Pietro
Abelardo
'Dubitando
perveniamo alla ricerca. Cercando percepiamo la verità' ('Sic et non', Prologus)
INDICE
VITA E OPERE
IL PENSIERO
LA VICENDA DI ABELARDO ED ELOISA
HISTORIA CALAMITATUM MEARUM
RELAZIONE SULLE LETTERE DI ABELARDO A ELOISA
VITA E OPERE
La vita di Abelardo compendia
emblematicamente i mutamenti e le irrequietezze dell'età nuova, in bilico tra
il monastero e la scuola.
Egli stesso ne ha svolto il racconto nella Storia delle
mie sventure (Historia calamitatum mearum), seguita da una serie di
lettere scambiate tra lui e l'amata Eloisa, nonchè da una regola destinata al
monastero di Paracleto. Si tratta di una ricostruzione letteraria a distanza
dai fatti, nella quale Abelardo presenta se stesso come vittima di invidie e
complotti e la propria vicenda - sulle orme di Agostino -, come un itinerario
dal peccato alla salvezza. Ma essa informa anche su alcuni fatti fondamentali della
sua vita: Abelardo nasce nel 1079
a Pallet - a sud est di Nantes - nella Bretagna; figlio
di un cavaliere, rinuncia ai beni e alla carriera delle armi per dedicarsi agli
studi dapprima a Loches (nella zona della Loira), dove insegna Roscellino
(l'iniziatore del cosiddetto 'nominalismo') e poi a Parigi, dove
fioriscono gli studi di dialettica. Qui segue le lezioni di Guglielmo di
Champeux, ma ardisce criticarne le tesi sugli universali (Guglielmo sarà
costretto a rivedere le proprie posizioni), cosicchè é costretto a trasferirsi
prima a Melun, e poi a Corbeil, dove insegna a sua volta, riscuotendo grande
successo e ottenendo una fama di grande dialettico. Dopo aver trascorsoqualche
anno in Bretagna, torna a Parigi e ascolta nuovamente Guglielmo, divenuto canonico
di San Vittore, ma nascono nuovi contrasti ; Guglielmo si ritira nell'abbazia
di San Vittore e nel 1113 diventa vescovo di Chalons, mentre Abelardo tiene
scuola a Parigi, sulla riva sinistra della Senna - a Sainte-Genevieve - allora
situata fuori dalle mura della città. Dopo un altro viaggio in Bretagna, nel
1113 si reca a Laon, per studiare scienza sacra con Anselmo di Laon, ma nello
stesso anno torna a Parigi, alla scuola episcopale nel chiostro di Notre-Dame,
per insegnarvi non solo dialettica, ma anche teologia. In questo periodo - col
denaro degli allievi - egli può vivere libero dal controllo delle superiori
autorità ecclesiastiche. Qui avviene il suo incontro con Eloisa , nipote di un
canonico di Notre-Dame, Fulberto: è amore a prima vista, Abelardo - convinto di
essere bello e colto a sufficienza per far colpo sulla ragazza, che primeggia a
sua volta per bellezza e cultura- fa di tutto per poter diventare suo
precettore, e ci riesce. L'amore nasce improvviso verso la fine del 1115 o gli
inizi del 1116 ; quando Fulberto li scopre, Eloisa é già incinta. Abelardo la
porta in Bretagna presso la sua famiglia e qui - verso la fine del 1116 -
Eloisa partorisce un figlio, al quale é dato il nome di Astrolabio
('rapitore delle stelle'). Tornati a Parigi, Eloisa e Abelardo si
sposano in segreto, ma Fulberto divulga la notizia: la coppia smentisce e si
separa, Eloisa si ritira ad Argenteuil, dove poi si farà monaca: Abelardo la
ripudia come moglie perché teme di perdere i suoi privilegi. Fulberto e i parenti,
adirati dalla volontà di Abelardo di liberarsi di Eloisa, si vendicano e lo
fanno evirare da sicari nel cuore della notte. Verso la fine del 1117 o
l'inizio del 1118 anche Abelardo prende l'abito monastico, ma continua a
insegnare logica e teologia in una scuola aperta nella Champagne. Attaccato dai
maestri della scuola episcopale di Reims per le tesi sulla Trinità sostenute
nel suo scritto Teologia del Sommo Bene, é citato nel 1121 al Concilio
di Soissons, dove l'arcivescovo e il legato pontificio lo condannano a bruciare
il libro e a rinchiudersi in monastero a Soissons: a tal punto era temuto per
il suo talento retorico, che gli vietarono di parlare in processo, nel timore
che egli convincesse delle sue tesi la 'platea', e così fu costretto
a rispondere semplicemente con dei 'sì' o con dei 'no'.
Successivamente, il legato lo autorizza a rientrare nell'abbazia di
Saint-Denis, ma qui insorgono nuovi contrasti con l'abate, che vuole accusarlo
davanti al re. Abelardo fugge a Provins, ma una donazione gli permette di
stabilirsi eremita con un discepolo a Quincey, dove fonda un oratorio,
denominato il Paracleto, ossia lo Spirito Santo, e anche qui vi apre una
scuola, sovvenzionata dagli allievi. Tra il 1125 e il 1128 lascia il Paracleto
per diventare abate di Saint-Gildas nella diocesi di Vannes in Bretagna: qui
trova monaci ignoranti, rozzi e viziosi, che cercano di farlo assassinare .
Riprende contatti con Eloisa, ora badessa di Argenteuil, invitandola a
stabilirsi con le monache al Paracleto, dove Abelardo periodicamente compie
visite e pronuncia prediche. A questo punto terminano i fatti raccontati da
Abelardo stesso, ma sappiamo che nel 1136 egli tiene nuovamente una libera
scuola di dialettica e teologia a Parigi, ove ha tra i suoi discepoli anche
Arnaldo da Brescia e Giovanni di Salisbury. Scoppia in questi anni l'ostilità
di Guglielmo di Saint-Thierry e di Bernardo di Chiaravalle nei confronti delle
sue dottrine: nel 1140 Bernardo ottiene dal concilio di Sens la sua condanna -
ratificata dal papa - , Abelardo allora si ritira presso Pietro il Venerabile
nell'abbazia di Cluny, in Borgogna, dove muore nel 1142.
IL PENSIERO
San Bernardo da Chiaravalle - fiero
sostenitore delle Crociate e della 'militia Christi'- definì Abelardo
un combattente sin dall'infanzia e in una sua lettera a Eloisa , Abelardo
stesso confessa : 'la logica mi ha reso odioso al mondo ma io non
voglio essere filosofo in modo da oppormi a Paolo, nè essere un Aristotele in
modo da separarmi da Cristo'. In una sostanziale adesione al messaggio
cristiano, Abelardo non ebbe tuttavia mai dubbi sulle sue capacità
intellettuali e argomentative: si definiva addirittura 'il più grande
filosofo del mondo', superiore a Platone e ad Aristotele. Il suo
insegnamento e i suoi primi scritti riguardano la logica: l'ordine che egli
segue é quello della 'logica vetus', iniziando con la lettura
dell'Introduzione di Porfirio alle Categorie di Aristotele. Abelardo compone
glosse a questo scritto (le Glossae super Porphyrium), forse raccolte
dai suoi uditori e poi riviste da lui stesso, poi una Logica per i
principianti, e una Logica nostrum, e successivamente una Dialettica.
In seguito, egli estende l'uso della dialettica anche all'esame di questioni
teologiche e a partire dal 1118 compone, oltre alla Dialettica, la Teologia
del Sommo Bene, la Teologia cristiana e il Sic et non.
Abelardo scrisse anche glosse alla Lettera ai Romani di S. Paolo,
sermoni, inni religiosi e probabilmente anche poesie d'amore . Tra i suoi
ultimi scritti sono il Conosci te stesso (Scito te ipsum) o Etica,
e , incompiuto , il Dialogo tra un giudeo, un filosofo e un cristiano.
Gli interessi iniziali di Abelardo sono soprattutto per la logica o dialettica,
che egli intende come arte di distinguere la verità o la falsità del discorso.
I discorsi sono fatti di termini, si tratterà allora di investigare l'uso e il
significato dei termini: questo orientamento rimarrà caratteristico di tutto
l'itinerario d'indagine di Abelardo. Tra i termini sono soprattutto i termini
universali, ossia i generi e la specie, come 'animale'
'uomo', 'cavallo' e così via, a sollevare un greve
problema. La tradizione del platonismo cristiano aveva identificato questi
termini con le idee o le ferme presenti nella mente di Dio, le quali
costituiscono i modelli archetipi delle cose create da Dio; quindi essi
rappresentano anche la sostanza delle singole cose create, ciò che ciascuna di
esse propriamente è. Per esempio, la sostanza dell'individuo Socrate è quella
di essere un animale razionale: sono il genere (animale) e la specie (uomo) ai
quali Socrate appartiene che determinano che cosa Socrate propriamente è.
Questa soluzione del cosiddetto problema degli 'universali' (così
caro ai Medievali) sarà detta in età moderna 'realismo', in quanto
per essa l'universale è una realtà vera e propria, esistente autonomamente
(alla pari delle idee platoniche). Ma all'inizio del XII secolo emergono nuove
prospettive nell'affrontare questo problema, in particolare esse considerano
l'universale non tanto dal punto di vista di Dio, quanto dal punto di vista
dell'uomo che parla e pensa. Che cosa sono i termini universali, di cui i
discorsi sono costellati? Uno dei primi maestri di Abelardo è Roscellino di
Compiègne, nato verso il 1050 e morto verso il 1120. Di Roscellino è conservata
soltanto una lettera ad Abelardo, ma il contenuto delle sue dottrine è
ricavabile da quanto ne dicono i suoi avversari, Anselmo di Aosta e appunto
Abelardo. Secondo Anselmo, Roscellino rientra tra quei dialettici, che
ritengono che gli universali non siano altro che emissioni di voce (flatus
vocis); alla base di questa concezione ci sarebbe l'assunzione che realtà
vere e proprie sono soltanto quelle individuali e che i termini universali sono
soltanto parole, suoni fisici, sensibili, i quali non si riferiscono a presunte
entità universali: tale dottrina sarà denominata in età moderna nominalismo
estremo. Essa mostrava la sua pericolosità non appena veniva applicata ad un
problema teologico come quello della Trinità; Anselmo infatti accusa Roscellino
di prevenire, mediante le sue premesse nominalistiche, a una sorta di
triteismo, ossia a concepire le tre persone della della Trinità come tre
individui distinti, poichè l'unità della Trinità non sarebbe per lui un'unità
di sostanza, ma soltanto di somiglianza o uguaglianza. Nel 1092 questa dottrina
trinitaria è condannata dal Concilio di Reims come eretica. L'altro maestro con
cui Abelardo inizialmente studia è Guglielmo di Champeaux (1070-1121 circa). In
una prima fase, questi è sostenitore di una forma di realismo: gli universali,
ossia i generi e le specie, sono entità reali esistenti in sè. Una specie è una
sostanza unica, che è presente essenzialmente, non accidentalmente, in tutti
gli individui che ne partecipano; gli individui differiscono, dunque, tra loro
soltanto per accidente. Così la specie uomo é presente in tutti gli individui,
quali Socrate, Platone e così via, che sono appunto detto uomini. Le differenze
tra gli individui rientranti nella stessa specie sono date esclusivamente da
proprietà accidentali, variabili e casuali (per esempio, statura, colore dei
capelli, professione e così via). A questa posizione Abelardo mosse l'obiezione
che essa conduceva a ritenere inessenziali le differenze tra specie e tra
individui (e Guglielmo cambiò allora idea). La concezione di Guglielmo
comporta, infatti, che il genere animale sia presenta in tutti gli animali, sia
privi sia dotati di ragione; di conseguenza l'essere o no dotati di ragione non
costituisce una differenza sostanziale. Ma allora vi sono due possibilità: o
nella stessa sostanza (animale) ci saranno proprietà contrarie (razionalità e
irrazionalità) oppure queste proprietà, trovandosi in un'unica sostanza, non
saranno più contrarie. La prima alternativa é assurda, perchè i contrari non
possono coesistere in una stessa sostanza: come non si può contemporaneamente
bianchi e neri, così non si può essere insieme razionali e irrazionali; ma é
assurda anche la seconda alternativa, perchè possedere la ragione é il
contrario di non possedere la
ragione. Se la sostanza dell'uomo e del cavallo è, parimenti,
l'essere animale, dobbiamo forse dire che la razionalità è un accidente? Forse
in seguito a queste critiche di Abelardo, Guglielmo corresse la propria teoria,
sostenendo che gli universali sono presenti negli individui non essenzialmente,
ma in maniera 'indifferenziata'. Per esempio, Socrate e Platone sono
entrambi uomini, in quanto in ciascuno di essi é presente l'universale, la
specie uomo, ma questa é presente in essi non essenzialmente, bensì indifferentemente:
Guglielmo intende dire che ciò rispetto a cui Socrate é un uomo non é
differente da ciò rispetto a cui Platone é un uomo. Abelardo riprende la
definizione aristotelica di universale come ciò che può essere predicato di
molte cose: di Socrate si può dire che é uomo, ma questo si può dire anche di
Platone o di Aristotele. Se é così, l'universale non é nè una realtà a sè
stante, nè un puro suono: Abelardo respinge in tal modo sia il realismo, sia il
nominalismo estremo. L'universale non può essere una res, una cosa,
poichè una res é un'entità individuale autosussistente e in quanto tale
non può essere predicata di un'altra. Non si può dire di una cosa individuale,
per esempio Socrate , che é un'altra cosa individuale, per esempio Platone,
proprio perchè - secondo Abelardo - una res non può essere predicata di
un'altra res: viene così smentita la possibilità che gli universali
siano entità a se stanti. Ma se l'universale non é una res, ciò non vuol
dire che esso sia un puro suono, perchè anche un suono, per esempio il suono
'Platone', é un'entità individuale e quindi anch'esso non può essere
predicato di altro. La soluzione di Abelardo (non assimilabile né al realismo
né al nominalismo) consiste nel dire che l'universale é sermo, ossia
parola, ma parola intesa non come semplice insieme di suoni fisici, bensì
dotata di significato, ossia riferentesi a
qualcosa. Il problema degli universali diventa allora il problema di che cosa e
come significhino questi termini universali e le proposizioni che essi
contribuiscono a costituire. Il testo a cui Abelardo si richiama per elaborare
la sua teoria del significato é il De interpretatione di Aristotele.
L'immaginazione, che Aristotele aveva chiamato fantasia, forma immagini di ciò
che non é più presente ai sensi, ma anche di cose irreali che non sono mai
state presenti ai sensi (per esempio, di mostri). Inoltre, é possibile formarsi
immagini di entità particolari, per esempio di Platone, ma anche di corporeità
o di razionalità o di uomo in generale. In quest'ultimo caso, si tratta
dell'immagine comune e confusa di tutti gli uomini, di ciò che essi hanno di
simile, senza che sia proprio di uno o qualcuno soltanto di essi. Di per sè, le
immagini non sono sostanze: esse sono usate come segni
per riferirsi ad altre cose: infatti quando si sente la parola 'uomo'
sorge nell'animo - secondo Abelardo - qualcosa che si riferisce agli uomini
individuali presi in comune e non ad uno di loro con precisione. Tale posizione
sarà in seguito denominata concettualismo.
Mediante termini dotati di significato, si possono formare proposizioni dotate di significato, per esempio , la
proposizione 'Platone é uomo'. In tal caso, si considerano le due
immagini - Platone e uomo - e mediante esse l'intelletto giunge a comprendere
la verità di questa proposizione. Ma le proposizioni non sono come i nomi
propri (per esempio, il nome di persona Platone), che si riferiscono
semplicemente e direttamente a cose. Chiariamo questo punto con un esempio: la
proposizione 'se x é un uomo, x é un animale' é vera anche nel caso
che ogni forma di vita sia distrutta nel mondo. Ossia, come si è detto,
'ciò che la proposizione asserisce può sussistere anche quando non
sussistono più gli oggetti denotati': se anche sparissero improvvisamente
dal mondo tutte le rose, il termine 'rosa' continuerebbe ad avere il
suo significato. In altre parole, le proposizioni non
significano cose, ma relazioni tra cose, il modo in cui le cose sono tra
loro collegate; è in riferimento ad esse che si può dire se una proposizione è
vera o falsa. Il verbo 'essere' usato come copula ('il sole è
splendente') non indica che una qualità appartiene o inerisce a un
soggetto, ma che due termini sono correlati tra loro in un determinato modo.
Questa analisi della proposizione può essere utilizzata per chiarire il modo in
cui i termini universali significano qualcosa o si riferiscono a qualcosa.
Infatti , secondo Abelardo, non esiste un'entità uomo,
esistono gli uomini: tuttavia gli uomini sono simili nello status
(o natura) di essere uomini; questo status però non é una cosa,
ma non é neppure nulla: é il modo in cui le cose sono. E' questo status
che fa sì che noi possiamo usare la parola uomo per descrivere tutti gli
uomini. Nel comprendere i termini universali e le proposizioni contenenti
termini universali, l'intelletto umano é aiutato dall'immaginazione, che forma
immagini di ciò che é comune e delle relazioni tra le cose menzionate nella
proposizione. Ad esso, tuttavia, compete il compito di giudicare la verità o la
falsità delle proposizioni; in tal senso, la logica, (o dialettica) é appunto
la disciplina che discrimina tra vero e falso. Scrive Abelardo sulla questione
degli universali nelle Glosse su Porfirio:
'Viste
le ragioni per le quali le cose né singolarmente né collettivamente prese si
posson dire universali, in quanto l'universale si predica di molti, resta che
attribuiamo l'universalità solo alle parole.
Come
dunque certi nomi son detti dai grammatici appellativi, e certi altri propri,
cosí dai dialettici certe espressioni semplici son dette universali, certe
altre particolari, ossia singolari. L'universale è un vocabolo trovato in modo
da esser capace di essere predicato singolarmente di molti, come per esempio il
nome uomo è unibile ai nomi particolari degli uomini, per la natura dei soggetti
reali ai quali è imposto. Il singolare, invece, è quello che è predicabile di
uno solo, come per esempio Socrate, quando è preso come nome di un uomo solo.
Se infatti lo si assume equivocamente, non si ha piú una parola sola, ma molte
per il significato, poiché, secondo Prisciano, molti nomi possono essere
impliciti in un'unica espressione verbale. Quando si descrive l'universale come
ciò che si predica di molti, quel ciò che non solo indica la semplicità
dell'espressione per distinguerlo dai discorsi composti, ma anche l'unità del
significato, per distinguerlo dai termini equivoci'.
Della
concezione abelardiana si ricorderà lo stesso Umberto Eco, in Il nome della
rosa, quando - in chiusura del suo capolavoro - scriverà: 'stat
rosa pristina nomine, nomina nuda tenemus'. Abelardo passa successivamente
ad affrontare questioni teologiche, quando ha
ormai elaborato questo ricco bagaglio di analisi logiche: ritiene che, finchè
la ragione è nascosta, è necessario ricorrere all'autorità; ma in ciò che può
essere discusso dalla ragione, tale ricorso non è più necessario. Sulle cose
divine la ragione da sola è insufficiente, può pervenire soltanto a soluzioni
verosimili, non contrarie alla fede. Ciò non significa che sulle cose della
fede non si debba discutere: anche per credere occorre intendere (come già
diceva Anselmo) ciò che si crede e rendersi conto che i contenuti della fede
non danno luogo a proposizioni contraddittorie. Inoltre, per controbattere
coloro che fanno un cattivo uso della dialettica anche in ambito teologico,
occorre, comunque, saper usare la dialettica. Abelardo
afferma nella Dialettica: 'Ogni scienza è buona, anche quella che
tratta del male'. Il ricorso alla ragione è tanto più importante in quanto
non di rado i Padri della Chiesa paiono enunciare opinioni contrastanti sulle
stesse verità della fede: Abelardo è tra i primi a formulare una serie di
criteri per valutare ed eventualmente appianare tali divergenze. Ciò avviene in
una delle opere più emblematiche dal punto di vista del metodo, il Sic et
non, letteralmente il 'sì e no'. E' uno scritto a carattere
didattico, che intende addestrare i giovani teologi alla ricerca della verità:
si parte da un problema, si elencano le soluzioni non di rado contrastanti,
almeno apparentemente, date ad essa da parte dei Padri della Chiesa,
desumendole dai loro scritti, e infine si tenta d'individuare dove stia la verità. Nel Sic
et non, Abelardo affronta circa 150 problemi teologici, raggruppati per
temi. Per dissolvere o ridurre le apparenti contraddizioni nelle soluzioni
proposte dalla tradizione, Abelardo enuncia alcune regole: in primo luogo, si
tratta di accertare se certe espressioni non sono poi smentite dagli stessi
autori oppure se riferiscono opinioni altrui, inoltre, occorre soprattutto
tener conto del fatto che le medesime parole sono sovente usate da autori
diversi con significati diversi, perché ogni autore ha un suo specifico modo di
parlare e di scrivere. Tenendo conto di ciò, 'si troverà per lo più facile
la soluzione delle controversie', tuttavia, in casi di contrasto
insanabile occorrerà dare la preferenza alle tesi che hanno maggiori argomenti
a loro favore. In tal modo, Abelardo rivendica libertà di giudizio anche nei
confronti delle opere dei Padri, le quali non devono essere lette con l'obbligo
di credere. Ciò conduce Abelardo a rivalutare i
contributi dei filosofi pagani: anch'essi già prima di Cristo hanno
scoperto alcune verità; la rivalutazione della filosofia antica e la
formidabile padronanza dialettica varranno ad Abelardo il soprannome di
'Peripatetico palatino'. In questo modo, egli si riallaccia ad una
impostazione tipica della prima riflessione filosofica cristiana. Gli stessi
filosofi pagani hanno in qualche modo riconosciuto la Trinità, quando hanno
parlato di Dio, dell'Intelletto divino e dell'Anima del mondo, che Abelardo
avvicina allo Spirito Santo: negli ultimi anni del suo soggiorno a Cluny,
Abelardo scrive il Dialogo tra un giudeo, un filosofo e un cristiano,
rimasto incompiuto. L'Abate di Cluny, Pietro il Venerabile, era un fautore del
dialogo con l'Islam e questo scopo egli aveva anche fatto tradurre in Spagna il
Corano in latino. I tre personaggi dell'opera di Abelardo credono tutti in un
Dio unico, ma due hanno leggi scritte, mentre il filosofo si accontenta della
sola legge naturale . Dapprima dialogano il giudeo e il filosofo, che non può
accettare una religione fondata esclusivamente sulla Scrittura, poi dialogano
il filosofo e il cristiano, che mostra il carattere ragionevole della fede. Non
é irrilevante il fatto che, proprio in riferimento al soggiorno di Abelardo a
Cluny, con Pietro il Venerabile, il filosofo del dialogo sia nato in un paese
dell'Islam. L'opera si apre con una rapida introduzione in cui a parlare è
Abelardo stesso, che così racconta: 'in una visione notturna, vidi tre
uomini che arrivavano per sentieri diversi' - chiara allusione alle tre
differenti prospettive di cui essi son portavoce. Tutti e tre adorano sì lo
stesso Dio, ma in maniere assai diverse: il filosofo è illuminato dalla sola
legge naturale, gli altri due dal Libro. Si recano da Abelardo per chiedergli
di essere giudice di un confronto che li vede contrapposti: si tratta di un
confronto tra i tre diversi tipi di religione. Abelardo, sbalordito, domanda
perché abbiano scelto proprio lui come giudice e il filosofo gli rivela che è
stato lui a prender tale decisione, poiché muove alla ricerca della verità
sotto la sola guida della ragione, evitando le opinioni. Il filosofo, inoltre,
sostiene (e in ciò leggiamo il pensiero dello stesso Abelardo) che il vero
obiettivo della filosofia (e di ogni altra disciplina) è la morale, ossia lo
studio del sommo bene e del sommo male; il filosofo dichiara apertamente di
volersi confrontare col cristiano e col giudeo per esaminare quale tra le due
religioni sia più vicina alla ragione e, dunque, da seguire, ma giunge ben
presto alla conclusione che 'i giudei sono stolti, i cristiani
pazzi'. Poiché i tre, da soli, non riuscivano a concludere la loro
discussione, si sono rivolti ad Abelardo, che ben conosce la filosofia e la
religione (è un evidente auto-elogio del pensatore, che per bocca del filosofo
del dialogo è detto il migliore, autore di opere eccelse, anche se
'l'invidia non potè sopportare'). Abelardo, sinceramente onorato che
la scelta sia ricaduta su di lui, ammonisce preliminarmente il filosofo,
mettendolo in guardia: a differenza dei suoi due interlocutori - che possono
usare contro di lui una sola 'spada' -, egli può attaccarli con due
'spade', ossia criticandoli sia per quel che riguarda la ragione sia
per quel che riguarda la loro fede: la sua armatura filosofica è, dunque,
superiore in partenza. A tal punto, il filosofo spiega che spetta a lui porre
la prima domanda, poiché la legge naturale (della quale egli si nutre) viene
prima rispetto alla religione: egli chiede allora, rivolgendo una domanda che
tange parimenti i suoi interlocutori, se essi si siano accostati alla fede
perché indotti dalla religione o perchè spinti dalle tradizioni familiari e,
quindi, dalle opinioni. Nel primo caso, la scelta sarebbe legittima; ma nel
secondo da ripudiare: e al filosofo pare proprio che si opti per la fede
esclusivamente per motivi familiari, e adduce come prova del suo asserto il
fatto che, quando si sposano due individui di fedi diverse, capita sempre che
uno dei due si converta alla fede dell'altro coniuge. Orazio stesso diceva che
'la giara ricorderà a lungo l'odore di ciò di cui è stata riempita'.
Il filosofo mette dunque in luce la necessità di cercare criticamente il senso
delle proprie scelte, e Abelardo condivide pienamente tale prospettiva, lui che
arriva - anselmianamente - alla fede senza respingere la ragione.
Le
tre opere fondamentali di teologia di Abelardo riguardano soprattutto il
problema della Trinità. Egli non pretende di dire la verità sulla Trinità, in
quanto la ragione umana non é in grado di cogliere pienamente i misteri divini,
tuttavia con l' ausilio di analogie - come aveva già fatto Agostino -, è a suo
avviso possibile raggiungere almeno il verosimile. Abelardo ritiene che la
distinzione fra le tre persone divine poggi sulla distinzione fra gli attributi
divini e, precisamente, con il nome del Padre si indica la potenza, con quello
del Figlio la sapienza e con quello dello Spirito Santo la carità. Ma
poiché tali attributi in Dio costituiscono un'unità, i rapporti tra le persone
divine possono essere spiegati in termini di derivazione di una dall'altra: il
Padre genera il Figlio, che è della stessa sostanza del Padre, in quanto la
sapienza non è che quella particolare forma della potenza divina per cui essa
non può essere ingannata, invece, lo Spirito Santo procede dal Padre e dal
Figlio, perchè la carità senza potenza sarebbe inefficace e senza la sapienza
procederebbe a caso e non condurrebbe al meglio. Però in tal modo lo Spirito
Santo non risulta essere della stessa sostanza del Padre e del Figlio: fu
questo un punto che suscitò gli attacchi contro Abelardo, in particolare san
Bernardo ritenne che esso conducesse a negare qualsiasi potenza dello Spirito
Santo. Un esempio di applicazione della dialettica a una questione teologica è
dato anche dalla discussione di Abelardo del problema dei cosiddetti futuri contingenti. Secondo Abelardo, l'azione di
Dio, che è onnipotente, è necessaria: Dio non può fare altro che ciò che fa,
ossia il bene; infatti, Dio fa ciò che vuole, ma ciò che egli vuole, in
perfetta libertà, senza essere costretto da nulla, è il bene. Ora, Dio prevede
tutto, anche gli eventi futuri. Ciò significa che egli determina il loro
necessario verificarsi? Oppure gli eventi futuri continuano a essere
contingenti, ossia non necessari? Per l'uomo gli eventi futuri sono
indeterminanti; egli non può sapere anticipatamente se le proposizioni che
riguardano questi eventi sono vere o false, mentre Dio non può conoscere se
esse sono vere o false, e tuttavia Dio prevede gli eventi futuri come
contingenti. A ciò si potrebbe obiettare: è possibile che le cose avvengano
diversamente da come Dio ha previsto, altrimenti esse non sarebbero più
contingenti, ma in tal caso si avrebbe come conseguenza che Dio si può
ingannare nella sua previsione. La risposta di Abelardo è che sono possibili
due interpretazioni: o qualcosa che Dio ha previsto ha la possibilità di
avvenire diversamente oppure è possibile che qualcosa avverrà diversamente da
come Dio ha previsto, ma poichè non è possibile che Dio si sbagli, la sola
possibilità che qualcosa si verifichi diversamente si riferisce dunque non al
prevedere di Dio, ma a ciò che è previsto. Nell'ultimo periodo della sua
attività, Abelardo apre un nuovo territorio alla sua riflessione: l' etica, alla quale dedica un'opera intitolata appunto Conosci
te stesso o Etica, riprendendo nel titolo l'enigmatico motto inciso
sul tempio di Apollo a Delfi (gnwqi sauton). L' antica formula 'conosci te
stesso' dell'oracolo delfico, ripresa da Socrate, è usata da Abelardo per
indicare all'uomo la conoscenza della propria miseria, dovuta al peccato, ma
allo stesso tempo, la propria somiglianza con Dio. Abelardo distingue tra vizio
e peccato: infatti, il vizio è un'inclinazione
naturale al peccato, ma di per se non è peccato. Con questa affermazione,
Abelardo si oppone alle forme di ascetismo, che considerano forme del peccato
quelle che sono invece inclinazioni proprie della natura umana; in tal senso,
contro l'ultimo Agostino, Abelardo rivendica la naturalità dell'inclinazione al
piacere sessuale, che non potrà mai essere estirpata dall'uomo. Proprio in
quanto naturali, le inclinazioni sono ineliminabili, possono soltanto essere
contrastate; peccato è invece il consenso dato
a queste inclinazioni: esso è un atto di disprezzo nei confronti di Dio, un non
fare ciò che egli vuole o un non tralasciare ciò che egli vieta. In sostanza,
finchè penso di commettere il male sono nell'ambito del vizio; quando invece lo
compio realmente, sono nell'ambito del peccato. L'azione che eventualmente
deriva dall'atto di consenso dato ad una cattiva inclinazione non aggiunge
nulla al peccato stesso. Nel caso in cui il consenso interiore dato
dall'inclinazione cattiva, per esempio, di uccidere un rivale, non si traduca
nell'azione corrispondente, il peccato continua sempre a sussistere in tutta la
sua gravità; né, d'altra parte, un'azione cattiva è di per se peccato se manca
il consenso ad essa. Per esempio, colui che per sfuggire a un aggressore, per caso
lo uccide, compie un'azione cattiva, ma non commette peccato, che è il vero
male dell'anima. Così, una stessa azione commessa dallo stesso uomo in momenti
diversi può essere buona o cattiva, a seconda dell' intenzione dell' anima. Su
questa base, Abelardo giunge addirittura ad avanzare l' ipotesi che gli stessi
persecutori di Cristo e dei martiri non abbiano peccato, in quanto non hanno
agito per disprezzo di Dio. L' ignoranza non è peccato, ne lo è l' essere
infedeli, anche se questa condizione impedisce di essere salvati. D' altra
parte, lo stesso peccato originale, in quanto contrassegna i successori di
Adamo senza che ci sia da parte loro consenso, non può essere considerato
propriamente peccato: esso è piuttosto la pena di un peccato. Tutte queste proposizioni
saranno condannate nel Concilio di Sens, ma, in realtà, con esse Abelardo si
opponeva al formalismo e al legalismo ecclesiastico. Non è l'agire esteriore,
ma l' intenzione che qualifica ciò che è bene o male; l'atto è buono o cattivo
soltanto in virtù dell' intenzione che lo determina. Di qui, l' importanza
della contrizione rispetto all' assoluzioneper il peccato commesso: la prima
riguarda l' interiorità, la seconda è una liberazione puramente esteriore e e
formale. Un' analoga protesta contro il formalismo e la corruzione
ecclesiastica animava all' epoca i movimenti religiosi popolari. Non è un caso
che la scuola di Abelardo fosse frequentata anche da Arnaldo da Brescia, che
non molto tempo dopo la morte di Abelardo lottò contro il potere temporale dei
papi, instaurando in Roma un libero comune. Abelardo, tuttavia, riconosce che
in terra è giusto che gli uomini siano puniti o ricompensati in base alle loro
azioni: solo Dio, infatti, e non l' uomo, è in grado di giudicare le
intenzioni.
INDIETRO