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Relazione del libro: "Biondo era e bello" di Mario Tobino
Trama:
Il romanzo
"Biondo era e bello" parla della "sacra vita" di Dante Alighieri, che nacque a
Firenze nel 1265 da una famiglia di ceto medio. Da giovane, egli s'innamorò di
una ragazza, Beatrice, che sfortunatamente morì molto presto, ma alla quale
egli dedicò moltissime poesie raccolte nel primo libretto da lui pubblicato, La Vita Nova. A Firenze, il giovane
poeta aveva una cerchia di amici, con cui passava le serate nelle taverne a
discutere e tra i più stretti c'erano Guido Cavalcanti e Forese Donati, con il
quale Dante ebbe una sorta di duello, le cui "armi" erano dei sonetti.
In quel periodo, l'amata città natale dell'Alighieri era dominata da diverse
fazioni in continua lotta: i Guelfi e i Ghibellini, i Bianchi e i Neri e poiché
Dante non riusciva a sopportare le ripetute battaglie, decise di entrare in
politica, precisamente agli inizi del 1300, iscrivendosi all'Arte degli
speziali. Sfortunatamente, egli, come consigliere, dovette firmare l'esilio e
la fine di uno dei suoi più amici, Cavalcanti, che poco dopo disgraziatamente
morì di malaria. Nel frattempo, tra un comizio e l'altro, il poeta ebbe anche
il tempo di sposarsi con Gemma Donati, non per amore, ma semplicemente per un
accordo preso dai genitori molti anni prima; da questa unione combinata
nacquero diversi figli tra cui la famosa Antonia, che, divenuta adulta,
prenderà i voti.
Alcuni anni prima, nel 1289, era scoppiata la celebre battaglia di Campaldino
tra Guelfi e Ghibellini (a cui Dante aveva anche partecipato) e l'artefice
della vittoria fiorentina era stato Corso Donati, un accanito nemico
dell'Alighieri. Egli era stato favorevole all'esilio del poeta fiorentino e,
dopo aver causato alcuni disordini, si era rifugiato da papa Bonifacio in modo
tale da convincerlo a far entrare l'alleato esercito francese a Firenze,
riuscendo così ad impadronirsi della Toscana. Nonostante i tentativi di Dante e
altri due ambasciatori di dissuaderlo e far liberare la città, Bonifacio
continuò nel suo piano di conquista per allargare i possedimenti del papato e
inoltre chiese aiuto a Carlo di Valois, comandante dell'esercito francese, per
far sì che conquistasse Firenze e portasse i Neri al potere. Così accadde e per
Dante iniziò un periodo molto triste, perché venne esiliato e fu l'ultima volta
che vide la sua amata Firenze. Tuttavia, i Bianchi non persero le speranze e si
radunarono prima a Gorgonia poi a San Godenzo, dove Dante venne incaricato di
chiedere fanti e cavalli agli Scala di Verona. Così essi, muniti di fanti e
cavalieri, attaccarono Firenze, ma furono bloccati dalle truppe di Folcieri da
Calboli. Dopo poco giunse la notizia che papa Bonifacio VIII era morto e,
essendo morto il loro nemico, i Bianchi videro un barlume di speranza di ritornare
nella propria patria; tuttavia, fu eletto Benedetto XI, che subito mandò il
cardinale Niccolò da Prato per cercare di "spegnere" l'acceso odio tra Neri e
Bianchi. Dopo un primo risultato soddisfacente, ricominciarono le lotte e i
Bianchi si lasciarono andare un'occasione molto importante a causa di Baschiera
della Tosa. Fu così che Dante si ritrovò di nuovo povero e anche solo, perché i
compagni d'esilio lo insultavano e per di più era morto il suo unico amico
rimasto, Alessandro da Romena. Al poeta fiorentino venne offerta ospitalità
dagli Scaligeri di Verona e così egli si recò nella loro corte, in cui si
poteva discutere con i più grandi talenti di quel tempo. Provando nostalgia per
Firenze, Dante ripartì alla volta di Bologna, dove venne ospitato da un suo
caro compaesano che gli aveva spedito una lettera, Cino da Pistoia. Dopo
questo, il poeta fiorentino fu invitato dai Malaspina, marchesi di Lunigiana,
al castello di Fosdinovo per risolvere una questione con il vescovo di Luni.
Egli, il 6 ottobre 1306, affascinando tutti con le sue parole, concluse un
famoso accordo di pace, che pose fine alle funeste discordie. Negli anni
successivi, Dante soggiornò dai Guidi del Casentino, dove incontrò con il suo
più grande piacere quattro donne: la figlia del conte Ugolino, la figlia di
Buonconte da Montefeltro, la figlia di Paolo e Francesca e la figlia di
Federico II.
Intanto iniziarono a diffondersi tra le bettole i versi dell'Inferno e allo
stesso tempo il genio di Dante esplose nuovamente con altre opere; inoltre,
egli s'innamorò di una ragazza e confidò questo suo nuovo amore all'amico
Moroello, incontrato in Lunigiana. Dopo aver accumulato un po' di denaro, il
poeta fiorentino si recò a Parigi, dove terminò la Commedia con il Paradiso;
per di più, durante il suo soggiorno nella capitale francese, venne a sapere
che l'imperatore Arrigo VII stava per scendere in Italia per porre fine alle
numerose lotte tra fazioni. Così Dante decise di scrivere una nuova opera, il De Monarchia. L'intento dell'imperatore
andò a buon fine nelle città settentrionali della penisola, ma i Neri di
Firenze erano determinati a non mollare. Successivamente il re di Napoli
dichiarò ufficialmente di essere contro Arrigo VII e quest'ultimo, dopo essere
partito per combatterlo, morì di malaria a Buonconvento. Intanto Dante venne
nuovamente invitato, ma questa volta alla corte di Ravenna dove risiedeva un
suo amico, Guido Novello. Subito dopo, morirono sia Clemente V, chiazzato dai
suoi vizi, sia Filippo il Bello e i cardinali scapparono a Carpentras, dove si
riunirono in conclave per eleggere il nuovo papa; tuttavia poco dopo furono
interrotti poichè attaccati dai soldati di colui che "sospetta che essi non
votino come è stato comandato". A Montecatini, il 29 agosto 1315, si svolse una
sanguinosa battaglia in cui ebbero la meglio i Ghibellini, così a Firenze, a
causa della sconfitta subita, si decise di riportare in patria gli esiliati, ma
a condizione che essi si rechino nella prigione di San Giovanni con un
candelotto in mano. Ritenendo questo troppo umiliante, Dante decise di rimanere
a Ravenna, dove stava completando il Paradiso. Oltre all'ospitalità concessa,
Guido Novello donò all'Alighieri ciò che più desiderava: il tepore di una casa:
infatti egli rivide sua moglie e i suoi figli e fu proprio qui che la sua
Antonia gli confessò di voler diventare suora. Dopodiché il Gran Cane invitò
Dante a Verona; tra i due nacque una grande amicizia e proprio per questo il
poeta gli dedicò una strofa del Paradiso. Tornato nuovamente a Ravenna, Dante ebbe
una lunga conversazione con Guido Novello, a cui raccontò di Beatrice, Corso,
Forese e Piccarda Donati e a sua volta il caro amico raccontò di sua zia
Francesca, famosa per la sua storia con il cognato Paolo. Ormai i canti di
Dante avevano raggiunto anche Bologna, dove insegnava Giovanni del Virgilio,
che inviò una lettera all'Alighieri, esortandolo a tradurre la sua opera in
latino, ma egli rispose che scriveva per il popolo. In seguito, Venezia
dichiarò guerra a Ravenna e Dante fu di nuovo investito della carica di
ambasciatore per far firmare un accordo di pace. Sfortunatamente, il poeta
fiorentino si ammalò di malaria e fu rimandato a Ravenna, dove la notte tra il
14 e il 15 settembre 1321 cessò di vivere.
Riflessione sul titolo
Il titolo del
romanzo è stato tratto da un verso della Divina Commedia, precisamente del
Purgatorio, canto III.
Io mi
volsi ver lui e guardai il fiso:
biondo era e bello e di gentile aspetto,
ma l'un de' cigli un colpo avea diviso. 108
Quand'io
mi fui umilmente disdetto
d'averlo visto mai, el disse: «Or vedi ;
e mostrommi una piaga a sommo 'l petto.
111
Poi
sorridendo disse: «Io son Manfredi,
nepote di Costanza imperadrice;
ond'io ti prego che, quando tu riedi, 114
vadi a
mia bella figlia, genitrice
de l'onor di Cicilia e d'Aragona,
e dichi 'l vero a lei, s'altro si dice. 117
Poscia
ch'io ebbi rotta la persona
di due punte mortali, io mi rendei,
piangendo, a quei che volentier perdona.
120
Orribil
furon li peccati miei;
ma la bontà infinita ha sì gran braccia,
che prende ciò che si rivolge a lei. 123
Se 'l
pastor di Cosenza, che a la caccia
di me fu messo per Clemente allora,
avesse in Dio ben letta questa faccia, 126
l'ossa
del corpo mio sarieno ancora
in co del ponte presso a Benevento,
sotto la guardia de la grave mora. 129
Or le
bagna la pioggia e move il vento
di fuor dal regno, quasi lungo 'l Verde,
dov'è le trasmutò a lume spento. 132
Per lor
maladizion sì non si perde,
che non possa tornar, l'etterno amore,
mentre che la speranza ha fior del verde.
135
Vero è
che quale in contumacia more
di Santa Chiesa, ancor ch'al fin si penta,
star li convien da questa ripa in fore, 138
per
ognun tempo ch'elli è stato, trenta,
in sua presunzion, se tal decreto
più corto per buon prieghi non diventa.
141
Vedi
oggimai se tu mi puoi far lieto,
revelando a la mia buon Costanza
come m'hai visto, e anco esto divieto;
144
ché qui per quei di là molto s'avanza».
Il verso scelto da Tobino si riferisce a Manfredi, figlio naturale di Federico
II di Svevia. Egli nacque circa nel 1232 e quasi trent'anni dopo, nel 1258, fu
incoronato re di Napoli e Sicilia. Come il padre, egli si oppose al potere
temporale del Papa e sostenne quindi le fazioni ghibelline italiane. Egli fu
contemporaneo di Dante e probabilmente Tobino scelse proprio questo personaggio
storico perché era determinato come il poeta fiorentino a combattere contro la
politica temporale del Papato, che sfrutta un'importante istituzione come la
Chiesa a fini politici. Inoltre, Dante esprime tutta la sua profonda
ammirazione per Manfredi nel De Vulgari
Eloquentia, in cui dichiara che egli e il padre Federico II sono gli ultimi
veri principi italiani, che sanno di essere dei promotori all'interno della
loro corte. Un altro importante aspetto è che Manfredi fu un grande mecenate e
protettore degli artisti, poeti, scienziati, che popolavano con piacere il suo
palazzo.
Appunti su: relazione biondo era e bello, colui che sospetta che essi non votino come C3A8 stato comandato, |
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