|
Visite: 1658 | Gradito: | [ Grande appunti ] |
Leggi anche appunti:Relazione sul romanzo di Pirandello Il fu Mattia PascalRelazione sul romanzo di Pirandello Il fu Mattia Pascal Il libro Il fu Mattia Eeugènie Grandet di Honorè de BalzacEeugènie Grandet di Honorè de Balzac VITA AUTORE : Nacque a Primo LeviPrimo Levi Primo Levi, torinese, è un altissimo esempio di testimonianza |
Poesie tratte da "Le fleurs du mal" di Baudelaire
Le fleurs du mal è il testo che rompe con tutta la tradizione dell'800 che fu giudicato immorale e da cui inizia la poesia moderna.
Baudelaire è stato il primo poeta maledetto ed ha avuto una vita molto difficile a causa dei suoi comportamenti, con cui sconvolgeva le signore benpensanti di Parigi che si riunivano nel salotto della madre. Una delle cose più sconcertanti che fece per la mentalità dell'epoca fu il tingersi i capelli di verde.
Morì giovane ed alcoolizzato in un manicomio, interdetto dai famigliari. Nonostante ciò non era pazzo, ma il patrigno ne chiese la interdizione a causa dei suoi comportamenti che non piacevano alla famiglia e a tutta la società borghese.
Ha avuto degli amori travolgenti, di cui due di particolare importanza: il primo con una bellissima modella nera, fatto per nulla gradito alla borghesia parigina, mentre il secondo grande amore fu quello per Jean du Val, che era l'opposto del precedente, infatti non era un amore passionale, ma quasi spirituale, infatti questa donna è stata la musa ispiratrice di una nuova poesia.
Per questi motivi Baudelaire scrive molte poesia d'amore, in cui sottolinea le passioni che lo hanno travolto.
Baudelaire si è anche ammalato di sifilide ed ha avuto una vita molto difficile per le sue scelte.
Spleen
Spleen è una parola inglese che significa noia, ma non una noia normale, una noia di carattere esistenziale.
Queste poesie non si possono parafrasare, si può solo cercare di capirle, per il fatto che non usano sempre un linguaggio comunicativo, ma quello tipico decadente che tende soprattutto a suggestionare.
Per la sua singolarità quest'arte può piacere o non piacere, per il fatto che è molto difficile da comprendere per chi non conosce a fondo gli ideali decadenti.
V. 1-25
Parla di una noia esistenziale, in cui in certi momenti si sente affondare e che diventa angoscia del vivere. Successivamente ci da alcune immagini che sembrano in contrapposizione, come cielo e coperchio: il coperchio ci da l'immagine di qualcosa che chiude, mentre al contrario pensando al cielo si immagina un senso di infinità, di libertà. Secondo Baudelaire questa infinità è un coperchio, qualcosa che ci limita.
Noi sentiamo che la nostra anima è gemente, soffre, perché è preda di affanni ed è posseduta da un dolore continuo.
Parla poi di orizzonte, questa è un'altra immagine che da l'impressione di qualcosa di infinito, come il cielo, però dice che questo orizzonte è qualcosa che lo stringe, lo imprigiona e proprio da lì nasce una luce nera (cosa impossibile nella realtà).
Questa luce nera comporta una vera e propria angoscia, così come il cielo che paragonato ad un coperchio ci da il senso di qualcosa di opprimente.
La terza immagine che ci propone è quella della Terra, che anch'essa ci da l'immagine di qualcosa di immenso, ma anche questa è paragonata ad una cella, che ovviamente ci da il senso di qualcosa che ci toglie la libertà.
Da tutti questi elementi si può capire che il poeta è veramente triste e oppresso da questa situazione.
La speranza in questi momenti non esiste veramente più, vorremmo sperare, invece ci sentiamo oppressi. Nel dire ciò paragona questa speranza ad un pipistrello che vorrebbe uscire dalla sua grotta ma non può.
Aggiunge poi ancora: quando mi sento così imprigionato dall'angoscia, le gocce di pioggia sembrano le sbarre di una prigione (impressione vera).
Si sente veramente preda di questa ossessione, tanto che per dare l'idea di questa angoscia parla di ragni, che simbolicamente ricordano qualcosa di angosciante.
A questo punto c'è un'ultima ribellione dell'autore a tutto ciò, un urlo ostinato a piena voce.
In questo punto della poesia l'autore inserisce uno spazio nella poesia, uno spazio voluto e simbolico, infatti dopo quell'urlo c'è una pausa per riflettere dominata dal silenzio e dalla spossatezza psicologica.
Quest'urlo però non è servito a niente e dopo questa pausa l'immagine rappresentata è quella di un funerale. In quest'ultima strofa inserisce un due punti, per dire chiaramente che la speranza è ormai veramente finita e che l'angoscia ha vinto.
Questa poesia è in contrapposizione con Spleen, in quanto mentre prima ha voluto rappresentare l'angoscia esistenziale, qua ci vuole dare l'idea di felicità assoluta.
V. 1-9
Si rivolge alla propria interiorità e constata di se stesso che il suo spirito si muove agilmente, quindi è libero e non è costretto dalla libertà contemporanea, al contrario di quanto detto in "Spleen" in cui si sentiva chiuso.
Il suo spirito per raggiungere la libertà entra in contatto con l'assoluto, oltre il sole e l'etere. La libertà dello spirito comunica perciò con l'assoluto, tant'è vero che dice che il suo spirito quando è libero comunica con l'infinito, condividendo la profonda immensità e comprendendo i misteri del creato.
Da questa comunicazione perviene un'immensa gioia, un piacere profondo che può essere paragonato a quello provato da un bravo nuotatore che prova piacere a trovarsi in mare.
V. 10-14
Lo spirito deve allontanarsi dalla corruzione della società borghese, quindi per fare ciò l'intellettuale si estranea da questa società e si rivolge a se stesso, alla sua interiorità, superando la banalità e la mediocrità della vita quotidiana.
Dice "vola e purificati", quindi per fare ciò non basta volare, ma si deve volare verso l'assoluto.
Parla poi di un liquido divino, che ricorda qualcosa di assoluto, puro, estraneo alla realtà.
Siccome questo assoluto non è altro che purezza, si ha una contrapposizione con la corruzione della società borghese di quell'epoca.
V. 15-19
E' fortunato colui che può slanciarsi verso l'assoluto, che ha la capacità di conoscenza interiore e in questo modo può abbandonare il dolore e gli affanni della vita, considerata dal poeta nebbiosa, quindi angosciosa e dolorosa.
La differenza tra la vita e l'assoluto sta nel fatto che nella vita non c'è nulla di chiaro, non riusciamo a comprendere nessuna verità.
V. 20-24
E' fortunato colui che ha questo privilegio, perché gli consente di essere libero e può comprendere la vera realtà delle cose che compongono il creato. Questa verità è muta agli uomini comuni, ma non agli artisti.
Ognuno di noi passando davanti ad un albero non lo vede neanche, mentre un artista vedrebbe la corrispondenza con l'assoluto che ha quell'elemento, per il fatto che la natura ci parla attraverso simboli, e non attraverso cose reali e concrete.
Questa poesia è considerato uno dei testi "manifesto" del decadentismo perché qui compaiono tutti i concetti di questa forma artistica.
Il titolo stesso esprime già di per sé una simbologia: queste corrispondenze consistono nel ritrovare all'interno della realtà un'altra realtà, poiché questa è proteiforme, in quanto acquista molte forme, quindi per questo motivo è assurdo parlare di verità.
V. 1-3
Il soggetto della poesia è la natura, paragonata ad un tempio, elemento che simbologicamente ci ricollega ad una chiesa e quindi a Dio. La natura è un tempio perché ogni elemento del creato dovrebbe ricollegarsi, almeno simbologicamente all'assoluto. Parla di pilastri, qualcosa di solido, potente. Nella natura ci sono alcuni elementi potenti che la reggono, però essendo questi delle cose materiali emanano un significato diverso, confuso, non comprensibile a tutti.
V. 3-5
L'uomo attraversa la natura, che è rappresentata da una foresta di simboli, dato che ogni oggetto, per quanto famigliare ci possa apparire, ha sempre in sé un significato molto più profondo.
V. 5-9
L'autore mette sullo stesso piano delle sensazioni diverse: i profumi (sensazioni olfattive), i colori (sensazioni visive) e i suoni (sensazioni uditive); per il fatto che queste tre sensazioni, essendo pure diverse tra di loro si confondono in un'unica unità; quindi possono esprimere uno stesso linguaggio che se ben interpretato può definire una parte della personalità di una persona.
V. 10-17
L'autore prende come esempio i profumi e dice che ce ne possono essere di svariati tipi e ciascuno dei quali assume una simbologia.
In questa poesia l'artista è paragonato ad un albatro.
Gli albatri sono splendidi uccelli e molto spesso i marinai li catturano perché vedendoli in volo danno un senso di libertà e di bellezza, infatti li definisce "re dell'azzurro".
Nel momento che viene catturato però non appare più allo stesso modo, perché sulla nave quelle grandi ali ripiegate non hanno alcun senso, quindi diventa goffo ed oggetto di scherno da parte dei marinai, tanto che oltre a deridere questo uccello ne imitano il passo goffo e zoppo che ha sulla nave.
Il poeta è esattamente come un albatro, perché è abituato a vivere nella tempesta e ad irridere gli altri, per il fatto che si sente su un gradino superiore siccome riesce a liberare la sua fantasia da ogni forma di banalità, ma se per caso gli altri lo costringono a vivere nella quotidianità può diventare oggetto di scherno perché può non essere compreso.
Per esempio quando Baudelaire si tinse i capelli di verde voleva esprimere una parte di se stesso, ma gli altri non capirono ciò e vedendo in questo fatto qualcosa di immorale lo estraniavano dalla società.
Rimbaud è il poeta più difficile da comprendere e scrive per un periodo molto limitato: da diciassette e vent'anni e fra tutti i poeti decadentisti è quello che ha avuto la vita più tormentata.
Ha avuto delle esperienze omosessuali con Verlaine e questi hanno vissuto assieme per un periodo, ma quando Rimbaud lo ha voluto lasciare Verlaine ha cercato di ucciderlo.
Rimbaud non è però omosessuale, infatti ha avuto anche moltissime donne, ma quella è stata un'esperienza che ha voluto vivere, per alcuni motivi che ci spiegherà nelle sue opere.
Per questi stessi motivi ha avuto anche altre esperienze, di cui alcune al limite della legalità, infatti è stato spacciatore di oppio e venditore di armi.
Un'opera molto famosa è "Una stagione all'inferno", che per le sue molteplici simbologie è molto difficile. Ci sono due simboli principali: l'angelo e il demone e in queste pagine viene raccontata la sua relazione con Verlaine.
Simbologicamente dice che in un rapporto si può essere angeli o diavoli, ma non costantemente, infatti a volte uno può essere un diavolo e l'altro un angelo o viceversa.
Vocali
Rimaud mette in pratica con questa poesia quanto teorizzato precedentemente da Baudelaire.
In questa poesia Rimbaud associa ad ogni vocale un colore: la A è associata al nero, la E al bianco, la I al rosso, la U al verde e la O al blu.
Con questi paragoni ci fa capire benissimo che ad ogni elemento naturale corrisponde qualcosa di più profondo che può essere soggettivo, quindi qua ci dice a cosa corrispondono nella sua interiorità queste vocali.
Successivamente ad ognuno dei colori associa delle immagini: al nero associa delle mosche che volano su qualcosa di repellente; alla E, cioè al bianco associa invece il candore delle tende o del vapore, i ghiaccioli o il parasole dei re.
Al rosso della I associa invece la porpora, il sangue e la passionalità, quindi il colore delle labbra.
Alla U verde associa invece dei cicli, delle ripetitività di colore, poi pensa al mare che a volte ha dei riflessi verdi e alle bestie al pascolo. Infine, questo colore gli sembra qualcosa di misterioso per il fatto che lo associa alle ampolle degli stregoni.
Infine alla O blu associa l'infinito, l'universo, gli occhi di una donna ed infine la lettera greca omega.
La lettera del veggente
Nel decadentismo il poeta diventa veggente, non è più vate, quindi va aldilà della morale e si proietta nel mondo futuro.
"Io è un altro": finora gli artisti si sono limitati a cantare dell'Io e del Superio, mentre da quanto appena detto il vero io è un altro, cioè l'Es.
I "vecchi imbecilli" sono gli artisti e i critici, i quali fino a questo momento hanno parlato dell'Io e del Superio, che è tutta una falsità.
Successivamente inserisce la parola "intera" separatamente a "conoscenza", per il fatto che vuole sottolineare che l'artista deve innanzitutto conoscere la sua anima e quindi la sua profondità. Nel dire queste parole viene parecchio evidenziato il solipsismo decadente.
Dopo aver cercato l'interezza della conoscenza la deve indagare per poi tentarla in tutti i modi, perché solo a grazie alla tentazione si può capire profondamente se stessi e la propria interiorità.
Per conoscersi, si deve quindi tentare l'anima, fino a renderla una cosa mostruosa, anche se tutto ciò porta a cadere in tutto quello che la società chiama vizio.
Quindi per conoscere la nostra anima bisogna diventare dei veggenti, ma l'unico mezzo per diventare veggenti è il disordine dei propri sensi. Questo disordine dev'essere lungo, immenso e ragionato. Innanzitutto dev'essere lungo perché solo con il tempo si può abituare l'anima al vizio, però tutto ciò bisogna farlo razionalmente, cioè ci si deve fermare al momento opportuno, che coincide nel momento in cui si diventerebbe mostri per la società.
Questo disordine dei sensi porta amore, sofferenza, pazzia, e proprio in questo momento non bisogna sbagliare, bisogna provare e poi giudicare, come chi ha esperienze omosessuali, pur non essendo un omosessuale.
Con la conoscenza di tutte queste esperienze si diventerà un grande infermo, un criminale, un maledetto, ma in realtà colui che avrà provato sarà il sommo sapiente, proprio per il fatto che per sapere e comprendere tutto bisogna aver superato il bene e il male in tutte le loro forme.
Attraverso a tutto ciò si può quindi capire l'ignoto e l'immenso del creato, ma si deve avere un'anima ricca e sensibile, come quella di un artista. Non importa se tutto ciò ha condotto alla morte, per il fatto che la vera cosa importante è il poter vedere e conoscere.
Inoltre Rimbaud definisce il poeta come un ladro di fuoco, per il fatto che può rubare e comprendere tutte le simbologie del fuoco: il calore, la potenza, l'energia, il senso misterioso, ecc.
Tutto quello che l'artista vede nell'ignoto può avere una forma definita o essere informe, però il poeta riuscirà comunque a descrivere ciò che ha visto: se dovrà parlare di una forma descriverà una forma, mentre se dovrà descrivere qualcosa di informe lo farà attraverso simbologie che non provengono dal suo Io o Superio, ma esclusivamente dal suo Es.
Il dizionario per questi artisti diventa quindi qualcosa di assoluto, per il fatto che la lingua dell'Es non deve più comunicare, ma deve impressionare e suggestionare, quindi sarebbe assurdo dare un significato razionale a ciò che ci dice il nostro Es.
Questa lingua inconscia parla da un'anima verso un'altra anima, riassumendo in sé tutte le sensazioni che ognuno può provare attraverso i cinque sensi, perciò non è sicuramente una lingua di comunicazione.
Il battello ebbro
In questa poesia Rimbaud si identifica in un battello
V. 1-4
Rimaud si immagina di essere come un battello ubriaco e dice che scendeva dei fiumi impassibili, cioè simbolicamente significa che percorreva la sua vita nell'impassibilità degli altri, che gli lasciavano vivere la sua quotidianità non dandogli nulla.
Sente che in questo punto della vita si sente senza punti di riferimento perché la gente era impassibile nascosta dietro alla falsa moralità; quindi praticamente dice che vuole rifiutare la società in cui ha vissuto.
V. 5-8
Il poeta aveva una grande cultura, ma ormai non gliene importava più niente, e quando ha capito di poter rifiutare quella società ha imparato ad essere libero e a conoscere questa libertà nella sua interezza.
V. 9-12
Dice chiaramente che, dopo essersi liberato da questa società, ha corso entusiasta verso queste nuove esperienze, che sono da lui definite come un trionfo, quindi sentiva quant'era meravigliosa la libertà.
V. 13-16
Era libero e questa libertà lo rendeva felice, trionfante, per il fatto che si era ormai tolto tutti i pregiudizi e scherniva tutto quello che era stato società e cultura.
Per dirci questo usa una bella simbologia: dice infatti che se ne infischia di un faro (la società) che per un battello è un grande punto di riferimento.
V. 17-20
Tutta questa libertà, oltre a farlo felice lo ha anche purificato e filtrato da tutta la corruzione della società borghese.
V. 21-28
Da quel momento è immerso nella conoscenza di quell'ignoto e di quell'assoluto che cercava per diventare veramente un sommo sapiente.
Successivamente ci vuole indicare la sua esperienza omosessuale, però non lo fa chiaramente, ma parla dei rossori amare dell'amore.
Rimbaud ci vuole poi nei versi seguenti trasmettere l'ignoto, quindi darà forma alla forma e l'informe all'informe, trasmettendoci quindi la sua irrazionalità.
V. 29-32
Dice che lui ormai sa, quindi è sommo sapiente, per il fatto che è riuscito a conoscere tutto ciò che l'uomo sogna e ora lo trasmetterà attraverso simbologie.
V. 33-80
In questi versi il poeta ha cercato di trasmettere l'ignoto attraverso una serie di sensazioni, dicendo poi che non è più un battello ebbro, ma una battello perduto, per il fatto che ormai non ha più nulla che lo riallaccia alla realtà; infatti dopo aver vissuto a contatto con l'assoluto rimpiange quello che ha abbandonato, quindi i punti di riferimento della vita.
V. 81-84
Ormai è riuscito a vivere tutto, ma per lui questo fatto è diventato uno strazio e urla "basta", per liberarsi da questa visione ormai opprimente dell'assoluto, che è stata una visione di sofferenza. Questo suo dolore si vede molto bene dalle parole che usa: albe strazianti, sole amaro, ecc.
Ormai lui può solo più morire perché a conosciuto l'assoluto ed è stato contaminato da questa conoscenza.
V. 89-92
Se ha ancora il desiderio di qualcosa è la purezza, come quella che possiede un bambino che fa correre un battello giocattolo in una pozzanghera; ma ormai lui non può più giungere a questo punto perché è ormai stato contaminato.
V. 93-96
Dice in questi ultimi versi che non può più tornare indietro perché ormai non può inserirsi in questa società che egli stesso ha irriso.
Alba
In questa poesia, secondo i critici Rimbaud ha espresso una capacità panica (dal Dio Pan: re dei boschi), per il fatto che riesce a diventare parte integrante della natura nei versi della poesia.
A prima vista è molto diversa dalle altre poesie, in quanto sembra quasi una prosa, rompendo totalmente con le tradizioni metriche.
Nel primo verso, che viene messo in evidenza dagli altri si vede subito questa capacità panica, in quanto dice di aver abbracciato l'alba, cosa impossibile, ma che ci dimostra quanto il poeta si senta una cosa unica con la natura che lo circonda.
Rimbaud è diventato alba e ce la descrive: inizialmente c'è silenzio, non si sentono rumori, tanto da dimostrare quasi un senso di morte.
Dice successivamente di aver camminato; questo fatto dimostra ancora la personificazione dell'alba, che camminando ridesta la natura e con sé la vita, per il fatto che durante la notte il bosco riposa e con l'alba viene a rivivere tutta la sensualità della natura, che si può sentire con tutti e cinque i nostri sensi.
Usa dei simboli per dimostrarci quanto appena detto: innanzitutto il fiore, che all'alba si riapre dopo essere stato chiuso tutta la notte, poi ci parla del Wasserfall, cioè di una cascata, che con la luce dell'alba riprende i suoi riflessi e sembra quasi bionda grazie al gioco di luci che si proietta sull'acqua.
Dice "io risi", per il fatto che tutto ciò gli da un enorme senso di gioia, una riscoperta della natura, per poi riscoprire "la dea sulle cime", cioè il sole, che ormai spuntato riesce a dare questi iverberi e questo insieme di luci e colori.
Quest'alba è come una bellissima donna, che lentamente si spoglia e ridesta ogni paesaggio e più questa si spoglia, più lui la rincorre. Quando è riuscito a raggiungerla e a scoprirle i veli, sente un grande possesso fisico e diventa anch'esso alba.
Al suo risveglio era ormai tutto diverso, infatti era mezzogiorno. Anche qua come all'inizio mette in evidenza l'ultima strofa, per definire questa diversità al momento del risveglio.
Verlaine
Se la speranza brilla come un filo
V. 1-6
Verlaine scrive questa poesia in prigione e medita sulla sua vita.
Sostiene che in questi versi c'è ancora speranza, ma questa è ormai lieve, perché paragonata a un filo di paglia all'interno di una stalla, però siccome questa non è del tutto spenta si chiede perché deve temere e perché dev'essere ossessionato da questo suo passato.
Dice poi a se stesso che il sole c'è, ma è molto debole, perché filtrato dalla finestra della prigione, e si chiede per quale motivo non riesce a riposare.
V. 7-11
Rivolgendosi a se stesso dice: povera la mia anima pallida, che è stata tentata e provata, però nonostante ciò può uscire dal passato. Dopo sarebbe tutto diverso, come un bambino cullato potrebbe tornare alla realtà.
V. 12-15
Chiede che la sua passione sia allontanata, che se ne vada per sempre. Successivamente parla del mezzogiorno, che da un senso di pienezza della vita, di qualcosa di attivo, ma a cui lui attribuisce un altro senso, qualcosa di strano, come i passi di una donna, che per le sue scelte omosessuali e per la sua vita in prigione sembrano una cosa lontana dalla normalità.
V. 16-20
Dice semplicemente alla sua anima di dormire, di cercare questo riposo. Adesso dovrebbe riuscire a trovare questo riposo, per il fatto che "ha pulito la sua stanza", cioè ha cercato di tornare ad una vita come la precedente, di cui adesso ne sente tutta la pienezza, per il fatto che sente suonare il mezzogiorno, come simbolo di qualcosa di vivo, di attivo.
In quel momento sente la speranza che sta aumentando, infatti la paragona ad un ciottolo, elemento che è molto più consistente dell'iniziale filo di paglia.
Dice che potranno rifiorire le rose, cioè si può recuperare qualcosa di quanto lasciato, ma queste rose non saranno più belle come quelle di maggio perché non sarà proprio tutto come prima.
Arte poetica
Questa poesia, con "Languore" è considerata manifesto del decadentismo.
Fin dal primo verso il poeta dice chiaramente che tutte le arti devono tendere alla musica e proprio per questo il verso deve avere un ritmo, preferibile se impari. Il suono di una parola deve quindi dare una musicalità al verso, suggestionare.
Nell'ottavo verso dice che la parola deve essere un simbolo, cioè ogni parola scritta deve corrispondere a qualcosa di più profondo rispetto a ciò che normalmente vuole definire concretamente.
Fa poi degli esempi, infatti nel nono verso parla di un occhio, che è qualcosa di materiale, di certo, però unito al velo simboleggia qualcosa di non ben definito, misterioso. Successivamente, ci parla della luce del mezzogiorno, che è qualcosa di preciso, forte, però spesso ha dei riverberi e dei bagliori che danno il senso di qualcosa di incerto. Lo steso si può dire per il cielo d'autunno e per le stelle.
Da ciò si capisce che il concreto e l'astratto si devono unire, ma per fare ciò serve una sfumatura, in cui si legga la suggestione e il mistero.
V. 21. Dice: fuggi tutto ciò che è eloquenza e retorica. Il poeta sostiene ciò perché nella poesia non ci può essere l'eloquenza, questi poeti sono come i cuochi che mettono troppo aglio nei piatti e non sono capaci a fare una cucina raffinata (Foscolo).
Successivamente ci dice che in poesia bisogna eliminare al rima, per il fatto che da un senso di vuoto e di falsità al componimento.
Nel v. 29 sostiene ancora che tutto deve tendere alla musica e che bisogna differenziarsi completamente da tutto ciò che finora è stato cantato in poesia.
Negli ultimi versi Verlaine ci dice chiaramente che chi seguirà i suoi consigli sarà un artista, altrimenti farà solo della letteratura com'era stato fatto finora, infatti parlando solo dell'Io e del Superio non si può aver fatto arte.
Languore
Verlaine in questa poesia si riconosce nello stato dell'impero romano al termine della decadenza, il quale vede passare davanti a sé la storia pur non partecipandone, infatti ha lasciato passivamente che i barbari invadessero i suoi territori.
Lui stesso si sente decadere, perciò come l'impero romano non partecipa più alla storia e per questo motivo sente che una noia lo opprime (vv. 5-8).
Lui, secondo i concetti decadentisti non può partecipare a questa storia, ma non vuole neppure parteciparvi, per il fatto che ha perso completamente quel senso di ribellione nei confronti della società.
Successivamente ci dice che ormai è tutto finito perché il mondo sta andando verso il crollo (prima guerra mondiale) e non c'è assolutamente più niente da dire, perciò non ci si può più ribellare dato che l'uomo è ormai solo più legato alla mercificazione delle cose.
V. 12-14: usa in tutti e tre i versi la parola "solo", per il fatto che all'intellettuale è rimasta la solitudine, la noia esistenziale e l'angoscia del vivere. Quindi in questa solitudine interiore si vede nascere il solipsismo decadente.
Mallarmè
Mallarmè era un insegnante di letteratura al liceo e tra tutti i poeti decadenti è l'unico che non ha avuto una vita disperata. In Francia è considerato il maggior esponente del simbolismo, per il fatto che tutta la sua poesia è simbolica.
Brindisi
Mentre Baudelaire si era definito un albatro e Rimbaud un battello ebbro, Mallarmè ci vuole dire che cosa sia la poesia per chi la fa: nulla. Questo nulla può essere interpretato in molti modi, infatti la poesia può essere nulla in quanto è qualcosa di inconsistente, senza materialità oppure perché non è considerata dalla classe borghese dell'epoca.
La poesia è definita inoltre come la schiuma di champagne: impalpabile, frizzante e molto preziosa, oppure può essere come le sirene che si tuffano in mare: un mito, un librarsi verso cieli infiniti.
Nella seconda strofa, nel dire "noi navighiamo" si rivolge a tutti gli artisti come lui dai quali è considerato un maestro e che devono continuare a seguirlo come se fossero tutti su una nave in burrasca. Questa similitudine vuole farci capire che loro vivono in un mondo difficile, dato che sono pochi a capire l'originalità dei poeti simbolisti.
Nel nono verso dice di avere una grande potenza, una forte emozione che ispira questa sua poesia alla quale fa un brindisi di trionfo.
Successivamente, quando parla del bianco affanno della vela vuole dirci quanto sia difficile a volte scrivere, perché si devono fare i conti con l'affanno, con la solitudine, ma la poesia è anche una stella, che da lontano può illuminare il cammino di altri e una scogliera su cui ci si può aggrappare per dare la salvezza alla nostra anima.
Brezza marina
Nel primo verso dice che la carne è triste, per il fatto che lui ha ormai vissuto ogni esperienza sessuale, poi ci dice ancora che ha già letto anche tutti i libri possibili, quindi è colto e dopo queste considerazioni si chiede cosa gli resta. Dice che ormai l'unica cosa da fare è fuggire, andare oltre questa materialità. Nel dire questo non ci specifica dove deve fuggire, ci dice solo qualcosa di indefinito: laggiù, lontano.
Nei versi 2 e 3 si vede molto bene quanto lui senta dentro di sé il desiderio di conoscere l'assoluto e l'ignoto.
Sostiene poi ancora che nulla lo tratterrà qui, neppure la certezza della vita che ha, della famiglia, perché la poesia supera tutte le certezza della vita. Quindi si vede molto bene che è disposto ad abbandonare tutto per conoscere l'assoluto (v. 4).
Solcherà il mare che lo porterà a qualcosa di sconosciuto a cui sente di appartenere.
Percorrendo questa natura straniera incontrerà la paura dell'ignoto, dovrà superare molti ostacoli (naufraghi) e probabilmente non approderà mai a nulla (ne antenne.).
Nonostante tutto però la sua sensibilità è sola ed è attirato dal canto dei marinai, cioè dal desiderio dell'ignoto e dell'avventura.
Il vergine, il vivace.
Nella prima strofa da l'immagine di un cigno per dirci simbolicamente cosa significa per un artista non poter più scrivere: è come se la vita fosse finita, infatti alcuni artisti, come Hemingway si sono uccisi nel momento in cui hanno capito di non poter più scrivere.
Ogni artista ha un desiderio enorme di scrivere e nel momento che non lo può più fare è come un cigno in un lago ghiacciato, che vorrebbe con un colpo d'ala squarciare quel "duro lago" per volare via. Ci dice di essere ancora un bellissimo cigno, ma nonostante ciò si trova anch'egli in un lago ghiacciato da cui non riesce a liberarsi.
Nella seconda strofa si ricorda com'era qual cigno, cioè se stesso (V. 5). Immagina questo cigno librarsi magnifico in una stanza aerea, perciò ci vuole indicare quanto fosse stupendo nel momento dell'ispirazione.
Ancora adesso questo cigno ha ancora molto da dire, ma è diventato come la natura durante l'inverno: sterile.
Nonostante tutto questo cigno cercherà ancora di uscire da questo ghiaccio perché non vuole raccontare la sua agonia, questi momenti terribili, ma vuole ancora far parlare la sua sensibilità, tutte le sue emozioni.
Nella terza strofa dice che ormai questo cigno è un fantasma, il fantasma di se stesso che non è più in grado di produrre arte.
Ormai non gli resta altro che disprezzarsi perché si sente esiliato dall'arte e dalla poesia.
L'estetismo
I maggiori autori di questo movimento sono Oscar Wilde, la cui opera principale è "Il ritratto di Dorian Gray" e Gabriele D'Annunzio, che ha scritto "Il piacere".
Concetti dell'estetismo
L'artista è l'autore di cose belle, in quanto in arte non ci può essere il brutto.
L'arte dev'essere fine a se stessa, per questo non si devono avere scopi ulteriori.
L'arte è soggettiva, per cui non è detto che tutti la intendano come l'autore.
Il critico interpretando una forma d'arte vede quello che gli piace, per il fatto che l'arte va interpretata con il proprio es, quindi ognuno la interpreta secondo la propria interiorità.
Coloro che vedono il brutto in cose belle non capiscono niente, per il fatto che non comprendono l'originalità dell'artista. Noi siamo abituati a giudicare bello ciò che assomiglia alla natura, ma per comprendere veramente le cose belle non si deve confrontare nulla, bisogna solo comprendere l'originalità.
Chi coglie un bel significato nell'arte è una persona colta perché ne capisce l'originalità.
L'arte, sempre per il fatto che difficile da comprendere è per pochi.
I libri possono solo essere scritti bene o male, ma non esiste assolutamente il concetto di moralità o immoralità, perché attraverso qualcosa di immorale spesso si vuole trasmettere qualcosa di vero più profondo.
Ciò che ci porta a giudicare la moralità non è altro che la corruzione e la poca cultura.
Si parla di Calibano, che è un mostro di una tragedia di Shakespiere. Usa questo elemento per dirci che tutti sono stati critici verso il naturalismo e il verismo, perché si è parlato della verità (pazzia, prostituzione, alcoolismo, ecc.). Chi parla di questi argomento viene giudicato immorale, pur dicendo cose conosciute e largamente diffuse nella società.
Il romanticismo è l'opposto, idealizza tutto, ma ciò non è possibile perché ovviamente non siamo tutti santi con concetti ed ideali da esprimere.
Nell'arte si dice ciò che si pensa, però pur essendo la moralità dell'artista una cosa perfetta, egli usa un mezzo imperfetto per trasmettercela: la scrittura, e perciò a volte è difficile comprendere.
L'arte non deve dimostrare niente, non dev'essere educatrice (Foscolo), ma come già detto dev'essere fine a se stessa.
L'arte è inoltre al di sopra di tutto, anche delle cose vere, infatti la scienza ricerca la verità, ma l'arte è superiore per questa verità la può spiegare.
Nessun artista ci vuole insegnare niente di morale, perché questo sarebbe un vizio.
Inoltre l'artista non è mai morboso, può parlare di qualsiasi cosa, morale o immorale che sia e sta a noi capire.
Il pensiero e il linguaggio sono gli strumenti dell'artista.
Allo stesso modo il vizio e la virtù sono il materiale da cui trae tutto. Il modello dell'arte per eccellenza è la musica, dal punto di vista della forma, mentre dal punto di vista della sensibilità il modello è l'attore, perché non esprime le sue emozioni, ma quelle del personaggio che interpreta. Per questo motivo solo un grande attore può far capire le emozioni del personaggio che rappresenta.
L'attore di teatro è diverso da quello di cinema, per il fatto che il teatro è diretto, senza musica e l'attore deve saper emozionare il pubblico da solo.
Ogni arte è insieme superficie e simbolo.
Ogni cosa corrisponde, perciò ad ogni cosa corrisponde qualcosa di più profondo.
Se si scende troppo verso l'assoluto, si rischia di staccarsi in modo definitivo dal mondo che ci circonda e di non poter più tornare indietro.
L'arte espone quello che l'artista vuole sentirsi dire e non la vita vera e propria.
La diversità di un'opera d'arte, è spesso un'originalità, che però a volte fa discutere.
Noi possiamo perdonare l'uomo se fa qualcosa di utile (nel senso che non si deve vantare). L'arte però è una cosa inutile e l'unico che l'ammira e la comprende nella sua interezza è l'autore.
L'arte, essendo fine a se stessa è una cosa inutile. Negli ultimi anni non è più così per il fatto che esiste un forte commercio d'arte, che a quei tempi non esisteva.
Marcel Proust
Proust nasce a Parigi nel 1871 in una famiglia borghese. Inizialmente esordisce con il simbolismo, per poi introdursi nella società aristocratica grazie al poeta decadente Robert de Montesquiou.
Il primo romanzo che scrive è Jean Santeuil, che è una "prova generale del successivo romanzo Alla ricerca del tempo perduto.
Dopo la morte dei genitori, le precarie condizioni di saluti lo spinsero ad isolarsi in un piccolo appartamento, dove diede vita al suo più grande romanzo: Alla ricerca del tempo perduto, dove oltre ad un'autobiografia farà una profonda analisi della propria coscienza e dei costumi dell'epoca.
Nelle sue opere si sente ancora l'influenza del simbolismo e del filosofo Bergson.
Questa sua opera è divisa in sette volumi, di cui il primo viene pubblicato a sue spese, altri tre vengono pubblicati da Gallimard nel 1922, anno della sua morte gli ultimi tre usciranno invece postumi.
Il luogo sociale di questa sua ricerca è l'alta società francese di quel periodo, mentre il popolo, nell'opera, viene poco considerato.
Secondo Proust solo la memoria può cogliere le trasformazioni apportate dal tempo, la quale ce le può far rivivere interiormente. Inoltre secondo lui, solo "ritrovando questo tempo" si può accedere alla più autentica forma di conoscenza, per il fatto che attraverso alcuni attimi la nostra memoria può riportare alla luce dei momenti del passato che erano stati completamente dimenticati.
Concetti di Proust e Bergson
Proust è stato allievo di Bergson. A Bergson si deve la considerazione del tempo come durata. Senza queste teorie che coinvolgono molto Proust, molto probabilmente non avrebbe scritto Alla ricerca del tempo perduto.
Secondo questi concetti il tempo è infinito, non ha unità di misura, al contrario di come facciamo noi che lo dividiamo in anni, mesi, giorni, ore, ecc.
Per questo motivo il tempo ha un carattere psicologico: noi abbiamo una memoria involontaria, da cui un semplice ricordo ci può far scaturire una fetta del nostro passato che sembrava dimenticata.
Secondo questa teoria noi dobbiamo ricordare con l'es, infatti attraverso i nostri cinque sensi possiamo ricordarci qualcosa di molto lontano, che si pensava dimenticato, che non avremmo mai potuto ricordare con il nostro io.
Con queste teorie il tempo non è più visto come un limite, ma ha durata infinita e va quindi oltre ala morte, proprio per il fatto che grazie alla memoria involontaria si rivive il tempo perduto rivivendo le stesse emozioni che abbiamo provato in passato con persone che non ci sono più.
Le intermittenze del cuore
A far nascere la memoria involontaria è il caso e niente altro. Se cerchiamo di ricordare il nostro passato con la memoria volontaria, lo vediamo morto, perché quello che ci ricordiamo lo riviviamo con il nostro io. Però grazie alla memoria involontaria, noi possiamo ricostruire il nostro passato, anche se per far scaturire questa memoria servono due elementi fondamentali: il caso e l'oggetto; anche se tutto ciò non lo possiamo ricercare ma avviene casualmente.
Quando il protagonista mette la "maddalena" inzuppata di the in bocca, scaturisce improvvisamente e casualmente la memoria involontaria, che come dice lui stesso non lo fa più sentire come un elemento mediocre, contingente e mortale, ma tutto ciò ha risvegliato la verità che c'era in lui.
Dice che non si sente più mortale perché proprio attraverso a questo ricordo supera ogni limite temporale e sente l'immortalità, grazie proprio a questi ricordi della memoria involontaria.
Ha recuperato un passato, che non è concreto, ma è fatto di emozioni e sensazioni che toccano il suo spirito.
Per questo motivo, anche quando non ricordiamo nulla di un periodo del nostro passato, attraverso il caso e l'oggetto possiamo diventare noi stessi spirito rivivendo con le emozioni.
Per Proust non c'è nulla di più stupido che dare un valore alle cose, perché per una persona un oggetto può non valere niente, mentre per un'altra può avere un valore immenso, per il fatto che ci ricollega emotivamente al nostro passato.
Inoltre ci dice anche che per un intellettuale non c'è niente di più stupido che mettersi in politica, per il fatto che dovrebbe rimanere sempre isolato, per non rimanere influenzato ed essere deviato nel suo es, quindi dalla vera essenza del suo spirito.
L'intellettuale è considerato immortale e questa immortalità può solo essere acquistata nella vita, per il fatto che in questa viene espresso il suo es e il suo spirito.
James Joyce
Con Joice si può mettere per sempre fine alla parola letteratura. Dopo di lui non si può più scrivere un romanzo originale, perché è stato ormai scritto tutto; lui infatti nello scrivere ha usato la voce della coscienza.
Quello che ci trasmette è il pensiero che si ha durante le azioni della giornata: questo pensiero è quindi un monologo espresso illogicamente, infatti scrive togliendo ogni forma di punteggiatura.
L'Ulisse che ci racconta non può esprimere avventure straordinaria, per il fatto che vive nella quotidianità. Quindi da ciò si comprende che questo è un Ulisse ridotto ala mediocrità, e quindi rappresentante della realtà di tutti i giorni.
Secondo Joice nel 900 non ci sono più punti di riferimento e l'unico che rimane è il sesso.
Giovanni Pascoli nacque a San Mauro in Romagna nel 1855 da una famiglia, abbastanza agiata, piccola borghesia rurale. La sua famiglia era molto numerosa ed egli era 4° di 10 figli. La vita serena della famiglia è sconvolta dalla morte del padre, ucciso mentre tornava dal mercato, probabilmente da un rivale che ambiva al suo posto di amministratore. I mandanti dell'omicidio non furono mai individuati, sia perché la gente era restia a parlare, sia per l'inerzia delle indagini. Questa vicenda segnò tutta la vita del Pascoli che si portò sempre dietro un senso di ingiustizia. In seguito alla morte del padre, la famiglia fu costretta a lasciare la tenuta e a trasferirsi a Rimini. Nel giro di pochi anni la famiglia di Pascoli subì altri gravi lutti: la madre e la sorella maggiore, poi i due fratelli, Luigi e Giacomo. I primi anni di scuola Giovanni li frequentò in un collegio ad Urbino dove ricevette un'educazione classica. Fu costretto a lasciare il collegio in seguito ai problemi economici della famiglia, ma grazie alla generosità dei professori gli fu consentito di continuare gli studi nello stesso collegio a Firenze. Frequentò la facoltà di lettere presso l'università di Bologna ed in quegli anni subì il fascino dell'ideologia socialista che si stava diffondendo proprio in quel periodo. Partecipò a manifestazioni contro il governo, fu arrestato e trascorse alcuni mesi in carcere, prima di essere assolto. L'esperienza lo traumatizzò e da quel momento non prese più parte attivamente alla vita politica. Uscito dal carcere riprese gli studi laureò nel 1882 ed iniziò ad insegnare prima a Matera e poi Massa, dove si stabilì a vivere con le sorelle Ida e Mariù, cercando di ricostituire il nucleo familiare distrutto da tanti lutti. Il morboso attaccamento alle sorelle rivela la fragilità del poeta che cerca dentro le pareti domestiche, la protezione da un mondo esterno che gli pare pieno di insidie. A questo si aggiunge il ricordo ossessivo dei morti che gli ricordano continuamente i dolori dei lutti, impedendogli di affrontare la realtà e qualsiasi rapporto all'esterno della famiglia. Anche con il sesso femminile ha difficoltà ad intrecciare rapporti. Nonostante senta il desiderio di costruirsi una famiglia "sua", in cui esercitare la funzione del padre, ha difficoltà a spezzare il filo che lo tiene legato alla sua famiglia di origine. Il rapporto d'amore ha per lui un fascino strano, qualcosa di proibito e misterioso, da guardare con distacco. Le esigenze affettivo del poeta, sono, a livello conscio, del tutto soddisfatte dall'amore delle sorelle che ricoprono un ruolo materno; mentre, a sua volta, il "fanciullo" da loro accudito riveste verso le due donne un ruolo paterno. Da questo "nido" che perpetua l'antico nucleo familiare, sono esclusi sesso e procreazione, che sono posti al di "fuori", qualcosa da guardare con un certo timore. Per questi motivi il matrimonio di una delle sorelle viene sentito dal poeta come un tradimento che provocano in lui una forte depressione. Del resto quando lui stesso sta per sposarsi con una cugina, è costretto a rinunciare per la gelosia della sorella Mariù. La complicata situazione affettiva di Pascoli sono la chiave per cogliere il carattere tormentato e morboso della poesia di Pascoli che si nasconde dietro un apparente innocenza fanciullesca, della celebrazione delle cose semplici e umili. Dopo il matrimonio della sorella Ida, Giovanni e Mariù si trasferirono nella campagna lucchese, dove il poeta trascorreva una vita appartata, fatta di piccole cose, dell'insegnamento, degli affetti familiari. Una vita apparentemente serena, ma che in realtà era turbata da tante angosce e paure, come l'imminente manifestazioni di catastrofi ed ossessionato dalla morte. Fra il 1895 e il 2903 Pascoli insegnò all'Università di Bologna, Messina e Pisa. Poi nel 1905, ritornò a Bologna subentrando al suo maestro, Carducci. Per ben 12 anni vinse la medaglia d'oro al concorso di poesia latina di Amsterdam. Negli ultimi anni volle gareggiare con il maestro Carducci e con D'Annunzio, da lui definito "fratello minore e maggiore", con una serie di componimenti che celebravano le glorie ed il destino della patria. Accanto all'immagine di poeta schivo, chiuso nel suo mondo familiare, che celebra le cose semplici, si affianca l'immagine di un letterato che si fa carico del compito di diffondere ideologie e miti. Questo compito Pascoli lo assolve anche con una serie di discorsi pubblici, trai quali spicca La grande proletaria si è mossa, tenuto per celebrare la guerra in Libia. Pascoli muore a Bologna il 6 aprile 1912 minato da un cancro allo stomaco.
Con la fine del positivismo, che dava un ordine razionale ad ogni cosa, subentra un concetto alternativo. Nella visione pascoliana del mondo, le cose non sono più collocate secondo un logico ordine cronologico (grande o piccolo, marginale o centrale), ma sono poste a caso secondo l'impressione del momento. Questo "disordine" incide molto sulla costruzione formale dei testi, sulle parole usate per designare (chiamare per nome) gli oggetti. Le cose materiali hanno molta importanza nelle poesie di Pascoli, ma questo non vuole dire che ci sia una pura adesione all'oggettività delle cose, ma i particolari sono filtrati attraverso la visione soggettiva del poeta ed in questo modo si caricano di verità allusive e simboliche e diventano come messaggi misteriosi ed affascinanti. Anche la precisione con cui Pascoli indica esattamente piante, fiori ed uccelli, assume poi diversi valori: il termine preciso diventa come una formula magica che permette di attingere all'essenziale segreto delle cose. Dare il nome preciso alle cose è come vederle con gli occhi di un bimbo che le vede per la prima volta, arrivare ad immedesimarsi profondamente in esse. Perciò alla precisa terminologia con cui vengono indicate le cose può benissimo accostarsi una visione da sogno: le cose si sfumano le une nelle altre. Vengono così a crearsi dei legami segreti fra di esse che possono essere colte soltanto se si abbandonano le regole di una visione logica e positiva. Tra io e il mondo esterno e tra soggetto ed oggetto non esiste per Pascoli una vera differenza. La sfera dell'io si confonde con quella della realtà oggettistica, in modo che le cose acquistano una fisionomia quasi umana.
I tempi della poesia pascoliana. Come già detto in precedenza, la poesia di Pascoli rivela una sensibilità inquieta, tormentata. Tuttavia sia dal punto di vista intellettuale che nella vita quotidiana egli non rifiuta radicalmente il mondo borghese. Durante tutta la sua vita, Pascoli rappresenta il piccolo borghese, contento della sua mediocrità, nella sua casa dove ha cercato di ricostruire il nucleo familiare originario. Dal punto di vista letterario egli celebra la realtà del piccolo borghese e dei suoi valori. La celebrazione del "nido" e della fratellanza sono proposte dal poeta come una barriera davanti alle forze minacciose che egli sente incombere con angoscia e paura.
Digitale purpurea
PRIMA SEZIONE
Il testo ha inizio con il verbo "Siedono" di cui non conosciamo il soggetto. Apprendiamo però a poco a poco che i protagonisti sono due donne. Questa tecnica, usata da Pascoli, crea un clima sospeso, di mistero e di ambiguità.
Nei primi versi vediamo che si delineano due figure femminili: la prima bionda, dolce, dalle vesti semplici e non certamente vistosa; la seconda bruna, dagli occhi "ch'ardono"; quindi si può dedurre che sia diversa dalla prima.
A questo punto si vede chiaramente che c'è una contrapposizione tra la donna bionda e quella bruna. Incomincia il dialogo tra le due amiche e questo dialogo rievoca l'atmosfera del convento e della loro fanciullezza. Si sente che c'è qualcosa di misterioso ciò lo comprendiamo lentamente. Vediamo che le parole pronunciate dalla bionda danno un senso di dolcezza e sensibilità, mentre la bruna usa parole specifiche e incomincia a menzionare qualcosa di misterioso usando termini dotti. Quest'atmosfera rimanda la memoria delle due amiche all' "orto chiuso", che esclude il mondo esterno, ma proprio in questo giardino, nel ricordo delle fanciulle, c'è il misterioso fiore: il "fior di morte".
SECONDA SEZIONE
Vediamo che nel ricordo delle due amiche compare il loro monastero, il quale è associato ad una sensazione visiva ed una olfattiva (V.5). Nella parte finale di questa sezione ricompare il fiore che indica la sessualità.
Questo fiore ha delle forme ripugnanti, quasi macabre, infatti dice che assomiglia a delle dita insanguinate.
TERZA SEZIONE
Ecco che ritorna il motivo dell'innocenza, ma ancora una volta il fiore arriva ad occupare il pensiero delle fanciulle. La ragazza bruna, svela finalmente il suo segreto: confessa, infatti, di aver provato il fiore proibito. Dice all'amica che è la vita che ci conduce verso questa esperienza e che si deve andare da soli. Aggiunge, inoltre, che dopo averla vissuta si cambia, si migliora e si matura.
Vediamo che Pascoli pone all'inizio del verso con una "E" che è una congiunzione coordinante. Usa una simbologia per dirci che in lui c'è un pensiero continuo sulla vita, sul destino umano, sull'ignoto.
Se siamo dall'alto di una valle e c'è la nebbia, non vediamo nulla, quindi un uomo che guarda sempre se stesso e la vita non ha risposta, perché è come un paesaggio nella nebbia. Pascoli non riesce a captare nulla di quel paesaggio (e quindi della vita) però ad un certo punto sente dei gridi piccoli e selvaggi di uccelli dispersi nella nebbia. Con questo ci vuole far capire che la vita è dolore. Aggiunge che vede scheletri di Faggi (alberi d'inverno) e questo implica un concetto di dolore. Parla, inoltre, di un cane che uggiola e che non si capisce il perché di questo suono lugubre. Per Pascoli il dolore è una caratteristica eterna, che si alterna nella vita dell'uomo.
Da questo paesaggio si sente la mente dell'uomo che continua ad indagare, a cercare ma ecco che il paesaggio chiede a Pascoli : "Ma tu chi sei? Chi sei uomo che procedi nella storia?"
Pascoli dice che forse ha avvistato un'ombra, quindi nulla di concreto, perché l'uomo è un'ombra che erra, vagabonda sulla vita con un fardello pesante per i suoi dolori.
Della vita ha percepito solo questo perché dopo tutto si è sommerso ed ha sentito solo l'eco di grida inquiete e l'uggiolare del cane. Pascoli ci vuole quindi dire che il dolore è sempre presente nella vita dell'uomo.
PRIMA SEZIONE
Alexandros è il protagonista. Inizia dicendo: "Giungemmo: è il Fine." Mette "Fine" maiuscolo per dare una rilevanza particolare a questa parola perché l'eroe è arrivato al fine delle sue imprese, egli ha gia conquistato tutto. L'unica cosa che gli resta da conquistare è la Luna che però splende sospesa nell'aria e quindi è inaccessibile. Poi si trova davanti all'oceano e vede che non c'è un onda e riferendosi ai suoi mercenari dice loro che di fronte a lui vede l'ultimo fiume. Negli ultimi versi vede la terra che sfuma e si inabissa dentro all'oceano e al cielo. Questo abisso è il mistero.
SECONDA SEZIONE
Alexandros si volge al passato e rievoca il cammino compiuto prima di giungere a quel punto conclusivo. Vediamo che c'è una simbologia che potrebbe significare che l'uomo è sempre alla ricerca della verità e questa può rappresentarsi con l'immobilità perché raggiungere l'ignoto significa raggiungere qualcosa di immobile.Aggiunge che andare oltre la realtà significa capire che ciò che ci circonda è soltanto apparenza. Rivolgendosi a se stesso, Alexandros, dice che era meglio non avere questa sete di conoscenza, che era meglio sognare perché "il sogno e l'infinita ombra del vero", infatti il sogno proietta la verità e la proietta in modo infinito, mentre la realtà è uno spazio definito.
TERZA SEZIONE
In questa sezione viene ripreso il concetto già espresso nella seconda, non affrontare l'avventura della ricerca. Alexandros, riandando col ricordo al passato, vede ora chiaramente come la felicità fosse nell'attendere la vita, quando la vita era ancora tutta da vivere, con le sue fatiche, le sue prove, i suoi dubbi. Alexandros, pensando ai suoi anni giovanili, si sentiva ancora padrone del suo destino e sentiva che doveva ancora crearselo il destino. Menziona poi due città:
ISSO : città della prima battaglia;
PELLA: città dove ha vissuto la sua giovinezza;
Di quest'ultima ricorda le sue cavalcate con "Bucefalo" (il cavallo di Aessandro) per inseguire il sole al tramonto, ma il sole era un sogno irraggiungibile, che si allontanava sempre di più, dietro le selve scure.
QUARTA SEZIONE
Alexandros con le parole "Figlio d'Amynta" si riferisce a suo padre Filippo. Poi dice che quando incominciò le sue imprese non avrebbe mai pensato di raggiungere una meta, un limite insuperabile. Nel terzo verso vediamo che compare il nome "Timotheo" che era il suonatore del flauto. Per Alexandros l'arte, la poesia erano impulsi possenti che lo spingevano ad andare sempre avanti nella ricerca. Dice che questa ispirazione gli è rimasta sempre nel cuore, come il mormorio del mare resta in una conchiglia. Alexandros sente ancora lo squillo di Timotheo che passa in alto e lo invita a seguirlo, ma ormai egli è arrivato al limite delle possibilità umane, ad un confine insuperabile, al di là del quale c'è solo il nulla.
QUINTA SEZIONE
Il pianto di Alexandros è dovuto al fatto che la speranza di raggiungere una conoscenza più alta diventa sempre più vana, ma il desiderio non si spegne, anzi diventa sempre più grande. Secondo la leggenda Alexandros aveva gli occhi di colore diverso: quello nero è la morte che annulla ogni speranza, mentre quello azzurro rappresenta il desiderio di solcare l'in conoscibile. Alexandros di fronte all'immensa distesa dell'Oceano sente agitarsi forze sconosciute, infatti l'ignoto è come una sfida, ma la conoscenza del misteri è impossibile e qui si sente molto la limitatezza dell'uomo.
SESTA SEZIONE
In questa ultima sezione compare la famiglia di Alexandros e Pascoli ci dice che l'unica alternativa possibile anziché consumarsi nella ricerca fallimentare, è quella di restare nei limiti. Quindi all'eroe, fermo ai limiti estremi della terra, si contrappone l'immagine della casa lontana e all'avventura della conoscenza si oppone la prospettiva di una vita più limitata, ma serena e tranquilla. Si conclude con l'immagine della madre, la quale si dice fosse una veggente e quindi era immersa nell'occulto, infatti essa percepisce ciò che percepisce suo figlio. Olimpia infatti ha la capacità di andare oltre la conoscenza umana, ed è preoccupata perché ha paura di aver trasmesso questi poteri a suo figlio.
PRIMA SEZIONE
In questa prima sezione Pascoli ci fa delle constatazioni originali, e ci dice che se guarda gli uomini, prova paura perché li vede immersi "nell'eterno vento". Infatti la terra non è solida ma è aerea, quindi il poeta ci vede sospesi nel vuoto e ci consiglia di aggrapparci con tutte le nostre forze ai sassi e all'erba. Inoltre aggiunge che noi non siamo un bosco, o il mare noi abbiamo solo i piedi che ci rendono stabili. Ma non ostante tutto ciò l'uomo si crede sicuro sulla terra e dimostra anche tanta potenza.
SECONDA SEZIONE
Il poeta dice che il momento più terribile per lui è la notte, e di ce : quando sono pendulo e le stelle sono fuoco, vorrei allacciarmi a un filo d'erba perché mi sento preda di questo abisso.
Aggiunge inoltre che la notte è un incubo terrificante. Nello stesso tempo però ci dice che guai se la terra si fermasse, infatti, il movimento c'è anche se noi non lo percepiamo, aggiunge che vi è qualcosa di supremo che ha costruito queste regole precise.
Il poeta pensa che se lui cadesse nell'universo, il suo cadere sarebbe senza peso e potrebbe conoscere meglio l'universo, andare oltre a quello che razionalmente riesce a capire. Pensa che riuscirebbe a vedere il termine ultimo che l'uomo ha sempre cercato: Dio.Negli ultimi versi ci dice che questa ricerca è vana e aggiunge che noi uomini continueremo a vedere le cose in modo limitato.
Per Pascoli la poesia non è amorale, educa l'animo, nel senso che corrisponde alla snesibilità.
La poesia non deve esprimere il sentimento (Romanticismo), ma la sensibilità; infatti la poesia è la sensibilità dell'individuo, che può essere o non essere fonte di fantasia.
La vera poesia si può trovare in tutte le semplici azioni che circondano la quotidianità dell'uomo, per questo tali azioni non vanno disprezzate dato che possono essere fonti di poesia.
Alla fine del testo si riferisce a Virgilio, il massimo poeta latino, il quale nonha scritto nulla di eccezionale, ma si è sempre ispirato a cose semplici. Per questo motivo Pascoli fa una critica alla poesia che si basa su grandi opere e forti emozioni.
Gabriele D'Annunzio nasce a Pescara nel 1863 da una famiglia borghese, studia in una scuola aristocratica e a soli 16 anni scrive un libretto di versi: Primo vere che ottiene un buon riscontro dal pubblico e da letterati di fama. Dopo il liceo si trasferisce a Roma per frequentare l'università, ma ben presto abbandona gli studi, preferendo fare una vita mondana frequentando salotti e redazioni di giornali. In poco tempo acquista una certa notorietà scrivendo versi, opere ed articoli giornalistici, che spesso suscitano scandalo per il loro contenuto erotico. Anche la sua vita è considerata scandalosa, per i principi morali di quel tempo, fatta di avventure galanti, lusso e duelli. In quegli anni D'Annunzio si crea la maschera dell'esteta, dell'individuo superiore e sensibile che guarda dall'alto la mediocrità della borghesia. Egli disprezza la morale ed accetta come regola di vita soltanto il bello. Negli anni '90, questa fase improntata sull'estetismo subisce una crisi che si riflette anche sulla produzione letteraria dello scrittore. Egli cerca un nuovo modello ed ispirandosi alle teorie del filosofo tedesco Nietzsche, lo trova nel mito del superuomo che non è soltanto bello ma anche eroico. In realtà D'Annunzio cerca di creare l'immagine di una vita fuori dal comune, infatti, fra la borghesia, suscita molta curiosità la vita che egli conduce tra agi, cose belle ed avventure amorose (in particolare la storia d'amore con l'attrice Eleonora Duse). In realtà con questa ricerca di una vita eccezionale, D'Annunzio vuole mettersi in evidenza di fronte al pubblico, per vendere meglio la sua immagine e le sue opere. Gli editori sborsano grandi somme di denaro per le sue opere, ma i soldi non bastano mai per il tenore di vita che lo scrittore conduce. Viene così a crearsi una contraddizione: D'annunzio ostenta una repulsione verso il denaro e il mondo borghese, ma in realtà egli stesso è il più legato al tipo di vita borghese. Nel 1897 si candida come deputato dell'estrema destra, coerentemente al suo disprezzo per la democrazia e l'uguaglianza e al suo sogno di far tornare al potere una nuova aristocrazia che ripristinasse il valore della bellezza, smorzato dal dominio della borghesia. Tuttavia nel 1900 egli passa agli schieramenti di sinistra. Questo cambiamento di orientamento non deve stupire perché questa disponibilità ai cambiamenti è propria delle persone che sono attratte dalle manifestazioni di forza ed energia vitale, indipendentemente dalla loro ideologia. Negli anni '90, pensando i poter raggiungere un pubblico più vasto, D'Annunzio si dedica al teatro, ma nonostante la sua grande fama, nel 1910 è costretto a fuggire in Francia per sfuggire alla persecuzione dei suoi creditori. In esilio scrive opere teatrali in lingua francese, ma continua a tenere i legami con l'Italia "ingrata" verso il suo figlio eccezionale. Allo scoppio della 2a guerra mondiale egli torna in patria, dove inizia una incalzante campagna in favore all'intervento dell'Italia in guerra. Nonostante non sia più giovanissimo (52 anni), si arruola come volontario riuscendo ad attirarsi su di sé l'attenzione compiendo alcune imprese clamorose come la "Beffa di Buccari", in cui fece un incursione nel Quarnaro con una flotta di navi armate di siluri. Nel dopoguerra si fa portavoce dei reduci scontenti per l'esito della guerra e capeggia una marcia di volontari sulla città di Fiume, dove instaura un dominio personale sfidando lo Stato italiano. Nel 1920 viene scacciato con le armi dal suo dominio, spera di riuscire ad imporsi come "capo " di un sistema politico autoritario che riporti ordine nella confusione del dopoguerra, ma viene scalzato da Benito Mussolini. Dal regime fascista D'Annunzio viene, da un lato esaltato; mentre dall'altro viene guardato con un certo sospetto e praticamente costretto a confinarsi in una bellissima villa a Gardone, sul lago di Garda, che egli trasforma in una specie di monumento a se stesso: il "Vittoriale degli italiani". Qui trascorre i suoi ultimi anni di vita dove muore nel 1938.
Avendo iniziato giovanissimo la sua attività, D'Annunzio attraversa circa 50 anni di cultura italiana, influenzandola con le sue opere. La sua influenza si fa sentire anche in campo politico perché elabora ideologie, slogan ed atteggiamenti che diventano propri del fascismo. La sua impronta si riflette anche sul costume (dannunzianesimo) segnando il comportamento di molte generazioni borghesi, ma influenzò anche la nuova cultura "di massa", tramite scritti che erano alla portata di lettori di cultura mediocre, ed il cinema. Infatti, D'Annunzio, collaborò alla stesura dei testi del film Cabiria.
L'estetismo e la sua crisi
Le prime opere letterarie di D'Annunzio prendono spunto dalle opere di due scrittori italiani, molto in voga negli anni '80: Carducci e Verga. Infatti le prime raccolte liriche Primo vere e Canto nuovo si rifanno alle Odi barbare di Carducci e la prima raccolta di novelle Terra vergine si rifà a Vita dei campi di Verga. Le sue opere degli anni '80 sono il frutto della fase dell'estetismo dannunziano che si riassume nella regola "il Verso è tutto". L'arte è il valore supremo e tutti gli altri valori devono essere sottostare ad essa. La vita non si sottopone più alla legge del bene e del male, ma soltanto alla legge del bello, trasformandosi in un'opera d'arte. Sul piano letterario, tutto questo genera un vero culto dell'arte e della bellezza. La poesia non sembra nascere da un'esperienza vissuta, ma da altra letteratura. I versi di D'Annunzio sono pieni di spunti che provengono da poeti classici, da quelli della tradizione italiana e dai poeti contemporanei francesi ed inglesi, come se egli avesse bisogno di una spinta per iniziare a comporre. Facendo un'analisi più approfondita, il personaggio rivestito da D'Annunzio, dell'esteta, che rifugge la quotidianità borghese ed è alla ricerca dell'arte pura e della bellezza è una risposta ideologia ai processi sociali dell'Italia di quel tempo. Infatti, lo sviluppo capitalistico tendeva ad emarginare l'artista, togliendolo dalla posizione di privilegio e di grande prestigio di cui aveva goduto in passato, oppure lo costringevano ad assoggettarsi alle esigenze di mercato. D'Annunzio non si limita ad immaginare questo personaggio, vuole viverlo anche nella realtà, quindi si preoccupato di scrivere libri che abbiano successo ed è molto bravo a sfruttare economicamente la pubblicità che gli deriva dal genere di vita che conduce (amori sfrenati, lusso, scandali). Utilizzando il denaro che ricava, egli propone un nuova immagine dell'intellettuale, che è al di fuori della società borghese e fa rivivere l'artista quella condizione di privilegio che sembrava ormai tramontata. Ben presto però D'Annunzio si rende contro che la figura dell'esteta è una figura ideologica e molto debole: egli infatti non può opporsi realmente alla borghesia ed il suo isolamento sdegnoso finisce con il diventare una trappola che produrrà soltanto sterilità. L'estetismo entra così in crisi. Nel suo primo romanzo Il Piacere, D'Annunzio esprime la sua crisi e la sua insoddisfazione, il personaggio principale è Andrea Sperelli, un esteta, che è la copia di D'Annunzio stesso. Sperelli è un giovane artista aristocratico, proveniente da una famiglia di artisti. Debole di carattere, Andrea ha molta difficoltà ad applicare su se stesso il principio: "fare la propria vita, come si fa un'opera d'arte" e questa incapacità lo rende privo di energia morale e creativa. La crisi si riflette nel rapporto con la donna. Andrea è diviso fra due immagini di donna: Elena Muti, la donna fatale che incarna l'erotismo e la lussuria, e Maria Ferres, la donna pura che eleva spiritualmente. In realtà Andrea, esteta libertino, mente a se stesso: Maria, la donna angelica è solo l'oggetto di un gioco più perverso, fungendo da sostituto di Elena, che Andrea continua a desiderare e che lo rifiuta. Andrea finisce con il tradire la sua menzogna con Maria, che poi lo abbandona ed egli rimane solo con la sua sconfitta. La crisi dell'estetismo non trova subito soluzioni alternativa, dopo vari tentativi per trovare un nuovo modello, D'annunzio subisce il fascino del romanzo russo, molto di moda nell'Europa di quegli anni. Infatti nei romanzi Giovanni Episcopo, l'Innocente, Poema paradisiaco è evidente l'influenza di Dostoievskij e Tolstoi.
L'ideologia del superuomo dannunziano deriva in parte dall'influenza esercitata dal pensiero del filosofo Nietzsche. Infatti D'Annunzio coglie alcuni aspetti dei Nietzsche, come il rifiuto del conformismo borghese, i principi egualitari che livellano tutte le personalità, una vita libera e felice libera da ogni morale, il rifiuto della pietà e dell'altruismo; l'esaltazione della "volontà di potenza"; il mito del superuomo, un nuovo tipo di umanità libera e felice. Lo scrittore enfatizza queste concezioni scagliandosi con forza contro la borghesia, il parlamentarismo, il trionfo dei principi democratici ed ugualitari; aspira all'affermazione di una nuova aristocrazia che sappia tenere a bada l'umanità mediocre e che sappia esaltare il culto del bello e della vita eroica. L'idea nietzschiana (= di Netzsche) del superuomo è quindi vista da D'Annunzio come un diritto di pochi essere eccezionali, che liberi dalle leggi comuni del bene e del male, a dominare al di sopra della massa e a costruire uno Stato imperiale che domina sul mondo, come l'antica Roma. Il nuovo mito del superuomo creato da D'Annunzio, non esclude completamente l'immagine dell'esteta, ma la ingloba in sé dandole una funzione diversa. Il culto della bellezza è essenziale per elevare la stirpe dei pochi eletti: in questo modo l'estetismo non sarà più un rifiuto sdegnoso della realtà, ma strumento di una volontà di dominare la realtà. Il superuomo dannunziano non si accontenta di compiacersi della bellezza rifiutando la vita sociale, ma si impegna per imporre, tramite la bellezza, il dominio di una cerchia di persona, violente e raffinate insieme, su un mondo meschino e vile come quello borghese. Contrariamente all'esteta, che è in netta opposizione alla realtà dominante, il superuomo ha anche un ruolo politico, infatti con la sua violenta carica antiborghese può accordarsi con le tendenze del militarismo aggressivo e del colonialismo. Consapevole dei processi che stanno declassando l'artista, D'Annunzio non accetta questa realtà e vuole a tutti i costi riguadagnare un ruolo sociale. Poiché la società non gli offre questa possibilità, egli si attribuisce il compito di creare un ordine nuovo: l'artista, mediante la sua attività intellettuale, deve aprire la strada ad una ristretta elite, (cerchia) di cui egli stesso fa parte, che metterà fine al liberalismo borghese.
Il quarto romanzo Trionfo del la morte rappresenta una fase di transizione tra il mito dell'esteta e quello del superuomo. Il protagonista, Giorgio Aurispa, è ancora un esteta molto simile al protagonista de Il Piacere. Consumato da un travaglio interiore che lo priva di qualsiasi energia, Aurispa è alla ricerca di un nuovo senso della vita che gli dia l'equilibrio necessario. Il breve rientro nella sua famiglia di origine, acuisce ancora di più questo malessere, soprattutto perché rivive il conflitto con il padre, una figura dominatrice, ma anche spregevole. Per questo egli si identifica con un'altra figura paterna: lo zio Demetrio, molto simile a lui e morto suicida. La ricerca di un equilibrio porta Asperti a cercare le radici della sua famiglia. Insieme alla sua donna si ritira in un paesino abruzzese dove riscopre le tradizioni della sua gente: le usanze, l'esaltazione del fanatismo religioso, le credenze superstiziose. La sua ricerca di una nuova vita però fallisce, quel mondo primitivo lo disgusta, così come fallisce la via del misticismo religioso. Aurispa pensa di trovare la sua soluzione nel messaggio di Nietzsche, cioè quello di vivere una vita giocosa e libero dalla morale comune, ma egli non è ancora in grado di realizzare questo progetto: la sua psiche si oppone e gli impedisce di attingere all'ideale di superuomo a cui aspira. Si di lui prevale la forza negativa della morte, ed infatti finisce con il suicidarsi. Il suicidio di Giorgio Aurispa libera D'Annunzio dal peso delle sue angosce negative fino a quel momento affrontate e finalmente si sente pronto a percorrere la strada del superuomo. Nel suo romanzo successivo, Le Vergini delle rocce, D'Annunzio non vuole più proporre un personaggio debole ed incerto, ma un eroe forte e sicuro che verso la sua meta. Il romanzo è l'espressione delle nuove teorie aristocratiche, reazionarie ed imperialistiche di D'Annunzio. Il protagonista, Claudio Cantelmo, sdegnoso della realtà borghese, del liberalismo politico vuole realizzare in sé "l'ideal tipo latino" e generare il superuomo, colui che porterà l'Italia ad un destino imperiale. Nonostante l'ostentata sicurezza, si notano però ancora nel personaggio dei dubbi. Cantelmo è consapevole che realizzare concretamente ciò che ha in mente è ancora lontano, cerca allora un sostitutivo dell'azione nella letteratura, componendo una "perfetta opera d'arte" e la ricerca di una donna degna di lui. Entra nella famiglia dei Montaga, nobili decaduti che vivono in ristrettezza economiche e nella malattia, convinto che immergendosi nella "putredine" potrà trarre nuove energie. Fra tre ragazze della famiglia che vorrebbero sposarlo, Cantelmo sceglie Violante, che si uccide lentamente distillando veleni. Violante incarna il mito ossessivo di d'annunzio: quello della donna fatale e distruttiva. I protagonisti di D'Annunzio nonostante le loro ambizioni eroiche, restano sempre deboli ed incapaci di concretizzare le loro aspirazioni. Il disfacimento e la morte esercitano sempre su di essi una irresistibile attrazione. Questa sorte è confermata nel Fuoco in cui il protagonista, Stelio Effrena che medita di comporre una grande opera artistica attraverso la quale vuole creare un nuovo teatro, che dovrà formare lo spirito nazionale della stirpe latina. Anche questa volta però le forse oscure che ostacolano il progetto, si concretizzano in una donna: Foscarina Perdita. Essa è una grande attrice in declino e rappresenta l'attrazione di D'annunzio verso il disfacimento e la morte. Foscarina, con il suo amore ossessivo impedisce a Stelio di realizzare la sua opera anche se alla fine lei lo lascerà, ma lui svuotato di ogni energia, non riuscirà a realizzare il suo sogno.
Le laudi
Nel campo della lirica, l'idea del superuomo si realizza nella raccolta Laudi del cielo, del mare, della terra e degli eroi. Inizialmente la raccolta doveva comporsi di sette libri, ma alla fine il poeta ne scrisse soltanto cinque (Maya, Electra, Alycone, Merope, Asterope). Il terzo libro, Aycone, è apparentemente molto diverso dai precedenti. Il genere di questo libro è lirico, una specie di diario di una vacanza in Versilia. Le liriche seguono l'andamento della stagione, dala primavera fino a settembre e l'estate è vista come la stagione più propizia al godimento sensuale. Per questo motivo Aycone è l'opera più apprezzata dalla critica, specialmente da quella legata al gusto della lirica del '900. L'opera è stata vista come "pura" poesia, libera dall'ideologia del superuomo e rispondente all'ispirazione più genuina del poeta: il rapporto sensuale con a natura.
Nietzsche
Nietzsche si presenta come lo spirito che contraddice, infatti contraddice tutta la cultura dell'800, a partire dalla filosofia (in quel periodo c'era il movimento positivistico).
Nietzsche dice subito che il positivismo è stupido perché il positivista si basa sul fatto e il fatto è espressione di concretezza, quindi è una cosa sciocca. Inoltre è stupido pensare e discutere sul progresso, che è qualcosa di lampante, veloce, che vediamo tutti continuamente, perciò è una cosa inutile parlarne.
Da questa critica alla filosofia passa alla storia: contraddice tutta l'interpretazione storica, per il fatto che secondo lui ci sono tre modi di fare le storia:
Storia monumentale;
Storia antiquaria;
Storia critica.
Nel primo modo di fare storia si guarda a tutto il passato e lo si vive come modello del presente., Secondo Nietzsche questo modo di fare è storia è stupido, perciò va eliminato.
Anche la storia antiquaria secondo lui non va, per il fatto si prendono i costumi e le tradizioni folkloristiche come modello ispiratore.
L'unico studio della storia che si può attuare è quella che fa lui: la storia critica, che studia il passato, lo giudica e tiene conto solo delle cose buone del passato.
Successivamente contraddice anche la morale degli uomini dell'800, che è falsa perché si basa su un concetto dell'uomo sbagliato: quello dell'uomo debole; per il fatto che il vero uomo non è tale, dev'essere forte, potente, ambizioso, egoista.
Secondo Nietzsche questa morale basata sul debole è una morale per gli schiavi, quindi bisogna costruirne un'altra per gli aristocratici e per tutti coloro che attraverso le proprie capacità riescono ad emergere dalla massa e a dominarla.
Questo concetto dell'uomo debole è stato creato dalle religioni, e soprattutto da quella cristiana, perché è con questa che è nato il senso del peccato e di conseguenza è stato poi inculcato il concetto di pietà, perdono e compassione.
Secondo Nietzsche l'uomo è stato creato dalla natura al piacere e al godimento, quindi è questo che deve attuare, senza mortificare il piacere che la natura gli ha dato.
La natura seleziona gli esseri viventi, in modo che il più forte viva e i più deboli soccombano, e questo dovrebbe essere anche per gli uomini, perché sono parte integrante di tutta la natura. Quindi da ciò si capisce che solo coloro che avranno la capacità di vincere potranno dominare, mentre gli altri devono sottomettersi.
Inoltre Nietzsche ci dice che ormai per la società Dio è morto: è stato l'uomo a uccidere Dio, perché attraverso tutto quello che è il progresso scientifico e tecnologico Dio non è più preso come punto di riferimento. Bisogna quindi vivere prendendo se stessi come punti di riferimento e tenendo sempre conto del senso della Terra.
Ci dice ancora che l'uomo è come lo struzzo, il quale non deve tenere la testa tra le nuvole (ascoltare la religione) ma deve tenerla a terra, vivendo tutti i piaceri della vita. Chi si comporta così secondo Nietzsche è il vero superuomo.
Consolazione
D'Annunzio immagina di tornare da sua madre.
Il poeta si considerava un poeta Vate, perché aveva avuto molto successo con i giovani della sua epoca. Egli ha dato degli esempi, ha vissuto alla grande ed è stato preso come modello.
D'Annunzio però non trasferisce ideali positivi, non punti di riferimento ma solo passioni, facendo così ha dato alla borghesia ciò che voleva ed ha avuto successo.
VERSI 1-20
Vediamo da subito che il poeta è molto bravo a giocare con le parole, e sa farci entrare nell'atmosfera giusta. Le prime parole sono legate al dolore che ha provocato a sua madre.
Vediamo che scrive la parola "diletto" cioè che ha amato, perché sua mamma lo ama comunque non ostante tutti i dispiaceri che le ha provocato. Il poeta dice che torna a casa perché è stanco di questa vita che ritiene scandalosa, visto che non è mai riuscito ad essere se stesso ma che ha fatto tutto solo per apparire.
Nel quarto ci fa una breve descrizione di sua madre, e capiamo che sua madre è provata dal dolore.
Il poeta usa un linguaggio semplice dando una musicalità al verso, anche ripetendo più volte alcune parole come "Ancora", e questa parola incide molto su un concetto fondamentale e cioè che c'è ancora una possibilità di riscatto, ma che questa possibilità gli può essere data solo da sua madre e questo si vede nel verso dodici dove dice "sorriderà, se tu sorriderai".
D'Annunzio aggiunge che il miracolo si compierà solo se sua madre parteciperà all'emozione e questa emozione sarà molto grande. Nei versi quindici e sedici ci dà un immagine molto seducente.
Nell'ultima strofa il poeta ci vuol far capire che il cammino sarà molto duro ma che in ogni caso non è tardi per compiere questo passo.
VERSI 21-68
Nel ventunesimo verso vediamo che la madre non ne può più di questo figlio e non crede ad una parola di ciò che gli dice. Il poeta però cerca di convincere sua madre dicendole che non deve pensare alle cose cattive.
Vediamo che il linguaggio usato è molto semplice e D'Annunzio pur usando parole semplici riesce a fare poesia e ciò non è facile.
Nei versi successivi il poeta dice alla madre che deve sognare e non limitarsi semplicemente a ciò che ha sentito e se riuscirà a fare questo tornerà il legame che avevano quando lui era ragazzo. Nel trentunesimo verso vediamo che il poeta adotta le parole "pura mano" per indicare che la madre di sua madre è pura e non è stata contaminata dal mondo in cui lui ha vissuto. D'Annunzio ci dice che tornerà a vivere nel mondo della madre perché fatto di cose semplici e sente che in questa semplicità vi è l'essenza dei sentimenti. Aggiunge inoltre che è importante che sua madre lo ascolti perché solo stando ad ascoltarlo potrà perdonarlo. Il poeta ci ricrea un'atmosfera lontana e vuole riprendere le cose che aveva da ragazzo, e questo si può paragonare a Rimbaud che voleva sembrare vergine e puro come da fanciullo.
Il vero nome di Italo Svevo è Aron Hector Schimitz, (Italo Svevo è soltanto lo pseudonimo letterario). Egli nasce a Trieste, allora territorio dell'Impero asburgico, il 19 dicembre 1861. Indirizzato dal padre verso la carriera commerciale, egli compie i suoi studi in un collegio tedesco dove impara perfettamente il tedesco e comincia a leggere le opere degli scrittori tedeschi. A 17 anni torna a Trieste e per due anni frequenta l'Istituto commerciale, ma la sua aspirazione è quella di diventare scrittore. Comincia così a scrivere testi drammatici e a collaborare con un giornale triestino di orientamento irredentista. Come la maggior parte della borghesia triestina anche lui è vicino all'irredentismo, anche se nutre un certo interesse per il socialismo. In seguito al fallimento del padre, Svevo passa un periodo di ristrettezze economiche, per circa 20 anni lavora in banca, ma quel lavoro non gli e congeniale e per evadere alla routine inizia a leggere tesi di autori italiani e francesi. In seguito fa amicizia con Umberto Veruda, un pittore brillante ed estroverso che esercita una forte influenza su di lui. Ne frattempo scrive alcune novelle e getta le basi per il suo primo romanzo Una vita che pubblicherà nel 1892. Nel 1985 muore sua madre e proprio al capezzale della morente, egli incontra una cugina molto più giovane di lui, che diventerà sua moglie. L'anno seguente nasce la sua unica figlia Letizia. Il matrimonio segna una svolta nella vita dello scrittore, prima di tutto sul piano psicologico perché egli acquista sicurezza in sé , ma anche sul piano sociale acquista una certa agiatezza perché la famiglia della moglie possiede una grande fabbrica di vernici per navi. Svevo lascia così il lavoro in banca e va a lavorare nella fabbrica degli suoceri. Il salto nella scala sociale è notevole: dalla condizione di piccolo borghesi si trova proiettato nell'alta borghesia, ma soprattutto, da intellettuale si trasforma in dirigente d'azienda. Per lavoro deve viaggiare molto e questo gli consente di allargare i suoi orizzonti. Diventato un uomo d'affari, testo a guardare al profitto, Svevo abbandona la l'attività letteraria, guardandola come qualcosa di pericolosi che può distrarlo dalla sua attività produttiva. In realtà i suoi interessi culturali sono soltanto sopiti, in attesa di una buona occasione per risvegliarsi. Prima dello scoppio della 2a guerra mondiale si verificano due fatti molto importanti per la formazione intellettuale dello scrittore. Il primo è l'incontro con James Joice, uno scrittore irlandese e suo insegnante d'inglese. Tra i due nasce una stretta amicizia, destinata a durare nel tempo. Svevo fa leggere a Joice i suoi due precedenti romanzi, ricevendone una buona critica e l'incoraggiamento a continuare l'attività letteraria. Il secondo evento è l'incontro con la psicanalisti, nei primi anni del '900, che avviene tramite il cognato che è stato in cura da Freud. Durante la guerra la fabbrica viene requisita dagli austriaci, Svevo si trova libero ad impegni e coglie l'occasione per riprendere a scrivere. Nel 1923 viene pubblicata la Coscienza di Zeno, che però come era già avvenuto per i due precedenti romanzi, non riscuote alcun successo. Esasperato Svevo manda il suo lavoro a Joice, a Parigi. Questi riconosce immediatamente la grandezza dell'opera e la impone all'attenzione degli intellettuali francesi. Il romanzo viene tradotti in francese ed una nota rivista dedica a Svevo un intero numero. Grazie a queste iniziative egli conquista grande fama in Francia. In Italia invece permane un costante disinteresse per la sua attività, soltanto il poeta Eugenio Montale riesce a riconoscere la sua grandezza e gli dedica un saggio su una rivista. Nel 1928 la fama europea di Svevo viene consacrata a Parigi dove viene festeggiato da molti intellettuali internazionali. Questo riconoscimento costituisce una spinta a continuare, scrive un altro romanzo con protagonista Zeno ed una serie di testi teatrali. Il 1° settembre egli però muore in seguito ad un incidente stradale.
Svevo appare molto diversi rispetto agli altri scrittori della sua epoca, innanzitutto l'ambiente della sua formazione ha caratteristiche particolari: Svevo è triestino, una città di confine in cui convivono culture diverse (italiana, tedesca e slava). Lo stesso pseudonimo da lui scelto vuole segnalare che in lui convivono sia la cultura italiana (Svevo) che quella tedesca (Svevo) ed hanno la loro influenza anche le sue origini ebraiche. L'ambiente in cui si forma permette a Svevo di a vere una prospettiva più ampia rispetto agli altri scrittori italiani, ma soprattutto gli consente uno stretto contatto con la cultura viennese, che negli anni '800 e '900 è fra le più vive del mondo. Anche la sua fisionomia sociale non coincide con la figura tradizionale dello scrittore italiano, la cui attività principale è la letteratura, Svevo invece fa l'impiegato per moltissimi anni, poi l'uomo d'affari e la sua attività letteraria corre parallela a quella quotidiana e per un periodo la abbandona anche. Anche i suoi studi non sono quelli tradizionali degli altri letterati italiani, infatti i suoi studi non hanno un indirizzo letterario e filosofico, ma un indirizzo commerciale. La sua cultura letteraria e filosofica è quindi quella di un autodidatta, acquisita tramite letture personali.
Nella cultura filosofica di Svevo ha grande importanza Schopenauer, il quale sosteneva che non tutto ciò che è reale è anche razionale (cioè fondato su basi scientifiche) ed affermava che l'unica via di salvezza al dolore è la rinuncia e la meditazione. Svevo lesse anche testi originali di Nietzsche, non ancora attraverso la deformazione del superuomo o dell'esteta di stampo dannunziano, anzi polemizzò molto per come ci era stata propinata la "concezione del superuomo". Altro punto di riferimento per Svevo, fu Charles Darwin, autore della teoria secondo la quale l'evoluzione dell'uomo avviene tramite una "selezione naturale" e "la lotta per la vita". Lo scrittore subì anche l'influenza del marxismo, di cui aveva una buona conoscenza, e che per un periodo lo portò a simpatizzare per il socialismo. Ancora oggi non è ben chiaro fino a che punto il marxismo abbia influito sulla formazione di Svevo, ma da quanto si può dedurre dai suoi scritti, egli trasse la sensazione dei conflitti di classe che attraversano il mondo moderno, ma soprattutto che tutti i fenomeni, compresa la psicologia di ciascun uomo, sono condizionati dall'ambiente sociale. Altrettanto problematico è il rapporto di Svevo con la psicanalisi, che ebbe sempre un posto importante nei suoi scritti. Egli era attratto da Freud per la tortuosità e la simultanea esistenza di sentimenti contraddittori della psiche. Svevo apprezzò la psicanalisi non come terapia, ma come strumento per scandagliare la psiche umana e quindi come strumento narrativo. Egli stesso afferma che Freud è un grande uomo, non tanto per i suoi pazienti, quanto per i romanzieri. Sul piano letterario gli scrittori che contribuiscono maggiormente alla sua formazione sono: Balzac, Flaubert e Sthendal. Specialmente da Flauberto egli prende la capacità di rappresentare la miseria umana, Infatti i protagonisti dei suoi primi due romanzi (Alfonso Nitti ed Emilio Brentani) sono molto simili a Madame Bovary. Entrambi sognatori, evadono dalla realtà quotidiana, costruendosi una realtà immaginaria prendendo spunto dai libri e della quale finiscono per restare vittime. Lo scrittore ha un atteggiamento di scherno verso i i suoi personaggi. Oggetto di tale scherno sono componenti che lo scrittore sa essere anche propri della sua personalità: l'inettitudine, la tendenza al sogno, i sensi di colpa, il pessimismo. Nel primo romanzo di Svevo si nota anche l'influenza naturalistica di Zola, specialmente nella minuziosa ricostruzione dell'ambiente della banca. Tra i romanzieri russi Svevo subì l'influenza di Turgheniev e di Dostoievskij. Il primo perché nelle sue opere c'erano molti personaggi simili a quelle di Svevo, il secondo per la sua capacità di addentrarsi nelle zone più nascoste della psiche. L'amicizia con Joice fu sicuramente determinante per la carriera dello scrittore perché egli seppe apprezzare i suoi primi scritti Una vita e Senilità, dandogli il coraggio per continuare la sua attività letteraria.
Il primo romanzo: Una vita
Svevo pubblicò il suo primo romanzo nel 1892 a proprie spese. Avrebbe voluto intitolarlo Un inetto, ma il suo editore lo sconsigliò, perché riteneva questo titolo di scarsa attrazione per il pubblico. Il romanzo ebbe comunque scarsa attenzione di pubblico e di critica.
RIASSUNTO DI "UNA VITA"
Una vita, è da un lato il romanzo della "scalata sociale" in cui un giovane provinciale ambizioso si ripromette di conquistare il successo nella società cittadina, ma però si limita soltanto a cullare questo sogno senza fare nulla per conquistarlo, anzi, fugge di fronte alle occasioni che gli si presentano; dall'altro lato è il romanzo della "formazione" che percorre tutta la strada di un giovane che si forma alla vita. Si vede anche l'influsso naturalistico di Zola, soprattutto nel modo in cui ricostruisce dettagliatamente, quasi documentandolo, l'ambiente e che è una caratteristica zoliana. L'indagine sociale è presente nell'ambiente borghese della famiglia presso la quale Alfonso affitta una camera e nell'opposizione che egli pone nei confronti della "lotta per la vita", dove il più forte schiaccia il debole. L'interesse sociale e documentaristico sono soltanto una parte marginale del romanzo perché Svevo mette al centro della narrazione l'analisi della coscienza del protagonista. Alfonso è "l'inetto", un personaggio che ricorrerà spesso nei romanzi di Svevo. L'"inetto" è una persona debole, insicura, che ha paura della vita, lo scrittore però non si limita alla condizione psicologica, ma va a cercare le radici sociali di quella debolezza. Alfonsoè un borghese declassato ed è anche un intellettuale ancora legato ad una cultura di tipo umanistico (=che tende ad esaltare i valori umani). Questa sua condizione lo rende diverso rispetto all società borghese triestina, i cui unici valori sono il profitto e la produttività. Egli si sente inferiore, ha bisogno di crearsi una realtà alternativa che gli consenta di sopravvivere. Così la sua cultura umanistica e la vocazione letteraria, caratteristiche che lo rendono inadatto alla dura "lotta per la vita", diventano ai suoi occhi un motivo di orgoglio, si sublimazione spirituale. Ecco che allora il modesto impiegato si costruisce una maschera che lo risarcisce delle frustrazioni. Antagonisti (= chi è in competizione) di Alfonso sono il padre, Maller e Macario. Il primo è un padre forte e terribile, mentre il secondo è brillante, sicuro di sé, l'esatto opposto di quello che è Alfonso, e che alla fine gli porterà via la donna amata. La competizione tra l'"inetto" ed il "lottatore per la vita" è un tema che ricorrerà molto spesso nei romanzi successivi.
Anche questo romanzo viene pubblicato a spese dell'autore nel 1988 e riscuote un assoluto silenzio da parte della critica.
RIASSUNTO DI "SENILITA"
A differenza del precedente questo romanzo si concentra esclusivamente sui 4 personaggi principali, gli altri personaggi hanno soltanto un ruolo marginale e di conseguenza i fatti esteriori, gli ambienti sociali hanno poca importanza. Praticamente la vicenda si svolge tutta nella mente di Emilio. Questo non significa che Svevo trascuri la posizione sociale e l'epoca storia della vicenda, ma vi arriva in un altro modo: quello dell'analisi della psiche. Infatti la psiche dei suoi personaggi è profondamente legata alla condizione sociale e al momento storico. I personaggi si comportano in un certo modo conseguentemente al contesto in cui vivono. Il personaggio principale, Emilio Brentani, è molto simile ad Alfonso Nitti. Anche lui è un borghese declassato e dal tempo stesso un intellettuale, che in gioventù ha scritto anche un romanzo. Egli è intriso di letteratura fino al punto da interpretare la realtà attraverso schemi letterari. Emilio è un inetto che per proteggersi dalla realtà si è condannato a condurre una vita tranquilla, senza scosse che gli garantisca calma e sicurezza, ma che gli preclude qualsiasi piacere. Egli vive in una specie di limbo, che il titolo del libro definisce "senilità". Questo sistema protettivo che Emilio si è creato si personifica nel nido domestico e nella figura materna della sorella Amalia. Nonostante la voluta rinuncia alla vita, Emilio è inquieto, ha desiderio di vivere una vita piena di godimento e questo desiderio assume, ai suoi occhi, le sembianze di Angiolina. Con lei Emilio prova per la prima volta il piacere e viene a contatto con il mondo esterno ed è proprio la relazione con Angiolina a far emergere l'inettitudine di Emilio che è soprattutto immaturità psicologica. Egli si propone di avere con Angiolina una semplice avventura, come un incallito dongiovanni, ma in realtà lui ha paura della donna e del sesso, per questo nel suo immaginario trasforma Angiolina in una creatura angelica e pura, l'equivalente della madre. Infatti Emilio ha bisogno soprattutto di dolcezza materno, mentre il sesso lo lascia intimorito ed insoddisfatto perché contamina quell'ideale puro in cui lui ha trasformato Angiolina. Egli maschera la sua immaturità creandosi un'immagine virile e si compiace di recitare verso Angiolina un ruolo paterno, immaginando che la ragazza sia un'ingenua creatura a cui lui insegna "la vita". Emilio incarna la crisi dell'uomo forte e virile proposto dalla borghesia dell'800: in lui l'impotenza del piccolo borghese frustrato si trasforma in impotenza psicologica ad affrontare la realtà della vita. Per questo egli si appoggia all'amico Balli, forte e sicuro di sé, anche se in realtà anche Balli è un debole che nasconde la sua insicurezza ostentando una forza che non possiede. I due personaggi incarnano, in modo diverso ma complementare, la crisi dell'individuo: Emilio rappresenta la vittima che si chiude nella sconfitta e nell'impotenza: mentre Balli colui che tenta di rovesciare l'impotenza in onnipotenza, mascherando la sua debolezza con l'ostentazione della forza.
Svevo scrive questo romanzo 25 anni dopo i precedenti, è quindi comprensibile che la struttura sia molto diversa dai precedenti. Infatti in quei 25 anni sono avvenuti molti cambiamenti sia in campo letterario che in quello sociale: il positivismo era definitivamente superato e la guerra aveva cambiato radicalmente la società. Nella Coscienza di Zeno Svevo abbandona il modello letterario dell'800, ancora di stampo naturalistico (cioè del romanzo narrato da una voce esterna alla vicenda) ed adotta nuove soluzioni. La Coscienza di Seno è una confessione autobiografica che Zeno Cosini, scrive al suo psicanalista, il dr. S., a scopo terapeutico. Lo scrittore finge che sia proprio il dr. S. a pubblicare il manoscritto per vendicarsi di Zeno, che si è sottratto alla cura frodandolo sul risultato dell'analisi. Al testo del memoriale si aggiunge una specie di diario di Zeno, in cui egli spiega di abbandonare la terapia e di essere guarito in coincidenza ai suoi successi commerciali ottenuti durante la guerra. Nuovo ed originale è anche il trattamento del tempo, quello che lo scrittore definisce "tempo misto", ossia gli eventi non si presentano in ordine cronologico, ma il passato si intreccia con il presente e viceversa. La struttura del romanzo quindi non è lineare e progressiva, ma spezzata in tanti momenti separati. La ricostruzione che Zeno fa del suo passato si riunisce attorno ad alcuni tempi fondamentali, a ciascuno dei quali è dedicato un capitolo.
Luigi Pirandello nasce ad Agrigento il 28 giugno 1867, da una agiata famiglia borghese . dopo gli studi liceali si trasferisce a Palermo e poi a Roma, per frequentare l'Università. In seguito ad un contrasto con un professore, si trasferisce a Bonn dove si laurea in Filologia romana. Nel frattempo aveva già iniziato a scrivere alcune poesie e tragedie. Gli studi in Germania sono molto importanti per lo scrittore perché gli da la possibilità di stare a stretto contatto con la cultura tedesca ed in particolare con gli scrittori romantici, che ebbero molta influenza nelle sue opere e sulle sue teorie sull'umorismo. Dal 1892, grazie ad un assegno concessogli dal padre, si stabilisce a Roma per dedicarsi interamente alla letteratura. Stringe amicizia con il mondo culturale, in particolare con Luigi Capuana. Nel 1893 scrive il suo primo romanzo: L'esclusa e l'anno seguente pubblica la sua prima raccolta di racconti Amori senza amori. Dopo il matrimonio, ottiene un posto come insegnante all'Istituto Superiore di Magistero e nel frattempo pubblica articoli e saggi su varie riviste, tra cui il prestigioso "Marzocco", a cui collaboravano anche D'Annunzio e Pascoli. Nel 1903 in seguito al tracollo finanziario di suo padre che ebbe conseguenze disastrose per lo scrittore. La moglie, già psicologicamente fragile, cade in una profonda depressione che la porta irrimediabilmente alla follia. L'ossessiva gelosia della moglie costituisce per Pirandello un continuo tormento, che può essere visto come la causa scatenante la sua concezione della famiglia vista come una "trappola" che imprigiona e soffoca l'uomo. Dopo il tracollo finanziario cambia anche la condizione sociale di Pirandello, che è costretto ad integrare lo stipendio, intensificando la dua produzione di romanzi e novelle. Il lavoro di scrittore diventa quindi una necessità economica. Collabora anche per il cinema, che nei primi anni del '900 muove i suoi primi passi. Anche Pirandello, come per Svevo ed altri scrittori del '900, è costretto a passare da una condizione agiata a quella di piccolo borghese con i suoi disagi economici e le conseguenti frustrazioni. Dal 1910 Pirandello prende i suoi primi contatti teatrali con l'opera Lumie di Sicilia e La morsa. Nel 1915 scrive la sua prima commedia in 3 atti Se non così e da quel momento Pirandello diventa soprattutto uno scrittore teatrale, pur non abbandonando mai la narrativa. Seguono poi una serie di drammi che modificano profondamente il linguaggio teatrale del tempo (Pensaci Giacomino, Liolà, Così è (se vi pare), il berretto a sonagli che suscitano lo sconcerto del pubblico e della critica. Sono gli anni della guerra e Pirandello con le sue idee patriottiche è favorevole all'intervento dell'Italia nel conflitto, ma purtroppo in guerra muore suo figlio Stefano, partito volontario. La morte del figlio aggrava ancor più la salute della moglie tanto che egli è costretto a farla ricoverare in una casa di cura, dove resta fino alla morte. A far conoscere Pirandello al grande pubblico è l'opera Sei personaggi in cerca d'autore, che rivoluziona radicalmente il linguaggio drammatico. L'opera suscita dapprima reazioni furibonde fra il pubblico, ma poi riscuote un successo trionfale anche all'estero. Negli anni '20 le opere di Pirandello sono rappresentate in tutto il mondo ed il successo cambia lo stile di vita dello scrittore: lascia l'insegnamento e si dedica totalmente al teatro, seguendo le compagnie nelle loro tournées. Nel 1925, grazie all'appoggio del regime fascista, egli assume la direzione del Teatro d'Arte a Roma, dove mette in scena sia opere sue che di altri autori. Egli riesce ad ottenere questo incarico grazie all'appoggio del regime fascista, partito al quale si era iscritto già dal 1924. L'adesione di Pirandello al fascismo è difficile da definire, infatti, da un lato c'è la sua idea conservatrice che lo spinge a vedere nel fascismo una garanzia di ordine, dall'altro, invece, il suo spirito borghese ambiva ad una forma di governo nuova e vitale che spazzasse via le forme soffocanti della vita sociale che si era venuta a creare dopo l'Unità d'Italia. Nel 1934 riceve il premio Nobel per la letteratura. Pirandello è anche attratto dal cinema nonostante si renda conto che può costituire un pericolo per il teatro. Pirandello muore il 10 dicembre 1936, mentre a Cinecittà si sta girando il film tratto dal suo romanzo Il fu Mattia Pascal.
Alla base della visione pirandelliana c'è un concetto vitalistico (cioè concetto filosofico secondo il quale i fenomeni biologici non si possono ridurre a fenomeni fisico-chimici, ma sono governati da entità immateriali), ossia tutta la realtà è "vita in continuo movimento", come il flusso della lava vulcanica. Qualsiasi cosa si stacchi da questo flusso diventa "forma", si irrigidisce e comincia a "morire". La stessa cosa avviene per l'identità personale dell'uomo: ciascuno di noi è parte dell'eterno fluire della vita, ma tendiamo a cristallizzarci in forme individuali, a fissarci in una realtà ed in una personalità che ci diamo noi stessi. In realtà questa personalità è soltanto un'illusione e nasce solo dal sentimento personale che abbiamo del mondo, che proietta su di noi un cerchio di luce e ci separa artificiosamente (=in modo non vero) dal resto della vita. Anche gli altri, coloro che ci stanno intorno, ci danno però una "forma", secondo la loro particolare prospettiva. Noi crediamo di essere "uno" sia per noi stessi che per gli altri, ma non è così, ognuno di noi è diverso, a seconda della visione di chi ci guarda. Ad esempio, una persona può crearsi l'immagine di una persona retta ed onesta, mentre gli altri possono vederla come una persona senza scrupoli e disonesta. Ognuna di queste forme è una "maschera" che si imponiamo e che ci impone il meccanismo sociale. Dietro questa maschera non c'è "nessuno", ossia c'è una continua trasformazione, per cui quello che siamo ora, non lo siamo più l'istante dopo. Pirandello fu influenzato dalla teoria dello psicologo Alfred Binet, sulle alterazioni della personalità che possono insorgere in qualsiasi momento. Egli fa quindi una critica al concetto di identità personale su cui si era basata la tradizione filosofica. La frantumazione dell "io", senza un punto di riferimento fisso è un dato molto importante dal punto di vista storico: nella civiltà del '900 entra in crisi l'idea di una realtà deinita, ordinata interpretabile con gli schemi della ragione, senza possibilità di errore. I confini dell' "io" sfumano, si perdono insieme a tutte le altre certezze. La crisi dell'idea di identità risente evidentemente dei processi della realtà contemporanea che tendono a disgregare e a negare l'individuo. In questo periodo storico nascono le tendenze che spersonalizzano la società: l'annullamento dell'iniziativa individuale che relega la persona in grandi apparati produttivi anonimi, la meccanizzazione che rendono l'uomo simile ad un robot, il formarsi di grandi città in cui l'individuo perde ogni legame con gli altri e diventa una particella in mezzo ad una folla immensa. Tramonta l'idea che era la base della borghesia dell''800, e cioè che l'individuo creatore del proprio destino, dalla personalità coerente. La presa di coscienza dell'inconsistenza dell' "io" suscita nei personaggi di Pascoli sgomento e dolore. La consapevolezza di non essere "nessuno" provoca angoscia e terrore, ma altrettanta angoscia la provoca il fatto di essere fissato dagli altri in "forme" in cui non si riconosce. L'uomo si "guarda vivere", si vede come sdoppiato mentre compie i gesti abituali che la sua "maschera" gli impone e che gli appaiono assurdi, in tutti i sensi. Queste "forme" finiscono per diventare una "trappola" dalla quale l'individuo cerca invano di fuggire. Pirandello è molto attento a captare la crudeltà che domina i rapporti sociali, nascosta dietro la cultura e le buone maniere. La società gli appare come un'enorme farsa che isola l'uomo dalla "vita", lo impoverisce e lo porta a "morire", anche se continua a vivere. In tutte le opere di Pirandello si scorge una rifiuto della formalità della vita sociale e le regole che essa impone, ed un disperato bisogno di spontaneità vitale. Pirndello individua nella famiglia la "trappola" principale che imprigiona l'uomo. Egli coglie perfettamente l'oppressione dell'ambiente familiare, le tensioni segrete, gli odi ed i rancori che si intrecciano torbidamente agli affetti. Altra "trappola" sono la condizione sociale ed il lavoro, almeno per quanto riguarda la borghesia, perché gli individui sono prigionieri di lavori frustranti in grandi complessi industriali che li opprimono. Da questa "trappola", Pirandello non dà una via di uscita, il suo pessimismo è totale. La sua critica al mondo borghese non propone altra alternativa: l'unica via di slavezza che egli propone ai suoi personaggi è quella di rifugiarsi nell'immaginazione, come per l'impiegato Bellucco, protagonista de "Il treno ha fischiato", che sogna di viaggiare in paesi lontani per evadere dall'oppressione di un lavoro frustrante e di una famiglia molto complicata. Altra via di salvezza, proposta da Pirandello, è la follia: l'arma per eccellenza per contestare le forme fasulle della vita sociale, con le loro convenzioni ed i loro rituali, e dimostrare la loro inconsistenza. Il rifiuto della vita sociale genera, nelle opere di Pirandello, una figura che rappresenta colui che ha capito il "gioco della vita", di chi è cosciente che il meccanismo della vita è un artefatto (=non vero, finto) e si isola, guardando vivere gli altri dal di fuori della vita e con questa consapevolezza si rifiuta di assumere la sua "parte", osservando con scherno e pietà gli altri, chiusi nella loro "trappola". Questa posizione di stare a guardare la realtà da molto distante viene definita da Pirandello "filosofia del lontano" ed è quella che ci consente di vedere in modo diverso ciò che viene considerato "normale" e di rendersi quindi conto dell'inconsistenza del "normale". Nella figura di chi "guarda da lontano" si proietta la condizione di Pirandello come intellettuale, che rifiuta un ruolo politico attivo, nel suo pessimismo e che si limita ad osservare le cose, con una lucida critica del reale.
Se la realtà è in continuo movimento, essa non può essere collocata secondo schemi precisi e definiti: qualsiasi immagine che pretenda di fare ciò è puramente soggettiva. Non esiste una posizione privilegiata da cui poter ossrvare la realtà, qualsiasi prospettiva è equivalente ad un'altra. Caratteristica della visione pirandelliana è la concezione che non esiste la conoscenza assoluta della realtà e quindi non è possibile fissare una verità oggettiva (=che ha per fondamento la verità per sé stessa). Ognuno ha una "verità" personale che nasce dal suo modo di vedere le cose. Da ciò deriva una incomprensione fra gli individui, perché ognuno fa riferimento alla sua "realtà" e non sa come è la "realtà" degli altri e questa confusione genera l'incomunicabilità fra le persone. La difficoltà di comunicare acrresce il senso di solitudine dell'individuo che si sente "nessuno", mette ancora di più in crisi i rapporti sociali e rafforza la scoperta della loro artificiosità.
Secondo Pirandello l'opera d'arte nasce dal "libero movimento della vita interiore": nel momento in cui si concepisce una riflessione, essa rimane invisibile, è quasi un sentimento. Nell'opera umoristica invece la riflessione non si nasconde, non è una forma di sentimento, anzì, si mette davanti ad esso e lo analizza. Nasce così il sentimento del contrario che è quello che caratterizza l'umorismo pirandelliano. Per far meglio capire il suo concetto egli ci pone un esempio: se io vedo una signora anziana vistosamente truccata, avverto (=sento) che essa è l'esatto contrario di quello che dovrebbe essere una signora anziana. Questo "avvertimento del contrario" è il comico. Se però interviene la riflessione e mi suggerisce che quella signora non vorrebbe truccarsi, ma lo fa soltanto per piacere ancora ad un marito più giovane, ecco che non posso più solo ridere: dall' "avvertimento del contrario", cioè dal comico, passo al "sentimento del contrario" che è l'umorismo. Questo concetto dello scrittore è ben evidente nella sua opera "L'umorismo".
E' il terzo romanzo di Pirandello e racconta la vicenda di un piccolo borghese imprigionato nella "trappola" della famiglia e del lavoro, che per un caso assolutamente fortuito si trova improvvisamente libero e padrone di sé. Grazie ad una vincita al gioco diventa ricco e scopre di essere ufficialmente morto perché la moglie e la suocera lo hanno riconosciuto nel cadavere di un annegato. Mattia Pascal però, anziché approfittare della liberazione dalla "forma sociale", si costruisce una nuova identità. Egli resta inesorabilmente legato alla "trappola" della vita sociale, soffre perché la sua falsa identità lo costringe ad isolarsi dalla vita sociale, decide così di tornare in famiglia, ma scopre che la moglie si è risposata e si è costruita una nuova famiglia. A Mattia non resta altro che adattarsi alla sua condizione: quella di "forestiero della vita", colui che guarda gli altri dall'esterno, consapevole di non essere più "nessuno". I temi più rilevanti del romanzo sono: la "trappola" delle istituzioni sociali che imprigionano il flusso della vita; la critica dell'identità individuale, che si rivela una maschera convenzionale posta su un continuo cambiare di stati psicologici; l'estraniarsi dal meccanismo sociale di chi ha capito il "gioco della vita". Il fu Mattia Pascal rappresenta anche un primo tentativo dell'umorismo di Pirandello. La realtà viene paradossalmente (=incredibilmente) deformata in modo grottesto, ma al di là del riso che essa suscita, c'è l'autentica sofferenza di Mattia, sia quando è intrappolato nella famiglia, sia quando ne è escluso e prova una disperata nostalgia. In quest'opera tragico e comico, serio e ridicolo sono uniti indissolubilmente. Il romanzo rappresenta anche una novità dal punto di vista narrativo. La narrazione non è più in terza persona, come nel romanzo naturalistico, ma è narrato dal protagonista stesso che guarda indietro nel suo passato, come una specie di memoriale. Inoltre, il punto focale del romanzo non è posto sull' io narratore, che ha già vissuto i fatti e quindi li conosce molto bene, ma sull'io narrato, sul personaggio mentre vive i fatti. Al punto di vista oggettivo (=la realtà per sé stessa) della narrazione naturalistica si sostituisce quindi il punto di vista soggettivo, inattendibile, che non dà una rappresentazione certa degli eventi. Pirandello è cosciente che non è possibile scrivere un romanzo secondo la narrativa tradizionale, in un epoca in cui sono crollate tutte le certezze di un totale allineamento della realtà, per cui al testo narrativo del libro, aggiunge una riflessione sulla narrativa stessa, in cui Mattia Pascal narratore scarta tutti i modelli di racconto tipici dell'800. Inoltre fa notare che l'ordine in cui si presentano i fatti narrati è puramente casuale e che ciò gli è stato possibile soltanto concedendosi qualche "distrazione" (ciò non seguente scrupolosamente un ordine prestabilito).
Appunti su: |
|
Appunti Inglese | |
Tesine Grammatica | |
Lezioni Pittura disegno | |