della scienza della natura, proclamare nella quinta, con tutto il suo giovanile entusiasmo, che 'né in cielo né in terra c'è virtù potenziale e separata che la magia non possa attualizzare e unificare'. In questa affermazione dell'alto valore della magia, che con scienza e arte, si volge a estrinsecare e unificare le occulte potenzialità della natura e, appropriandosene, a produrre effetti straordinari, stupefacenti, all'occhio del profano, impossibili, c'è tutto l'orgoglio dell'uomo rinascimentale di sentirsi, di essere egli stesso, proprio in virtù del suo particolare ingenium di operare mirabilia, magnum miraculum, inoppugnabile attestazione dell'onnipotenza di Dio, 'la cui grazia generosamente fa quotidianamente piovere sopra gli uomini contemplativi di buona volontà acque sovracelesti di mirabili virtù'. E' questo, ci pare, il senso dell' 'Oratio de hominis dignitate', scritta per essere pronunziata a Roma al momento della presentazione e discussione delle 900 Tesi: l'interpretazione originale e coraggiosa delle istanze umanistiche fatte proprie dal ventitreenne Pico, che, nel mentre illustra, spiega ragioni significati procedimenti di elaborazione, si fa carico di annunciare il grande progetto, che era nelle aspirazioni del Ficino e negli auspici di tanti nobili spiriti di quel tempo, di una concordia generale sui temi scottanti della possibilità di accordare le nuove tendenze della cultura con la tradizione, la libertà dell'individuo con l'autorità della Chiesa, i valori della civiltà pagana con quelli del cristianesimo. Nello specifico del nostro discorso, accordo tra le teorie e le pratiche magiche, cui non pochi spiriti speculativi e contemplativi si volgono a soddisfazione del bisogno di conoscenza e verità, dell'ansia religiosa di glorificazione dell'opera meravigliosa della Creazione, con i dettami della Scrittura e il Magistero della Chiesa; tra la prisca sapienza e del santo teurgo Mercurio Trismegisto, l'egiziano, la cui filosofia magica e religiosa Pico a suo modo aforisticamente accoglie in 10 specifiche Conclusioni, e del mitico poeta e cantore Orfeo, 'dei cui inni nulla c'è di più efficace per le operazioni di magia, sempre che si applichino la dovuta musica, le giuste disposizioni d'animo e tutte le altre condizioni che i sapienti conoscono', con la dottrina del Vecchio e del Nuovo Testamento. Su questa scia il Pico, tutto preso a decantare eccellenza e bontà della magia, arriva a dire 'temerariamente' che 'non c'è scienza che più della magia e della cabala ci faccia certi della divinità di Cristo'. Qui vediamo introdursi, non come variabile, bensì come costante e fondante, nel sistema pichiano un elemento nuovo: la Cabala. Ecco, infatti, che già nella quindicesima Conclusione magica si dice che 'assolutamente inefficace è l'operazione magica quando non abbia annessa, implicitamente o esplicitamente, l'opera della Cabala'. La magia naturalis del Ficino, accolta dal Pico, diventa magia cabalistica. Questo connubio più complesso tra magia e cabala, al Pico dovette sembrare più consono all' auspicato progetto di pax, stante che alla conciliazione o armonizzazione non si tendeva più con un rapporto diretto tra paganesimo e cristianesimo, tra Ermete e Cristo, ora che interveniva, a intermediare, l'ebraismo, una religione che col Vecchio Testamento aveva le stesse radici di quella cristiana. Dunque Ermete - Mosè - Cristo. Allora, se la magia naturalis del Ficino poggiante su caratteri e figure (immagini) era astrologica talismanica e visiva, quella del Pico, poggiante su numeri e nomi (lettere) diviene magico - simbolica. Così Pico 'sentenzia', sempre nelle Conclusioni magiche: 'Dai principi più riposti della filosofia bisogna ammettere che nell'opera magica caratteri e figure possono più di quanto qualsiasi qualità materiale' (Conclusione n.24); 'Come i caratteri sono propri dell'opera magica, così i numeri sono propri dell'opera cabalistica e tra gli uni e gli altri si inserisce come medio l'uso delle lettere' (Conclusione n.25). E' questo il passaggio, in un raffronto fino a qui di equivalenza, da semplice magia naturalis a magia cabalistica. Per sé prese, però, dichiara Pico, la Cabala è superiore alla magia: 'Come per l'influsso del primo agente, se esso influsso è speciale e immediato, avviene qualcosa che non è attingibile per la mediazione delle cause, così per l'opera della Cabala, se è Cabala pura e immediata, avviene qualcosa a cui nessuna magia può pervenire' (Conclusione n. 26). Nella struttura delle 'Conclusiones', quasi a significare un percorso, troviamo 47 'Tesi secondo la dottrina dei sapienti della Cabala' a fronte di 10 'Tesi secondo la dottrina di Mercurio Trismegisto', 72 'Tesi sulla Cabala secondo opinione propria' a fronte di 26 'Tesi sulla magia secondo opinione propria'. E l'ultima delle 72 Conclusioni cabalistiche, che poi è l'ultima di tutte le Conclusiones, così conclude: 'Come la vera astrologia ci insegna a leggere nel libro di Dio, così la Cabala ci insegna a leggere nel libro della Legge'. La grande novità del Pico, così, è nell'avere scoperto, evidenziandone l'enorme portata etica e religiosa, la sacralità della Cabala ebraica averla intesa come uniforme allo spirito della dottrina cristiana, averla a pieno titolo introdotta nell'alveo della cultura filosofico - religiosa europea. Il Pico, però, poiché vive e pienamente interpreta il comune sentire rinascimentale dell'uomo - mago, mentre eleva ad altissima dignità la Cabala, considerata superamento e perfezionamento della magia, nobilita la magia stessa in quanto espressione pratica della scienza astrologica nella lettura del Gran libro dell'universo ed essa stessa operatrice di 'cose divine'. In piena Controriforma, Giordano Bruno di Nola (1548-1600), forse la massima voce della coscienza critica rinascimentale, spinto da una forte e sentita esigenza di rinnovamento religioso, oltre che morale e politico, non esitò a dichiarare toto corde le sue simpatie per la tradizione ermetica, ripresa e promossa da Ficino nel Quattrocento, e persino, sulle orme di Agrippa, a fare libera e aperta professione di occultismo, se non praticando, impegnandosi a fondo in una teorizzazione della magia, come essenza costitutiva dell'essere umano e del suo rapporto con l'Assoluto. Considerare questo ardente riformatore, per tanti versi anticipatore di valori moderni, da quest'angolazione non deve significare misconoscimento e sottovalutazione dei suoi grandi meriti storico - culturali e delle sue ardite conquiste concettuali. Si vuole, infatti, correttamente, sottolineare come anche in un robusto pensatore quale egli fu la nozione d'irrazionale, in quanto propria dell'essere più interno e genuino dell'uomo abbia giocato un ruolo non secondario nel suo modo di sentire e meditare, oltre che di vivere e operare. Così guardando all'opera di Bruno, rivediamo lo sforzo costante, in uno con quello del ribadire (senza però l'intento ficiniano di cristianizzarla) la grande validità della tradizione ermetica pagana, di riaffermare l'importanza di quell'arte magica che fu propria di quei popoli antichissimi e in particolar modo della antichissima civiltà egiziana, con i suoi riti e culti religiosi, con la sua cabala, che precedette quella ebraica. Ermete Trismegisto, infatti, ripete Bruno, è più antico di Mosè. Al riguardo leggiamo, per esempio, nel De magia ('Opera latine conscripta' - J. Bruni Nolani, a cura di Tocco e Vitelli, Firenze 1849, III, pp.411 - 412): 'Tali erano presso gli Egizi le lettere più convenientemente definite, che si chiamano geroglifici o caratteri sacri. Per le singole cose da designare essi avevano determinate immagini desunte dalle cose della natura o da parti di esse. Scritture e voci di tal genere gli Egizi usavano per stabilire colloqui con gli dei allo scopo di effettuare cose mirabili. E così oggi i maghi, a somiglianza di quelli, costruite immagini, descritti caratteri e cerimonie, che consistono in certi gesti e culti, mediante cenni determinati esplicano i loro voti'. Bruno, perciò, propendendo verso la magia, si richiamò sì al caposcuola dell'ermetismo magico rinascimentale, cioè al Ficino, del quale in più luoghi del De magia sembra ripetere concetti e teorie (influssi astrali, efficacia delle immagini e del canto etc.) quali si leggono nel De vita coelitus comparanda, ma guardò con grande ammirazione e riverenza, spesso pedissequamente seguendolo, soprattutto al vero fondatore dell'occultismo rinascimentale, cioè ad Agrippa.
Il Bruno, pur non mai tralasciando occasioni, come bene ha illustrato F. Yates, di fare riferimento alla magia in più luoghi di quasi tutti i suoi scritti da quelli giovanili a quelli della maturità (ora allusivamente, come nel De umbris idearum e nel Cantus circaeus, dove trattando di memoria magica e della connessa arte si adombra significativamente il culto del Dio Sole, ora più direttamente, come nello Spaccio della bestia trionfante e nella Cabala del cavallo pegaseo, ov'è la glorificazione della religione egiziana caratterizzata dal culto degli animali e delle statue, ricettacolo degli dei), è nel De magia e nel De vinculis che si adopera a definire le linee della sua filosofia magica. Questa, partendo dal concetto dell'unità e divinità del Tutto ('tutte le cose sono piene di spirito, di anima, di nume, di Dio o divinità e l'intelletto è tutto dovunque e l'anima è tutta dovunque' - De magia, cit. p.434), si basa essenzialmente sulla ammissione di un duplice movimento, discensivo, da Dio alle cose animate, e ascensivo, da queste a Dio e sulla ricerca - individuazione di quei vincoli o legami indispensabili per l'intrapresa dell'azione magica, protesa a realizzare l'ascensione. Essendo, com'è ovvio, momento fondamentale dell'ascensione la presa di contatto con quelle potenze superiori (demoni o angeli) pel cui mezzo si può penetrare nell'anima del mondo o spirito dell'universo e per questo alla contemplazione di Dio, 'solo semplicissimo ottimo massimo incorporeo, assoluto, a se stesso sufficiente', compito del mago, che per santamente ed efficacemente operare deve osservare 'contemplatio, fides, cultus, ritus et puritas ad pura', è attirare gli influssi di quelle potenze. Per questo occorre approntare, in uno status psichico di fortissima eccitazione immaginativa, vari opportuni legami: giuste parole di preghiera e di scongiuro, appropriati canti, straordinarie incantazioni e speciali immagini e persino, nel silenzio, muta ieratica gestualità. Si tratta, però, a ben considerare, di mezzi esteriori. Lo strumento magico per eccellenza, il vinculum magnum il vincolo dei vincoli, per il Bruno, così come gli insegnavano l'Agrippa e il Paracelso, è, infatti, la fede, che è di natura tutta interiore, forza prepotentemente soggettiva impegnante l'intero essere, spirituale intellettuale sensoriale, dell'uomo.
Senza di essa 'nessun operatore naturale razionale o divino, produce alcunché o alcunché può produrre per vie ordinarie'.
Dalla filosofia magica, dunque, alla religione magica o magia religiosa. Il che per Bruno è la stessa cosa in quanto la magia e la religione hanno il loro centro di propulsione nella fede. La fede rende possibili i miracoli dei santi, altrimenti inaccettabili, come i mirabilia dei maghi. E come non c'è religione se non c'è fede, non si può magicamente operare se fermamente non si crede. E come la religione ha la sua liturgia, anche la magia deve avere, perciò, i suoi rituali e cerimoniali. Questa equiparazione magia-religione, però, non vuol dire per Giordano Bruno l'avvento della prisca theologia e del priscus magus del progetto ficiniano: la sua magia, fra le tante prese in considerazione nel De magia, divina e profetica, ci appare più rispondente, in quanto demonica, alla theurgia dell'interpretazione neoplatonica dell'ermetismo e il suo magus, 'homo sapiens cum virtute agendi', è soprattutto il sacerdote-teurgo dell'antica religione egiziana, misterica e fascinosa, verso cui sempre fu rivolta l'ammirazione di Bruno.
Della tradizione ermetica autorevole epigono è Tommaso Campanella di Punta Stilo.Il tempo e il clima in cui egli visse erano ancora per gran parte quelli cupi e severi della Controriforma, quelli che avevano visto Giordano Bruno finire i suoi giorni sul rogo, arso vivo come eretico, in Campo dei Fiori a Roma nel Febbraio dell'anno 1600. Il Campanella che allora era rinchiuso in carcere a Napoli e vi sarebbe rimasto per ben altri 26 anni ancora, pur in seguito correndo non pochi pericoli, riuscì a sopravvivere, alla men peggio, districandosi dalle maglie dell'Inquisizione, oltre che per la protezione di qualche potente, anche, per usare l'espressione del Walker, per la sua 'astuzia politica' (politic cunning), sia pure frammista a 'ingenue temerarietà' (ingenuous rashness).
Fu durante gli anni della lunga prigionia, probabilmente nel 1604, che lo Stilese riscrisse in italiano il De senso delle cose e della magia, già steso in latino (De sensu rerum et magia) attorno agli anni 1590-92. Opera questa, che se pur pensata e scritta durante la giovinezza, il Campanella mai ripudiò, se tornò a rifarla ancora in latino, con una prima pubblicazione in Germania nel 1620 e poi, per sua cura con dedica al cardinale Richelieu, nel 1637 a Parigi.
In essa il Campanella espone, coonestandole col suo sistema filosofico, le sue idee sulla magia, che pur sono rintracciabili nel corpo della sua copiosissima e complessa produzione, in opere come, ad esempio, gli Astrologica, la Methaphisica, La città del Sole e persino la Theologia. Risulta innanzitutto che il Nostro fu enormemente interessato alla magia astrologica che, nonostante ormai si affermasse la scienza astronomica dei Copernico e dei Galileo, teorizzò e praticò fino alla morte, avvenuta a Parigi nel 1639. Fu ammiratore e seguace dell'ermetismo, convinto com'egli era della perfetta equivalenza di magia e religione e, ficinianamente della naturale possibilità di armonica convivenza di ermetismo e cristianesimo.
D.P. Walker e F. Yates hanno evidenziato i caratteri del messianesimo millenaristico, dell' astrologismo magico che il Campanella, da 'buon cattolico', si sforzò di giustificare e sostenere, tirando in ballo anche l'autorità di Tommaso d'Aquino e Alberto Magno da lui ritenuti, come del resto Mosé e Cristo, magi, secondo lo schema della prisca theologia del Ficino e di tutta la tradizione rinascimentale da Reuchlin a Agrippa a Bruno.
L'ampia credenza negli influssi astrali e planetari portò il Campanella alla delineazione di una vera e propria dottrina solare.
Ma veniamo al Del senso delle cose e della magia. Campanella fa interamente proprio il principio telesiano dell'animazione universale (tutte le cose hanno un senso: una sorta di spirito caldo, sottile e impalpabile le permea tutte, appunto, le anima) in quanto soltanto una natura così concepita può corrispondere alle esigenze teorico - pratiche della magia, così com' egli la intendeva. L'animazione, però, non è soltanto materiale, essendo presente, nell'uomo come nel mondo, un'altra anima infusa direttamente da Dio. Così si stabilisce un consenso tra le cose e tra queste e l'uomo. Ecco allora la possibilità della magia, che è insieme sapienza speculativa e pratica, conoscendo e operando per il bene dell'umanità. Scienza e tecnica, dunque, così come per uno dei maggiori predecessori del Campanella, il Paracelso, con il quale egli ripete che la magia consta di tre scienze: Religione, Medicina, Astrologia. La prima che serve a farci conoscere 'la prima causa', onde imporre 'fiducia onore e riverenza' in colui che è soggetto attivo o passivo dell'azione magica; la seconda che ci aiuta a scoprire la virtù delle cose, erbe pietre metalli, e i loro rapporti di simpatia e antipatia, di attrazione e repulsione tra loro e con noi e quindi la loro complessione e attitudine a patire l'intervento del mago; la terza, infine, per sapere il tempo propizio ad operare e il simbolo che con tutte le cose hanno 'le stelle fisse, quelle erranti e li luminari' che sono causa di quelle virtù e del mutamento di tutte le cose. Si rileva la superiore pregnanza della religione che finisce col comprendere le altre due scienze. Il Campanella insiste su questa significazione estensiva del termine religione per approdare al concetto di religione magica, che ingloba quello di sapere scientifico. Ecco perché egli ritiene di dover distinguere tra una magia più alta, che è di natura divina, e che, perciò, può essere praticata soltanto da chi è in stato di particolare grazia (quella per cui Mosé e i santi poterono operare miracoli) e una magia naturale che attinge i suoi poteri dall'astrologia, dalla medicina e dalla fisica e che se religiosamente inspirata e giustamente praticata acquista connotati divini. Il Campanella (qui più cauto e meno consequenziale del Bruno, che non nasconde e anzi sostiene apprezzamento per la magia demonica) enumera, ma nettamente distinguendola dalle prime due, una terza forma di magia, che pur riuscendo ad operare cose portentose, miracoli addirittura all'occhio dei semplici, per essere spinta da forze demoniache egli definisce diabolica. Resta il fatto, però, che, al di là di questa distinzione di maniera, di questo accorto mascheramento delle proprie vere convinzioni, il Campanella, nell'era ormai moderna di Galileo e di Cartesio, si reputava mago e da mago scriveva ed operava, egli che si sentiva in possesso di poteri di comunicazione con i demoni e con gli angeli, dotato di spirito profetico; che studiava l'arte mnemonica sui cui poteri grandemente fidava; che credeva negli influssi celesti, negli oroscopi e nei vaticini, e che, persino, paganamente sembra ammettere la possibilità d'innalzare preghiere al Sole e alle altre divinità planetarie. L'utopia della Città del Sole è, infatti, anche in questo sentire, che è pagano, il Sole, datore di luce e di vita, come immagine di Dio, reggitore supremo mediante Potestà Sapienza Amore del mondo e, conseguentemente, la religione naturale, espressa nelle forme sante e pure dell'antica religiosità, come consona al Cristianesimo, nel suo senso genuino di verità rivelata, nel suo messaggio di salvezza, nella sua stessa pratica cultuale. Allora proprio la Città del Sole, dal suo ideatore con sì lungo amore vagheggiata e con tanta improvvida saviezza proposta e propugnata, è la manifestazione estrema dell'ermetismo religioso del Rinascimento e quella del Nolano l'ultima voce convinta della liceità e bontà dell'ermetismo magico. Ormai si affermavano il geometricismo e, nonostante la presenza di un Biagio Pascal, il metodo delle idee chiare e distinte di Cartesio. Il trionfo del razionalismo e l'avvento dell' Illuminismo. L'ermetismo , anche in conseguenza della critica casauboniana che metteva in dubbio l'antichità e l'autenticità degli scritti ermetici e persino la storicità del Trismegisto, dopo tanti secoli di fortuna sembrava avviarsi verso una inarrestabile decadenza. Esso defluirà probabilmente nei canali esoterici dell'occultismo edelle società segrete, come, per esempio, dei Rosa Croce e della Massoneria.
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